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Lo spettatore e la deissi della propria morte: teschio e scheletro in alcune opere del XX e XXI secolo (narrativa, cinema, arti plastiche) Annelisa Addolorato Bertuzzi Sommario L’immagine del teschio e dello scheletro come anti-icone artistiche. I te- schi in cartapesta creati dai fratelli Dinos y Jake Chapman, per esempio, si presentano come geroglifici d’osso, strani pianeti che ricordano a noi – esseri umani contemporanei immersi nel perpetuo movimento, nel dedalo neobarocco di citazione, teatralizzazione, di partecipazione, ricerca della co- municazione globale, nel pieno e costante esercizio di un’ipotetica apertura verso l’immortalità e dell’esorcismo della morte – un’umanità arcaica. La rappresentazione del ghigno del teschio e della dinoccolata mobilità dello scheletro includono il paradosso della morte che celebra la vita, in frequenti atteggiamenti carnascialeschi: il gusto dell’orrore diventa, tra grottesco e kitsch, parte integrante del quotidiano panorama antropologico. Come teorizzato dal miltoniano J. Dennis, la rappresentazione dell’orrido attraverso il filtro dell’opera d’arte vivifica lo spettatore: qui si mostra come si possa innescare una relazione tra sublime e fruizione artistica dell’orrido. L’orrido svolge una funzione declinabile in due aspetti: critica sociale e trascendenza. L’identificazione o la capacità di oggettivazione dello spet- tatore nei confronti della rappresentazione di questi due elementi (teschio e scheletro) inclusi nella categoria estetica dell’orrido rivestono un ruolo fondamentale nell’equilibrio dinamico tra percezione e fruizione artistica. Copyright c 2007 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera) Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali. Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte e utilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per scopi istituzionali, non a fine di lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa, su supporti magnetici o su reti di calcolatori) in toto o in parte è vietato, se non esplicitamente autorizzato per iscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deve essere riportata anche in utilizzi parziali.

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Lo spettatore e la deissi della propria morte:

teschio e scheletro in alcune opere del XX e

XXI secolo (narrativa, cinema, arti plastiche)

Annelisa Addolorato Bertuzzi

Sommario

L’immagine del teschio e dello scheletro come anti-icone artistiche. I te-schi in cartapesta creati dai fratelli Dinos y Jake Chapman, per esempio,si presentano come geroglifici d’osso, strani pianeti che ricordano a noi –esseri umani contemporanei immersi nel perpetuo movimento, nel dedaloneobarocco di citazione, teatralizzazione, di partecipazione, ricerca della co-municazione globale, nel pieno e costante esercizio di un’ipotetica aperturaverso l’immortalità e dell’esorcismo della morte – un’umanità arcaica.

La rappresentazione del ghigno del teschio e della dinoccolata mobilità delloscheletro includono il paradosso della morte che celebra la vita, in frequentiatteggiamenti carnascialeschi: il gusto dell’orrore diventa, tra grottesco ekitsch, parte integrante del quotidiano panorama antropologico.

Come teorizzato dal miltoniano J. Dennis, la rappresentazione dell’orridoattraverso il filtro dell’opera d’arte vivifica lo spettatore: qui si mostra comesi possa innescare una relazione tra sublime e fruizione artistica dell’orrido.

L’orrido svolge una funzione declinabile in due aspetti: critica sociale etrascendenza. L’identificazione o la capacità di oggettivazione dello spet-tatore nei confronti della rappresentazione di questi due elementi (teschioe scheletro) inclusi nella categoria estetica dell’orrido rivestono un ruolofondamentale nell’equilibrio dinamico tra percezione e fruizione artistica.

Copyright c© 2007 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera)Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattatiinternazionali. Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Lepagine possono essere riprodotte e utilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca,scolastici e universitari afferenti al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca perscopi istituzionali, non a fine di lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma nonlimitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa, su supporti magnetici o su reti di calcolatori)in toto o in parte è vietato, se non esplicitamente autorizzato per iscritto, a priori, da parte diITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deve essere riportataanche in utilizzi parziali.

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Le recenti tendenze artistiche neobarocche tirano letteralmente “fuoridall’armadio” la figura e l’immagine del teschio e dello scheletro, ri-proponendolo quale anti-icona per eccellenza, modificati e superati i

tabù sulla morte e sulla sua rappresentazione.Gli enormi teschi parlanti di Dinos y Jake Chapman (Young British Ar-

tists, 1997-2000, esposti alla mostra di Salamanca intitolata “Barrocos yneobarrocos. El Infierno de lo Bello”, articolato progetto artistico interat-tivo dislocato in diversi spazi della città tra il 2004 e il 2006), appoggiatiper terra, costituiscono un paesaggio artificiale, all’interno del quale lo spet-tatore, visitando la mostra, si può aggirare. Le dimensioni di ogni teschiosono 120 cm × 170 cm: maschere grottesche di dimensioni spropositate, einsieme messaggi tridimensionali e tatuati1. I teschi dei fratelli Chapman,come il resto della produzione artistica dei due artisti, vogliono essere pre-senze dissacranti che si snodano in uno spazio in cui lo spettatore diviene asua volta parte integrante del complesso scultoreo. Le sculture-teschio sonototalmente ricoperte di scritte: parole, frasi e locuzioni che si attorcigliano esnodano sull’intera superficie. Sono teschi muti, che si presentano però comegeroglifici d’osso, strani pianeti che ricordano un’umanità arcaica ai posterie agli esseri umani contemporanei immersi nel perpetuo movimento e neldedalo neobarocco della citazione, della teatralizzazione, della partecipazio-ne, della ricerca della comunicazione globale, nel pieno e costante eserciziodell’esorcismo della morte e di un’ipotetica apertura verso l’immortalità.

Il ghigno del teschio porta con sé il grottesco paradosso della morte checelebra e ricorda costantemente la vita, talvolta in atteggiamento carnascia-lesco. Le maschere orribili, il gusto dell’orrore, divengono, tra kitsch e neo-barocco, parte integrante del panorama antropologico quotidiano. L’orrido,infatti, è il complemento fondamentale della vita e della vitalità, nella cul-tura e nella rappresentazione artistica. Il legame essenziale tra vita e morte,nella religione, viene ribadito e rafforzato dai frequenti riti di purificazionee rinvigorimento attraverso la mutilazione e distruzione del corpo: la morteride, balla, canta, suona, festeggia. Nei rituali propiziatori aztechi, in quelliincaici, o nel vudù, la compresenza del riso e della tortura è all’ordine delgiorno. L’idea dello smembramento del corpo del dio incarnato, edulcora-ta nella liturgia cristiana nelle immagini del crocifisso e delle stazioni dellavia crucis e il culto delle reliquie, dello scheletro e del teschio degli uominiche, in qualche modo, sono stati “prescelti”, “santificati”, è presente in modoconsistente anche nel culto azteco.

Tutto ciò viene ripreso nella rappresentazione artistica. Lo spettatore chevede la rappresentazione della morte, della putrefazione, della deformazio-ne del corpo nelle sue varianti orribili si rende complice della propria mortee resurrezione, mentre afferma – per contrasto – la propria esistenza dina-mica e ancora pulsante. Tale rappresentazione può portare anche al gusto

1 Vd. Figura 1, p. 13.

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voyeuristico, a volte persino masochistico, della condivisione, seppur filtrata,dell’esperienza del disgustoso e dell’orrido. Ancora, come già teorizzava ilmiltoniano J. Dennis2, la fruizione dell’orrido, attraverso il filtro dell’operad’arte, che lo rappresenta e pone dinanzi agli occhi dello spettatore, oltrealla sua sperimentazione, tende alla vivificazione dell’animo del soggetto chene fa esperienza. L’orrore per Dennis era la terza, e più bassa, forma delsublime. Il piacere, nella fruizione di ciò che è orribile, lo si individua pro-prio nell’ampliamento del raggio d’azione della spiritualità verso cui spinge,“commuovendo”, muovendo, appunto, a commozione l’anima del soggetto.Nella fruizione del disgustoso, dell’orrido, molti teorici hanno trovato chevenga incluso un aspetto peculiare che avvicina queste categorie a quella delsublime e della sua fruizione.

Octavio Paz, nella sua analisi dell’iconografia delle divinità mesoamerica-ne, ricorda che elidere il carattere “terribile” e “orrido” dalla considerazionedella loro natura, equivale a depauperarle dal loro potere evocativo, dalla loroautorevolezza, sia religiosa che artistica, che ha fatto dell’esibizione dell’orri-do e del mortifero un valore estetico fondante. Egli attribuisce essenzialmentealla sfera del divino la detenzione del primato dell’orrore. L’orrore, così comeil sublime, svolge in ultima istanza una funzione catartica. Lo spettatore siavvicina all’inaccessibilità divina proprio attraverso la raffigurazione orribile,spaventosa degli dei. Nel caso dell’arte e della cultura preispanica messicana,negare all’immagine divina il suo aspetto orribile equivale, secondo Paz, amutilarla irrimediabilmente3 . Paz aggiunge in merito un’osservazione sullanatura dell’orrore definendolo una vera e propria esperienza che ha il suoequivalente, nell’ambito della sfera dei sentimenti, nel “paradosso e nell’an-tinomia spirituale: la divinità è una presenza totale che è un’assenza senzafine”. Il dio principale, nella cosmologia azteca, è comunque il sole, il cuiprimo attributo è ancora il tratto “terribile”, orribile. Il sole dà e toglie lavita, detiene il primato della contraddizione, dunque della vita. Il ghignoterribile degli dei si sovrappone e si annulla con l’apparente e perpetuo ghi-gno del teschio, Paz ci chiede «Forse solo i teschi ridono perpetuamente?»4.Così la fruizione dell’orrore potrebbe aprire nello spettatore le porte dellapercezione sulla realtà, dei suoi confini o della loro assenza.

Gli effetti prodotti dall’orrido sullo spettatore che si trova davanti allaterribile potenza dell’arte azteca vengono evocati in modo notevole dal poetaspagnolo Carlos Barral5 nella sua poesia “Tlaloc en Chapultepec”:

Tlaloc a Chapultepec

2 Cfr. J. Dennis, I luoghi del sublime moderno – Percorso Antologico-critico, a curadi P. Giordanetti e M. Mazzocut-Mis, Led, Milano 2005, pp. 279-284.

3 O. Paz, Los signos en rotación y otros ensayos, Alianza, Madrid 1983 (I ed. 1971),p. 26.

4 Ibid., p. 33.5 Esponente della scuola catalana della Generazione poetica spagnola degli anni

Cinquanta.

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Es éste el altar verdadero de la acechante confusión.Aquí, mi hermano, más que en la antigua pirámidecon lomo de palacio y catedrales y el agua venenosa del estanque,mucho más que en el recinto de albañales sangrientos y serpientes.Aquí son las lenguas enroscadas, los ojos impasiblesvítricos de venganza y las bocas de grito,donde en apariencia la muchacha alborotada y el viejo buscador de

estampas.Esto, aquí, no es cristal ni vidrio sino quajarón de espermade razas exterminadas y estirpes en extinción. Y, ves, al fondo,lo que parecen nubes es tolvanera amenazante y entre aquellasbreñas viven los que de todos modos ya están muertosy se conserva la lluvia antiquísima contaminada de orines. [. . . ]6

Qui il poeta spagnolo descrive il legame tra amore, orrore, morte, inizia-zione. Nella cultura azteca, ci ricorda sempre Paz, il pulsare e la pienezzadella vita vengono evocati e persino definiti a partire del suo contrario, dallamorte, dai segni della mancanza della vita.

La morte esercita il suo fascino sullo spettatore, che riconosce e ritrovanei segni della decomposizione altrui, e persino nei tratti mortali degli dei,il valore della propria esistenza, per quanto labile ed eterea.

Ven, muerte, tan escondida,Que no te sienta venir,Porque el placer de morirNo me torne a dar la vida.7

Cervantes, nel XXXVIII capitolo della seconda parte del Don Quijote

scrive questi versi che verranno illustrati nel 1928 da Carlos Magaz in unex-libris8 dove appare il capo, coperto da un elmetto, di uno “scheletro sor-ridente”. In questa copla Cervantes condensa, con una notevole capacità disintesi, una lucida consapevolezza filosofica ed estetica del senso dell’orridocome forma del sublime e della sua esperienza e fruizione quasi “terapeuti-che”. Tale cognizione viene captata da Magaz, che nel suo ex-libris ne illustra

6 C. Barral, Metropolitano, Cantalapiedra, Santander 1957. «È proprio questo l’altaredel caos incombente. / Proprio qui, fratello mio, molto più che nell’antica piramide / condorso di palazzo e cattedrali e velenosa acqua stagnante, / molto più che nel recinto diporcili insanguinati e serpenti. / Le lingue attorcigliate si trovano qui, gli occhi vitrei /e impassibili della vendetta, le bocche che urlano, / dove apparentemente si trovano lafanciulla scarmigliata e l’anziano cercatore d’immagini. / Questo non è cristallo né vetroma grumo di sperma / di razze sterminate e di stirpi in via d’estinzione. E, vedi, là infondo, / quelle che sembrano solo nuvole sono una minacciosa tormenta e tra quegli / sterpivivono coloro che sono comunque già morti / e si conserva l’antichissima pioggia sporca diruggine. [. . . ]» (tr. it. di A. Addolorato, Poesia spagnola della generazione degli anni ’50,a cura di A. Addolorato e G. Morelli, Le Lettere, Firenze (in corso di pubblicazione).

7 «Vieni, morte, vieni di nascosto, / Affinché io non ti senta arrivare, / affinché ilpiacere di morire / non mi restituisca la vita».

8 Per consultare tutti gli ex-libris e illustrazioni del Don Quijote: http://dqi.tamu.edu,archivio digitale dell’iconogia testuale del testo cervantino.

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la natura in modo stilizzato e ammiccante. Cervantes descrive l’orrido, nelsuo ruolo di vivificazione, come piacere della morte, come riattivazione deisensi, nel paradossale culmine del dolore della perdita della vita, che sembrapoter riportare il soggetto al centro di essa.

Troviamo un’altra rappresentazione del sublime, dell’orrido e di categorieestetiche limitrofe in Mercurio9, un recente romanzo della prolifica scrittriceAmélie Nothomb10. La storia si intesse a partire dall’arrivo dell’infermieraFrançoise sull’isola di Morte Frontiere, dimora della giovane Hazel e del suocarceriere, l’anziano Capitano. Quest’ultimo ha assunto l’infermiera per far-le accudire Hazel, ma anche, fuor di metafora, per assolvere alla necessità ditrovare in lei una spettatrice. Il Capitano stabilisce ferree regole di comuni-cazione, che l’infermiera deve rispettare nel suo rapporto con Hazel, la qualeè convinta di essere sfigurata.

Hazel, raccontando la sua storia a Françoise, da poco assunta, le dice:

Ero a Morte Frontiere da tre mesi e l’assenza di specchi, che proba-bilmente anche lei ha notato, mi incuriosiva. Ne parlai al Capitano:mi disse di aver fatto togliere tutti gli specchi dalla casa. Gliene chie-si il motivo, e allora lui mi rivelò quello che ancora non sapevo: erosfigurata.11

Qui, in un mirabile gioco di specchi mancanti, una sorta di campo degli“specchi elisi” e di equivoci, le diverse forme del sublime convergono, convivo-no e vengono riproposte nel ventaglio delle loro sfumature. I protagonisti delromanzo sono tre: la vittima, il carnefice e la spettatrice. In questo caso lagiovane vittima viene privata della propria immagine, in quanto il carnefice,un vecchio marinaio e avventuriero, ne fa la propria amante con l’inganno:eliminando dalla villa in cui la tiene reclusa ogni tipo di superficie rifletten-te, le fa credere – con l’ausilio di un carnascialesco specchio deformante – diessere rimasta sfigurata dai bombardamenti che hanno ucciso i suoi genitori.Il vecchio mina la sua identità, convincendola di essere il suo benefattore.La spettatrice della segregazione, la giovane infermiera si trova ad essere lafutura custode (o, anche, la seconda carceriera) della sua immagine, figurache si sostituisce al decrepito, crudele ed astuto avventuriero che ne avevafatto la sua concubina. In Mercurio la figura, l’archetipo dello spettatore èil protagonista attivo della narrazione. Lo spettatore detiene il primato suciò che vede. L’immagine della bellezza “sublime” della fanciulla segregataviene fruita dai suoi carcerieri, ossessionati dall’idea di possederne il segreto e

9 Mercure, uscito in Francia nel 1998.10 A. Nothomb, figlia di un diplomatico belga, nasce in Giappone (Kobe), ed esordisce

nel 1992 con il suo romanzo Igiene dell’assassino. Da alcuni suoi libri sono stati trattifilm, e ha vinto vari premi letterari di grande prestigio. Scrittrice in lingua francese, siautodefinisce grafomane.

11 A. Nothomb, Mercurio, tr. it. di A. Grilli, Voland, Roma 2006 (I ed. italiana 1999),p. 21.

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l’immagine in modo esclusivo. Lo stratagemma che entrambi gli “spettatori”utilizzano per mantenere vicina a sé la “sublime immagine”, è quello di farcredere a Hazel di essere sfigurata, orribile. All’inizio del romanzo, quandol’infermiera incontra Hazel, si legge: «Quando Françoise scoprì il volto dellaragazza, ne rimase fortemente scioccata. Fedele alle istruzioni ricevute però,non lasciò trapelare nulla».12.

In entrambi i finali Nothomb ribadisce, al momento del climax ascendentedella narrazione, l’ambigua valenza del termine “sublime”.

Nel primo finale, che si chiuderà con la partenza delle due donne versouna lunga nuova vita insieme a New York, prima che il Capitano si suicidilasciando loro in eredità tutti i suoi averi, Françoise svela il segreto a Hazelin modo repentino:

Françoise – Perché si rifiuta di credermi? Ci tiene tanto a ritenersiun mostro quando le dico che non ho mai visto nessuno di così bello?[. . . ].

Hazel – Ricordo benissimo la prima volta che mi ha visto. È rimastaprofondamente scioccata e non è riuscita a nasconderlo.

Françoise – Esatto. E sa perché? Perché non avevo mai visto un visocosì sublime. Perché una bellezza simile è rara e lascia interdetto chila vede.13

Nel secondo finale proposto dall’autrice, in cui l’infermiera si sostituisceal Capitano nella veste di carceriera ed amante di Hazel, sull’isola di MorteFrontiere, Françoise ormai anziana svela il mistero alla sua “protetta”:

Françoise – Adesso, Hazel, glielo posso anche dire. – E le raccontòtutto [. . . ]. Haxel era pietrificata. [. . . ]

Hazel – Mi dica. . . mi dica com’ero.

Françoise – Non ci sono parole per dirlo. Lei era così sublime cheneanche per un istante mi sono vergognata del mio delitto. Sappiaalmeno questo: mai bellezza è stata meno sprecata della sua. Graziealla nostra felicità insulare non ho perso neppure una briciola del suobel viso.14

L’intero romanzo della Nothomb si basa su questo malinteso, ovvero sul-l’elaborazione moderna dell’interpretazione della parola “terribile”, che eti-mologicamente risale alla dicotomica definizione di essere umano come me-raviglioso e terrificante che leggiamo nelle pagine delle tragedie di Sofocle.Sulla scorta di un simile paradosso linguistico e sostanziale si basa anche l’in-terpretazione della categoria di “sublime”, che tante riflessioni ha suscitatoin filosofi e studiosi di storia del pensiero e dell’arte.

12 Ibid., p. 13.13 Ibid., p. 91.14 Ibid., pp. 121-122.

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Nel romanzo la giovane protagonista si immagina deturpata, scarnificata,consumata. Dunque si ha qui un rovesciamento, rispetto all’esibizione delteschio, dello scheletro: si vengono a creare un ribaltamento e una misti-ficazione, attraverso l’appropriazione di una bellezza “terribile”, attraversoun gioco sadico e sottile. Lo spettatore, il fruitore di tale bellezza gestisceil potere su ciò che vede. Nell’“esibizione” e rappresentazione del teschio edello scheletro si esorcizza la morte, mentre qui la situazione viene rovescia-ta. La protagonista del romanzo percepisce se stessa come rappresentazione“terribile”, mentre gli altri – gli spettatori, carcerieri e amanti – traggonoforza dal loro inganno.

C’è chi invece, come Carlos Monsiváis nel suo libro del 1997 intitolatoCartoline messicane15, descrive Città del Messico come uno sconfinato palco-scenico in cui le masse riconoscono se stesse nell’esibizione del disagio, in unininterrotto spettacolo macabro e tragicomico che viene concepito da attorie spettatori come una prova generale della fine del mondo, dell’apocalisse.Oggi, a dieci anni dalla pubblicazione di quel libro, ci troviamo a celebrareuna mostra universale d’arti plastiche dal titolo Biennale della fine del mon-

do (Brasile 2006) d’ispirazione ecologista, dedicata al tentativo di invertirela tendenza umana verso la distruzione del pianeta Terra.

Monsiváis nel suo testo evidenzia in modo particolare il ruolo, di deriva-zione azteca, del volto e della maschera nella società e nella cultura messi-cane. Sia l’esibizione di una maschera, o “volto collettivo”, che l’esibizionetragicomica, grottesca del teschio e dello scheletro umani, sono forme com-plementari di una stessa variante dell’estetica del sublime. In questa inter-pretazione, si allude al sublime come forma ibrida, nella quale convivonol’orrido e il ridicolo, dando vita a una sorta di marchingegno-grimaldelloapri-sentimenti.

Troviamo l’applicazione degli stessi canoni estetici all’ambito cinemato-grafico, per esempio, nel film di Marco Bellocchio Nel nome del padre16,laddove il regista mostra, seduti nella platea di uno spettacolo teatrale alle-stito dai ribelli ospiti adolescenti di un severo collegio religioso, tre scheletrivestiti di tutto punto, che si confondono tra il pubblico e lo rappresentanomentre lo contestano, irridendolo.

In particolare, in una scena del film17, notiamo che, durante una rap-presentazione teatrale, uno dei piccoli spettatori (i convittori più giovani)abbraccia lo scheletro-spettatore, come se quest’ultimo lo proteggesse o glifosse comunque già divenuto paradossalmente familiare, pur essendone, tut-tavia, spaventato. Ciò che è terribile, orrido, può stimolare, risvegliare l’a-

15 C. Monsiváis, Mexican Postcards, Verso, 1997, (tr. it di F. Bernabei, Cartoline

messicane, Strategia della lumaca, Roma 1997).16 (1972) soggetto, sceneggiatura e regia di M. Bellocchio. Con Y. Beneyton (Angelo

Transeunte), R. Scarpa, L. Castel, L. Betti, A. Sassi, P. Vida, L. Di Gaetano, E. Torricella,T. Maestroni, C. Besestri, G. Burinato.

17 Vd. Figura 2, p. 14.

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spetto vitale nello spettatore, nel fruitore. Il teschio come “compimento”della testa, del capo, o, ancora lo scheletro si situa come “compimento” delcorpo. Nel film di Marco Bellocchio i collegiali che frequentano l’ultimo annodi un istituto religioso, i ribelli protagonisti collettivi della pellicola, metto-no in scena uno spettacolo teatrale e lo presentano provocatoriamente allafine dell’anno scolastico al pubblico degli insegnanti e dei più piccoli ospitidi scuola e internato. I giovani attori hanno sistemato, prima di far entrareil pubblico in sala, su alcune poltrone della platea vuota, alcuni manichini-scheletro che vengono dapprima guardati con curiosità e raccapriccio daibambini spettatori, e poi accolti come bambolotti. L’effetto del messaggiocritico del regista e dei protagonisti del film, nei confronti di un’educazio-ne dogmatica e repressiva, viene potenziato: il regista mostra la platea delteatrino scolastico, intervallando queste immagini con quelle dello spettaco-lo il cui testo è fortemente accusatorio nei confronti del sistema educativoimpartito in quella scuola. Dunque ogni spettatore della rappresentazioneteatrale viene paragonato a un “morto vivente”, a uno scheletro. E il registaesce di metafora mostrandoci direttamente la platea, formata da bambini,insegnanti e scheletri.

Ancora una volta l’esibizione del teschio e dello scheletro innescano unmeccanismo critico e mimetico insieme.

Gli autori dello spettacolo teatrale in questione esplicitano la loro vo-lontà di terrorizzare il proprio pubblico, per smuovere in essi sentimenti ereazioni forti, che scuotano e facciano reagire. La vista dei volti spaventa-ti dei bambini, che sono i loro successori nell’iter educativo, fa sorridere disoddisfazione Angelo Transeunte, dal parodistico, suggestivo e allusivo nomesimbolico, che è il più lucido, attivo e pragmatico dei convittori più grandi.

Nello stesso film, si succedono l’inquadratura della giocosa aggressioneamorosa di un convittore nei confronti di una suora, e quella di un quadroche adorna le pareti del collegio-prigione e che rappresenta uno scheletro,probabilmente particolare della rappresentazione pittorica di un “Giudiziouniversale”.

Bellocchio identifica con il teschio e lo scheletro amore, morte e appren-distato.

Nel celebre film di Ingmar Bergman18 Il settimo sigillo19 (1956) il capo-comico e Jot (Nils Poppe), il menestrello spensierato, si scambiano questebattute, prima di una rappresentazione teatrale:

Capocomico – Un teschio spesso interessa più di una donna nuda. [. . . ]

Menestrello – Ma vedendo il teschio si spaventano.

Capocomico – E se si spaventano, pensano di più.

18 Il regista svedese (1918-2007) ha segnato la storia del cinema del XX secolo.19 Det sjunde inseglet, film svedese del 1956. Scritto e diretto da Ingmar Bergman.

Con M. von Sydow nei panni del protagonista, un malinconico cavaliere al ritorno dalleCrociate. Altri interpreti: G. Bjrnstrand, B. Ekerot, B. Andersson, N. Poppe.

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L’utilizzo da parte del regista e la fruizione da parte dello spettatore dellapaura, nel riconoscimento empatico di un se stesso futuribile, si ripresentaquando lo spettatore, vedendo il teschio, si specchia e vede il proprio voltoassente. In un’altra sequenza del film di Bergman troviamo un efficace esem-pio del memento mori: vediamo la maschera-teschio degli attori itineranti,infilata, come se fosse un totem, su un bastone, e viene mostrata dal registaperfettamente allineata al volto giocondo del menestrello che canta e suona,allietando il malinconico cavaliere solitario.

Quest’esibizione dell’orrido, rivolta alla fruizione da parte del pubblico,tanto nel senso della sua identificazione come della sua differenziazione eallontanamento da esso, si trova agli antipodi dell’allusione, della suspensecreata nell’arte, per esempio, dai chiaroscuri o dall’uso del fuoricampo. Loscheletro mostrato ed esibito, invece, diviene sia in pittura che in sculturache nell’immagine cinematografica, specchio futuribile dello spettatore, suodoppio errante nel tempo.

Il teschio è maschera vuota, emblema involontario dell’estetica della mol-titudine20 di cui parla anche Monsiváis descrivendo Città del Messico: “Cittàdel Messico è il luogo dove è impossibile che qualcosa fallisca per scarsità dipubblico. Ce n’è in abbondanza. Nella capitale, per controbilanciare l’in-sufficienza di cielo limpido, c’è un numero più che sufficiente di abitanti,spettatori, automobili, pedoni. Città del Messico è il luogo dove l’invivibileha le proprie gratificazioni, la prima delle quali è stata l’attribuzione di unnuovo status sociale alla sopravvivenza”21.

La capitale messicana incarna così l’emblema della città post-postmodernache si fa scenario. Nella cultura messicana, inoltre, l’attualizzazione delladanse macabre forma parte della cultura popolare, come Ejsenstein ci ricor-dava nel suo film-documentario, lasciato incompiuto dal regista, ¡Qué viva

México!22. Qui viene mostrata una festa messicana, in cui i ballerini avan-zano vestiti, in modo carnascialesco, da scheletri. L’esibizione del teschio edello scheletro, in Messico, è spesso stata rappresentata in modo esotico edeccessivamente stilizzato, ma mantenendone in fondo intatto il suo caratteredissacrante e quotidiano.

Anche Ejsenstein nel suo film ci presenta un Messico folcloristicamenteconnotato, in cui tuttavia la cultura azteca mostra il suo volto feroce nellevestigia delle sculture e decorazioni mostruose dei templi, e nelle popolari

20 Cfr. C. Monsiváis, op. cit., p. 53.21 Ibid., p. 52.22 Film il cui materiale originale risale al 1933. Produzione Usa-Messico: Thunder Over

Mexico, tradotto in italiano anche con il titolo Lampi sul Messico. Si tratta di un film cheil regista russo lasciò incompiuto, e di cui esistono diverse versioni, realizzate con diversimontaggi ricavati dal materiale reperito da Ejsenstein durante il suo viaggio documentarioin Messico. Il film era stato girato con attori messicani non professionisti (M. Hernández,F. Balderas, D. Liceaga) e con la collaborazione degli abitanti di varie regioni e cittadinemessicane. È diviso in un prologo e quattro parti. La versione a cui si fa riferimento quifu realizzata nel 1979 da G. Alexandrov e da E. Tobak.

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danze macabre. Nel film la natura paesaggistica messicana viene presentatanei suoi tratti più duri, con i cactus [nopales] alimento e groviglio di spine,in cui il ballo degli scheletri inscena una danse macabre dove s’incontranol’orrore e il ridicolo.

Lo scheletro allo specchio, tra orrore e ridicolo: il volto assente comeprotagonista dell’arte contemporanea. La maschera del volto svuotato, ilteschio come icona del post-umano. Lo spettatore viene rapito, viene incan-tato e incatenato dalla visione e fruizione tout court. In molta dell’iconografiadell’orrido, in pittura, in scultura, e nell’immagine foto e cinematografica,troviamo un compiacimento nella fruizione visiva del grottesco e del racca-pricciante, nelle sue manifestazioni ed estrinsecazioni. La rappresentazionedell’orrido attraverso l’esibizione del teschio o dello scheletro, indulge e fa levasull’assenza del volto, sull’assenza del corpo, sullo svuotamento dell’umanodalla sua massa carnale, fatta di vasi sanguigni, capillari, nervi, muscoli, eche, maschera ripugnante, sostituisce, dissimula, parodizza la presenza delcorpo. Specchio e raffigurazione della più atavica paura umana, il mutamen-to del corpo vivo e pulsante si confronta con il suo corrispettivo inanimato:la materia inerte, preda del disfacimento. Per esempio spesso nelle opere diJ. M. Basquiat23 (Triennale, Milano 2006) la protagonista è la maschera delvolto deformato, il teschio e lo scheletro officianti.

L’autoritratto che presentiamo dell’artista statunitense di origine afro-haitiana raffigura un essere nero dall’immenso occhio-ala, uno stregone24. Ilpittore rappresenta il rituale, mette in atto la sacralizzazione e trasfigura-zione del corpo. Nei disegni, quadri e graffiti di Basquiat spesso si trova lapresenza del volto deformato e dello scheletro. Basquiat fa affiorare, e rendevisibili e fruibili dal suo pubblico, le proprie radici culturali haitiane. Ponespesso così il proprio pubblico davanti a veri e propri altari vudù, instau-rando costantemente un dialogo con la dimensione religiosa e animista delleproprie origini culturali, dialogo in cui fa entrare il pubblico stesso. Egliriattualizza così la natura e la dimensione della sacralità collettiva propriadel vudù, come ricorda anche Alfred Métraux nel suo saggio del 1958 Il vodu

haitiano – Una religione tra leggenda sanguinaria e realtà etnologica25.In Basquiat ritroviamo l’afflato collettivo, che riunisce la dimensione so-

ciale ed artistica, proprio del vudù delle origini, a cui egli attinge per quantoriguarda uso e raffigurazioni simboliche. In alcuni quadri egli ritrae e pre-senta se stesso come un vero hungan, ovvero un sacerdote che si rivolge aifruitori delle sue opere proprio come il sommo sacerdote si rivolge ai propriadepti, agli inziati.. Le sue tele e i suoi collages sono veri e propri humfò,templi e altari vudù, in cui vengono celebrati rituali che portano lo spettatore

23 The Jean Michel Basquiat Show, catalogo della mostra di Milano 19 settembre 2006– 28 gennaio 2007, a cura di G. Mercurio, Skira, Milano 2006.

24 Vd. Figura 3, p. 15.25 A. Métraux, Il vodu haitiano – Una religione tra leggenda sanguinaria e realtà

etnologica, tr. it. di A. Spatola, Einaudi, Torino 1971.

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al centro del punto nevralgico dell’incontro tra segno e disegno, tra la parolae la sua decifrazione. Quella di Basquiat diviene una sorta di grafia a-grafa.In molte delle sue opere l’artista statunitense-haitiano raffigura simboli re-lativi alla suprema cerimonia del vudù, ovvero quella definita da Métrauxla “presa degli occhi”26. Si tratta della consacrazione del sacerdote vudù eimplica l’attestazione del dono della chiaroveggenza: in molti quadri pos-siamo ritrovare la raffigurazione dell’occhio umano, a volte presentato anchesotto forma di geroglifico egizio (l’occhio di Horus). Nelle sue opere appaionoanche altri simboli vudù, come il tamburo, il bastone, il copricapo, le carteda gioco (o tarocchi), preposti alla divinazione, e strumenti dell’hungan, ole sciabole, simboli cari alla divinità di Ogu (che ha anche un corrispettivonella santería cubana).

Basquiat ci mostra dunque i ferri del mestiere dello stregone, i simboli egli oggetti usati per compiere i wanga, sortilegi. Inserisce questa simbologiain un contesto metropolitano statunitense, con continui riferimenti alla vitaurbana e quotidiana.

Anche in altri autori contemporanei, anche più recenti di Basquiat, vieneriproposto il teschio come fulcro, figura centrale dell’opera d’arte, sia essapittorica o scultorea. Ricordiamo alcuni di questi autori, e di queste opere,raccolte nella mostra “Barrocos y neobarrocos. El Infierno de lo Bello”. QuiPablo Alonso, per esempio, inscrive un teschio in una cornice nera, spumosa,fatta di polistirolo espanso (200 cm × 250 cm, acrilico e polistirolo su tela,2004). Dal teschio sembra irradiarsi un’aura, si diffondono raggi luminosi,che ne definiscono il carattere iconico e anche ironico27.

Anche Marina Abramoviç, definita una neo-mistica del corpo (dalla mo-stra Balkan Epic, Hangar Bicocca, Milano 2006), riprende la tematica delloscheletro, ridotto però alla sua consunzione appena precedente la trasforma-zione in polvere delle ossa: l’artista presenta in un video se stessa impegnatanel pulire con un’enorme spazzola un cumulo di ossa enormi. In questo casonon si tratta di ossa umane, bensì animali. Davanti al video, fuori dalloschermo, lo spettatore trova davanti a sé esposte le stesse ossa pulite dall’ar-tista nel video. Qui non si pone più la questione del volto umano ridottoalla propria struttura ossea, inespressiva, amorfa e anonima, ma si riproponecomunque l’idea di una esibizione del corpo ridotto a materia inanimata.

Dagli esempi analizzati si è visto che, attraverso l’esibizione del teschio edello scheletro, sussiste una relazione tra la rappresentazione, fruizione (daparte dello spettatore) dell’orrido e il sublime. L’orrido svolge una funzioneche si potrebbe declinare in due principali filoni: quello della critica sociale,come per esempio avviene nel film di Bellocchio, e quello della trascendenza,del rapporto con la religione e con l’esorcizzazione della morte. L’identifica-zione o il distanziamento dello spettatore con la rappresentazione di questi

26 Ibid., p. 67.27 Vd. Figura 4, p. 16.

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due elementi relazionati con la categoria estetica dell’orrido (teschio e sche-letro), hanno quindi un ruolo fondamentale nell’equilibrio dinamico dellapercezione e fruizione artistica.

Annelisa Addolorato Bertuzzi

Annelisa Addolorato Bertuzzi è Dottore di ricerca in Filologia spagnola (Universidad Com-plutense di Madrid), con la tesi dal titolo Mística y voz poética en la obra de Clara Janés.

De la tradición a las vanguardias e la poesía actual. Análisis filosófico-Literario. Laureatain estetica (Università degli Studi di Milano) con una tesi su Octavio Paz. Dal 2003 èdocente a contratto presso le Università degli Studi di Milano e di Pavia – ha insegnatoLetteratura spagnola, Letterature ispanofone, Lingua e traduzione; attualmente insegnaCultura spagnola, Lingua spagnola e traduzione.

È corrispondente italiana del portale sull’ispanismo internazionale Academiasofia(http://www.rediris.es/list/info/academiasofia.es.html). Dal 2003 forma parte della Redde Arte Joven de Madrid, come poetessa bilingue, con al suo attivo varie pubblicazionipoetiche (anche in antologie e riviste: Sial, Hiperion, Slovento, http://afinidadesafectivas.blogspot.com, e altre).

Autrice del libro La parola danzante. Octavio Paz tra poesia e filosofia (Mimesis, Mi-lano 2001), di alcuni articoli e recensioni su poesia e arte contemporanea, pubblicati inArte Estetica, Materiali di estetica, Studi di letterature iberiche e iberoamericane, Il con-

fronto letterario, Rocinante. Traduttrice, principalmente da spagnolo, catalano, inglese, ecuratrice di volumi di poesia e critica letteraria.

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Figura 1: Dinos e Jack Chapman, Teschi (1997-2000).

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Figura 2: Fotogrammi dal film Nel nome del padre, scritto e diretto daMarco Bellocchio (1972).

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Figura 3: J.M. Basquiat, Autoritratto (1986).

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Figura 4: Pablo Alonso (2004).

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