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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO DOTTORATO DI RICERCA IN “ ISTITUZIONI, SOCIETA’, RELIGIONI DAL TARDO ANTICO ALLA FINE DEL MEDIOEVO XVI CICLO TESI DI DOTTORATO LITURGIA E SACERDOZIO NEL COSTITUIRSI DELLA TRADIZIONE BIZANTINA ORTODOSSA Coordinatore: Chiar.mo Prof. Giovanni Filoramo Tutori: Chiar.mo Prof. Mario Gallina Chiar. Mo Prof. Giovanni Filoramo Dottorando: Carlo Restagno

LITURGIA E SACERDOZIO NEL COSTITUIRSI DELLA … · ANONIMO, Discorso Utilissimo sull’Abate Filemone, in “La Filocalia”, vol. II, Gribaudi 1983, Torino, pp. 357-371. ARRAS V.,

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO

DOTTORATO DI RICERCA IN “ ISTITUZIONI, SOCIETA’,

RELIGIONI DAL TARDO ANTICO ALLA FINE DEL MEDIOEVO

XVI CICLO

TESI DI DOTTORATO

LITURGIA E SACERDOZIO

NEL COSTITUIRSI DELLA TRADIZIONE BIZANTINA ORTODOSSA

Coordinatore: Chiar.mo Prof. Giovanni Filoramo Tutori: Chiar.mo Prof. Mario Gallina Chiar. Mo Prof. Giovanni Filoramo

Dottorando:

Carlo Restagno

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PREFAZIONE

Il cardinale Umberto perse l’ultimo vestigio di pazienza. Alle tre del

pomeriggio del sabato 16 luglio del 1054, alla presenza di tutto il clero riunito per l’esposizione del Santissimo, i tre ex-legati di Roma, un cardinale, un arcivescovo e un cancelliere del papa, rivestiti i sacri paramenti entrarono nella chiesa di Santa Sofia e salirono sull’altare maggiore sul quale deposero in forma solenne la Bolla di scomunica (NORWICH J. J., I Normanni nel Sud. 1016-1130, vol. I, trad. it. Mursia 1971, p. 123).

Clodoveo era perplesso, dato che uno dei suoi figli infermo, nonostante il battesimo era precedentemente morto. Clotilde tuttavia impose il suo orientamento… Fu allora che Clodoveo volle essere asperso con l’acqua benedetta e subito entrò in un proficuo rapporto con le organizzazioni ecclesiastiche esistenti (GATTO L., Le Invasioni Barbariche, Newton 1997, Roma, p. 47).

E’ lecito domandarsi a che cosa possa servire la storia della liturgia e quale tipo di contributo possa offrire agli studi medievistici. La risposta la troviamo in questa stessa pagina, nei brani qui sopra riportati; se infatti J. J. Norwich avesse letto una qualsiasi delle monografie a disposizione già da un secolo, avrebbe saputo non solo che l’esposizione del Santissimo non ha mai fatto parte del culto ortodosso, ma anche che

nel 1054 neppure la liturgia latina la praticava1. Il fatto inoltre che secondo lui la bolla di scomunica fu deposta sull’altare maggiore non significa solo che ignorava l’architettura delle chiese ortodosse, ma anche che era all’oscuro del fatto che, sempre fino al 1054 ed ancora oltre, le

stesse chiese latine avevano solo un altare2.

1 Cfr. RIGHETTI M., Storia Liturgica, vol. III, ed. Ancora 1998, Milano, pp. 602-613. 2 Cfr. AA.VV., Tra Medioevo e Rinascimento. XIV – XVI Secolo. Storia della Chiesa Diretta da Hubert Jedin, Vol. V/2, Jaca Book 1977, Milano, pp. 347-351.

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Il nostro Ludovico Gatto sciupa così la possibilità di essere meno approssimativo: pur avendo a disposizione una letteratura assai più vasta e aggiornata in materia e centri di studio liturgico di prim’ordine nella città dove insegna, non fa eccezione quando ci descrive amabilmente il battesimo di Clodoveo come una infusione o aspersione sul capo con l’acqua santa, in un epoca in cui anche la chiesa d’occidente praticava il battesimo ortodosso e cioè immergeva completamente il corpo del catecumeno nel fonte battesimale oppure nel fiume o nel

mare3. Le fonti che attestano tutto ciò sono numerose, gli studi scientifici non mancano, eppure ci si può permettere di ignorare tutto questo proprio là dove non ci si può permettere la minima imprecisione bibliografica o filologica.

La stessa imprecisione la ritroviamo sulle questioni teologiche: c’è chi spiega le discussioni dottrinali dei grandi concili ecumenici di Nicea ed Efeso ricorrendo ora alla teologia della colpa di Anselmo d’Aosta, ora alla Summa di Tommaso d’Aquino… Chi non si rende conto della distanza che intercorre fra questi contesti dimostra in realtà di conoscere assai poco del cristianesimo del primo millennio, non solo d’oriente, ma anche d’occidente, che per almeno mille anni praticò riti liturgici schiettamente ortodossi e riconosceva nella dottrina ortodossa la fede apostolica. C’è ancora molto da studiare, dunque e con molta attenzione, se si vuole evitare di apparire poco scientifici. Tanto più che la storia liturgica è studiata con rigore crescente e mezzi non indifferenti; inoltre, e questo è fondamentale, non di rado l’innografia o le rubriche di un messale possono illuminare i fatti e gli avvenimenti a cui sono collegate. Capire come pregavano le comunità cristiane nel tardo antico e nell’alto medioevo significa conoscere meglio gli stessi primi secoli della cristianità d’occidente, quando non c’era molto più della lingua a differenziare greci e latini.

La storia liturgica, dunque, è indispensabile per ricostruire uno scenario storico più verosimile; i riti liturgici erano, come si vedrà l’espressione di una mentalità e di una cultura religiosa che coinvolgeva tutta la società, non ciò che significano oggi in una società secolarizzata. La liturgia era un elemento di struttura nel cristianesimo anche in occidente, dal momento che le principali trasformazioni della società e della religione in quest’area furono accompagnate da puntuali

3 Cfr. RIGHETTI M., Op. Cit., vol. I, pp. 475-477.

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trasformazioni liturgiche. Solo qualche volta tali processi avvennero in modo spontaneo; le trasformazioni più radicali venivano imposte dall’alto e rispecchiavano le nuove scelte politiche e religiose. Le differenze attuali tra cristianesimo d’occidente e cristianesimo d’oriente sembrano, studiando la storia liturgica e teologica di entrambi, più che un punto di partenza, un punto d’arrivo tutt’altro che scontato. Chi non si accorge della portata di quei cambiamenti politici e religiosi che si volle rimarcare anche attraverso le riforme liturgiche, corre il rischio di fraintendere o addirittura di non comprendere le fonti storiche e questo inconveniente si presenta più sovente di quanto non sembri; è il rischio che corrono tutti coloro che sottovalutano la storia della liturgia.

Nel capitolo riguardante Il Prato di Giovanni Mosco si potrà constatare quanto sarebbe servito ad illustri studiosi una preparazione più completa ed obiettiva per una migliore comprensione del testo. Innanzi tutto la scienza ne avrebbe tratto un vantaggio e un progresso tutt’altro che modesti.

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A mia moglie

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18

INTRODUZIONE

Il costituirsi del culto cristiano organizzato in quei modi e in

quelle strutture che ci sono state tramandate da più tradizioni non ha

lasciato tracce consistenti, soprattutto nei primi secoli. La storia della

liturgia non può avvalersi di testimonianze precise, univoche,

inequivocabili e questo senso di incertezza permane fino a gli ultimi

secoli del primo millennio. Procedendo dall'era costantiniana sino ad

epoche meno remote (secoli VIII - IX) le prospettive ci diventano assai

più familiari un po' in tutti i settori in cui noi oggi suddividiamo una

materia così complessa: liturgia eucaristica, liturgia delle ore, sacramenti,

riti di cattedrale, usi monastici4.

Una cosa è sicura: percorrendo a ritroso il sentiero delle fonti

siamo costretti ad abbandonare le categorie fisse e rigide con cui

studiamo il fenomeno al presente o in epoche a noi più vicine. Cercare,

per esempio, una distinzione tra preghiera liturgica e preghiera privata

nel monachesimo e nella chiesa del V secolo è un puro anacronismo,

foriero di spiacevoli incomprensioni. Allo stesso modo, nello studio della

liturgia comparata, ignorare che presso le chiese orientali questa stessa

distinzione, anche allo stato attuale è piuttosto fluida e che lo stesso

4 Cfr RIGHETTI, M. Storia liturgica, voll. 4, Milano, Ancora 1955; TAFT, R. F. La liturgia delle ore in oriente e occidente. Le origini dell’ufficio e il suo significato per oggi, trad. it. ed. Paoline 1988, Cinisello Balsamo.

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termine "devozione" indica presso gli ortodossi una realtà diversa da

quanto maturato nelle vicende della spiritualità in occidente, rappresenta

una notevole tara valutativa in qualsiasi tipo di studio5.

E' comunque innegabile il fatto che nel tardo-antico la fine delle

persecuzioni romane, accompagnato dal fiorire della patristica registra

l'affermarsi di alcuni temi teologici invero non estranei al cristianesimo

dei primi secoli, ma che da allora verranno sviluppati ed estesi con vivo

e crescente interesse. Si approfondiranno, per esempio, le catechesi

liturgiche e battesimali; la preghiera e la contemplazione interesseranno

diversi trattati, per lo più opere di monaci e asceti e si comincerà a

riflettere sul sacerdozio. Basilio di Cesarea, Giovanni Crisostomo,

Gregorio di Nissa, Gregorio Nazianzeno, Cirillo di Gerusalemme e

Ambrogio di Milano rappresentano questa linea di approfondimento

basata sulla meditazione delle Scritture Sacre a supporto dell'esperienza

e dei riti della chiesa6. Essi inaugureranno in effetti un periodo di

5 E’ bene tener sempre presente che il fenomeno conosciuto come devotio moderna ha riguardato esclusivamente la cristianità nord-occidentale; a quanto risulta non solamente l’ortodossia, ma anche le comunità tradizionali anticalcedonesi e la chiesa cosiddetta nestoriana ignorano sviluppi spirituali e teologici analoghi. Le informazioni essenziali, insieme con una discreta bibliografia a proposito della devotio moderna occidentale sono compendiate in AA. VV. Dizionario degli isituti di perfezione, vol. 2, Paoline 1976, Roma. 6 Cfr BASILIO di CESAREA, Lo Spirito Santo, in PG 32, 67-218, trad. it. Roma, Città Nuova 1987; CIRILLO e GIOVANNI di GERUSALEMME, Le catechesi ai misteri, in PG 33,369-156, trad. it. Roma, Città Nuova 1986; GIOVANNI CRISOSTOMO, Il sacerdozio, in PG 48, 623-69, trad. it. Roma, Città Nuova, 1985 e dello stesso: Le catechesi battesimali, in PG 60, 739-42, trad. it. Roma, Città Nuova 1986; GREGORIO di NISSA, La grande catechesi, in PG 45,9-116, trad. it. Roma, Città Nuova 1988; NICETA di REMESIANA, Catechesi preparatorie al battesimo, trad. it. Roma, Città Nuova 1991.

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vivacità culturale che nell'impero romano d'oriente si protrarrà per

diversi secoli attraverso gli scritti di Massimo il Confessore, Giovanni

Climaco, Giovanni Damasceno, Teodoro Studita e altri ancora7.

L'occidente, tradizionale area periferica e per giunta invaso dai

barbari, perderà progressivamente la possibilità di aggiornarsi, pur

conservando a lungo il legame spirituale e teologico con quella che da

sempre era stata la culla originaria del pensiero e dell'esperienza

cristiana.

I frutti sovrabbondanti di questa vivacità culturale e spirituale

ridondano ancor oggi nei riti e nei formulari liturgici delle chiese

d’oriente, oltre che nei trattati teologici negli opuscoli agiografici e

spirituali pervenuti. Sarà nel periodo lungo e travagliato

dell’iconomachia che tutto questo bagaglio verrà codificato e strutturato

in quelle forme oggi familiari a quanti hanno dimestichezza con il

cosiddetto rito bizantino8. Nelle epoche successive si aggiungeranno

7 Cfr GIOVANNI DAMASCENO, La fede ortodossa, in PG 94,781-1228, trad. it. Roma, Città Nuova 1998; MASSIMO il CONFESSORE, Le centurie, in PG 90, 959-1080, trad. it. in La Filocalia, vol. II, Torino, Gribaudi 1983. 8 Non è nelle nostre intenzioni sollevare una questione a proposito dell’uso del termine bizantino; ci preme solo osservare come il termine sia una semplificazione piuttosto impropria di una realtà assai vasta. Fu lo storiografo francese Du Conge, che alla fine del 1600 ribattezzò come bizantino quello che fu l’impero romano d’oriente; di conseguenza divenne bizantino tutto ciò che lo riguardava a livello politico, culturale, religioso, artistico. La storiografia successiva ha dimenticato troppo in fretta che i contemporanei, nemici o nemici che fossero, ignoravano questa denominazione. Le fonti arabe, per esempio, non parlano mai di bizantini, ma di Rum, romani; anche a livello religioso, ancor oggi in medio oriente il clero ortodosso è chiamato romano (rumish), mentre quello cattolico romano, giunto al seguito delle crociate viene detto franco. Le stesse fonti carolinge, per altro, notoriamente ostili a

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depositi e arricchimenti, ma su una trama oramai ben consolidata e

destinata a subire poche e minime variazioni. Ed è in verità alquanto

arduo ricostruire dettagliatamente una sinassi liturgica tipo

costantinopolitano o antiocheno prima dell’opera voluta e diretta

dall’imperatore passato alla storia come Leone il Sapiente, lui stesso

autore di alcuni componimenti liturgici, ancor oggi regolarmente

salmeggiati nelle chiese ortodosse9.

Lo stato delle fonti è tale da suscitare sfiducia non solo per la loro

relativa scarsità, ma anche per l’approssimazione terminologica e i pochi

cenni dedicati agli aspetti che invece maggiormente interessano i

contemporanei che studiano la materia. Se gli scritti di Giovanni

Cassiano10 contengono qualche particolare in più, tuttavia il senso di

incertezza è confermato quando altre fonti coeve e altrettanto autorevoli

ci descrivono usi differenti11.

Costantinopoli, ignorano il termine bizantino e, dopo l’incoronazione di Carlomagno, cominceranno a definire i romani d’oriente col termine di greci, che a quell’epoca era usato come sinonimo di pagani. 9 L’opera innografia e nello stesso tempo squisitamente teologica di Leone il Sapiente è raggruppata in un corpus di trentatre piccoli poemi liturgici, a commento celebrativo degli undici vangeli della Risurrezione, proclamati ciclicamente nei mattutini delle domeniche. Sono raggruppati in tre categorie a seconda della loro collocazione all’interno del rito: Exapostilaria, Theotokìa ed Eothinà; cfr AA. VV. Paraklitikì, Atene, ed. Fos 1994, pagg. 655-656. Per una buona traduzione italiana si può consultare ARTIOLI, M.B. Anthologhion di tutto l’anno, vol. 1 Roma, Lipa 1999, pagg. 79-83 e 86-89. 10 Cfr GIOVANNI CASSIANO, Le Istituzioni Cenobitiche, Padova, Abbazia di Praglia 1989, capp. 1 e 2. 11 Cfr TAFT, R.F. La liturgia delle ore in oriente e occidente, Roma, Lipa 2001, pagg. 84-90.

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Il cristianesimo dell’era patristica non conosceva distinzioni nette

tra teologia, preghiera, liturgia, dogma, sacramenti e spiritualità, come

riguardassero aree differenti. Non va assolutamente sottovalutato lo

studio dei riti e delle prassi di culto dell'epoca, visto l'impatto sociale che

essi avevano: se dobbiamo credere alle fonti - che in questo caso sono

unanimi - per i secoli che ci interessano ai riti svolti quotidianamente

nelle chiese si aveva una partecipazione di massa12. A quanto ci risulta

pochi sono gli storici ad aver riflettuto sul fatto che il cittadino romano

medio era solito partecipare al culto cristiano con una frequenza ben più

che settimanale: all'alba e al tramonto si tenevano regolari sinassi di

preghiera, le quali, pur senza essere obbligatorie, erano tutt'altro che

disertate. E' noto inoltre che la liturgia eucaristica era riservata alle

domeniche e alle grandi festività; dunque, quale tipo di sinassi si

officiava quotidianamente nei giorni feriali? Un eccellente lavoro di Taft,

dedicato alla liturgia delle ore in oriente ed occidente passa in rassegna

gran parte delle fonti conosciute per concludere che si trattava di

celebrazioni di lode e ringraziamento incentrate sull'uso del Salterio, sul

canto di inni, intercessioni, talora, ma non sempre letture della Scrittura

ed omelie, benedizioni sacerdotali13.

Non c’è nulla di misterioso nella logica di questi uffici. L’ora di preghiera

del mattino era un servizio di ringraziamento e di lode per il nuovo giorno e per 12 Cfr EGERIA, Pellegrinaggio in terra santa, trad. it. ed. Paoline 1985, Roma, pp. 129-133. 13 TAFT, Op. cit. pag.83.

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la salvezza in Gesù Cristo. Era il modo cristiano di aprire e dedicare il nuovo

giorno. E il vespro era il modo cristiano di chiuderlo, ringraziando Dio per le

grazie del giorno, chiedendo il suo perdono per le colpe del giorno e supplicando

la sua grazia e protezione per una notte sicura e senza peccato. Il simbolo base di

entrambe le funzioni era la luce. Il sole nascente e il nuovo giorno con il

cambiamento dalle tenebre alla luce richiamava la risurrezione dalla morte di

Cristo, Sole di giustizia. La lampada serale richiamava la “luce del mondo”

giovannea che risplende tra le tenebre del peccato. E i cristiani facevano insieme

queste preghiere perché, come afferma Crisostomo e le Costituzioni Apostoliche,

la loro unica forza era in quanto corpo di Cristo. Assentarsi dalla sinassi era

indebolire il corpo e privare il capo delle sue membra.

Una notizia del genere non può passare inosservata: diversamente

dall'occidente franco-germanico, dove l’opus Dei, la preghiera delle ore,

nella classica definizione benedettina, diviene incombenza del clero e

all'interno dello stesso monachesimo occidentale privilegio dei soli

monaci chierici14, nell'impero romano d'oriente il popolo cristiano nel suo

14 Nel periodo delle riforme monastiche (1000-1100 circa) compare presso le istituzioni monacali franco germaniche la distinzione dei monaci nelle classi: coristi o chierici e conversi; ai primi spetta lo svolgimento delle attività nobili: governo dell’abbazia, culto liturgico, lavoro intellettuale e tutti i compiti connessi col sacerdozio, loro privilegio; ai secondi i lavori manuali più umili e faticosi. L’istituzionalizzazione di questa situazione si afferma per la prima volta con la fondazione di Citeaux e a questo proposito si può consultare: TERRYL N. KINDER, I Cistercensi. Vita quotidiana, cultura, arte, trad. it. Jaca Book 1997, Milano, pp. 46-54. L’istituzione dei conversi, espressione di una società rigidamente suddivisa in classi, fu ben presto generalizzata, talora ricorrendo a termini differenti (coadiutore, fratello laico…) e non risparmiò gli stessi ordini mendicanti, sebbene questi ultimi avessero tentato fin dai loro inizi di ristabilire la tradizionale uguaglianza dei membri del cenobio. Abolita nominalmente dopo il Concilio Vaticano II presso la gran parte

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insieme continua a frequentare quotidianamente i mattutini e i vespri

ortodossi anche nelle epoche successive a quella che intendiamo

studiare. L'uomo "bizantino" viveva a stretto contatto col culto pubblico

cristiano ortodosso; di più ancora, la liturgia ortodossa con i suoi ricchi

rituali, fu sempre elemento di struttura nella cultura dotta e popolare

dell'impero romano d'oriente ben al di là della comprensione che ebbe il

cristianesimo nelle società createsi nei regni d'occidente in seguito alle

invasioni barbariche15.

Le tortuose vicissitudini del cristianesimo occidentale a partire dal

medioevo hanno di fatto provocato come benefico effetto collaterale la

nascita dello studio sistematico di diverse discipline ed il loro

conseguente approfondimento, come per esempio la storia della liturgia,

ma hanno anche diviso a lungo il campo - e ancor oggi lo dividono - a

seconda delle precomprensioni ideologiche o confessionali che si

volevano dimostrare. Il fatto che alcuni autori contemporanei di rilievo

vedano nelle austere ufficiature monastiche egiziane del IV secolo una

pratica simile alla contemplazione ignaziana fatta in comune deve

indurci a ritenere che anche là dove lo sforzo di lucidità e di equilibrio è

degli istituti religiosi, sopravvive di fatto nell’interdizione all’accesso delle cariche di governo della congregazione da parte di religiosi non sacerdoti, mentre l’Ordine Certosino continua ad annoverare ufficialmente ben due categorie di fratelli laici: conversi e donati. 15 Cfr. TAFT R. F., Op. Cit., pp. 220-224.

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encomiabilmente costante, la tentazione dell'anacronismo è sempre

insidiosamente all'agguato16.

Uno scoglio da evitare con attenzione e vigilanza in una materia

così delicata è lo sforzo della retrodatazione di questo o di quell'elemento

che noi oggi conosciamo o perché sopravissuto nella prassi attuale di

alcuni riti o comunque noto attraverso fonti recenziori. Altrettanta

cautela va usata nel considerare gli atteggiamenti culturali, religiosi e

spirituali del cristianesimo del primo millennio, a partire dall'uso delle

Sacre Scritture e dalla loro considerazione nella vita ecclesiale,

certamente differenti dalla sensibilità coltivata in tempi più recenti.

Un esempio fra tutti il più significativo è rappresentato da quanto

affermava con franchezza Giovanni Crisostomo nel Logos 1' in

commento al Vangelo di Matteo, su cui ritorneremo più diffusamente nel

corso di questo studio:

Dovremmo, cari fratelli, non aver bisogno dell'aiuto delle Scritture; se la

nostra vita fosse più pura la grazia dello Spirito Santo farebbe per le nostre

anime assai più di qualsiasi libro17.

16 Unire la preghiera alle altre attività, anche al sonno, era l’antico ideale. I canoni di Ippolito 27, una fonte egiziana del 336-340, dicono: Quando un uomo dorme nel suo letto, deve pregare Dio nel suo cuore. Questo ideale è riesumato e adattato all’apostolato attivo in assiomi più moderni quali l’ignaziano “trovare Dio in tutte le cose” e “contemplativo nell’azione” oppure nelle pratiche spirituali santificate come la retta intenzione, la presenza di Dio, il raccoglimento (TAFT, op. cit. pag. 102). Sembra esser dimenticato, in questo collegamento, quel processo iniziato nel basso medioevo denominato devotio moderna (cfr la nota 2 di questo capitolo), di cui la spiritualità ignaziana sarebbe uno sviluppo coerente in epoca moderna.

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All'inizio di questa fatica, nell'accingermi a disegnare un percorso

lungo i secoli, guidato da testimonianze scarse ed incomplete, mi vedo

costretto a restringere l'analisi sui temi principali che rappresentano

come dei punti di riferimento intorno ai quali concentrare i materiali

storiografici di un argomento che rischia di essere altrimenti

eccessivamente vasto. Mi occuperò del sacerdozio e della liturgia

eucaristica nella tradizione bizantina affrontando a ritroso la loro storia,

ma senza spingermi più indietro del IV secolo. Non eviterò di mettere in

rilievo i contatti con altre tradizioni liturgiche e ciò ci fornirà l'occasione

di riflettere su aspetti ancora poco noti dell'incontro tra culture nel

bacino mediterraneo - e anche al di fuori di esso - nel tardo-antico e

soprattutto nell'alto Medioevo.

17 GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al Vangelo di San Matteo, in PG 57, 13, trad. it. Roma, Città Nuova 1967, vol. 1, logos 1, pag. 25.

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LITURGIA EUCARISTICA E REGNO DEI CIELI

La concezione secondo cui il sacerdote nel celebrare la liturgia

eucaristica agisce "in persona Christi" trova difficilmente riscontro nella

concezione del sacerdozio espressa dalla letteratura patristica e ancor

meno nella prassi liturgica cui essa si riferisce. L’azione liturgica

spettante al presbitero, come vedremo nei numerosi testi oggetto del

nostro studio, non veniva intesa dai Padri come una impersonificazione

del Cristo nell’atto di recitare le parole dell'istituzione eucaristica,

pronunziate nell’ultima cena: …Questo è il mio corpo… questo è il mio

sangue… La differenza di punti di vista è evidente anche al di fuori del

campo strettamente teologico e liturgico. Una diversa concezione del

sacerdozio si è sempre accompagnata ad una diversa concezione del

cristianesimo; una differente concezione del cristianesimo, a sua volta,

porta con sé una differente impostazione dei rapporti tra chiesa e

autorità politica, fede e cultura, religione e società. Là dove il sacerdote è

visto come rappresentante del Cristo a tal punto e in modo così esclusivo

da detenere in eterno, ovunque e comunque il potere di trasformare il

pane e il vino in corpo e sangue del Cristo, solo col pronunciare le parole

consacratorie, non sarà difficile riscontrare un'evoluzione delle strutture

di governo ecclesiastico e del pensiero teologico in senso monarchico

assoluto; e questa è appunto l'esperienza conosciuta da una parte della

cristianità a partire dai secoli X e XI. Che si tratti di una evoluzione

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posteriore e non di un dato teologico originario è certificato dalla lunga

sopravvivenza, presso i latini, di un'organizzazione dello spazio liturgico

e dei rituali secondo canoni più vicini all'ortodossia che alla teologia

posteriore tomista. Accade spesso, infatti di ritrovare nella liturgia

segmenti risalenti ad epoche remote, magari rivestiti di nuovi significati,

ma che ad un attento e minuzioso studio comparato rivelano tracce di un

pensiero teologico più antico. La storia dell'occidente, per altro, è segnata

profondissimamente da un certo tipo di sacerdozio, il cui esercizio ha

interessato notevolmente la società, la politica, la cultura in modo

irreversibile.

La semplice nudità di quel testo che ci è stato tramandato col

titolo di Liturgia di san Giovanni Crisostomo18, è piuttosto lontana dal

trasmettere una forma di centralità monarchica del sacerdote durante

l'azione liturgica. L'arcana semplicità che si vuole sempre più attribuire

ai primi secoli dell'esperienza cristiana non era così priva di simboli,

criteri, segni o tradizioni come si vagheggia da parte di molti.

Sono per noi evidenti queste cose e siamo scesi nelle profondità della

conoscenza divina. Dobbiamo fare con ordine tutto quello che il Signore ci

comandò di compiere nei tempi fissati. Egli ci prescrisse di fare le offerte e le

18 L’edizione ufficiale della Chiesa Ortodossa è a disposizione in varie edizioni presso l’editrice Fos di Atene; in Italia esiste una elegante edizione con traduzione a fronte stampata nel 1967 presso la Badia Greca di Grottaferrata; il testo presentato e utilizzato dai cattolici di rito bizantino diverge pochissimo da quello ortodosso, ma presenta una significativa forzatura del testo originale a pag. 114.

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liturgie e non a caso e senz’ordine, ma in circostanze ed ore stabilite. Egli stesso

con la sua sovrana volontà determinò dove e da chi vuole siano compiute, perché

ogni cosa fatta santamente con la sua santa approvazione sia gradita alla sua

volontà. Coloro che fanno le loro offerte nei tempi fissati sono graditi e amati.

Seguono le leggi del Signore e non errano. Al gran sacerdote sono conferiti

particolari uffici liturgici, ai sacerdoti è stato assegnato un incarico specifico e ai

leviti incombono propri servizi. Il laico è legato ai precetti laici19

E soprattutto improvvisazione e spontaneismo erano tutt'altro

che modelli raccomandabili per le prime generazioni di cristiani, sebbene

le forme praticate fossero molteplici e alquanto flessibili. E' stato

abbondantemente e convincentemente documentato come la preghiera

in comune dei primi cristiani procedeva con alcune significative varianti

e aggiunte sul solco delle riunioni sinagogali20. Solo nei giorni festivi la

sinassi terminava con l'anafora eucaristica e la frazione del pane. Ed era

solo questa inizialmente la particolarità che distingueva la preghiera in

comune dei cristiani dalle sinassi sinagogali. Questa particolare forma di

19 CLEMENTE ROMANO, Lettera ai Corinti, XL, 1-5. Il testo critico seguito è stato quello di A. Jaubert, Parigi 1971, S C 167, che tiene conto dell’edizione di Th. Schaefer, S. Clementis Romani Epistula ad Corinthios quae vocatur prima graece et latine, Bonn 1941, Florilegium Patristicum 44 e di J. A. Fischer, Die Apostolischen Vater, Monaco 1956. L’autore è indicato dalla tradizione, e non c’è motivo di dubitarne, come quarto vescovo di Roma, probabilmente martire. Si ritiene la sua lettera ai Corinti composta tra il 95-98, cioè sotto l’impero di Domiziano o di Nerva ed ebbe una grande risonanza. Secondo Dionigi vescovo di Corinto era letta nella liturgia domenicale. Già ne parla Egesippo che fu a Roma tra il 155 e il 166. Venne tradotta subito in latino e conobbe vasta diffusione, attirando l’attenzione di Ireneo di Lione, Clemente d’Alessandria, Origene e di molti altri padri in tutte le epoche. 20 Cfr TAFT, Op cit. ,pagg. 20-31.

30

culto era allora denominata semplicemente eucaristia, ringraziamento. E'

interessante notare come il termine liturgia nel primo periodo era usato

per indicare specificamente il culto svolto nel tempio di Gerusalemme.

L'autore della Lettera agli ebrei sembra escludere con fermezza la

possibilità di forme cultuali similari nel cristianesimo; e se, argomenta

l'autore, il sacerdozio dell'Antico Testamento è motivato dal bisogno di

offrire sacrifici e olocausti per la remissione dei peccati, il Cristo, una

volta per tutte, offrendo in olocausto se stesso al Padre ha ottenuto una

volta per tutte la remissione dei peccati e quindi non è più necessario il

culto veterotestamentario, né trova spazio l'esistenza di una classe

sacerdotale deputata all'offerta di sacrifici ed olocausti. Ora, incalza

l'autore della Lettera, abbiamo un unico ed eterno sommo sacerdote che

è entrato una volta per tutte ad offrire il suo sangue innocente non in un

tempio materiale, ma nel tempio immateriale, sull'altare sovraceleste nel

Sancta Sanctorum su cui gli stessi angeli non osano fissare lo sguardo21.

Queste affermazioni sono piuttosto importanti: pur delegittimando la

continuazione del culto e del sacerdozio veterotestamentario dopo la

pasqua del Cristo, viene sostenuta chiaramente l'esistenza di un

sacerdozio, di una liturgia e di un tempio eterni e per quelli che all'epoca

erano gli effettivi destinatari dello scritto non si trattava semplicemente

di metafore o di allegorie. L'Apocalisse, che si propone per l'appunto

come una rivelazione, una finestra spalancata, o meglio, una porta aperta

21 Cfr. Ebrei 5, 1-5 e anche 9, 1-18.

31

sul mondo celeste, descrive le realtà del mondo immateriale come

un'eterna liturgia di lode che gli esseri incorporei e gli spiriti dei giusti

offrono alla maestà divina22, ampliando e arricchendo la descrizione del

libro di Isaia23. Tutto ciò, come vedremo, verrà recepito con immediato

realismo dal culto eucaristico ed un particolare su cui vale la pena

soffermarsi è il fatto è che nel cristianesimo la liturgia in quanto culto

non pare abolita per sempre, ma sostituita con la partecipazione alla

liturgia celeste, se accettiamo l'Apocalisse, ma anche la stessa Lettera agli

Ebrei24 come testi significativi per il primo cristianesimo: per il cristiano

non ha più senso la partecipazione al culto del tempio dal momento che

il culto cristiano lo introdurrebbe misticamente nel culto celeste25.

22 Cfr. Apocalisse 4,1-11; 19,1-8. 23 Isaia 6, 1-10. 24

Avendo dunque, fratelli libertà (parrisìa) d’ingresso al santuario nel sangue di Gesù per quella via nuova e vivente che egli inaugurò per noi attraverso la tenda, cioè la sua carne e avendo un grande sacerdote nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, in pienezza di fede, purificati i cuori da ogni mala coscienza e lavati il corpo con acqua pura (Ebrei, 10,19-22). 25 Sovrano Signore, Dio e nostro, che hai costituito nei cieli schiere ed eserciti di Angeli ed Arcangeli a servizio della tua gloria, fa che al nostro ingresso si accompagni l’ingresso degli Angeli santi, che con noi celebrino e glorifichino la tua bontà. (GIOVANNI CRISOSTOMO, Divina Liturgia, trad. it. Roma, Grottaferrata 1967, preghiera del Piccolo Ingresso, pag. 58). Non è l’unico caso in cui la Divina Liturgia applica intenzionalmente la terminologia neotestamentaria riguardante il culto celeste; altro interessante esempio ci è fornito dalla frequentissima preghiera dell’incenso: Offriamo a te incenso, Cristo Dio nostro, quale soave sacrificio spirituale: ricevilo sul tuo altare sovracelesti e tu in cambio manda a noi la grazia del tuo Spirito Santo (GIOVANNI CRISOSTOMO, Ibidem, pag. 35). Nel culto bizantino ortodosso è fortemente presente la convinzione che l’azione di culto comunitario spalanchi le porte celesti, unendo le realtà terrestri con quelle celesti; la liturgia cristiana non è ritenuta un eco terrestre della lode celeste, ma il punto come vedremo, di un possibile contatto con la dimensione dell’eternità: I cieli e la terra si rallegrino oggi profeticamente. Angeli e uomini celebriamo un’assemblea spirituale, perché Dio, nato da donna, si è manifestato nella carne… GIOVANNI DAMASCENO, Litì del Natale, in AA. VV. Minei, ed. Fos 1996, Athina, pag. 244 (nostra traduzione). Il

32

E' stato giustamente osservato come dal IV secolo in avanti i testi

liturgici cristiani subiscono un processo di arricchimento e ampliamento

quanto a richiami e risonanze bibliche anche veterotestamentarie26;

l'eucaristia diventa (o ridiventa) liturgia in senso tecnico, la semplicità

originaria parrebbe soffocata da riti simboli sempre più complessi e

ridondanti. Se da una parte la crescita e l'ampliamento dei testi e delle

rubriche liturgiche è innegabile, d'altra parte il recupero dell'Antico

Testamento non è di certo fine a se stesso. La stessa liturgia attribuita a

Giovanni Crisostomo, appesantita, o arricchita, da nuovi formulari come

il rito della Protesi o Proscomidia27 non è sicuramente incentrata sull'idea

del sacrificio espiatorio, sebbene non sia affatto ignorata la categoria

cultuale del sacrificio, bensì su quelle realtà invisibili che si ritengono

rivelate ai battezzati e da essi sperimentabili e conoscibili concretamente:

lo spazio e il tempo materiali verrebbero sostituiti dalla dimensione

dell'immateriale, in cui sarebbe in svolgimento eternamente la

dossologia trinitaria.

Prima di esaminare concretamente i testi è bene tener presente che

le intercessioni diaconali e le orazioni presbiterali sono da recitarsi in

direzione dell'altare da occidente verso oriente. Questa prassi è

testo della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo viene riportato anche dal Migne: IOANNES CHRYSOSTOMUS, Ordo Sacrificii Sancti Chrisostomi, PG 63, 901-22. 26 Cfr. NICOLOTTI, A. Sul Metodo per lo studio dei testi liturgici. In margine alla liturgia eucaristica bizantina, in Medioevo Greco, numero “zero”, edizioni Dell’Orso 2000, Alessandria, pp.144-179. 27 GIOVANNI CRISOSTOMO, Divina Liturgia, trad. it. Roma, Grottaferrata 1967, pagg. 6-45.

33

antichissima e non v'è dubbio che è una prassi originaria. Non siamo al

corrente di una sola testimonianza che contrasti con tale uso presso le

varie famiglie liturgiche. L'orientamento verso un punto esterno

identificato con l'oriente oltrepassa il valore puramente simbolico e va

messo in riferimento, a mio avviso, con l'Invisibile di cui s'è accennato.

Ben altra mi pare la situazione di una liturgia che pone al centro il

celebrante: il contatto o la tensione verso l'Invisibile sembrano assenti o

per lo meno sostituiti da un punto interno, per così dire, autoreferente28.

… l’origine dell’altare “rivolto al popolo” ha poco o nulla a che vedere

con il senso che gli si è attribuito nei tempi moderni … Tutto ciò che sappiamo

della celebrazione primitiva … indica un altare situato in fondo all’edificio o in

mezzo alla navata. Nel primo caso nessuno poteva trovarsi di fronte al

celebrante. Nel secondo solo una parte dei presenti si trovava di fronte a lui e

pare che fosse composta unicamente da donne. L’idea che una celebrazione di

fronte al popolo abbia potuto essere una celebrazione primitiva e in particolare

quella della cena eucaristica, non ha altro fondamento se non una errata

concezione di ciò che poteva essere un pasto nell’antichità, cristiano o no che

fosse. In nessun pasto dell’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea

stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, o distesi sul lato

convesso di una tavola a forma di sigma, oppure di una tavola che aveva

all’incirca la forma di un ferro di cavallo. L’altro lato era sempre lasciato libero

28 La lunga citazione che segue è presa da BOUYER, L. Architettura e liturgia, trad. it. Magnano (Bi), QIQAJON 1994, pagg. 38-41, passim.

34

per il servizio. Da nessuna parte dunque, nell’antichità cristiana, sarebbe potuta

venire l’idea di mettersi di fronte al popolo per presiedere un pasto. Anzi, il

carattere comunitario di un pasto era proprio messo in risalto dalla disposizione

contraria, cioè dal fatto che tutti i partecipanti si trovassero dallo stesso lato

della tavola…

Bisogna aggiungere, inoltre che la descrizione del tardo altare romano

come di un “altare rivolto al popolo” è puramente moderna. L’espressione non è

mai stata usata nell’antichità cristiana. E’ sconosciuta anche nel medioevo.

Appare nelle rubriche dei messali romani stampati nel XVI secolo, in cui si

richiede al presbitero di girarsi “versus ad populum per dire “Dominus

vobiscum”… Come ha mostrato Cyrille Vogel, l’unica cosa su cui si sia

veramente insistito e di cui si è fatta menzione è che (il presbitero) doveva dire la

preghiera eucaristica, al pari di tutte le altre preghiere, rivolto verso oriente…

non era solo il presbitero a doversi rivolgere verso oriente: era l’assemblea intera

che lo faceva insieme con lui … Così dunque, nelle chiese che avevano quello che

noi chiamiamo oggi un altare rivolto al popolo, avveniva che una parte dei

fedeli… si trovasse a volgere le spalle all’altare durante tutta la preghiera di

consacrazione…29

Allo stato attuale delle mie conoscenze mi sembra ipotizzabile, nel

costituirsi del corpus liturgico ortodosso bizantino, ma anche latino, 29 Già Tertulliano, nel suo trattato sulla preghiera, suppone che sia una tradizione apostolica quella di pregare, sia in pubblico, sia in privato, sempre rivolti a oriente. In questo simbolismo si esprimeva l’attesa escatologica della cristianità primitiva, ossia l’attesa dell’ultimo giorno, del giorno eterno che non finirà, in cui il “Christus Victor” apparirà come sole che sorge, l’oriente che non tramonta mai (BOUYER, L. Op. cit. ,pag. 25).

35

l'incontro, o meglio l'interazione di due filoni di pensiero: il recupero

dell'Antico Testamento e quindi di elementi sacrificali, che vedrei più a

livello di memoriale, e l'approfondimento dell'esperienza o la fruizione

delle realtà invisibili ed immateriali rappresentate da quell'unica

dossologia eterna cui accennano quelle pagine del Nuovo Testamento

che abbiamo celermente esaminato più sopra.

L’incipit della Liturgia Eucaristica è come una didascalia completa

di ciò che viene inteso come il centro e il fine del culto:

Benedetto il regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ora e sempre

e nei secoli dei secoli. Amin30.

L'esordio è quanto meno singolare: oggetto della benedizione

viene proclamato quel regno dei cieli che nell'autentico pensiero

neotestamentario è molto più che una realtà escatologica, se l'apostolo

Giovanni vi fu assunto31 e lo stesso Paolo di Tarso sostiene di esservi

asceso32. La predicazione del Cristo, secondo i sinottici, sarebbe stata

incentrata su questo tema. Non è difficile ricostruire alcuni aspetti

30 GIOVANNI CRISOSTOMO, Divina Liturgia, trad. it. Roma, Grottaferrata 1967, p. 2. Testo greco ufficiale ortodosso reperibile in varie edizioni presso la casa editrice Phòs di Atene. 31 Dopo questo vidi, ed ecco, una porta aperta nel cielo e la prima voce, che avevo udito come di tromba parlava con me, dicendo: Sali quassù e ti mostrerò quello che deve accadere dopo queste cose. E subito fui rapito in spirito ed ecco un trono stava nel cielo e sul trono uno che sedeva… (Apocalisse 4,1-2). 32 Se proprio bisogna vantarsi – non è una cosa buona – verrò alle visioni e rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che quattordici anni fa, non so se era nel corpo, né so se era al di fuori del corpo: Iddio lo sa; un tale uomo fu rapito fino al terzo cielo. E so che un tale uomo, se nel corpo o se al di fuori di esso non lo so, lo sa Dio, fu rapito nel paradiso e udì parole inudibili, che nessun uomo può pronunciare ( I Corinti, 12,1-4).

36

politici e religiosi dell'epoca per immaginare il tipo di risonanza che

probabilmente aveva presso gli ascoltatori la predicazione di un

argomento del genere. Anche nelle epoche successive, in contesti

differenti, ma non del tutto estranei, la parola regno coinvolgeva aspetti

molto particolari della società e parlare di regno del Padre, del Figlio e

dello Spirito Santo poteva assumere un significato tutt'altro che ovvio.

Che cos'era e che cosa fu dunque la Basilèia nel mondo romano

orientale? Quale fu il valore e la dignità che le coscienze le attribuivano?

L'ideologia imperiale romana era chiamata a confrontarsi col Vangelo, la

sacralità dello stato bizantino con l'incorruttibilità del regno dei cieli, la

legge e l'ordine con i comandamenti e le beatitudini, lo spazio e il tempo

della storia con l'immateriale e l'eterno, il creato con l'increato. L'inizio,

dunque, della Liturgia di Giovanni Crisostomo creava una vistosa ed

intenzionale soluzione di continuità con l'assetto politico, per quanto

cristianizzato e, se vogliamo, sacralizzato. Nessun impero di questa

dimensione appartenente alla creazione poteva rispecchiarsi od essere

celebrata attraverso il rito ortodosso. E' vero che l'impero romano

cristiano, secondo gli ideali bizantini, simboleggiava il regno di Dio sulla

terra, ma nel momento culminante del culto cristiano ortodosso veniva

proclamata l'estraneità e la distanza tra simbolo e realtà rappresentata.

Ciò che si vedeva nell'impero non era altro, al massimo, che un pallido

simbolo creato di una realtà increata, senza nessuna reale analogia con

cose di questa terra; l'impero, in definitiva non poteva assolutamente

37

esser considerato come "incarnazione" del regno dei cieli sulla terra,

tanto meno la sua realizzazione nel tempo. All'interno di questa struttura

esisteva uno spazio svincolato da ogni legge e da ogni ordine davanti al

quale anche l'autorità dell'imperatore veniva meno. Non era solamente il

potere laico ad essere sospeso, ma anche la stessa struttura di governo

ecclesiastico, lo stesso prestigio del patriarca non erano che simboli, sia

pure autorevoli, ma non in grado di esaurire o incarnare da soli il regno

del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Il discorso (lògos): Si è avvicinato il regno dei cieli33 non esprime, mi

pare, il senso di un raccorciamento temporale. Infatti, non viene in modo da

poter essere osservato, né diranno: Eccolo, qui, eccolo là34, ma si indica così la

relazione con questo stesso regno che è nell’intima disposizione di quelli che di

esso sono degni. E’ detto infatti: Il regno di Dio è dentro di voi35.

Il regno di Dio Padre si trova in potenza presso tutti i credenti. In atto si

trova in quelli che hanno completamente deposto dalla loro intima disposizione

ogni vita naturale dell’anima e del corpo e sono in possesso della vita dello

spirito soltanto e possono dire: Vivo, ma non più io: vive in me Cristo36.

Alcuni dicono che il regno dei cieli è la vita nei cieli di quelli che ne sono

degni. Altri invece dicono che è lo stato di quelli che si salvano, simile a quello

33 Mt 3,2; 4,17. 34 Lc 17,20. 35 Lc 17,21. 36 Gal 2,20.

38

degli angeli. Altri ancora dicono che è la forma stessa della bellezza divina di

quelli che hano portato l’immagine dell’uomo celeste37. A mio parere tutte e tre le

opinioni a questo riguardo corrispondono alla verità38…

Il regno dei cieli è lo stato dell’anima libera dagli impulsi passionali,

accompagnato dalla conoscenza oggettiva delle realtà create.

Il regno dei cieli è la conoscenza della santissima Trinità…39

Se vuoi pregare è necessario invocare il Dio che dona la preghiera a chi

prega40, dicendogli: Sia santificato il tuo nome. Il tuo regno venga. Cioè, venga

la Spirito santo e il tuo Unigenito Figlio41.

Né cesaropapismo, né teocrazia, allora, ma un'esperienza mistica

che l'evoluzione istituzionale della chiesa, la complessità della sua

collaborazione con lo stato romano, la solennizzazione del culto non

sarebbero mai stati in grado di soffocare. Il regno dei cieli, questa

dimensione mistica, non apparterrebbe per natura a questo mondo,

37 Cfr. I Cor 15,49. 38MASSIMO IL CONFESSORE, Duecento Capitoli sulla Teologia e sull’Economia dell’Incarnazione del Figlio di Dio, II, 91-93, in PG 90, 1167-1169, trad. it. in NICODEMO L’AGHIORITA e MACARIO di CORINTO, La Filocalia, ed. it. a cura di ARTIOLI M.B., LOVATO M.F., ed. Gribaudi 1983, Torino, p. 162. 39 EVAGRIO PONTICO, Ad Anatolio: Testi sulla Vita Ascetica, 2-3, in PG 40,1221. 40 La citazione proviene dal Cantico di Anna secondo la versione dei Settanta: Egli da la preghiera a chi prega e benedice gli anni del giusto (Sept. I Re 2,9; nel primo libro di Samuele del testo masoretico, che corrisponde a I Re della Settanta, il versetto è omesso). 41 NILO SINAITA (in realtà: EVAGRIO PONTICO), Centocinquantatre Capitoli sulla Preghiera, 58, in PG 79, 1180.

39

anche se può entrare in contatto con la dimensione creata provocando

come degli squarci all’interno del tempo e nella storia42.

Un fatto ancora inosservato è costituito dall'assenza, nel culto

ortodosso di qualsiasi forma di celebrazione sia del potere politico, sia di

quello religioso; lo stesso sacerdote, sebbene figura del Cristo in senso

più appropriato rispetto all'imperatore, non giunse mai a proporsi come

rappresentante plenipotenziario della divinità su questa terra. Dunque,

né il regno politico dell'imperatore, né il regno della chiesa ricevettero

una consacrazione definitiva e compiuta attraverso i riti ortodossi: il

regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo rimangono al di là di

tutto, in una dimensione che non può essere catturata o posseduta, ma

pur sempre alla portata di chiunque voglia farne la conoscenza,

indipendentemente dal rango, dal censo , dal sesso, dalla cultura…

42 Massimo il Confessore vede anche una differenza fra l’espressione regno di Dio e regno dei cieli: Alcuni cercano di sapere quale differenza ci sia tra il regno di Dio e il regno dei cieli, se questa differenza sia nella realtà o nella rappresentazione concettuale. A costoro bisogna dire che non differiscono nella realtà, ma nella rappresentazione concettuale. Regno dei cieli, infatti, è il conseguimento della conoscenza pura, preesistente in Dio, degli esseri conforme alle ragioni (katà toùs lògous) proprie. Regno di Dio è la partecipazione per grazia dei beni per natura esistenti presso Dio. Il primo si riferisce al fine degli esseri,il secondo esprime l’idea di ciò che è oltre il fine degli esseri (Ibidem, II, 90).

40

IL REGNO NEI SINOTTICI

Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo

regno …43

Non v'è realtà alcuna cui possa essere ricondotto il regno dei cieli,

secondo i sinottici; non si tratterà della restaurazione del regno davidico,

oggetto di speranze da parte dei giudei dell'epoca. Sono abbondanti le

testimonianze intorno alla predicazione di Gesù di Nazaret; lo scontro

con la mentalità giudaica su questo tema è aspro; a quanto ci risulta lo

stesso Giovanni il Battista, predicatore dell'imminente venuta del regno

di Dio di pochissimo anteriore al Cristo, ebbe delle perplessità

sull'insegnamento e lo svolgimento della missione del Nazareno44. Nulla

toglie che la predicazione del Battista e del Cristo abbiano lo stesso

esordio: Fate penitenza, perché vicino è il regno dei cieli45. I sinottici

attribuiscono al Precursore anche altri insegnamenti che sembrano un

appropriato ed efficace preludio alla dottrina del Cristo sul regno dei

cieli. Per il profeta del deserto, infatti l’instaurazione da parte del Messia

del regno celeste avrà come caratteristica l’immersione nello Spirito

43 Cfr. Matteo 6,9-12; e anche Luca 11,2-4. 44 Cfr. Matteo 11,2-6; e anche Luca 7,18-23. 45 Cfr. per la predicazione di Giovanni: Matteo 3,3; per gli inizi della predicazione del Cristo: Matteo 4, 17; Marco 1,15.

41

santo, paragonato ad un fuoco46; un’affermazione simile la si può

riscontrare in quel passo in cui Gesù di Nazaret descrive la sua missione

paragonandola non a quella di un predicatore, ma a quella di un

incendiario47. Sembra delinearsi una prospettiva particolare, se in queste

affermazioni, come in altre ancora, vogliamo scorgere una descrizione

della autentica missione del Messia: non si fa cenno alcuno alla per altro

molto ben documentata attività di predicazione, né ad altre opere, né agli

eventi della passione; come osserva il Crisostomo, commentando Matteo

3,2, Giovanni non si sofferma a considerare neppure il sacrificio della

croce, la morte e la risurrezione, ma preannuncia quello che sarà, per così

dire, il risultato finale: la Pentecoste:

Egli parla subito del dono che doveva essere il compimento (télos) e la

conclusione di tutti gli altri… 48

La considerazione che verrebbe rafforzata da quanto sostiene in

questo passo il Crisostomo, secondo cui gli stessi eventi pasquali sono

finalizzati alla Pentecoste non è affatto una novità, ma la sua esegesi

coglie un particolare interessante a proposito dell’espressione Spirito

santo e fuoco, riportata nei passi paralleli di Matteo e Luca:

46 Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me e al quale non sono degno di portare i sandali, è più forte di me; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco (Matteo 3,11). I passi paralleli negli altri sinottici sono questi: Marco 1,7-8; Luca 3,16. 47 Sono venuto a portare fuoco sulla terra e che cosa desidero, se non che si accenda? (Luca 12,49) 48 GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al Vangelo di San Matteo, in PG 57,197, trad. it. Roma, Città Nuova 1967, vol. I, logos XI, 5, pag.175.

42

Se Giovanni parla di fuoco è senza dubbio per far loro ricordare i profeti

nelle cui visioni appare quasi sempre il fuoco. Così infatti Dio parlò a Mosè, in

un roveto ardente, e a tutto il popolo sul monte Sinai; così parlò a Ezechiele, in

mezzo ai cherubini circondati dalle fiamme49.

Il regno del Messia consisterebbe, dunque, in un’immersione

generale nello Spirito santo come in un fuoco divino, una teofania

immediata, non rimandata o semplicemente attesa; una soluzione di

continuità tra regno creato e regno increato, tra terrestre e celeste, una

porta d’accesso che il Messia aprirà per mettere in contatto il regno del

Padre, del Figlio e dello Spirito santo con questa nostra dimensione. In

altre parole il Messia renderà possibile ad ogni uomo esperire la teofania

mistica sperimentata da Mosè sul Sinai50, da Elia sull’Oreb51, da Isaia,52

non simbolicamente o per analogia.

Tali considerazioni, per altro comuni ad altri illustri e facondi

esegeti di epoca patristica, ci inducono ad una più attenta riflessione sul

significato, potremmo dire appunto, “pentecostale” di un formulario

liturgico come quello della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo

che esordisce con l’esclamazione:

Benedetto il regno del Padre, del Figlio e dello Spirito santo...

49 GIOVANNI CRISOSTOMO, Ibidem. 50 Cfr. Esodo 19,16-21; 33,18-23; 34,5-9. 29. 51 Cfr. III Re ( secondo il testo masoretico: I Re) 19, 9-13. 52 Cfr. Isaia 6, 1-5.

43

La presenza di una tale convinzione non esclude di per sé

elementi che potrebbero ricondurre a schemi cultuali di tipo

veterotestamentario:

Dapprima era infatti necessario che l’Agnello fosse sacrificato, il peccato

cancellato e che fosse distrutta l’inimicizia tra l’uomo e Dio; era inoltre

necessario che Gesù Cristo fosse seppellito e che risuscitasse e, allora, sarebbe

venuto lo Spirito santo53.

Il problema non è tanto, a mio avviso, riconoscere se vi siano o

meno riferimenti all’economia sacrificale legata al tempio dell’Antica

Alleanza, ma rendersi conto che per le prime generazioni di cristiani era

inconcepibile separare o contrapporre ciò che era accaduto prima e dopo

l’incarnazione del Logos; avvenimenti, inoltre, quali l’incarnazione

stessa, la passione, la risurrezione e la pentecoste, non potevano essere

scissi o separatamente celebrati e rivissuti: nella Divina Liturgia,

appunto, vengono a costituire, insieme con la creazione e la caduta, un

insieme; ma quello che dovremmo chiarire è che per i padri della chiesa

non si tratta di semplici temi di celebrazione, ma, nello svolgimento del

culto liturgico il cristiano è alla presenza dei grandi avvenimenti della

storia sacra, dal momento che verrebbe assunto nel regno celeste

attraverso lo Spirito e il fuoco di quella visione mistica di Dio davanti al

quale tutto è simultaneamente presente. Un rito, esteriormente simile

53 GIOVANNI CRISOSTOMO, Ibidem.

44

alle già note formule celebrative del memoriale, farebbe in questo caso

da supporto ad una teofania mistica dai connotati, secondo Cullmann,

molto precisi54. Un’esperienza possibile non solo perché legata ad un

certo formulario in grado di riprodurla, ma condizionata dalle

disposizioni dei partecipanti, i quali dovrebbero essere non solo

battezzati e rettamente istruiti, ma anche purificati e illuminati per unirsi

in Spirito e fuoco alla Divinità. Ciò che comunque accadrebbe a livelli

profondi, si potrebbe manifestare percepibilmente, allora, se gli spiriti

dei partecipanti sono progrediti in quell’affinamento ascetico che è

oggetto di un’imponente letteratura cristiana mistica, prima ancora che

monastica. In altre parole, come convincentemente dimostrato da

Cullmann, scopo della riunione di culto dei cristiani era, alle origini, la

manifestazione del Cristo in mezzo a loro nella luce increata della

risurrezione, potenzialmente presente nel credente perché depositata in

lui, o meglio, partecipatagli mediante il battesimo. L’esegesi più diffusa,

presso la letteratura patristica, del versetto nono del salmo 35: Nella tua

luce vedremo la luce, sviluppa appunto questa interpretazione teofanica;

questa luce verrà anche associata alla manifestazione della Nube

luminosa che accompagnava il popolo d’Israele mentre fuggiva

dall’Egitto55, ma soprattutto alla manifestazione luminosa avvenuta sul

54 Cfr. CULLMANN, O. La signification de la sainte-Cene dans le Christianisme primitif, in « Revue d’Histoire et de Philosophie religiueses » 1936 ; trad. Inglese di DAVIES, J. G. Essays on the Lord’s Supper, Richmond, Virginia 1958, pagg. 12-13. 55 Cfr. Esodo 13, 21-22.

45

Tabor56. La reale unione dei credenti con il corpo risorto del Cristo era

l’obiettivo, l’aspirazione, il fine, lo scopo di ogni battezzato; qualsiasi

altra attività era subordinata alla possibilità di esser fatti degni di vederlo

nella sua Gloria increata, in Spirito e fuoco, attraverso una conoscenza

empirica, consistente in uno sconfinamento oltre lo spazio e il tempo,

fino a che durava la loro unione col Cristo. Una tale apparizione del

Cristo fra i credenti in lui dava la possibilità di sperimentare l’arrivo del

regno dei cieli in Spirito e fuoco, partecipando in pratica alla vita di Dio,

ma non alla sua essenza57.

Tutto ciò, comunque non era affatto un processo automatico: non

ogni volta che i credenti si riunivano il Cristo doveva manifestarsi. Ciò

dipendeva, come si è detto dalla purezza della fede e dalla purificazione

interiore dei partecipanti alla riunione di culto. Se le condizioni erano

presenti nell’assemblea la teofania era possibile e quanti erano purificati

nello spirito (il nous) percepivano la propria metamorfosi mistica:

ciascuna apparizione significava l’assunzione nella vita divina, la

cessazione del regno terrestre e l’inizio del regno incorruttibile di Dio.

Come risultato di tali esperienze i partecipanti ottenevano una piena

conoscenza del passato, del presente, del futuro, essendo giunti a

56 Cfr. Matteo 17, 1-13; Marco 9, 2-13; Luca 9, 28-36. 57 Cfr. MAXIMOS LAVRIOTIS, Ecclesia Dei o chiesa istituzionale? In “Italia Ortodossa” Genova 2000, vol. 2, pagg. 13-19.

46

condividere l’eredità incorruttibile del Cristo, nel regno dei cieli: saremo

simili a lui perché lo vedremo così come egli è… 58

Così si esprime in merito Massimo il Confessore, dando un saggio

di quella che è l’ecclesiologia dei padri della chiesa:

Dio ha saggiamente diviso tutte le epoche in due e ha deciso nella prima

di divenire uomo e nella seconda di fare l’uomo Dio59.

Queste convinzioni attraversano il Nuovo Testamento e sono

ampiamente riscontrabili nel corpus generale della patristica, anche

latina, almeno per i primi secoli. C’è un elemento ulteriore di sorpresa, se

è vero, per esempio che i destinatari dell’epistola ai Corinti erano

persuasi della loro appartenenza al corpo del Cristo in virtù della

partecipazione alla natura umana, prima ancora che per la loro fede

cristiana60; quest’ultima avrebbe dato compimento alla loro reale e

materiale unione naturale col Cristo, mediante l’economia della grazia

battesimale: Quando ciò che è perfetto è giunto, ciò che è parziale viene

eliminato61… e inoltre: Quanti siete stati battezzati in Cristo, di Cristo vi siete

rivestiti62… La fede e la grazia danno completamento, ma senza separare

rigidamente l’umanità in due categorie: puri e impuri, salvati e dannati,

illuminati e profani.

58 I Giovanni 3,2. 59 PG 90, col. 31. 60 Cfr. I Corinti 12,27. 61 I Corinti 13,10. 62 Galati 3,27.

47

Quanto la coscienza di ciò sia presente nelle dottrine dei padri,

può essere esemplificato da un altro passo di Massimo il Confessore:

Questo è il grande e sublime mistero. Questo è il benedetto Fine per il

quale tutto il creato è stato composto; questo è il preannunciato scopo divino per

il quale tutti gli esseri hanno principio e per il quale è annunciata la loro Fine,

per il quale ogni essere esiste. Egli stesso, tuttavia, non esiste a causa di alcuno.

Avendo codesto Fine si vede pienamente che Dio ha causato tutti gli esseri. Ciò

causa la pienezza di due realtà: della sua Provvidenza e di coloro per i quali la

Provvidenza agisce; attraverso il cui completamento le creature sono ricapitolate

e unite a Dio. E’ questo il mistero che circonda ogni epoca, mostrato innanzi dal

grande e sovrainfinito consiglio divino, preesistito molto prima di tutti i secoli.

L’Uno e consustanziale a Dio, il Logos stesso, l’ha annunciato dal momento in

cui è divenuto uomo, manifestando così sia come era, sia le intime profondità

della bontà del Padre Suo. Egli si è automanifestato come il Fine per il quale

indubbiamente le creature hanno ricevuto il loro inizio: perché era per il Cristo,

più propriamente per il mistero del Cristo, che tutte le epoche e qualunque cosa

esse contengono, hanno ricevuto il Principio e il Fine del loro essere. Per

l’unione compresa prima d’ogni epoca, tra realtà misurabile e

incommensurabile, finita e infinita, tra il regno delle cose limitate e quello delle

cose illimitate, tra Creatore e creazione, tra stabilità e moto; unione che è stata

compresa alla fine, in questi ultimi tempi grazie alla automanifestazione del

Cristo, che adempie la preveggenza divina63.

63 PG 90, 621b.

48

Il senso dell’inevitabilità dell’arrivo di un tale regno celeste,

indipendentemente da qualsiasi consenso, contributo o cooperazione

permea la letteratura patristica e la liturgia ortodossa, che intende

appunto collocarsi sulla soglia di questo mistero, affinché sia possibile a

quanti più uomini sconfinare già da ora tra le realtà sovracelesti. Da una

parte la consapevolezza che la realizzazione di un tale Fine non

coinvolgerà esclusivamente i battezzati, libera il cristianesimo patristico

dalle strettoie di un integralismo latente, eventuale conseguenza del

considerare necessario e indispensabile alla salvezza far parte della

chiesa a tutti gli effetti. Nessun padre ortodosso, nel senso patristico del

termine, sembra aver mai fatto coincidere il regno dei cieli con la

comunità visibile dei credenti; tanto meno con l’istituzione

comunemente denominata chiesa. Tutto ciò, nel loro modo di vedere la

rivelazione cristiana, rimane un mezzo, non diventa il fine. Il Fine è

governato sempre dalla Provvidenza; né l’imperatore, né il patriarca, in

definitiva, possono essere considerati i depositari di una missione

esclusiva in relazione con la manifestazione del regno dei cieli in Spirito e

fuoco. Per questa esperienza non vi sono intermediari: è del tutto

secondario il fatto che un ordinamento terrestre si sforzi di riprodurre

con leggi e regole quello celeste. Nessun padre orientale sembra aver mai

stimato oltre il dovuto l’ordinamento statale; le stesse cariche

ecclesiastiche, pur nel riconoscimento di un loro speciale valore, in

relazione alla tradizione apostolica, non sono affatto il compimento e il

49

fine dell’economia del regno increato. Ciò che è importante per l’uomo e

per il credente, dunque, non è tentare di riprodurre con i suoi sforzi un

tale regno a livello etico, politico, sociale, economico, ma disporsi

personalmente alla teofania, prepararsi alla manifestazione di quel regno

che verrà come un ladro nella notte64, in Spirito e fuoco; fuoco benefico

per chi avrà affinato il suo noùs mediante la purificazione, fuoco

divoratore65 inestinguibile per colui che verrà sorpreso con la facoltà

spirituale del noùs impreparato, non purificato, bloccato e per così dire

intorbidito da vizi e passioni.

Emerge un altro elemento interessante a questo punto: la

redenzione, di fatto, sembra essere implicitamente già presente nell’atto

creativo66, dal momento che le creature tutte condividono quell’unico

Fine. Potremmo dire che condividendo un’unica causa formale e finale,

esse, al momento di venir chiamate all’essere, ricevono la salvezza incisa

indelebilmente nella loro natura. Una salvezza potenziale, da tradursi in

atto nei tempi e nei modi previsti dall’economia celeste della

Provvidenza divina. La stessa caduta di Adamo, in questo ordine di cose,

risulterebbe un incidente di percorso, grave, ma non tale da corrompere

64 Cfr. I Tessalonicesi 5,2. 65 … Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Egli ha il ventilabro nella sua mano e monderà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la pula con fuoco inestinguibile… (Matteo 3,11-12). Ecco viene, dice il Signore Sabaoth. Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore…(Malachia 3,2-3). 66 Cfr. Romani 4,17.

50

irrimediabilmente la natura umana, la quale, sebbene vittima e certo

responsabile di un deragliamento, non smarrisce i connotati e le finalità

positive con cui fu plasmata dal Creatore67. Il male, provocato per invidia

dall’angelo ribelle, è nient’altro che un parassita esterno alla natura,

destinato ad essere debellato da Dio; e, anzi, esso in effetti è già debellato

nel corpo del Cristo e in quanti compiono la loro unione col Risorto.

La patristica ortodossa è, come si è detto, piuttosto reticente e

restia ad identificare il regno di Dio con un luogo o un momento

definito, contrapposto al mondo cosiddetto profano o laico; questa

visione cosmica della redenzione si è sempre retta su equilibri delicati ed

è sempre stata strenuamente difesa, nella varie epoche, dalla tendenza

alla riduzione in forme adattate ad uso e consumo da parte di ideologie,

istituzioni, gruppi, individui o progetti particolari. Per limitarci alla

comunità storica dei credenti nel Cristo, è riscontrabile in certi contesti

culturali e politici la tendenza a rinchiudere l’orizzonte dello

sperimentabile entro mere strutture di pensiero e di culto, il cui controllo

viene riservato alle gerarchie.

Nella patristica orientale, come nel pensiero cristiano antico

originario, si ammette volentieri che l’adesione alla fede nel Cristo

risorto, insieme con l’ingresso nella comunità ufficiale dei credenti

67 Cfr. ROMANIDIS, J. Il peccato originale secondo san Paolo, in “St. Vladimir’s Seminary Quaterly” vol. IV, nn. 1-2, USA 1955-56; il testo non risulta reperibile in traduzione italiana, se non in una copia dattiloscritta, gentilmente concessaci dal sig. Pietro Chiaranz (Venezia 1999).

51

attraverso l’iniziazione sacramentale, la partecipazione ai suoi riti e al

suo culto facilitino particolarmente la possibilità di sperimentare

l’avvento del regno dei cieli, ma circoscrivere questo regno increato nei

confini creati della comunità visibile sarebbe parsa un’operazione errata

e pericolosa. Trasformare il punto di partenza in meta, il mezzo nel fine

equivale a sostituire il creato con l’increato, il regno dei cieli con un

regno terrestre, Dio con un uomo nei panni di mediatore, il Cristo risorto

con un improbabile vicario. Allo stesso modo il regno delle tenebre non

poteva essere semplicisticamente identificato con tutto ciò che è al di

fuori della chiesa, a meno di rinunciare in blocco alle posizioni fin qui

descritte. Un’opinione errata su queste cose- un cristianesimo eretico,

pertanto – risulterebbe più dannoso e pericoloso per il noùs umano, di

tutto il patrimonio filosofico antico pagano68.

Una cultura teologica del genere, piuttosto lontana dalle dottrine

maturate a medioevo inoltrato presso la cristianità occidentale, ha

conosciuto i suoi frutti in una lunga serie di avvenimenti, di scelte e di

situazioni, tra le quali la presenza di una moschea in Costantinopoli

durante la quarta crociata (1204) e la persuasione, diffusa presso la

maggioranza degli ortodossi poco prima della definitiva fine dell’impero

68 Interessante, a questo proposito, la nota teoria del Lògos Spermatikòs, secondo la quale il Verbo di Dio, prima dell’incarnazione, non si era rivolto esclusivamente al popolo d’Israele, ma aveva in qualche modo ispirato segretamente la cultura e la filosofia dei pagani (cfr. GIUSTINO MARTIRE, Apologia del cristianesimo, in PG 6, 327-440, BURINI, C.“Gli Apologeti Greci” Roma, Città Nuova, 1984).

52

romano d’oriente (1453), che fosse preferibile sottomettersi ad

un’egemonia politica del turbante piuttosto che della tiara.

53

IL RITO DELLA PROTESI O PROSCOMIDIA

Il continuo incremento degli studi sul cristianesimo orientale e la

loro progressiva settorializzazione, talora non sembra aver superato,

soprattutto in campo liturgico, gli schematismi dell’epoca precedente. La

sempre maggiore specializzazione tecnicista manifesta i suoi limiti

proprio là dove una conoscenza allargata di fonti e di contesti

permetterebbe nuove prospettive o addirittura la soluzione di problemi.

Lo studio della Divina Liturgia del rito cosiddetto bizantino ha

conosciuto notevoli progressi, ma in modo disomogeneo. Il rito della

“protesi”, che nella recensione attuale si trova all’inizio della

celebrazione, non trovando riscontro nel Ritus Missae Tridentinae è stato

considerato, a torto secondo quanto pensiamo, un’appendice secondaria,

sviluppo ridondante di un certo “barocco liturgico bizantino” da

attribuire ad un’epoca tarda. I primi studiosi ad occuparsene, entrambi

liturgisti di fede cattolica romana e preti uniati dell’abbazia cattolica-

bizantina di Grottaferrata, i religiosi Nilo Borgia e Marco Mandalà, non

dubitarono per un istante del presunto carattere intrusivo e pleonastico

di tale rituale e l’indirizzo attuale di molti loro epigoni non si è mai

distaccato da una tale linea. Gli studi su tale materia debbono ancora

moltissimo a quella convinzione astratta che vedeva nel rito romano la

perfezione del culto cristiano, il modello al quale uniformare o

ricondurre eventuali altri riti.

54

Dalla pubblicazione del minuzioso lavoro di p. Marco Mandalà, La

Protesi Della Liturgia Nel Rito Bizantino-Greco, nel lontano 1935, nessuno

ha più riaperto in modo significativo la questione e quanto è stato scritto

successivamente non si è mai distaccato da una tale linea.

Rimane, a mio avviso, assolutamente valido ed attuale lo schema di

lavoro proposto da Mandalà, che suddivide lo studio in tre fasi: storia

particolare del rito, simbologia e aspetto teologico. Ma è proprio sotto

l’aspetto storico che le conclusioni dei religiosi uniati e dei loro

continuatori potrebbero essere da ridiscutere, o almeno rivelarsi meno

fondate. Determinando la nostra questione, diciamo subito che il nostro

intento è di considerare la protesi della liturgia ortodossa nella sua

storia; considerazioni dogmatiche e simboliche, ovviamente, saranno

inevitabili, mentre ne osserveremo gli sviluppi attraverso i primi secoli in

cui ne abbiamo testimonianza. La lettura di una più vasta letteratura

religiosa del tardo antico può dare un contributo interessante, infatti,

non solo per la datazione della prima testimonianza certa che attesta

l’esistenza di un rituale chiamato Protesi o Proscomidia, ma anche

arricchire alcuni aspetti di natura teologica riguardanti il sacerdozio e il

culto cristiano tra il IV e l’VIII secolo. Una insufficiente conoscenza o una

scarsa valutazione di testi quali, per esempio, Il Prato di Giovanni Mosco,

prete e monaco palestinese, vissuto nella seconda metà del VI secolo,

potrebbe rivelarsi fatale per la materia in questione. Non si può ignorare,

ad esempio, che in questa opera il termine Proscomidia compare almeno

55

una decina di volte, sempre ed esclusivamente riferito ad atti espliciti di

culto cristiano, come vedremo in seguito.

Al di là dell’intento dimostrativo ci preme in ogni caso aggiungere

un elemento di complessità ad un problema risolto, secondo noi solo

apparentemente, negli anni Trenta del secolo scorso.

DESCRIZIONE DEL RITO DELLA PROTESI O PROSCOMIDIA

Considerando la difficoltà di trattare un oggetto ignoto anche alla

gran parte degli studiosi e degli storici, ci sia consentito fornire una

sommaria descrizione del rito della Protesi o Proscomidia, basandoci sulla

forma attuale, per altro non dissimile da quella che le fonti medievali,

come vedremo, ci testimoniano.

Tradizionalmente gli studiosi della materia utilizzano come testo

base di riferimento la recensione contenuta nell’ Eucologio di Benedetto

XIV ( Ed. Roma 1873 ). Le differenze con le altre recensioni sembrano del

tutto trascurabili e non riguardano né la struttura, né la collocazione del

segmento liturgico stesso nell’economia generale dell’atto di culto.

Aprendo dunque l’Eucologio di Benedetto XIV, per ciò che riguarda

la Protesi, notiamo la presenza fin dall’inizio del sacerdote e del diacono,

56

i quali, rivestiti delle vesti liturgiche69, si accingono alla preparazione

della materia del rito, pane e vino.

Non crediamo superfluo sottolineare, a questo punto, che il pane

da offrire per il culto eucaristico in genere, anche presso gli altri riti, non

è e non fu mai azzimo. La questione non ha mai mancato di suscitare

irritazione in coloro non vedono differenze fra pane lievitato e pane

azzimo. Nei primi secoli della Chiesa, invece, la differenza era nota: la

Pasqua ebraica si celebra con gli azzimi, quella cristiana con il pane

lievitato, l’àrtos di cui parlano i Vangeli e che è oggetto di riflessione

teologica approfondita di molti Padri della Chiesa70.

Per voi, infatti, è conveniente e vantaggioso che mangiate una pasqua

nuova; vi offro da mangiare un fermento, gettate via l’azzimo; vi offro il calice

della vita, rifuggite un calice di fiele. In questa pasqua antica voi vedete una

pasqua nuova, voi riportate una speranza nuova da trasmettere in eterno. D’ora

in poi mangerete una pasqua monda e pura; un pane, cioè un fermento perfetto

69 Accenniamo brevemente al fatto che l’ingresso nel santuario e la vestizione dei ministri del culto, presbitero e diacono, costituisce un segmento liturgico non trascurabile. Preghiere, benedizioni, inchini profondi e appropriati versetti delle Scritture accompagnano la vestizione di ogni singolo indumento sia diaconale, sia sacerdotale. 70 Non può passare inosservato il fatto che là dove viene istituita la pasqua ebraica (Es 12,15.18.33) viene usata l’espressione azzimi, non pani azzimi, mentre nei Vangeli dell’ultima cena si parla di àrtos, senza specificazioni, pane comune. Considerando inoltre che in 1 Cor 5,7 in riferimento agli usi giudaici si parla di azzimi e non di pani azzimi, ci risulta difficile capire la perentorietà del Rigetti quando afferma che il Cristo usò sicuramente del pane azzimo (cfr RIGHETTI, Op. Cit. vol. 3, p. 582). Come s’è visto la Scrittura non confonde i termini e non utilizza il termine àrtos, pane, come un termine generico; l’àrtos è pane comune, lievitato. Probabilmente non vide o non volle vedere ciò che invece era chiaro fin dall’era apostolica.

57

che lo Spirito Santo ha impastato e cotto, cioè il corpo e sangue di Dio che si fa

vittima per voi…71

Gesù all’inizio prese nelle sue mani un pane comune, lo benedisse, lo

segnò e lo santificò nel nome del Padre e nel nome dello Spirito Santo… chiamò

pane il suo corpo vivo e lo riempì di se stesso e dello Spirito…72

L’autore citato, Efrem il Siro ( 306-373 circa )73, diacono di Edessa e

monaco, oltre a essere considerato il più significativo rappresentante

71 Efrem il Siro, Sermoni nella Settimana Santa 2,10; in T.J. LAMY, Sancti Eprhaem syri hymni et sermones, 384-386.390 , Paris 1882-1890. 72 Ibidem, Sermo 4,4 73 Efrem (Afrem) nacque a Nisibi (Mesopotamia) o nei dintorni verso l’anno 306. Le fonti biografiche degne di fede non sono molte. La Vita Syriaca, pervenuta in tre recensioni assai diverse tra loro, non sembra molto attendibile, mentre le testimonianze di Gerolamo (De Viris ill., 115, PL 23,746-7), di Sozomeno (Historia Ecclesiastica, III, 16, PG 67, 1085-93), di Teodoreto (Historia Ecclesiastica, IV, 26; PG 82, 1189) e della Historia Lausiaca (cap. XL: ed. BUTLER C., II, Cambridge 1904, pp. 126-7) vanno comunque lette con cautela. Nelle opere sicuramente autentiche ritroviamo di tanto in tanto brevi cenni autobiografici, in ogni caso insufficienti a ricostruire con certezza una biografia completa dell’autore. Si sa con certezza che nacque da una famiglia cristiana (Contra Haereses XXVI,10) e che la sua educazione fu influenzata dal vescovo di Nisibi Giacomo (303-338), un asceta di cui Efrem tesse più volte le lodi esprimendosi con affetto filiale. Al tempo del vescovo Vologeses (346-361) Efrem è già conosciuto e stimato come maestro spirituale. Nel 361 viene scelto come consigliere dal nuovo vescovo di Nisibi, Abraham. Fu testimone oculare delle onoranze funebri dell’imperatore Giuliano l’Apostata davanti alle mura della città e vide pure la bandiera persiana sulle torri di Nisibi. Quando l’imperatore Gioviniano fu costretto a cedere la città ai persiani, Efrem, con molti altri cristiani si trasferì a Edessa, dove contribuì alla fondazione della celebre scuola detta dei Persiani. A Edessa continuò la sua opera di maestro, predicatore, scrittore, innografo, consigliere di vescovi e difensore dell’ortodossia. La sua ordinazione diaconale dovrebbe risalire agli ani trascorsi a Nisibi. Morì probabilmente il 9 giugno 373 a Edessa. Non abbiamo prove che confermino le notizie che la vasta agiografia sul suo conto ci fornisce a proposito di un suo soggiorno nei monasteri d’Egitto o della sua partecipazione al concilio di Nicea o del suo incontro con Basilio di Cesarea. L’opera a lui attribuita è vastissima; gli scritti considerati autentici sono numerosissimi e furono presto tradotti in armeno, greco, georgiano, copto, slavo, arabo e latino. E. Beck e L. Leloir si sono dati molto da fare per mettere ordine nell’imponente letteratura che passa sotto

58

della patristica siriana, è universalmente riconosciuto come un anello

insostituibile nella tradizione di un giudeo-cristianesimo sviluppatosi ai

confini orientali dell’impero romano, discretamente lontano da influssi

ellenisti74.

Decisamente antecedente è la descrizione della sinassi liturgica

riportata negli scritti del martire Giustino ( +165 circa ) e meno generica

di quanto sembrerebbe ad una lettura convenzionale. L’Apologista

utilizza per indicare la materia dell’offerta, il termine evangelico àrtos,

che nelle Scritture, sia del Vecchio, sia del nuovo Testamento, è tutt’altro

che generico e non indica mai l’azzimo; là dove si intende il pane

azzimo, la Settanta scrive semplicemente azymon75.

il suo nome. Il pensiero di Efrem, come universalmente è riconosciuto, è di radice schiettamente semitica, sicuramente influenzata da ambienti giudaico-rabbinici. Sebbene possa riscontrarsi una certa conoscenza del pensiero filosofico sincretista greco contemporaneo, tuttavia la sua dottrina è priva di influssi determinanti provenienti da quella direzione. Nell’angelologia si trova anche un influsso dell’ambito iraniano-persiano. Gran parte della sua opera è composta in metrica, se non si tratta proprio di inni ad uso liturgico. Queste composizioni hanno l’aspetto di omelie in versi e sono spesso rivolte alla trattazione di problemi dogmatici in polemica decisa contro gli eretici e gli ebrei. Anche se la tradizione lo considera anacoreta e padre del monachesimo siriaco, non sembra che Efrem abia praticato veramente un’anacoresi estrema. Come si comprende dal suo profilo biografico, egli visse molto intensamente le vicende del cristianesimo dei suoi tempi e gli incarichi ecclesiastici che accettò al fianco dei vescovi escludono la possibiltà di prolungati soggiorni nella solitudine del deserto. Nei suoi scritti sulla vita monastica si ritrova una terminologia comune a quella di Afraate insieme con diversi riferimenti all’istituzione dei figli del patto, che occupano una posizione di rilievo all’interno della vita della Chiesa siriaca del IV secolo. Sempre nei suoi scritti troviamo notizie riguerdanti l’eremitismo che iniziava a fiorire allora in Siria; Efrem elogia più volte l’ideale eremitico, ritenendolo il cuore dell’esperienza ecclesiale. Nel calendario ortodosso Efrem è commemorato il 28 gennaio. 74 Cfr F. RILLIET, in DPAC, s.v. Efrem Siro, op. cit., p.1104 75 GIUSTINO, Apologia 1,65-67.

59

Efrem il Siro si dimostra inequivocabilmente esplicito nel sesto

inno dedicato agli azzimi:

Il Signore ha mangiato la pasqua con i suoi discepoli; con il pane che ha

spezzato ha abolito gli azzimi. Il suo pane che vivifica ogni cosa, ha vivificato i

popoli; il pane (artos) ha sostituito gli azzimi: tutti quelli che li hanno mangiati

sono morti. La Chiesa ci ha dato il pane (artos) vivo, al posto degli azzimi che

aveva dato l’Egitto76.

Non c’è dubbio che la fine della Vecchia Alleanza e del suo culto

sia associata e persino identificata nella novità del rito dell’ultima cena,

quando, al posto dell’azymon previsto dalla legge mosaica il Cristo

sollevò e benedisse un artos77, indicandolo come il proprio corpo.

L’abolizione del culto giudaico assume un significato letterale e

definitivo nella considerazione del cristianesimo dei primi secoli, che

vedeva senza ombra di dubbio in Gesù di Nazaret l’autore e perfezionatore

della legge78. Autore essendo apparso quale àsarkos Lògos, Verbo pre-

incarnato, sul monte Sinai per consegnare la legge al profeta Mosè79;

perfezionatore come ènsarkos Lògos, Verbo incarnato, Dio fatto uomo, che

76 EFREM SIRO, Inni degli Azzimi, 6, 4-6; in LAMY, 592ss. 77 Cfr. Mt 26, 26; Mc 14, 22; Lc 22, 19. 78 Eb 12, 2. 79 Oggi Simeone accoglie fra le braccia il Signore della gloria, che un tempo Mosè vide nascosto nella caligine, quando sul monte Sinai gli diede le tavole della legge. Questi è colui che parla nei profeti, questi è l’autore della legge; questi è colui che Davide annuncia, tremendo per tutti, colui che possiede la grande e ricca misericordia. (GERMANO DI COSTANTINOPOLI, Aposticon 4, Vespro del 4 febbraio; in Mineo di febbraio, Ed. Fos, Atene, 1995, p. 32. L’autore è il patriarca Germano di Costantinopoli, vissuto tra VII e VIII secolo).

60

abolisce una legge precedentemente da lui promulgata instaurando un

nuovo e definitivo regime. La cessazione della legge giudaica e del suo

culto, ovviamente, non si traduceva in un dato di fatto storico, vista la

permanenza e la contemporaneità della Sinagoga. L’insistenza

sull’argomento da parte di Efrem il Siro prova piuttosto con molta

probabilità l’esistenza di rapporti e scambi tra le due comunità religiose e

senz’altro il confronto e la disputa assumeva toni di accesa polemica da

ambo le parti.

Il pane azzimo è figura del pane della vita… Mosè ha rivelato il mistero

che rinnova ogni cosa, lo ha dato ai golosi che hanno desiderato le carni80…

Fratelli, non mangiamo con il farmaco della vita gli azzimi del popolo, che

sono farmaco di morte. Il sangue di Cristo si è mescolato, infatti, con gli azzimi

del popolo e alla nostra oblazione. Chi lo riceve con la nostra oblazione, riceve il

farmaco della vita. Chi invece lo mangia con il popolo (giudaico), riceve il

farmaco della morte81.

Il ritornello che intercala le strofe di quest’ultimo inno riassume il

concetto, rendendolo memorizzabile:

Gloria a Cristo che per mezzo del suo corpo ha abolito gli azzimi del

popolo con lo stesso popolo.

80 EFREM SIRO, Inno 17, 5-6; LAMY, 618. 81 Ibidem, Inno 19, 22-24; LAMY, 626-628

61

La distruzione del tempio di Gerusalemme, unico luogo di culto

giudaico possibile, sicuramente confortava questa certezza.

Cirillo di Gerusalemme (IV secolo) osserva come nel culto del

tempio di Gerusalemme erano previsti dei pani lievitati tra le varie

offerte prescritte dalla legge mosaica82, ma proprio perché collegati con la

liturgia dell’Antico Testamento sono scomparsi insieme con la sua

abolizione.

C’erano anche nell’Antico Testamento i pani della protesi (àrtoi

prothèseos): ma essendo quelli dell’Antico Testamento sono terminati83.

Le testimonianze occidentali più antiche confermano

esplicitamente questa linea. Scrive Tertulliano ad una giovane cristiana:

Non sciet maritus tuus quid secreto ante omnem cibum gustes. Et si

sciverit panem, non illum credet esse, qui dicitur84.

Se il pane eucaristico fosse stato differente dall’usuale forse il

marito pagano avrebbe potuto distinguerlo. Ambrogio di Milano nel De

Sacramentis risponde alla possibile obiezione: “è il mio solito pane”.

Tu forte dicis: meus panis est usitatus. Sed panis iste panis est ante verba

sacramentorum; ubi accesserit consecratio, de pane fit caro Christi85.

82 Cfr Nm 4, 7; 8, 2. 83 CIRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi Mistagogiche, 4, 5, in PG 33, 1099. 84 TERTULLIANO, Ad Uxorem, 2, 5, in PL 1, 1296. 85 AMBROGIO, De Sacramentis, 4, IV, 14, in PL 16, 439-440.

62

Ancora al tempo di Gregorio Magno era in uso il pane fermentato,

perché solo così si spiega l’episodio di quella donna che rise

scetticamente vedendosi porgere nella Comunione quello stesso pane

che il giorno prima aveva cotto in casa e offerto poco prima della Messa86.

Nella protesi ortodossa è invalso dall’antichità l’uso di imprimere

dei simboli sul pane liturgico mediante un apposito timbro. Gli affreschi

più antichi delle catacombe romane raffigurano di solito il pane

eucaristico in forma di pagnottella circolare, con un taglio a forma di

croce nella parte superiore. Già negli Atti gnostici di Tommaso (III

secolo) si dice che Cristo segnò con una croce il pane da lui consacrato

nell’ultima cena87. Un uso protocristiano? Uno degli stampi liturgici più

antichi risale sicuramente al VI secolo ed è stato rinvenuto a Cartagine: si

tratta di un oggetto rotondo recante l’iscrizione: Hic est flos campi et

lilium88. Non è affatto un reperto isolato, anzi: datato sempre al VI secolo

è lo stampo di Djebeniana, riportato nel terzo volume della Storia

Liturgica del Righetti89.

Si deve attendere l’epoca carolingia per assistere alla novità

dell’uso di pane azzimo nella liturgia.

86 Cfr GIOVANNI DIACONO, Vita Gregorii Magni 2,41, in PL 75, 103. 87 Cfr QUASTEN, Monumenta, p.344. 88 LECLERCQ, in Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et de Liturgie, art. Fer à hosties, c.1347. 89 RIGHETTI, Storia Liturgica, vol.3, p.585, ed. Ancora, Milano rist. del 1998.

63

Panis, qui in corpus Christi conecratur, absque fermento ullius alterius

confectionis, debet esse mundissimus90.

L’innovazione della chiesa franca aveva un antecedente: Epifanio

(+402) ci ha lasciato la notizia di alcune comunità giudaizzanti, esistenti

al suo tempo, delle quali segnala l’uso di celebrare la sinassi eucaristica

con acqua e pane azzimo91. Ma l’abolizione del vino dalla liturgia esclude

l’appartenenza di tale comunità al corpo ecclesiale, essendo tratto

distintivo di quei circoli gnostici della tarda antichità, passati alla storia

con l’appellativo singolare di Aquariani92.

Il vino, come elemento liturgico essenziale ed imprescindibile, ha

avuto meno vicissitudini. Nullo cum vino multum albo celebret, dichiara nel

1387 un sinodo di Benevento, si possit in loco rubrum reperiri et comode

inveniri, cum magis vinum rubrum quam album sanguini conformetur. La

proibizione probabilmente testimonia il progressivo diffondersi in

occidente dell’uso del vino bianco, meno adatto a fornire l’aspetto

materiale del sangue di Cristo.

90 ALCUINO, Epistola 15; PL 100, 289. L’epistola è del 798, Negli studi occidentali vi è una facile confusione a proposito del termine ostia (dal latino: hostia), che nel linguaggio comune indica la tradizionale particola di pane azzimo. Nei padri latini il termine è invece utilizzato per indicare un pane che come si è visto è fermentato e quindi la soluzione migliore è di rispettare il significato classico del termine: offerta, sacrificio, vittima sacrificale, oblazione, che ha il suo equivalente greco tradizionale: pròsfora. L’equivoco, non si sa fino a che punto involontario su questo termine, domina tutt’oggi le traduzioni in italiano delle omelie dei Padri latini, qualche volta coinvolgendo gli stessi Padri greci. 91 EPIFANIO, Haeres: 30, 16, in PG 41, 432. 92 Cfr RIGHETTI, op. cit. , vol. 3 p. 587.

64

E’ presente anche dell’acqua, almeno fin dai tempi del martire

Giustino, come si evince dalla Apologia I: …Viene presentato a colui che

presiede del pane e una coppa d’acqua e di vino annacquato…93.

Presbitero e diacono, dunque, si accostano al tavolo della Protesi,

sul quale sono disposti il pane, il vino e l’acqua e, dopo tre profondi

inchini94 iniziano l’offerta. Il sacerdote, preso un coltello a forma di

93 GIUSTINO, Apologia I, 65. Cfr anche: IRENEO, Contra Haereses, V. 2, 3. Anche se i Vangeli non menzionano esplicitamente l’acqua a proposito del calice sollevato e consacrato da Cristo nell’ultima cena, tuttavia in tutti i riti e in tutte le epoche si hanno testimonianze del suo utilizzo liturgico. Paradossalmente l’unico dei tre elementi a non essere menzionato dalle fonti evangeliche, è anche l’unico a non aver mai suscitato divergenze o interpretazioni differenti. 94 Gli inchini profondi consistono in un segno di croce che viene concluso abbassando fino a terra la mano destra e rialzandola si ripete il segno di croce. Nel compiere questo gesto di riverenza è prescritta la preghiera del pubblicano: O Dio, sii propizio a me peccatore ed abbi pietà di me (Lc18,13). Nei testi liturgici ortodossi questo atto di riverenza viene denominato piccola metànoia; la grande metànoia, invece consiste in una prostrazione di tutto il corpo fino a toccare terra con la fronte, preceduta e seguita sempre dal segno di croce. Il termine metànoia proviene, com’è noto, dai vangeli: In quei giorni venne Giovanni Battista a predicare nel deserto della Giudea, dicendo: Convertitevi (metanoeìte)… (Mt 3,1-2)… Gesù venne in Galilea predicando il vangelo del regno di Dio. Egli diceva: … convertitevi (metanoeìte)… (Mc 1, 14-15). Questo tipo di mentalità religiosa, infatti, non separa l’anima dal corpo nelle attività spirituali; pertanto, se ad un cambiamento dello spirito (noùs) verso l’umiltà è naturale far corrispondere un atto di umiltà anche del corpo. L’applicazione in termini fisici di questi precetti evangelici di umiltà e conversione non sorprenderà quanti hanno confidenza con le fonti ascetiche bizantine, a partire dagli Apoftegmi, nei quali abbiamo notizia di un modo di pregare che oggi a torto si ritiene tipicamente islamico. E’ ancora assai poco noto, inoltre, il fatto che le stesse fonti latine tardo antiche ad alto medievali riportano le stesse usanze. Cesario d’Arles, per esempio, sostiene che la recita di un salmo non è completa se non segue la prostrazione accompagnata da preghiera silenziosa (Sermo 76,1 in Corpus Christianorum, series latina 103-104); una preghiera, sottolinea Cesario, da effondere a ginocchia abbassate, capo chino e con i sentimenti del pubblicano della parabole evangelica. Ancora più sorprendente è la testimonianza che si può reperire nelle fonti caroligie: Dovunque risuoni il Gloria alla Santa Trinità, nell’oratorio come in qualsiasi altro luogo, i monaci se sono in piedi si prostrano a terra per il tempo di dire “Santa Trinità”; se al contrario sono seduti, alzandosi rendono gloria alla Santa Trinità stando in piedi e chinando il capo (Commenti agli Atti Preliminari Del Primo Sinodo Di Aquisgrana, Ossia Statuti

65

piccola lancia incide un cubetto di pane in onore e memoria del Signore

nostro Gesù Cristo; ogni volta che affonda la lama ai quattro lati recita una

frase delle Scritture; per il lato destro usa questa formula: Come pecora fu

condotto al macello95. Per il lato sinistro dice: Come agnello senza macchia

muto cavanti al tosatore, così egli non aprì la sua bocca96. Per il lato superiore:

Nella sua umiliazione è stato esaltato il suo giudizio97. Infine per il lato

inferiore: Chi narrerà la sua generazione?98. Il diacono assiste ripetendo ad

ogni incisione: Preghiamo il Signore; dopo l’ultima incisione invita il

presbitero a sollevare l’amnòs; il sacerdote, affondando profondamente

nella parte inferiore del pane la lancetta, estrae l’amnòs dicendo : Poiché

viene tolta dalla terra la sua vita99. Tolto in questo modo un cubetto di pane,

denominato amnòs, agnello, il Sacerdote lo depone al centro del

diskarion100. Il diacono a questo punto dice: Immòla, signore (dèspota)101; ed il

Murbacensi, in ANDENNA G. BONETTI C., Benedetto di Aniane. Vita e Riforma Monastica, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano, 1993. 95 Is 53,7 96 Ib. 97 Is 53,8 98 Ib. 99 Ib. 100 Si tratta di un vassoio generalmente metallico di forma piatta con il bordo leggermente rialzato. Corrisponde alla patena del rito latino. 101 Con tale espressione, dèspota, il diacono si rivolge al celebrante principale. Riteniamo indispensabile a questo punto precisare la differenza tra Kyrios e dèspota; Kyrios nei testi liturgici viene riservato alla divinità; dèspota viene invece utilizzato nell’innogafia e nelle orazioni come sinonimo di Kyrios e spesso lo accompagna senza sostituirlo; se riferito alla divinità, infatti, dèspota è normalmente seguito o preceduto da Kyrios, mentre quando è solo è riferito ad autorità umane. Nel caso di queste rubriche liturgiche è da intendersi rivolto al celebrante principale, più il vescovo che il presbitero, comunque. Queste formule dunque potrebbero risalire a quell’epoca remota in cui la liturgia era celebrata dal vescovo attorniato eventualmente dai suoi

66

presbitero, sempre con la lancetta, incide una croce nell’amnòs dicendo:

Viene immolato l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo per la vita e la

salvezza del mondo102. Il diacono continua: Trafiggi, signore. Allora il

sacerdote trafigge nel lato destro l’amnòs dicendo: Uno dei soldati con la

lancia gli trafisse il costato: e subito ne uscì sangue ed acqua. Ne dà

testimonianza chi ha visto e la sua testimonianza è vera103. Nel frattempo il

diacono versa nell’àghion potìrion, nel calice, vino ed acqua, che vengono

immediatamente benedetti dal sacerdote in questo modo: Benedetta

l’unione dei tuoi santi doni, in ogni tempo, ora e sempre e nei secoli dei secoli.

Amin. Il presbitero continua ad estrarre particole di pane con

quest’ordine: una di forma triangolare in onore e memoria della più che

benedetta, gloriosa,sovrana nostra, la Madre di Dio e sempre vergine Maria, che

viene collocata sul discàrion alla destra del cubetto denominato amnòs.

Nel compiere quest’azione il sacerdote recita un versetto del salmo 44,

tradizionalmente considerato una profezia mariana: Sta la regina alla tua

destra, avvolta in abito dorato, variamente adornato. L’operazione prosegue

staccando altre nove particole, più piccole, che vengono disposte alla

sinistra dell’amnòs in tre serie, commemorando Angeli e Arcangeli,

Profeti e Patriarchi, Apostoli ed Evangelisti; Gerarchi e Dottori della

presbiteri oppure potrebbe trattarsi dell’estensione di un formulario originariamente archieratico o episcopale. Dall’epoca di Costantino ai vescovi cristiani viene attribuita la facoltà di indossare la porpora e la corona imperiale; questo potrebbe spiegare l’uso di un termine come dèspota, dal sapore meno religioso che giuridico o politico. 102 Cfr Gv 1,29. 103 Gv 19,34s.

67

Chiesa, Martiri , Monaci e Asceti; Anàrgiri104 e Taumaturghi, gli antenati

di Cristo Gioacchino ed Anna insieme col Santo del giorno e col patrono

della Chiesa in cui si celebra, e in ultimo san Giovanni Crisostomo.

Subito dopo viene commemorato il vescovo del territorio,

staccando una particella che viene collocata al di sotto dell’amnòs. Dopo

il vescovo si staccano particelle minuscole commemorando quanti hanno

chiesto il ricordo nella liturgia per tutte le necessità. Vengono ricordati

anche i defunti. Anche il diacono ha la facoltà di staccare particelle di

pane e di commemorare vivi e defunti. Per ultimo il sacerdote deposita

un frammento di pane per se stesso.

Terminate le commemorazioni il presbitero depone sul discàrion

l’asterìscos, un oggetto formato da due lame di metallo ricurve, che,

incrociandosi, formano un semicerchio: al loro punto di incrocio è incisa

una stellina; anche questa azione è accompagnata da una citazione delle

Scritture: Venne la stella e si fermò sopra il luogo dove era il bambino105. Il

discàrion, sovrastato così dall’asterìscon, viene ricoperto con un velo,

senza che questo venga a contatto con l’amnòs e le altre particelle di pane.

Il sacerdote, coprendo il discàrion recita il versetto: Il Signore regna, si è

rivestito di splendore; il Signore si è rivestito di potenza e se ne è cinto106. E

104 Anàrgiri sono definiti quei santi medici cristiani che, secondo l’agiografia tradizionale, curavano gratuitamente i poveri non senza concorso di facoltà taumaturgiche: i santi Cosma e Damiano, Ciro e Giovanni e Pantaleimon, a loro volta martirizzati. 105 Mt 2,9. 106 Sal 92,1.

68

mentre ricopre il calice con un velo identico dice: La tua virtù ha ricoperto i

cieli, o Cristo, e della tua lode è piena la terra107. Un ultimo velo, di maggiori

dimensioni, denominato aìr (aria) ricopre sia il discàrion, sia il potìrion,

mentre l’operazione è accompagnata dal versetto del salmo 16: Riparaci al

riparo delle tue ali, seguito da un ampliamento sullo stesso tema, nel quale

si chiede l’allontanamento di ogni pericolo e avversario e la salvezza

universale.

Dopo aver incensato, il sacerdote recita la preghiera della protesi:

O Dio, Dio nostro, che hai inviato il pane celeste, il cibo di tutto il mondo,

il Salvatore e dio nostro Gesù Cristo quale salvatore, liberatore e benefattore per

benedirci e santificarci: tu stesso benedici e santifica questa offerta e ricevila sul

tuo santo altare iperuranio. Ricordati, tu che sei buono e amico degli uomini, di

quelli che l’hanno offerta e di quelli per i quali l’hanno offerta. E custodiscici

senza condanna nel sacro servizio dei tuoi misteri. Poiché è santificato e

glorificato il venerabilissimo e magnifico tuo nome, Padre, Figlio e Spirito santo,

ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amin.108

107 Ab 3,3. 108 L’offerta del pane liturgico da parte dei fedeli è universalmente attestata in tutte le epoche e in tutti i riti. In occidente scompare all’epoca dell’innovazione dell’azzimo, quando cioè l’ostia cessa di essere una tradizionale pròsfora lievitata e assume la forma attuale che ha nel rito latino. Ireneo di Lione scriveva alla fine del II secolo che dovere del cristiano era quello di compiere offerte ed oblazioni a Dio e prima fra tutte le oblazioni era l’Eucaristia (Adveresus Haereses IV, 17, 6; 18, 8; IV, 11, 1). Tertulliano ad un cristiano risposato che vuole suffragare la propria moglie osservava polemicamente: Pro qua oblationes annuas reddis, stabis ergo ad Dominum cum tot uxoribus, quot in oratione commemores? Et offerse pro duabus, et commendabis illas duas per sacerdotem? (De Exhortatione Castitatis, 11; cfr anche De Monogamia, 10). Qui l’oblatio pro mortuis significa chiaramente l’offerta del pane e del vino fatta dal vedovo

69

Al termine di questa orazione, che conclude il segmento liturgico

della Pròtesi o Proscomidìa il diacono incensa la santa mensa eucaristica, il

tavolo della protesi con quanto vi sta sopra e il resto della Chiesa.

E’ evidente l’aspetto immolatorio di un tale rituale, la cui

articolazione ricorda, senza nemmeno troppo sforzo, l’immolazione

cruenta degli olocausti nel tempio di Gerusalemme. Gesù, definito nel

Vangelo l’agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo109

sostituisce una volta per sempre gli innumerevoli olocausti offerti dai

leviti per la remissione dei peccati. Il pane raffigura il suo corpo,

immolato volontariamente in olocausto; il recupero di un rituale

immolatorio, ripetuto nell’offerta del pane eucaristico sembrerebbe un

risposato. A Roma la Traditio Apostolica (N. 20) prescrive ai battezzandi una oblazione... propter Eucharistiam. Decet enim ut quis dignus effectus est, offerta oblationem eadem hora. Gli Atti di Pietro (200-225) mostrano i fedeli che pregano con san Paolo oblationem offerentes ( LIPSIUS-BONNET, Acta Apostolica Apocrypha, II,46). Cipriano di Cartagine (+258) rimprovera una donna ricca e avara che viene alla liturgia a mani vuote: Tu vieni al rito del Signore senza il pane del sacrificio, ma poi ardisci ricevere una parte del pane sacrificato, offerto dal povero (De Opere et Elemosina, XV). Il sinodo di Elvira, in Spagna codifica formalmente l’antica prassi; il canone 28 specifica che non può ricevere, né offrire l’Eucaristia chi non è in comunione con la Chiesa. L’accettazione e l’atto di portarla all’altare con la relativa recita del nome dell’offerente è un atto pubblico, segno di appartenenza alla comunità. Solo gli epilettici e gli ossessi sono esclusi da quello che in Spagna è un obbligo per il credente (canone 29). Ancora a Nicea (325) l’offerta del pane è preclusa ai penitenti per tutto il tempo della loro penitenza. A Milano ne erano dispensati anche i neofiti, per il primo periodo (AMBROGIO, Exspositio Super Ps. 118, prologus). Nei secoli IV e V questa pratica è attestata in tutta la cristianità; abbondano le testimonianze a Roma, a Milano e presso le chiese d’Africa. Le Chiese d’oriente non hanno abbandonato tale prassi apostolica, mentre, illustre eccezione fra i riti occidentali, il rito ispano-visigoto, denominato mozarabico, praticato nella cattedrale di Toledo e in pochissime altre chiese iberiche ha conservato l’uso del pane fermentato e la consuetudine della sua confezione e offerta da parte dei fedeli. 109 Gv 1,36.

70

memoriale del sacrificio della croce, attraverso l’esplicito richiamo agli

olocausti legali, figura e profezia dell’unico olocausto eterno, compiuto

nella morte e risurrezione di Cristo. Il significato mistico e teologico degli

avvenimenti storici, narrati nei Vangeli avrebbe in questo caso una

efficacissima icona nel rito della Protesi ortodossa.

Non può non colpire lo svolgimento del rituale: ogni oggetto ed

ogni singola azione è accompagnata da una appropriata profezia

dell’Antico Testamento o da una citazione dai Vangeli della Passione,

non come semplici didascalie, ma come il manifestarsi e realizzarsi

storico di un disegno divino eterno. Le profezie sono compiute anche nel

particolare. Isaia110, in questo caso, vide la passione del Cristo in una

visione profetica e la descrisse, come venne spiegato dal diacono Filippo

all’eunuco della regina d’Etiopia111.

Viene da chiedersi quando compare per la prima volta la Protesi

nelle fonti liturgiche e storiche, o quando assume questo aspetto così

articolato e ricco? Si tratta di una evoluzione, della complicazione di un

rito più semplice? Il cerimoniale e l’apparato che l’accompagna sono

sempre stati quali li conosciamo noi oggi?

110 L’attribuzione del libro di Isaia al profeta Isaia stesso è in massima parte accettata dagli studiosi biblisti, anche se sembrano autentici solo i primi quaranta capitoli. I capitoli 40-55 non sembrano risalire all’VIII secolo, ma almeno a due secoli dopo e vengono attribuiti ad un anonimo continuatore di Isaia, denominato Deutero-Isaia o Secondo-Isaia. Così le profezie del capitolo 52, utilizzate per la preparazione del pane eucaristico, fanno parte del materiale attribuito al Deutero-Isaia. 111 At 8,26-40.

71

FONTI DELLA PROSCOMIDIA O PROTESI

Il lavoro classificatorio delle fonti è già stato in gran parte

compiuto dal Mandalà, ma per utilità e comodità mi permetto di

riassumerlo anche in questa sede, vista la difficoltà di reperire l’opera

persino nelle biblioteche scientifiche. Mandalà aveva a disposizione

l’archivio criptense e comunque ammise di essere in debito nei confronti

delle ricerche eseguite dal p. Placido de Meester112.

1. FONTI LITURGICHE

Secolo IV.

Costituzioni Apostoliche. Si tratta di una raccolta varia di formule e

testi liturgici; particolarmente importante, per il nostro studio, risulta

essere il libro VIII, nel quale è riportata la cosiddetta liturgia Clementina,

uno dei documenti più autorevoli, anche se non si hanno conferme sulla

sua ufficialità113. E’ stata riscontrata una particolare analogia fra il testo

clementino e la liturgia di san Basilio ed è stato oggetto di studio

l’influsso che essa esercitò sul rito costantinopolitana del V secolo114.

112 P. DE MEESTER O.S.B., Les Origines et les développements du texte grec de la liturgie de S.J: Chrysostome. Crysostomikà, pp. 245-357. 113 F.E. BRIGHTMAN, Liturgies eastern and western, vol. I: Eastern liturgies. Oxford, 1896, p. XVII. 114 MANDALA’, Op. Cit. p. 20.

72

Secolo VIII.

Codice Barberiniano Greco 336. Uno dei primi e più significativi

documenti liturgici, un ricco eucologio custodito nella biblioteca

Vaticana. Il rito della protesi compare in una forma essenziale.

Secolo IX-X: Codice Criptense Gamma. B. VII: comprende tre eucologi.

Codice Criptense Gamma. B. XXIX: una miscellanea di ecologi.

Codice Porfiriano: è conservato nella biblioteca imperiale di San

Pietroburgo.

Secolo X.

Codice Sinaitico n. 958: è riportato dal Dmitrievskj nel secondo

volume dei suoi Euchologia.

Codice Sebastianov: la protesi è ridotta notevolmente.

Codice Vaticano Greco 2282: contiene la liturgia antiochena.

Secolo XI.

Codici Criptensi Gamma. B. II e B. IV.

Secolo XII.

Codice Vaticano Greco 1970: il celebre codice di Rossano,

comprendente anche la descrizione della liturgia di San Pietro. Riporta

gli usi della Magna Grecia e si avvicina molto ai testi più antichi.

73

Codice Vaticano Greco 1973: benché si tratti di un manoscritto

mutilo, esso tuttavia riporta una parte significativa del rituale della

Protesi. Le commemorazioni sono abbastanza estese.

Codice Criptense Gamma. B. VIII: i formulari per la protesi sono

addirittura due, uno in tutto simile all’attuale, l’altro addirittura di tipo

epicletico, secondo le valutazioni dello stesso Mandalà.

Codice Sinaitico n. 973: questo documento risulta essere un unicum,

per l’epoca, dal momento che riporta la sola preghiera finale della Protesi.

Bodl. MS. Auct. E. 5.13, ff. 6 sq : questo manoscritto proviene dal

monastero del Santissimo Salvatore di Messina115

Secolo XIII.

Codice Barberini Greco 428. Un documento legato a singolari

circostanze storiche: l’applicazione dei dettami del concilio di Trento a

scapito delle ultime tracce d’ortodossia nell’Italia meridionale; tutti i testi

liturgici di “altri riti” venivano confiscati dall’Inquisizione e tradotti a

Roma, per correggerne eventuali errori dogmatici e liturgici. Il

manoscritto riporta infatti un’annotazione in cui si dichiara che fu

mandato a Roma da “ Mons. Rev.mo di Rhegghio al sig. Card. Di S.

Severina et revisto per ordine della Congregazione dei Greci come

consta per una lettera di sua Signoria Ill.ma alli 8 di Agosto 1597”. Il fatto

115 Cfr BRIGHTMAN, Op. Cit. , p. 543.

74

che si trova ancora a Roma e che non tornò mai a “Rhegghio” dimostra

quali erano gli scopi reali di una tale “revisione”116.

Codice Reginense Greco 66: è conservato nella Vaticana; da alcuni

elementi taluni lo ritengono del XIII o XIV secolo. Il suo arrivo a Roma è

probabilmente collegato con le circostanze storiche cui abbiamo

accennato sopra.

Secolo XIII.

Codice Criptense Gamma. B. XII: si tratta di un’edizione di materiale

esclusivamente liturgico, cioè usato solo nel rito eucaristico.

Manoscritto Bodl. Cromw. II, ff. 22 sq. : il presente manoscritto riporta

la datazione A.D. 1215 ed è riportato dal Brightman117.

Codice Patmense n. 719: Contiene una recensione prolissa della

Protesi118.

116 Sarebbe interessante studiare in questa prospettiva le vicende di quella Congregazione dei Greci di cui parla l’annotazione, meglio nota come ordine Basiliano, nel quale vennero raggruppati gli ultimi resti del monachesimo ortodosso un tempo assai fiorente nell’Italia meridionale. Non si può negare che la relativamente tarda comparsa di un ordine basiliano, organizzato alla maniera degli ordini religiosi latini medievali coincida con la decadenza inarrestabile di un tale monachesimo. Il concilo di Trento ha rappresentato il colpo di grazia per quanto rimaneva di usi ortodossi tanto nei monasteri, quanto nelle diocesi. La stessa Badia di Grottaferrata (Roma) non si è potuta sottrarre ad un tale destino. Il rito greco che vi è attualmente praticato non è il frutto di una tradizione ininterrotta, viste le numerose riforme e controriforme a cui è stato sottoposto e viene sottoposto fino ai giorni nostri. E in ogni caso un monachesimo è fiorente non quando pubblica libri e studi, ma quando produce quelle figure di asceti che abbondano, per esempio, nell’agiografia italogreca del X-XI secolo. 117 Op. Cit. , p. 544, VIII. 118 Cfr DMITRIEVSKJ, Euchologia, p. 170.

75

Secolo XIV.

Codice Vaticano Greco 573: si tratta di una specie di rituale ad uso

del presbitero e del diacono, corredato di ampie rubriche; la protesi è

assai sviluppata, le commemorazioni ai santi sono numerosissime. Il

testo fa uso di frequenti abbreviazioni e riporta una scelta ampia di

sermoni dal contenuto vario.

Codice Criptense Gamma. B. III: la datazione è irrisolta, per il Goar

sarebbe del 1260119. IL rituale della Protesi appare in un’ottima recensione.

Codice Esfigmenou120: riporta la datazione del 1306. La Protesi fornita

è definita dal Mandalà “esauriente”121.

Secolo XV.

Codice Vaticano Greco 1228: riporta all’inizio della Liturgia di San

Giovani Crisostomo la sola preghiera finale della Protesi, come il Codice

Sinaitico 973. Tutto questo, però, non sembra sufficiente a stabilire una

sicura parentela fra i due.

Codice Criptense A. alpha. X: si tratta di un documento del secolo XI-

XII al quale, dal foglio 137 sono state successivamente aggiunti i testi

delle tre liturgie ortodosse, quella del Crisostomo, quella di San Basilio e

quella di San Gregorio il Dialogo, papa di Roma, utilizzata nei mercoledì

119 Cfr MANDALA’, Op. Cit., p. 22. 120 Esfigmenou è uno dei venti cenobi del Monte Athos. 121 Krasnoseltzev, descrivendo in Materialia (Kazan, 1889, p. 6 ss) un codice del monastero atonita di san Panteleimon e confrontandolo con quello esfigmenita sostiene essere entrambi copia di uno stesso manoscritto più antico.

76

e venerdì della Grande Quaresima e nei primi tre giorni della Settimana

Santa, conosciuta anche come Liturgia dei Presantificati. Un’epigrafe

riporta l’anno 1475; la datazione è inconfutabilmente confermata anche

dallo stemma del cardinale Giuliano Della Rovere, che fu abate

commendatario della Badia di Grottaferrata a cominciare dal 1473. Il

testo della Protesi è sufficientemente esteso.

Codice ms. n. 986: proviene dal Monastero della Meghìsti Làvra del

Monte Athos e riporta una recensione del Diaconicòn, il manuale liturgico

ad uso del diacono122.

La comparsa e la diffusione della stampa rende superfluo

menzionare le pur numerose recensioni manoscritte del XVI secolo. Le

stesse fonti liturgiche elencate in questo contesto si limitano ai testi più

significativi, capostipiti di famiglie o gruppi più o meno estese o unici

esemplari pervenuti di tradizioni particolari. Alla vasta proliferazione di

trascrizioni e recensioni fluttuanti il patriarca di Costantinopoli Filoteo,

nel XIV secolo tentò di porre un argine stabilendo un’unica recensione;

lungi dall’ottenere i risultati sperati le costituzioni patriarcali di Filoteo

per lo meno risolsero alcuni problemi proprio per quanto riguarda il

rituale della Protesi, che rischiava, negli ultimi secoli del medioevo, di

assumere proporzioni esagerate. L’uniformità fu definitivamente

raggiunta con il diffondersi delle edizioni impresse a stampa.

122 Cfr DMITRIEVSKJ, Op. Cit. , p. 602.

77

2. FONTI GIURIDICHE.

I canoni conciliari, come pure le leggi imperiali romane si

occupano non di rado di questioni liturgiche, ma non sembrano mai aver

riguardato un punto così dettagliato. Manca uno studio capillare degli

epistolari dei vari patriarchi costantinopolitani; la materia liturgica

sicuramente è abbondante, soprattutto negli scambi con altri vescovi.

Abbastanza nota è, invece, la codificazione dei monasteri, ma tali

documenti difficilmente descrivono qualcosa di praticato su vasta scala,

considerando il fatto che quasi sempre i monasteri erano legati a speciali

obbligazioni in favore di fondatori, benefattori ecc. 123 Ma anche in questo

caso non abbiamo fonti particolarmente antiche; il Typicòn di Irene

Augusta, per monasteri femminili, infatti, risale al secolo XII e pure del

XII secolo è quello di Nicola il Mistico, come anche un Typicòn di san

Saba che ritroviamo in un codice atonita-patmense.

Nel secolo X viene redatto un testo didascalico avente per oggetto

la Protesi, o Proscomidia. Si tratta della Diàtaxis Tès Proscomidès parà toù

Patriàrchou Constantinoupòleos, ad opera di un certo Paolo di Gallipoli.

Del secolo successivo è l’interessante costituzione di Nicola il

Grammatico, patriarca di Costantinopoli (1084-1111) dedicata al modo in

123 Un esempio molto chiaro è il breve ufficio che apre la Preghiera del Mattutino nel typikon liturgico ortodosso attuale: i salmi 19 e 20, insieme con strofe innografiche e intercessioni per l’imperatore e la salvezza dello stato (cfr Horològhion To Mèga, pp. 33-35, “Astir Publishing Company”, Atene 1973). Tale segmento liturgico costituiva il suffragio ufficiale quotidiano che i monasteri di fondazione imperiale tributavano.

78

cui conviene che il sacerdote compia la proscomidìa. Si dovrà attendere il

secolo XIV per un’altra Diàtaxis, quella di cui abbiamo già parlato, opera

del patriarca di Costantinopoli Filoteo.

Come si vede la situazione delle fonti giuridiche non è di grande

utilità per l’epoca di cui ci occupiamo ed è per questo che la limitiamo a

questo breve cenno, doveroso per lo meno per illustrare le più antiche

fonti.

3. FONTI STORICHE.

A differenza delle fonti giuridiche, le fonti storiche danno un

maggior sostegno a questo studio.

Un commentario liturgico, assai noto e trascritto con varie

attribuzioni, verosimilmente dell’VIII secolo, e probabilmente opera di

Germano I, patriarca di Costantinopoli (+ 740), viene tradizionalmente

considerato come la più antica descrizione di un rituale di protesi o

proscomidia124. Il testo, come vedremo più avanti, prende in esame il

significato simbolico degli spazi liturgici e degli elementi architettonici,

per poi passare in rassegna le vesti liturgiche, le suppellettili e i singoli

segmenti della liturgia. Le parti essenziali sono descritte e comprese tutte

124 Per un approfondimento dal punto di vista squisitamente critico e filologico consigliamo la lettura di N. BORGIA, Il Commentario Liturgico di San Germano Patriarca Costantinopolitana e La Versione Latina di Anastasio Bibliotecario, ed. Grottaferrata, Roma 1912.

79

nel modo a noi noto. Per molti si tratta della prima testimonianza

accertante l’esistenza di un rituale denominato Protesi o Proscomidia.

Ma in realtà una lettura attenta del Prato di Giovanni Mosco125 ci

mostra in più punti l’esistenza, almeno nella metà del VI secolo di un

rituale, collegato con la liturgia eucaristica, denominato proscomidia, che

come abbiamo visto è un sinonimo di protesi.

125 Non mancano monografie sulla figura di Giovanni Mosco. Queste sono le principali in ordine cronologico: S. VAILHE’, Jean Mosch, in Echos d’Orient, V (1901/1902), pp. 107-116; è in pratica un tentativo di ricostruzione della sua biografia utilizzando i soli dati ricavabili dalla sua stessa opera. E. PREUSCHEN, Moschos, in Realencyclopadie fur protest. Teologie, XIII, (1903), pp. 483 ss. H. LECLERCQ, Jean Mosch, in Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et de Liturgie, VII/2 (1927), coll. 2190-2196. E. AMANN, Moschus, in Dictionnaire de Théologie Catholique et de la Liturgie, X/2 (1929), coll. 2510-2513. N.H. BAYNES, The Pratum Spirituale, in Orientalia Christiana Periodica, XIII (1947), pp. 404-414. E. MIONI, Jean Moschus, Moine, in Dictionnaire de Spiritualité, VIII (1973), coll. 632-640. H. CHADWICK, Jean Moschus and his Friend Sophronius the Sophist, in The Journal of Theological Studies, n.s. XXV (1974), pp. 41-74. P. PATTENDEN, The Text, of the Pratum Spirituale, in The journal of Theologian Studies, n.s. XXVI (1975), pp. 38-54. KEETJE ROZEMOND, Jean Mosch patriarche de Jerusalem en exile (614-634), in Vigiliae Christianae, XXXI (1977), pp. 60-67. M. GERAARD, Clavis Patrum Graecorum, III, Turnhout, 1979, pp. 379-381.

80

GIOVANNI MOSCO: LA VITA E L’OPERA

L’autore di un opera ancora relativamente poco letta in Italia,

merita un cenno biografico particolare126. Giovanni Eukratas, figlio di

Moschos, nacque molto probabilmente a Damasco (per altri in Isauria)

nella prima metà del 500. Abbracciò la vita monastica nel monastero di

san Teodosio il Cenobiarca, presso Gerusalemme, dove fu anche

ordinato presbitero, per poi trasferirsi nelle grotte del deserto di Giuda,

abitando fra gli anacoreti che risiedevano non lontano dalle rive del

Giordano. In un anno imprecisato tra il 568 e il 578 si trasferì nel cenobio

di Fara in Giudea. Si ha notizia anche di una successiva permanenza

nella Lavra degli Ailioti, sita nella penisola del Sinai, probabilmente tra il

580 e il 590. Il suo ritorno a Gerusalemme, dopo un periodo trascorso

nella Grande Lavra, fondata da san Saba nelle vicinanze di Gerico, risale

agli inizi del settimo secolo. Nel 604, in seguito all’invasione persiana

della Palestina, lo ritroviamo profugo prima ad Antiochia di Siria e in un

secondo momento, quando la minaccia persiana comincia a gravare sulla

stessa Antiochia (614), si trasferisce ad Alessandria, dove, data la

vicinanza, ha modo di visitare i celebri centri monastici del deserto

126 La vita di Giovanni Mosco è narrata in un prologo anonimo che una parte dei manoscritti del Prato stesso tramandano. A questo attinge Fozio il Grande per le notizie che dà nel codice 199 della sua Biblioteca (vol. III, pp. 96-97 dell’ed. Henry). Il prologo è stato edito da USENER in Der Heilige Tychon, alle pp. 91-93. Se ne può consultare una versione in italiano in GIOVANNI MOSCO, Il Prato, a cura di MAISANO R., M. D’Auria editore, Calata Trinità Maggiore, Napoli, 2002, pp. 58-59.

81

egiziano. Quando poi, nel 616 i persiani invadono l’Egitto si dirige verso

la capitale dell’impero127, non senza aver sostato in diverse isole (Cipro e

Samos, come si evince da alcuni episodi narrati nell’opera stessa).

Durante il soggiorno nella capitale, “la grande città dei Romei”128, come

viene definita nel Prologo, Giovanni completa la stesura del Prato. Si

suppone che ciò sia avvenuto nel cenobio degli Eukratidi, come farebbe

appunto supporre l’epiteto ”Eukratàs” con cui i manoscritti lo citano.

La morte lo raggiunge dunque mentre si trova nella capitale, ma

prima di spirare si fa promettere dai suoi dodici discepoli, tra i quali

Sofronio, futuro patriarca di Gerusalemme, di traslare le proprie spoglie

mortali fino al Sinai; se però ciò non fosse stato possibile a causa dei

disordini provocati dal conflitto in medio oriente, lo avrebbero potuto

seppellire nel cimitero di san Teodosio, suo primo monastero. Il trapasso,

127 Si è discusso alquanto per identificare quale fosse la capitale dell’impero; per alcuni, come il Gribomont, estensore del profilo biografico che compare in AAVV, Dizionario degli Istituti di Perfezione, II, coll. 1284-1285, si tratta senza dubbio di Roma antica. Due elementi non sono stati considerati, a mio avviso, da parte dei sostenitori di questa tesi. Il primo e più evidente è il fatto che agli inizi del VII secolo molto difficilmente i cittadini dell’impero romano potevano sentire l’antica Roma come centro della loro vita politica e, quindi, come capitale. Il secondo elemento da considerare è il motivo del viaggio stesso nella capitale: si tratta di una fuga da territori minacciati da invasioni; normalmente chi fugge da tali minacce cerca di mettersi al sicuro in luoghi a loro volta non minacciati da pericoli analoghi. In effetti la Costantinopoli di quel periodo doveva offrire maggiori garanzie ai profughi di guerra, piuttosto che una Roma accerchiata da nord e da sud dai Longobardi. 128 Forse è superfluo sottolineare come i cittadini dell’impero romano di quel periodo non sapevano ancora di essere “bizantini” e che, anzi, in realtà non lo seppero mai, continuando a chiamarsi “Romei”, cioè romani, secondo la pronuncia greca del tardo antico, e ad essere chiamati così fino al XVIII secolo, quando alcuni studiosi occidentali inventarono a scopo ideologico il concetto di “bizantino”, del quale sembra ormai impossibile liberarsi, sebbene ormai molti storici contemporanei ne abbiano riconosciuto i limiti e l’artificiosità.

82

come precisato nel Prologo, avviene all’inizio dell’ottava indizione, che

alcuni collocano nel 619, mentre altri ritengono trattarsi del ciclo di

indizioni successivo e quindi del 634129. La piccola comitiva di monaci

lascia, insieme con la salma del maestro, la capitale, ma, sbarcando ad

Ascalona si viene a sapere che la regione è nuovamente nel caos per “la

ribellione e l’usurpazione degli Agareni”. Avendo preso atto

dell’impossibilità di addentrarsi nella penisola del Sinai i discepoli di

Giovanni Mosco decidono di orientarsi per la seconda possibilità lasciata

loro dal maestro e dopo aver trasportato il feretro fino a san Teodosio, lo

seppelliscono nella grotta dove secondo una tradizione locale i Magi si

sarebbero rifugiati per sfuggire ad Erode, quella stessa grotta in cui molti

anni prima Giovanni Mosco aveva iniziato le pratiche ascetiche,

rendendosi “degno del dono della grazia, che segue coloro che qui sono

sepolti, non solo in questa vita terrena, ma anche dopo la morte”.

129 L’indizione cui si fa riferimento è un ciclo di quindici anni utilizzato nell’antico calendario romano e tuttora in uso nella Chiesa Ortodossa. L’anno ottavo dell’indizione, l’ottava indizione, appunto, poteva essere il 619 oppure più probabilmente il 634, se consideriamo che Giovanni Mosco non fu seppellito come desiderava al Sinai a causa dei disordini provocati dagli Agareni. Il 634 in effetti è l’anno in cui il califfo Omar inizia l’invasione dell’impero romano cominciando proprio dai territori riconquistati ai persiani. In questo caso diviene molto chiara l’affermazione del Prologo: “… Era impossibile raggiungere il santo monte Sinai per la ribellione e l’usurpazione dei cosiddetti Agareni”. Inoltre Giovanni è anche autore, insieme col discepolo Sofronio, di una biografia del patriarca d’Alessandria Giovanni il Misericordioso (questa è l’esatta traduzione dell’epiteto greco Eleémon, che altri rendono in italiano con il goffo appellativo di “elemosiniere”). Siccome quest’ultimo morì l’11 novembre del 620, quanti vogliono Giovanni Mosco morto nel 619 devono anche provare che questo bìos gli viene erroneamente attribuito.

83

Alcune recenti ricerche compiute da Keetje Rozemond hanno

rivelato la possibilità che durante il soggiorno costantinopolitano il

nostro autore rivestisse addirittura la carica di patriarca di Gerusalemme

in esilio. L’arcivescovo Zaccaria, infatti, patriarca di Gerusalemme al

momento della caduta della città nelle mani dei persiani, era stato

deportato alla corte di Cosroe II. Non è impensabile supporre, pertanto,

che i non pochi vescovi e cristiani profughi prima ad Alessandria, presso

Giovanni il Misericordioso, e poi a Costantinopoli, considerassero

Zaccaria decaduto ed eleggessero Giovanni Mosco al suo posto. A

sostegno di questa ipotesi ci sarebbero alcune epistole inviate da

Massimo il Confessore ad un arcivescovo Giovanni in esilio, considerato

dallo stesso Massimo come suo vescovo. In effetti egli era originario di

un villaggio della Tiberiade, appartenente al territorio metropolitano di

Gerusalemme. Inoltre nella epistola del Damasceno sull’inno trisagio si

parla di un ”illustre Giovanni Mosco, patriarca della città santa di Cristo

nostro Dio”. Addirittura nel Manoscritto Coislin 369 della Biblioteca

Nazionale di Parigi il Prato è attribuito a “Giovanni e Sofronio, patriarchi

della città santa di Cristo nostro Dio”.

In ogni caso la figura del monaco viaggiatore non è inconsueta ed

ha degli illustri rappresentanti quali Giovanni Cassiano (360/365 – 435) e

Nilo di Rossano (910 –1004), tanto per limitarci a pochi, ma significativi

esempi. Dai viaggi e dalle innumerevoli esperienze Giovani Mosco trasse

materia inesauribile per le sue narrazioni, nella cui stesura collaborò lo

84

stesso Sofronio, futuro patriarca di Gerusalemme. Il medio oriente di

quel periodo immediatamente precedente l’invasione arabo-islamica,

attraversato da tensioni sociali e religiose, fornì la gran parte del

materiale narrativo collezionato nel Prato (Leimonàrion). Ebrei, monofisiti,

ortodossi e nestoriani popolano queste narrazioni alle quali le tormentate

vicende politiche e militari fanno da sfondo.

L’opera è stata nei secoli erroneamente attribuita allo stesso

Sofronio da parte prima di Giovani Damasceno, dal quale probabilmente

dipendono le versioni in lingua araba ed etiopica130. I codici riportano

spesso il Prato in versioni mutile da compendiare fra loro, comunque

sempre accompagnato da altri testi di argomento simile e con struttura

narrativa simile, come gli Apoftegmata. Il Lavoro sulle fonti è arduo,

l’edizione migliore pervenuta si trova a Firenze ed è del XII secolo. La

versione latina del monaco camaldolese Ambrogio Traversari si basa su

130 Per la versione in lingua araba: GUARAMA R:, Al-Bustan, Tiflis 1965 (edizione del testo arabo tratta da un manoscritto Sinaitico del sec. X, con traduzione e studio). In etiopico: ARRAS V., Patericon Aethiopice, Lovanio 1967 (“Corpus Scriptorum Christianorum Oreintalium”, 277-278; versione in quarantanove capitoli). In georgiano: ABULAZDE I., Giovanni Mosco (in lingua georgiana), Tiflis 1960 (testo, introduzione e glossario). In paleo-slavo: GOLYSENKO V. S. – DUBROVINA V. F., Sinajskij Paterik, Mosca 1967. In latino: LIPOMANI Al., Vitarum Sanctorum Patrum, tomus VII, Roma 1558, pp. 289-370 (si tratta della già citata edizione del Traversari); HOFERE M., Ioannis Monachi liber de miraculis, Wurzburg 1884 (versione di 27 capitoli di Giovannei Monaco); HUBER P. M., Ioannis Monachi liber de miraculis, Heideberg 1913 (c.s.). In italiano: Le vite overo Legende de’ sancti Padri… per diversi eloquentissimi Dottori volgarizzati, Venezia 1475 (in volume a sé: Il Prato Spirituale de’ Santi Padri, recato in volgare da FEO BELCARI, Bologna 1884); GIOVANNI MOSCO, Il Prato, a cura di MAISANO R., M. D’Auria editore, Calata Trinità Maggiore, Napoli 1982 (2° ed. 2002). In francese: JEAN MOSCHUS, Le prè spiritual, introd. e trad. a cura di M. – J. ROUET DE JOURNEL, Parigi 1946 (“Sources Chrètiennes”).

85

questo codice e risale al 1423; nel 1558 Lipomani diede alle stampe per la

prima volta la traduzione del Traversari riducendo i capitoli da 300 a 219

senza però mutilare il testo stesso. Si conoscono ancora numerose

ristampe fino all’edizione del Migne (PG 87, t. III, Paris 1865, coll. 2843-

3116), il quale però ripubblicava una versione incompleta del testo greco

già comparsa in occidente ad opera di Fronton du Duc e da J.B.

Cotelier131.

Le notizie raccolte nel Prato sono interessanti sotto diversi punti di

vista. Innanzi tutto ci permettono di approfondire la religiosità cristiana

dell’epoca e i rapporti fra le comunità religiose, insieme con gli attriti

dogmatici. Da non sottovalutare poi, sono le informazioni riguardanti il

culto cristiano ortodosso dell’epoca; non di rado esse risultano meno

vaghe e generiche di quanto non si immagini. E questo aspetto, come

dicevamo, che interessa particolarmente alla nostra ricerca. Giovanni fu

anche presbitero, una condizione piuttosto rara nel monachesimo

ortodosso fino ai giorni nostri. Forse, come s’è visto, fu anche vescovo e

patriarca; non si può quindi minimamente dubitare della sua

131 DUCAEUS, Bibliotheca Veterum Patrum seu Scriptorum Ecclesiasticorum, tomus II Greco-latinus, Paris 1624, pp. 1053-1159; J.B. COTELERIUS, Ecclesiae Graeae Monumenta, II, Paris 1681, pp. 341-456 (completamento dell’edizione precedente con l’aggiunta di altri 101 episodi). Altre edizioni del testo greco: HESSELING D.-C., Morceaux Choisis du Pré Spiritual de Jean Moschos, Paris 1931 (antologia con introduzione, traduzione e commento di 24 capitoli tratti dall’edizione del Migne); NISSEN Th., Unbekannte Erzahlungen aus dem Pratum Spirituale, in Byzantinische Zeitschrift, XXXVIII (1938), pp. 351-376 (pubblicazione di 14 capitoli inediti); MIONI, Il Prato Spirituale di Giovani Mosco, in The Journal of Theological Studies, n. s. XXVI (1975), pp. 38-54 (edizione di quattro capitoli finora noti nella loro completezza soltanto attraverso la versione latina).

86

competenza tecnica nel riferirci particolari dettagli del culto cristiano

dell’epoca. Ed in effetti i riferimenti ai luoghi del culto, alla loro

disposizione, alla pratica dei sacramenti e alla liturgia eucaristica stessa

riportati nel Prato sono assai più abbondanti che non negli Apoftegmata, o

nella Scala di Giovani Climaco. La terminologia con cui si esprime è

molto vicina a quella divenuta poi tradizionale per tutto il medioevo fino

ai nostri giorni e ciò è importante perché è stata recentemente dimostrata

la corrispondenza terminologica e la somiglianza fra la cosiddetta

liturgia delle ore gerosolimitano-palestinese descritta da Egeria132 e gli

attuali testi liturgico-innografici utilizzati dalla Chiesa Ortodossa133. La

liturgia delle ore e la liturgia eucaristica, infatti, non viaggiano mai su

binari paralleli; le somiglianze strutturali e di testo riscontrate, per

esempio nel vespro134, ma anche nelle singole ore diurne e notturne può

132 EGERIA, Pellegrinaggio in Terra Santa, Ed. Paoline, Roma 1985. 133 Lo studioso norvegese Stig Ragnvald Froyshov nell’autunno del 2003, presso l’Istituto Teologico San Sergio di Parigi, difendeva con successo una tesi di dottorato dal titolo: L’Horologe “georgien” du Sin. Iber. 34. Edition & traduction. Commentaire, che cortesemente ci permetteva di consultare prima della pubblicazione. Buon conoscitore del georgiano, Froyshov, esamina per la prima volta una serie manoscritti liturgici georgiani, rinvenendo traduzioni di ufficiature utilizzate a Gerusalemme e dintorni già nel IV secolo. Confrontando questi testi con le descrizioni della monaca pellegrina Egeria e con il Typikòn liturgico ortodosso attualmente in uso, giunge alla conclusione che quest’ultimo non è altro che un compendio abbreviato e in parte modificato di quello praticato dalla Chiesa di Gerusalemme in pieno IV secolo. La tesi del ricercatore norvegese è stata premiata col massimo punteggio. 134 Ritengo utile fornire a questo punto almeno un breve esempio di somiglianza fra i due riti. Il vespro feriale della Chiesa Ortodossa risulta composto dal salmo iniziale (103), seguito dai salmi graduali (119-133), terminati i quali viene eseguito il rito del Lucernario, consistente nei salmi 140, 141, 129 e 116, tra i cui versetti si intercalano sei strofe innografiche; dopo il Dòxa Patrì si ha una strofa dedicata alla Madre di Dio e l’inno del martire Atenogene: Phòs ilaròn. Si canta poi un versetto, vengono recitate

87

legittimamente incoraggiare altri parallelismi. Quando, ad esempio

Giovanni Mosco, nel VI-VII secolo, usa il verbo proscomìzein135, e lo usa

spesso, come vedremo tra poco, è assai probabile che intenda proprio

quello che tradizionalmente è stato sempre inteso dal clero ortodosso di

lingua greca utilizzando per altro lo stesso e identico verbo fino ai giorni

nostri.

LA PROSCOMIDIA NEL PRATO DI GIOVANNI MOSCO

Esamineremo ora singolarmente i singoli capitoli del Prato in cui

abbiamo riscontrato riferimenti espliciti alla proscomidìa.

delle intercessioni e ai versetti del salmo 122 vengono intercalate altre quattro strofe innografiche. Si conclude infine con l’ode di Simeone (Lc 2, 29-32), il trisagio col Padre nostro e varie preghiere ed inni conclusivi (cfr Horologhion To Mega, ed. Phòs, Athina 1999, pp. 145-158; oppure una antologia di testi tradotti in italiano a cura di ARTIOLI M. B., Anthologhion di tutto l’anno, ed. Lipa, Roma 2000, vol. IV, pp.124-150). Confrontando tutto ciò col manoscritto georgiano Sin. Iber. 34 (cfr Froyshov, Op. Cit., pp. 26-31) si deve constatare qualche differenza tra il Phòs ilaròn e i versetti del salmo 122, mentre la struttura è assolutamente identica possono variare i singoli testi innografici da intercalare ai versetti dei salmi del Lucernario e del salmo 122, cosa possibile ancora ai giorni nostri. Purtroppo per noi Egeria si dimostrò poco interessata alle particolarità dello svolgimento della liturgia eucaristica vera e propria. Certo è che essa annotò con cura le differenze, più che le somiglianze. 135 Alla voce proscomidìa il Lessico Patristico di Oxford da come primo significato l’offerta sacrificale del pane e del vino per la divina liturgia. In Macario l’egiziano e in Nilo d’Ancyra, come anche nel Crisostomo, il termine è conosciuto e utilizzato sia in riferimento alla liturgia, sia in senso figurato e traslato. Basilio e Teodoro di Mopsuestia lo utilizzano prevalentemente in riferimento alla liturgia eucaristica e alla preparazione del pane e del vino. Dal VI secolo in avanti sarà utilizzato esclusivamente per indicare una parte della liturgia eucaristica (cfr AAVV, A Patristic Greek Lexicon, Oxford University Press 1961, p. 1173)

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Abba Gregorio dal (monastero) degli Scolari ci diceva: C’era un fratello

nel cenobio di Choziba136, il quale conosceva la proscomidìa della santa anafora137.

Una volta fu inviato a portare le euloghìes138, ed entrando nel monastero disse la

proscomidìa com’è nell’ordine della sticologia139. E queste euloghìes i diaconi

136 Choziba è un toponimo ebraico-aramaico antico, che significa “sorgente o corso d’acqua intermittente. La prima fonte ad attestarlo è il cosiddetto “Rotolo di rame” (cfr MILIK J. T., Discoveries in the Judean Desert, III: Le “petites grottes” de Qumran, Oxford 1962, pp. 242, 265), redatto dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme. Questo termine si riferisce alla gola oggi denominata anche Wadi Kelt, nelle vicinanze di Gerico. La presenza dell’acqua e di una modesta vegetazione, insieme con l’isolamento favorirono l’insediamento monastico già all’inizio del V secolo. Le primitive celle eremitiche furono poi trasformate in una costruzione cenobitica alla fine del secolo, per opera di Giovanni l’Egiziano, un monaco originario di Tebe, che poi fu fatto vescovo di Cesarea. Il monastero subì danni gravi durante entrambe le invasioni, persiana e araba, ma vene comunque ricostruito e riabitato fino al XV secolo. Dopo un periodo di abbandono a fine Ottocento venne ricostruito e il monachesimo rifiorì anche nelle celle anacoretiche circostanti fino ai giorni nostri. La chiesa principale del monastero è dedicata alla Dormizione della Madre di Dio. Il calendario del Patriarcato Ecumenico del 2000 riporta la presenza di due soli monaci residenti. Altre notizie sono reperibili in ANONIMO (PSEUDO-CIRILLO DI SCITOPOLI, ANTONIO DI CHOZIBA, Nel Deserto Accanto ai Fratelli. Vita di Gerasimo e di Giorgio di Choziba, a cura di LEAH COMPAGNANO DI SEGNI, ed. Qiqajon, Magnano (VC), 1991. Nel Prato si citano spesso luoghi, persone e fatti avvenuti nel monastero e nelle celle anacoretiche circostanti. 137 La proscomidìa della santa anafora in italiano si potrebbe rendere con: la preparazione dell’Eucaristia. Si tratta di un vocabolario tecnico imprescindibile per la lettura di questi testi. Purtroppo molti studiosi contemporanei continuano ad accontentarsi delle conoscenze liturgiche e sacramentali fornite dalla chiesa cattolica romana, ritenendole applicabili anche al cristianesimo di altre epoche. Non è sufficiente, in questa materia saper citare correttamente una fonte, è anche indispensabile comprenderla con precisione.

138 Euloghìa è un altro termine tecnico che indica realtà differenti, ma sempre collegate fra loro. Letteralmente significa “benedizione” e viene utilizzato per indicare un dono o il permesso che l’anziano concede al suo discepolo. In questo contesto euloghìes sono il pane, ma anche il vino donati per il culto. E’ assai probabile che insieme con i pani fosse stato offerto per la liturgia anche del vino. 139 Sticologia è un altro temine tecnico liturgico; indica la recita o anche il canto di un testo suddiviso in versetti (in greco: stìchos = versetto). Non qualifica assolutamente, però, il tipo di testo che viene recitato; infatti il testo specifica che cosa veniva recitato dal fratello che recava i pani donati nel santuario.

89

deposero sul disco140 nel santo altare141; e a compiere la proscomidìa (proscomìzein)

era l’allora presbitero142, abba Giovanni, soprannominato il Chozebita, che in

seguito divenne vescovo di Cesarea in Palestina. Non vide, come di solito, la

manifestazione143 dello Spirito santo. E addolorato al pensiero di aver forse lui

stesso peccato, e per questo allontanato lo Spirito santo, entrò nel diakonikòn144

140 Il disco è quel vassoio detto anche discarion di cui s’è detto nella descrizione del rito della Proscomidìa (vedi la nota 83 a pag. 44). 141 Letteralmente Thysiastèrion, luogo del sacrificio. Non può intendere in questo caso la mensa eucaristica, giacché non era dato ai diaconi deporre nulla sulla mensa eucaristica. Thysiastèrion è anche per estensione il santuario, erroneamente denominato presbiterio, presente in tutti i luoghi di culto cristiani, mutuato più dall’architettura sinagogale, che non direttamente dal tempio di Gerusalemme (cfr BOUYER, L. Architettura e liturgia, trad. it. Magnano, Qiqajon 1994). Il santuario risulta suddiviso in tre aree: quella centrale, in cui sorge la mensa eucaristica su cui è deposto l’evangelario, al posto dell’arca in pietra contenente la Torah. A nord (le chiese sono state sempre orientate; solo in occidente dal basso medioevo, si è smarrita questa nozione architettonica e insieme teologica) della mensa eucaristica è collocato il tavolo della Protesi dove vengono preparate, come già detto, le specie eucaristiche; su questo tavolo vengono conservati il discàrion e il calice fino al grande ingresso della liturgia. Su questo tavolo effettivamente i diaconi avevano il compito di deporre le euloghìes. A sud dell’altare, poi, troviamo il diaconicòn, il luogo da cui uno o più diaconi assistono il presbitero durante l’anafora eucaristica. Questo episodio dimostra che non si tratta di luoghi differenti esterni alla chiesa, ma di suddivisioni di un unico spazio sacro, le classiche ripartizioni del santuario. 142 La tradizione monastica, tuttora praticata nei cenobi ortodossi, vede l’ordinazione sacerdotale come un’eccezione consentita per i bisogni liturgici e sacramentali del monastero. Talora lo stesso superiore del monastero non è presbitero. Inoltre la concelebrazione di più presbiteri è stata poco praticata nei monasteri, anche là dove era possibile. Così l’allora presbitero Giovanni il Chozebita forse non era l’unico presbitero presente in monastero, ma era stato designato dall’igumeno per la celebrazione eucaristica. Questo permette di comprendere meglio il pianto e i graffi al volto quando non vide l’illuminazione dello Spirito santo discendere sull’euloghìa: riteneva di essere l’ignaro responsabile di un danno che ricadeva su tutta la comunità, privata dell’eucaristia a causa del peccato del suo presbitero. E’ importante non sottovalutare questo aspetto spirituale e teologico del sacerdozio ortodosso, assai differente dal modello sviluppato nel tardo medioevo in occidente. 143 Epiphoìtesis, letteralmente la venuta, l’intervento o manifestazione. Il verbo epiphoitào significa letteralmente venire, arrivare, far visita. 144 Vedi la nota 136.

90

piangendo e graffiandosi il volto; ed appare a lui l’angelo del Signore145 dicendo:

Da quando lungo la via il fratello che portava le euloghìes disse la santa anafora

sono state santificate e (ora) sono compiute. E da allora l’anziano stabilì un

ordine (logos), per il quale nessuno impara la santa anafora, se non ha la

chirotonìa146, né, come accadde, la pronuncia in qualsiasi momento, al di fuori del

luogo santificato147 (Caput XXV, PG 87, t. III, coll. 2869-2872).

Ci sia consentita a questo punto qualche osservazione sulla

versione latina prodotta dal Migne; l’imprecisione dovuta senz’altro alla

carenza di conoscenze storiche e teologiche in cui comprensibilmente

versavano gli studiosi occidentali del secolo scorso è frequente. Per

quanto riguarda invece la traduzione in italiano di Riccardo Maisano148 è

evidente che dipende più dal latino della Patrologia Graeca, che non

dall’originale greco; infatti, là dove il testo del Migne si dimostra

inadeguato, il Maisano non fa altro che ripeterne le imprecisioni, alcune

anche gravi. Nell’originale greco si dice che il monaco responsabile

dell’involontaria santificazione delle euloghìes conosceva149 la proscomidìa

145 Il testo non dice un angelo, ma o àgghelos e intende l’angelo messo da Dio a guardia di quell’altare. Questo interessante aspetto verrà ampiamente discusso nei paragrafi successivi. 146 La chirotonìa (letteralmente: imposizione delle mani) è l’ordinazione a uno dei tre livelli del sacerdozio: diacono, presbitero ed episcopo. In questo caso si intende la chirotonìa presbiterale. 147 Letteralmente: tòpou heghiasmènou. E’ sinonimo di Thysiastèrion e identifica, come già visto, il santuario. 148 Vedi: GIOVANNI MOSCO, Il Prato, a cura di MAISANO R., M. D’Auria editore, Calata Trinità Maggiore, Napoli 1982 (2° ed. 2002). 149 Mathòn nel testo originale.

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della santa anafora; la versione latina non sa cogliere il significato letterale

di queste espressioni: sanctae oblationis verba ritumque didicerat, (aveva

imparato le parole e il rito della santa oblazione). E’ evidente in questo caso

che il traduttore in latino pensava all’offertorium della Missa latina. In

italiano troviamo una lezione più corretta: conosceva il rito della

preparazione delle offerte, ma dal punto di vista liturgico sfugge qualcosa

che invece leggendo il greco appare chiarissimo e cioè che la proscomidìa

e l’anafora sono due segmenti liturgici distinti che però venivano eseguiti

in successione l’uno all’altro150. La proscomidìa è appunto il rituale della

protesi che abbiamo poc’anzi descritto, mentre l’anafora è quella che

viene chiamata anche la preghiera eucaristica. Inoltre il testo precisa che

il fratello si era limitato a recitare le parole del rito come un qualunque

testo sacro da meditare, quindi senza che avesse compiuto altro; è

evidente che questa osservazione sottintende che la proscomidìa del VI

secolo non era solo una formula da recitare sulle euloghìes del pane e del

vino. Quando infatti il presbitero Giovanni officia il rito il testo utilizza il

termine proscomìzein, non come per il fratello che ne aveva solo recitato le

formule versetto per versetto (eìpen ten proscomidèn os en tàxei tès

stichologhìas). E’ ancor più chiaro, dunque, che una cosa è proscomìzein,

compiere la proscomidìa, altra cosa è dirla (eìpen). Nella versione latina

150 Questa testimonianza è importante per rafforzare l’ipotesi che in origine la protesi o proscomidìa venisse eseguita non prima dell’inizio della Divina Liturgia, ma al suo interno, dopo il vangelo e prima dell’anafora eucaristica. L’uso attuale per altro prevede che il vescovo compia la proscomidìa all’interno della liturgia, dopo il vangelo.

92

l’equivoco si protrae inevitabilmente: verba sanctae oblationis quasi versus

aliquos caneret dixit. Per il traduttore quel monaco avrebbe canticchiato

sbadatamente le parole dell’oblazione eucaristica come una qualsiasi

filastrocca. Maisano, volgendo in italiano, non si avvede che la

descrizione del fatto è ben diversa e traduce: pronunciò la formula

dell’offertorio come se recitasse una poesia.

Poco più sotto notiamo la difficoltà per entrambi nel rendere il

termine tecnico diaconicòn. In latino troviamo sacrarium, mentre questa

volta l’italiano peggiora decisamente la lezione parlando

anacronisticamente di sacrestia. Evidentemente entrambi i traduttori

hanno in mente una liturgia diversa da quella cui fa riferimento il testo e

non si accorgono dell’equivoco.

L’apparizione dell’angelo deputato alla custodia dell’altare svela il

motivo per cui il monaco presbitero Giovanni il Cozebita non vide come

di solito l’intervento dello Spirito santo sulle specie eucaristiche: verba

sanctae oblationis in via dixit, troviamo in latino, mentre in italiano si

insiste a confondere l’anafora, questa volta, con l’offertorio: il giovane

monaco che portava le offerte ha pronunciato le parole del santo offertorio.

Quanto ai contenuti, poi, è interessante osservare tre messaggi che

emergono dal testo. Il primo è che lo Spirito Santo, come s’è visto, non

agirebbe sempre come e dove gli uomini se lo aspetterebbero. Il monaco

che recita, non come una filastrocca, ma come una meletè (meditazione)

93

monastica151, le parole della proscomidìa e dell’anafora, recando le euloghìes

ai diaconi del monastero perché le dispongano nel luogo della loro

preparazione, non è presbitero, né diacono, eppure la trasformazione

avviene e si compie nella sostanza con la semplice recita del testo.

Il secondo è la presenza di un angelo custode dell’altare consacrato,

fatto riferito anche in altri passi del Prato.

Il terzo è la possibilità di possedere una vista spirituale come quella

del Presbitero Giovanni, in grado di accorgersi se e quando lo Spirito

santo interviene nel mistero eucaristico. Anche questo fatto è considerato

frequente e abbastanza normale da Giovanni Mosco.

La prima considerazione, come si diceva, è la conseguenza di due

informazioni che il testo stesso ci fornisce. In primo luogo, come già

sappiamo, le parole dei testi sacri venivano imparate a memoria per

essere poi recitate a piacimento durante il lavoro manuale o lungo i

viaggi. In questo caso il fratello aveva imparato semplicemente

ascoltando la proscomidìa e l’anafora e doveva essere solito ripeterle fra sé

come altri avevano imparato i salmi o i vangeli per poi recitarli durante

la giornata. L’improbabile accade grazie ad una circostanza

imprevedibile: i pani offerti per la liturgia sono consegnati ad un monaco

che per la sua meletè usa recitare la proscomidìa e l’anafora, imparate,

151 A proposito della meletè o meditazione monastica si può avere un ottimo e completo approfondimento in GARCIA M. COLOMBAS, Il Monachesimo delle Origini, ed. it. Jaca Book 1990, Milano, tomo II, PP.338-348.

94

probabilmente, durante lo svolgimento stesso delle liturgie. In

conseguenza di ciò giunge il divieto di pronunciare quei testi al di fuori

del tempo e dello spazio loro consacrato e da parte di persone non che

non siano presbiteri.

Nel Prato, dunque, viene ammessa senza particolari apprensioni o

polemiche la possibilità che la santificazione del pane e del vino possa

compiersi anche al di fuori di quei criteri che la vedrebbero riservata a

luoghi, persone e circostanze particolari. Certo, se la cosa non è negata

come possibilità, nondimeno essa crea difficoltà e rende necessari

provvedimenti particolari.

Un esempio ancor più clamoroso è fornito dal capitolo CXCVI, in

cui un gruppo di pastorelli decide di cambiare gioco e mima una

celebrazione eucaristica, provocando la discesa di un fuoco spirituale che

consuma i pani, il vino, e la roccia stessa su cui erano deposti, rapendo

poi i fanciulli in un’estasi mistica da cui si distaccano dopo molto tempo.

L’episodio cita come fonte l’amico di Cristo, amico dei monaci e amico dei

poveri Giorgio personaggio noto all’epoca per essere stato prefetto

d’Africa. Inspiegabilmente la versione latina del Migne corregge il nome

in Gregorio, senza per altro spiegare. Il fatto che nel greco originale PG

lascia Gheòrghios, lascia supporre che si tratti di un errore involontario.

Della svista si accorse anche Maisano, che, volgendo in italiano, segue la

recensione greca.

95

Nel mio paese (era dalle parti di Apamea, la seconda provincia dei Siri152),

c’è un villaggio a quaranta miglia dalla città, chiamato Gonagòn. Ai confini

dunque dell’insediamento, a circa un miglio alcuni ragazzi pascolavano pecore.

E come accade ed è solito succedere a dei ragazzi, volevano giocare com’è

abitudine dei ragazzi. E mentre giocavano dicevano l’un l’altro: Venite,

facciamo sinassi153 ed offriamo una prosfora154; ed essendo piaciuta a tutti questa

cosa, misero avanti uno di loro al posto del presbitero e due di loro al posto dei

diaconi155. E vengono ad una pietra eguale156e giocavano. E sulla pietra, come

152 Il Migne, seguito dal Maisano (Op. cit. p. 210) identificano la città in questione con Toraco. 153 Le fonti testimoniano un uso larghissimo di questo termine, che indicava originariamente in modo generico ogni forma di preghiera in comune, dalla stessa eucaristia all’ufficio divino. Nel caso degli anacoreti spesso la loro preghiera solitaria è definita sinassi, in apparente contrasto con quanto appena detto. Infatti la preghiera solitaria dell’asceta, per i padri del deserto riveste pienamente i caratteri della preghiera ecclesiastica. In epoche successive la sinassi, senza smarrire i significati originari, indicava anche il pasto comune che nelle feste riunisce gli anacoreti o la riunione dei cenobiti, in luogo a sua volta denominato sinassi, dove il superiore impartisce gli insegnamenti spirituali. 154 Ricordiamo quanto detto a proposito del pane eucaristico alla nota 70 di pag. 55. La pròsfora è, in questo caso, sinonimo di euloghìes del capitolo 25. C’è da chiedersi come mai il capo 25 utilizza il termine più generico di euloghìes? Forse perché, appunto, non si trattava di pani soltanto, ma anche di vino. Difficile affermarlo con sicurezza, anche se ci pare logica una tale spiegazione. 155 Ci viene probabilmente descritto un uso tipico del celebrare la sinassi liturgica a quell’epoca: un presbitero assistito da due diaconi, uno a destra, l’altro a sinistra del celebrante. 156 Alla lettera: pétran omalén. La versione latina di PG spiega con una perifrasi: erat enim in planitiae, mentre in italiano Maisano preferisce essere più aderente alla lezione greca e rende così: una roccia levigata (Op. Cit. p. 210). Secondo me, invece Giovani Mosco allude al fatto che la pietra somigliava molto ad una mensa eucaristica, la quale doveva essere in pietra e di dimensioni cubiche. Visto il tipo di gioco scelto dagli incauti ragazzi, è chiaro il tipo di pietra che cercavano perché fungesse da altare. Omalèn (letteralmente: uguale), in effetti, sembra alludere alle caratteristiche riscontrate nel masso da parte dei ragazzi, che forse non si sarebbero

96

nell’ordinamento del santuario (thysiasterìou) deposero i pani ed in una tazza di

coccio del vino. E si mettono davanti l’uno come presbitero e i due come diaconi

uno da una parte e uno dall’altra. E quello diceva la proscomidìa, mentre gli

altri muovevano l’aria con pezze157. Capitò che colui che fungeva da presbitero

conosceva l’anafora, siccome correva l’uso nella Chiesa di far stare dentro il

santuario i ragazzi durante le sante sinassi e di farli comunicare ai santi misteri

per primi subito dopo i chierici158. Dato che in alcuni posti i presbiteri sono

abituati a recitare ad alta voce159, capitò che i ragazzi avevano imparato la

preghiera della santa anafora, essendo essa ripetuta abitualmente ad alta voce.

accontentati che essa fosse levigata o liscia per poter avere una simulazione più verosimile. 157 Ai diaconi,in effetti, sta il compito di assistere a fianco del presbitero sia durante la proscomidìa, sia durante l’anàfora. I ragazzi mimavano con l’agitare di imprecisate pezze il movimento che i diaconi imprimevano ai flabelli, oggi sopravissuto in minima parte nella Liturgia cosiddetta bizantina. Si confronti a tal proposito la ricostruzione del rito siro-antiocheno secondo le Costituzioni Apostoliche in RIGHETTI, Op. Cit., vol. I, pp. 120ss. I flabelli non erano altro che dei ventagli. Sembra certo che tali accessori venissero usati principalmente per allontanare gli insetti dai santi misteri. 158 I santi misteri cui allude il testo sono ovviamente il pane e il vino consacrati. Ancora oggi vengono così denominati non solo nei trattati di teologia ortodossa, ma anche nel linguaggio popolare. Ricordiamo che il significato originario di mystérion nell’uso protocristiano si riferisce ai segreti divini rivelati. L’uso di far assistere i ragazzi all’interno del santuario e di comunicarli subito dopo i chierici, prima degli adulti è normalmente praticato ancor oggi nella Chiesa Ortodossa. I primi a comunicarsi sono i più piccoli, i neonati appena battezzati. Infatti, com’è noto, battesimo, cresima e comunione sono ricevuti insieme lo stesso giorno, come prevede l’uso cristiano antico. 159 Il Prato si colloca evidentemente in un periodo di transizione che porterà all’uso universale di recitare l’anafora sottovoce. Ai suoi tempi il passaggio doveva esser già quasi del tutto compiuto, se segnale come una particolarità di alcuni luoghi la recita ad alta voce dell’anàfora e della proscomidìa.

97

Come dunque ebbero compiuto tutto secondo l’uso ecclesiastico, prima che

spezzassero i pani, un fuoco discese dal cielo e divorò tutto ciò che era stato

preparato (tà proscomisthènta) e bruciò tutta la pietra, sì da non lasciare il

minimo ricordo né della pietra, né di ciò che era stato offerto su di essa. E

vedendo questo fatto improvviso, i ragazzi caddero a terra per il timore e

rimasero mezzi morti, incapaci di parlare e di rialzarsi da terra. Non rientrando

al villaggio all’ora in cui erano soliti tornare, ma giacendo a terra per

l’impressione, uscirono i loro genitori dal villaggio per vedere per quale motivo

non erano ancora rientrati. E cercandoli li trovarono buttati a terra, non in

grado di riconoscere alcuno dei presenti, né di rispondere a chi parlava (loro).

Vedendoli così tramortiti i genitori li trasportarono al villaggio, ciascuno

sollevando il proprio figlio; E vedendo in una tale estasi i figli erano stupiti, non

potendo apprendere la causa dell’estasi. E sebbene li interrogassero spesso tutto

il giorno, non ricevevano alcuna risposta e a coloro che domandavano era

impossibile assolutamente venire a conoscenza di nulla fino a che tutto quel

giorno e la notte non trascorsero. Allora infatti i ragazzi ritornando un poco in

se stessi spiegarono loro tutto, come era stato fatto e quello che era poi avvenuto.

E prendendo i genitori e gli abitanti del villaggio uscirono e mostrarono il luogo

nel quale era accaduto questo strano prodigio, indicando alcune tracce del fuoco

disceso dal cielo160.

160Il fuoco divoratore disceso dal cielo, com’è noto, ha più di un precedente biblico. L’avvenimento più famoso rimane la vittoria di Elia sui sacerdoti di Baal (I Re 18, 21-40). Qualcosa di simile accade ancora all’annuncio della nascita di Sansone, quando Manoach depone delle libagioni in onore di Dio su una pietra ed essa viene divorata con quanto v’era sopra dal fuoco celeste (Gdc, 13,1ss). Il fuoco celeste ha un riscontro

98

Alcuni, avendo udito dell’accaduto e convinti del fatto da questo, corsero

in città e riferirono ogni cosa sull’argomento al vescovo della città. Meravigliato

dalla grandezza e novità di quanto dettogli, si recò in quel luogo con tutto il

clero. Vide i ragazzi e sentì da loro il racconto dell’accaduto. Poi dopo aver visto

i segni del fuoco celeste, mise i ragazzi in cenobio e trasformò quel luogo in uno

splendido monastero. Sul punto nel quale era caduto il fuoco costruì la Chiesa e

il santo altare161.

Lo stesso signore Giorgio ci diceva di aver conosciuto uno dei ragazzi in

quello stesso monastero dove era avvenuto il prodigio e di averlo conosciuto da

monaco. E’ stato lui, il pio Giorgio, a raccontarci questo prodigio sovrumano,

curioso e assai poco noto in ciò che accade da epoche remote il sabato santo a Gerusalemme, nella chiesa del santo Sepolcro durante i riti ortodossi. Il patriarca di Gerusalemme entra nel santo Sepolcro a luci spente e durante l’intervallo in cui prega all’interno, si manifesta qualcosa di difficile da descrivere. Un globo luminoso, circondato da numerosi lampi attraversa il tempio dell’Anastasi accendendo col suo passaggio tutte le lampade ad olio della chiesa e le candele spente che i fedeli recano con sé. I primi minuti le fiamme accese da questo misterioso fuoco non bruciano e non scottano e se spente si riaccendono spontaneamente; dopo diversi minuti perdono una tale proprietà comportandosi come un fuoco comune. Il fatto è visibile a chiunque e le numerose riprese video dimostrano non trattarsi di una illusione collettiva, né di un miracolismo a buon mercato. Chi volesse vedere con i propri occhi può recarsi il prossimo sabato santo a Gerusalemme oppure collegarsi col sito internet: www.holylight.gr/agiosfos/holyli.html. Oppure: digilander.libero.it/ortodossia/SantaLuce/Lucesanta.htm. Un fatto del genere può essere senz’altro catalogato fra quei “misteri del medio oriente” che potevano indurre all’ironia Peter Brown. Certo questo tipo di letteratura religiosa che stiamo approfondendo talora è meno favolistica di quanto si vorrebbe, se soltanto si accettasse anche nella storiografia il metodo della ricerca sul campo. 161 L’uso di edificare la mensa eucaristica nel punti preciso in cui si ritiene avvenuta una manifestazione celeste è molto ben attestato. Ad esempio nella chiesa del roveto ardente del monastero di santa Caterina del monte Sinai, l’altare è collocato nel punto in cui si crede dovesse trovarsi il roveto ardente.

99

dicendo che è avvenuto ai nostri giorni (Caput CXCVI, PG 87, t. III, coll. 3079-

3084).

Ciò che sorprende in questi due episodi è, appunto il non

imbarazzo (solo apparente?) da parte di Giovani Mosco nel presentare

questi fatti di cui ha avuto notizia. L’episodio successivo, quello narrato

nel capitolo 197 in effetti si presenta come un approfondimento della

questione. Giovanni deve ricorrere a Rufino, autore della Storia

Ecclesiastica per dimostrare che la questione è complessa e già nota ai

padri delle epoche precedenti. Egli cita a questo proposito un aneddoto

della fanciullezza di sant’Atanasio, quando insieme ad alcuni altri

ragazzi giocava in riva al mare imitando i misteri liturgici della chiesa. Il

gioco fu notato dall’arcivescovo Alessandro, il quale, appreso che

Atanasio, interpretando il ruolo di vescovo aveva già battezzato alcuni di

loro, si fece spiegare il formulario che avevano utilizzato per il gioco.

Dopo averli accuratamente interrogati capì che conoscevano a memoria

il rito del battesimo e che lo avevano riprodotto secondo l’uso corretto

della religione cristiana. Dopo una consultazione con il clero di

Alessandria, il vescovo avrebbe deciso di considerare effettivamente e

regolarmente battezzati quanti Atanasio era riuscito a battezzare prima

dell’intervento del vescovo. Dopo di ciò il vescovo Alessandro convinse

le famiglie di Atanasio e di quegli altri ragazzi che nel gioco avevano

impersonato il ruolo di presbiteri e diaconi ad affidarli alla chiesa perché

venissero istruiti ed educati in essa.

100

La questione della validità dei sacramenti in quell’epoca aveva,

dunque, altri risvolti.

Sarebbe facile trarre delle conclusioni, a questo punto, per coloro

che simpatizzano con la concezione del sacerdozio comune dei

battezzati, negando l’esistenza di un sacerdozio ministeriale nel

cristianesimo. Giovanni Mosco vive in un periodo e in una cristianità in

cui lo scontro su questi temi è assolutamente impensabile. Più che la

presenza di persone consacrate al culto è la potenza traboccante e

incontenibile del culto stesso, se si tratta esattamente di quel culto

praticato dalla chiesa ortodossa, come è evidenziato con chiarezza, a

provocare degli effetti imprevedibili. E’ questo che emerge dai racconti

riportati nel Prato. Il culto ortodosso, il suo cerimoniale articolato, il suo

formulario eucologico avrebbero in se stessi una potenza intrinseca

irrefrenabile, pronta a riversarsi alla prima occasione, anche là dove

sembrerebbero mancare alcune condizioni. E’ precisamente questo

aspetto misterioso dell’agire di Dio che induce i vescovi al timore e al

rispetto in entrambi gli ultimi due episodi menzionati. I ragazzi che

giocano col sacro non vengono puniti, ma nel primo caso, divenuti

testimoni di una teofania non sembrano più in grado di condurre una

vita ordinaria. Si costruisce un monastero per loro sul luogo della

teofania perché possano trasformare il resto dei loro anni in un unico

atto di culto al Dio che ha manifestato la sua gloria facendo loro

conoscere in anticipo mediante il rapimento estatico la gloria futura di

101

cui godranno nel regno dei cieli. L’esperienza mistica, come spesso

accade nei testi ortodossi, precede e promuove l’ascesi. Il fanciullo

Atanasio nei suoi giochi d’infanzia impersona pudicamente e

inconsapevolmente la dignità episcopale a cui sarebbe stato elevato

alcuni anni più tardi e i ragazzi da lui battezzati per gioco sono

considerati veramente battezzati. Anche la terminologia è differente da

come viene trattata oggi la materia da cattolici e protestanti nel discutere

la validità dei sacramenti. Giovanni Mosco non parla mai di validità di

un santo mistero della chiesa. Per lui il mistero avviene se viene eseguito

al modo della chiesa, con quelle parole e quel rituale che la chiesa

utilizza. E queste opinioni, come si sa, non sono assolutamente condivise

dai partigiani del sacerdozio universale. La forza intrinseca ed oggettiva

del rito non può trovare condivisione nemmeno in campo cattolico

romano, là dove, appunto senza sacerdozio non potrebbero esserci

sacramenti e dove si ritiene possibile che esista un sacerdozio valido

anche al di fuori dei confini della chiesa. E’ evidente che il cattolicesimo

attribuisce al sacerdozio un potere intrinseco e oggettivo svincolato a tal

punto da essere teoricamente, ma anche di fatto, incontrollabile. Lo

stesso potere è invece attribuito da Giovanni Mosco,o meglio, dai suoi

testimoni, non a uomini abilitati alla gestione del sacro, ma alla potenza

misteriosa che vive all’interno della chiesa e che attende di manifestarsi

in luoghi e momenti imprevedibili. Nel primo caso sono gli uomini a

possedere un potere sovrumano e che possono disporre a loro

102

piacimento anche quando non dovessero più far parte della chiesa. Nel

secondo caso un tale potere rimane nelle mani di Dio e gli uomini,

compresi i vescovi, prendono atto del suo manifestarsi. Il culto è il luogo

principale di una tale teofania.

Questi testi ci danno anche la possibilità di apprezzare la distanza

fra le varie concezioni del sacerdozio e del culto cristiano, fatto a cui non

molti studiosi sembrano aver mai dato attenzione. Sono considerazioni

che dovrebbero far comprendere meglio quanto è anacronistico far

risalire all’epoca costantiniana l’origine dei problemi che portarono alla

nascita del protestantesimo.

Un terzo episodio, sempre attribuito a sant’Atanasio e narrato al

capitolo 198 viene citato dal Mosco per precisare i termini della

questione. Atanasio, rispondendo al quesito se è possibile essere

battezzati senza credere, fingendosi credenti per un qualche doppio fine,

ricorda l’apparizione angelica avuta dal martire Pietro d’Alessandria. Ai

tempi di un’epidemia molti si facevano battezzare credendo che il

battesimo immunizzasse dal contagio. L’angelo disse: Fino a quando ci

manderete qui delle borse sigillate, sì, ma completamente vuote, senza niente

dentro? In ogni caso, dunque, il mistero del battesimo provoca un effetto

solo se chi lo riceve ritiene di aver fatto bene.

Bisogna rilevare, inoltre, che questi testi sono conosciuti e letti fin

dalla tarda antichità e non sono mai stati ritenuti eretici o quanto meno

103

sospetti; nemmeno gli studiosi umanisti che si occuparono della loro

edizione in occidente hanno mai sollevato la benché minima difficoltà a

loro riguardo. Certo, come sappiamo, una tale lettura è sempre stata

riservata ai pochi cultori del Thesaurum Ecclesiae Graecae.

Un fatto simile è narrato anche nel Bìos del martire Porfirio, che

subì il martirio sotto Aureliano, tra il 270 e il 275. Una compagnia di

attori di mimo a Cesarea di Cappadocia inscena una parodia dei riti della

chiesa con tanto di vescovo, presbiteri, diaconi e lettori, ma al momento

del battesimo, non appena l’attore Porfirio esce dalla vasca battesimale e

viene rivestito della veste bianca, lo Spirito santo gli si accostò. Ed allora

ecco che gli angeli del Signore, reggendo fiaccole, si posero davanti a lui,

precedendolo e tutta quanta la città fu scossa dalla loro voce. Non piccolo fu lo

stupore della folla. Alcuni dicevano: Sono gli dei quelli che vediamo assieme a

Porfirio. Altri invece esclamavano: E’ una prodigiosa visione. E altri ancora: Se

il battesimo di Porfirio, pur essendo fittizio, possiede una tale forza, quanto più

grande sarà quella di coloro che si accostano con tutta la loro pienezza del loro

cuore a Cristo, Re dei cristiani e che saranno proclamati eredi del regno dei cieli.

In conseguenza di ciò, dopo aver lasciato subito i loro posti, si gettarono ai piedi

di Porfirio, bramosi di ottenere una tale grazia e gli dissero: Fratello Porfirio,

prega per noi meschini, in modo che giunga pure a noi il dono dello Spirito

santo. Ma il beato Porfirio udendo queste suppliche pur essendo profondamente

scosso non sapeva come pregare; gli si accostò allora l’angelo del Signore e lo

invitò a guardare verso oriente. Dopo che ebbe fatto ciò che l’angelo gli aveva

104

indicato, subito il Beato levò le sue sante mani in gesto di preghiera verso il

Signore. Mentre pregava ecco che sopraggiunse una nube di fuoco che ricoprì il

teatro ed essa riversò acqua e luce su coloro che si accostavano al santo

battesimo. E quelli si ritrovarono immersi in quella luce, indossando anche loro

la bianca veste; usciti dal teatro pieni della grazia dello Spirito santo e in

compagnia degli angeli, raggiunsero la santa chiesa di Dio. La cosa fu risaputa

dal venerabilissimo vescovo della città di Cesarea ed egli andò loro incontro e li

salutò col bacio santo, poi tutti assieme entrarono nella santa chiesa di Dio e il

tempio si riempì da un’estremità all’altra di molti angeli che accompagnavano

quegli uomini illuminati dal battesimo…162

I guai iniziano quasi subito dal momento che il suo impresario,

Alessandro, era uno dei cittadini più ragguardevoli della città e non

aveva gradito l’esito imprevisto dello spettacolo. Si giunge così ad una

sfida con i sacerdoti di Apollo, i quali si dimostrano capaci di togliere la

vita ad un toro solamente invocando il loro nume, ma non di farlo

risuscitare come avevano assicurato. Dopo molte ore di invocazioni

lasciano il campo al neobattezzato Porfirio, il quale ottiene da Cristo il

segno della risurrezione del toro e provoca anche la caduta della statua

di Apollo, la quale, crollando rovina sul sommo sacerdote togliendogli la

162 MASPERO F., Santi Folli della Chiesa d’Oriente, ed. Piemme 1999, Casale Monferrato (Al), pp. 306-308. La recensione su cui il Maspero basa la sua traduzione è quella pubblicata la prima volta da P. Van den Ven negli Analecta Bollandiana (29, 1910), dove lo studioso olandese fornisce interessanti approfondimenti sui martiri cristiani provenienti dal mondo della pantomima del tardoantico. Era frequente la parodia del battesimo cristiano sui palcoscenici dell’epoca; ma anche gli stessi dei pagani venivano comunemente sbeffeggiati per esilarare il pubblico.

105

vita163. L’incredulo Alessandro in preda alla collera per quanto visto,

decide di far decapitare il neofita. Ricevuta la comunione ai divini

misteri dalle mani del vescovo, Porfirio, dopo aver pregato per un lungo

tratto a braccia levate, si segna in tutto il corpo164 e viene decapitato il nove

di novembre.

Oltre al prodigio, che svela la potenza intrinseca del rito cristiano,

di cui abbiamo già parlato, ci pare utile sottolineare ancora una volta

l’importanza dell’insegnamento che l’angelo impartisce a Porfirio sulla

163 L’episodio ricorda senza alcuno sforzo la sfida tra Elia e i sacerdoti di Baal (I Re 18,21-40), che abbiamo già menzionato a proposito del fuoco caduto dal cielo alla nota 155. Si noti anche la somiglianza nell’esito delle due sfide: anche il vittorioso Elia viene condannato a morte dalla regina Jezabel, che vede colpita e danneggiata la sua politica religiosa dal segno dato da Elia. 164 Il segno di croce è un gesto antico, ma al quale pochi storici hanno dato attenzione. Pochi sanno, per esempio che il segno di croce cosiddetto ortodosso era praticato anche dalla chiesa latina fino al 1500. Papa Innocenzo III (+1216), scriveva ancora agli inizi del XIII secolo: Signum crucis tribus digitis exprimendus est, ita ut a superiori descendat in inferius et a dextra transeat ad sinistram (De Sacro Altaris Mysterio, lib. II, c. 45). Altra fonte, questa volta non cartacea è costituita da un celebre bassorilievo del Duomo di Modena, risalente al XII secolo, nel quale sono raffigurati un presbitero benedicente, oggi diremmo alla greca, e quattro fedeli che a loro volta si segnano con le tre dita. Non siamo in grado di risalire con certezza alla nascita di tale gesto, ma diverse fonti, tra cui Tertulliano e la Traditio Apostolica attestano già nel II secolo l’esistenza di un segno di croce (cfr RIGHETTI, Op. Cit. , vol. I pp. 367 373). La sua forma tradizionale è oggi conservata, come si diceva, dalla chiesa ortodossa ed erroneamente ritenuta una particolarità del solo rito bizantino. Le tre dita unite rappresentano la Trinità, mentre le altre due abbassate simboleggiano le due nature di Cristo che discese dai cieli. Una fonte germanica del VI secolo testimonia l’esistenza del segno di croce a mano aperta, come dal XVI secolo è in uso fra gli stessi latini. La mano aperta sembrerebbe negare la Trinità e le due nature di Cristo e quindi questo potrebbe essere l’antico segno di croce degli ariani; l’arianesimo era infatti assai diffuso tra le popolazioni germaniche (cfr. Mon. Germ. Auct. Antiq., I, 28. EUGIPIUS, narrando la morte di san Severino di Colonia, avvenuta nel 482, descrive il segno di croce compiuto extenta manu). E’ da notare anche che il segno veniva compiuto anche presso i latini portando le dita dalla fronte prima sulla spalla destra e poi sulla sinistra, come abbiamo letto nella citazione di papa Innocenzo III.

106

preghiera. La preghiera pura del neofita, che volge le mani e lo sguardo

verso oriente, come indicato dall’angelo del Signore, attira la

manifestazione della nube luminosa che è chiaramente anch’essa una

vecchia conoscenza biblica:

E avvenne che sul far dell’aurora il Signore guardò dalla colonna e dalla

nube di fuoco verso il campo degli Egiziani e sbaragliò il campo degli Egiziani165.

E mentre Aronne parlava a tutta l’assemblea dei figli d’Israele, si volsero

verso il deserto ed ecco, la gloria del Signore apparve sulla nube166.

Disse il Signore a Mosè: Ecco, io verrò a te nella colonna di nube, perché il

popolo mi ascolti mentre parlo a te e ti credano nei secoli167.

Già era venuto il terzo giorno ed era vicina l’aurora e ci furono tuoni e

lampi e una nube oscura sul monte Sinai e ci fu un grande squillo di tromba; ed

ebbe paura tutto il popolo nell’accampamento. E Mosè condusse il popolo

dall’accampamento verso l’incontro con Dio e si fermarono sotto il monte. Il

monte Sinai fumava completamente a causa della discesa di Dio su di esso nel

fuoco ed il fumo saliva come fumo di fornace e si turbò assai tutto il popolo; e

avvenne dunque che le trombe squillarono ancora più forte: Mosè parlava e Dio

gli rispondeva; discese allora il Signore sul monte Sinai sulla cima del monte e il

Signore chiamò Mosè sulla cima del monte e Mosè salì168.

165 Esodo 14,24. 166 Ibidem, 16,10. 167 Ib., 19,9. 168 Ib., 19,16-21.

107

E Mosè terminò tutti i lavori (la costruzione della tenda di Dio). E la nube

ricoprì la tenda della testimonianza ed essa fu ripiena della gloria di Dio. E Mosè

non poté entrare nella tenda della testimonianza perché vi gettava la sua ombra

la nube e la gloria del Signore aveva riempito la tenda. Quando poi la nube

saliva dalla tenda i figli di Israele si mettevano in cammino con i loro bagagli; se

la nube non saliva, non partivano fino al giorno in cui la nube saliva;: la nube

infatti era di giorno sulla tenda e fuoco era su di essa di notte davanti a tutto

Israele,in tutte le loro soste169.

E avvenne che quando i sacerdoti uscirono dal santuario la nube riempì la

dimora. E non poterono i sacerdoti restare a compiere la liturgia in presenza

della nube, poiché la gloria del Signore aveva riempito la dimora170.

Nell’anno in cui morì il re Ozia, vidi il Signore assiso sopra un trono

eccelso ed elevato e ciò che era più in basso di lui riempiva il tempio… e gli

architravi tremavano sopra gli stipiti a quei cori di voci e la dimora si riempì di

fumo…171.

E fu su di me la mano del Signore, e guardavo ed ecco un soffio che

sollevava venne da settentrione ed in esso c’era una grande nube ed un bagliore

intorno ad esso ed un fuoco guizzante172.

169 Ib., 40, 28-32. 170 I Samuele (III Re), 8,10-11. 171 Isaia, 6,1. 4ss. 172 Ezechiele, 1,3-4.

108

Mentre (Gesù) pregava l’aspetto del suo volto fu mutato e la sua veste

divenne candida e risplendente. Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano

Mosè ed Elia apparsi nella gloria… mentre (Pietro) diceva queste cose venne

una nube e li ricoprì; ed ebbero paura nell’entrare nella nube e dalla nube ci fu

una voce che disse: Questi è il mio amato figlio, ascoltatelo173.

Non vi siete infatti avvicinati ad un monte materiale, né ad un fuoco

ardente, né a caligine, né a tenebra, né a tempesta, né a clamore di tromba, né a

suono di parole… ma vi siete accostati a monte Sion e alla città del Dio vivente,

alla Gerusalemme celeste e alle miriadi di angeli, adunata e chiesa dei

primogeniti iscritti nei cieli e a Dio giudice di tutti e agli spiriti arrivati alla

perfezione e a Gesù mediatore del nuovo patto e al sangue dell’aspersione, più

eloquente di quello di Abele 174.

Ricompare, dunque, la shekinàh che accompagna le teofanie

bibliche; ma lo stesso fuoco celeste, di cui abbiamo visto nel Prato varie

testimonianze, è una parziale apparizione di essa.

Tornando al Prato, la presenza di un angelo presso l’altare che

abbiamo visto accorrere a dare spiegazioni al presbitero Giovanni, viene

rafforzata da un'altra testimonianza, riportata al capitolo IV ed attribuita

ad un certo abba Leonzio del monastero di san Teodosio il cenobiarca.

173 Luca, 8,29-31.34-35. 174 Ebrei, 12,18-19. 22-24.

109

Dopo che furono cacciati dalla Nuova Lavra coloro che vi abitavano175,

andai a stabilirmi io in quella lavra. Una domenica scesi in Chiesa a prendere la

comunione. Appena entrato vidi un angelo fermo alla destra dell’altare. In preda

a grande terrore mi ritirai nella mia cella. Mi giunse allora una voce che diceva:

Ho avuto l’ordine di stare vicino a questo altare perché è stato santificato (PG

87, t. III, coll. 2857-2858).

Assai più interessante risulta essere il capitolo X, il quale presenta

alcuni elementi attestanti l’esistenza di altari anacoretici nelle grotte e

non solo più nelle chiese monastiche. Un anacoreta del Giordano aveva

edificato per la sua preghiera una mensa eucaristica nella sua grotta, ma

poi, a causa di un infortunio al piede è costretto a lasciare il suo luogo

d’ascesi ed essere ospitato nella Lavra delle Torri.

C’era un anacoreta nelle grotte del santo Giordano, il cui nome era

Barnaba… Dopo che abba Barnaba l’anacoreta salì dalla sua grotta alle Torri e

vi trascorse un po’ di tempo, un altro anacoreta andò nella sua grotta; ed

entrando vede un angelo di Dio stare presso l’altare (thysiasterìou), che

l’anziano aveva costruito e santificato per la sua grotta176. E dice l’anacoreta

175 Probabilmente la comunità monastica della Nuova Lavra, a un certo momento, aveva aderito alle posizioni anticalcedonesi e quindi gli abitanti erano stati allontanati. Fatti del genere all’epoca erano frequenti e l’insediamento di comunità calcedonesi spesso era difficile: lo sfratto di monaci monofisiti poteva infatti richiedere l’uso della forza pubblica. L’episodio vuole far intendere che nonostante la separazione di quel cenobio dalla Chiesa, avvenuta un certo momento, Dio non aveva ritirato l’angelo custode dall’altare che gli era stato consacrato ed è proprio per questo che i monofisiti alla fine dovettero andarsene. 176 L’abitudine di edificare altari nelle grotte degli eremiti non è attestata negli Apoftegmata, che risalgono ad un’epoca immediatamente precedente a quella di

110

all’angelo: Che cosa fai qui? Dice a lui l’angelo: Io sono l’angelo del Signore e da

quando è stato santificato, è stato affidato a me da parte di Dio (PG 87, t. III,

coll. 2859-2860).

Bisogna segnalare la mancata comprensione del Traversari, la cui

traduzione viene riportata su PG, del significato preciso dell’ultima frase.

Leggiamo infatti nel latino: Ex quo santificata sunt ista, a Deo ipso mihi

credita sunt177. Maisano segue anche in questo caso la versione latina del

Migne: da quando le cose di questo santo luogo sono state consacrate, Dio le ha

affidate a me178. I verbi usati, heghiàsthe (è stato santificato) e epistèuthe (è

stata affidato) sono al singolare, non al plurale e perciò non sono retti da

un generico neutro plurale sottinteso, come intese il Traversari, ma

dall’altare sorvegliato dall’essere celeste, sottinteso in quest’ultima

pericope.

Giovanni Mosco. Può essere collegata alla diffusione del sacerdozio fra gli anacoreti, ma non significa che l’anacoreta Barnaba del racconto fosse presbitero e non è nemmeno sicuro che qualcuno vi avesse mai celebrato i misteri eucaristici. L’altare era innanzi tutto il luogo verso il quale si indirizzavano le preghiere, simbolo della mensa di Cristo e anche del suo sepolcro, come si legge nel Commentario Liturgico di san Germano di Costantinopoli, pubblicato da NILO BORGIA (Grottaferrata, Roma 1912). E’ probabile che fosse invalso fra gli anacoreti palestinesi del VI secolo l’uso di edificare degli altari, per così dire privati, nelle loro celle, allo scopo di rivolgere le loro intercessioni direttamente verso una santa mensa, così come si è abituati oggi a veder pregare di fronte al crocifisso. Un ulteriore elemento ci è fornito dalla narrazione stessa: il protagonista è chiamato semplicemente Barnaba l’anacoreta: se fosse stato anche sacerdote Giovanni Mosco lo avrebbe precisato, come in tutti gli altri casi. La meraviglia del secondo anacoreta, che vide l’angelo ritto nei pressi dell’altare può essere causata dal fatto che probabilmente egli sapeva che si trattava di un altare anacoretico, sul quale non si erano mai celebrati i divini misteri. 177 PG 87, t. III, coll. 2859. 178 MAISANO F., Op. Cit., p.71.

111

L’idea che lo spazio santificato è protetto da esseri invisibili posti

da Dio alla difesa di esso ha precedenti sia veterotestamentari che

neotestamentari. I testi che riguardano questo aspetto non mancano:

E parlerò a te da sopra il propiziatorio in mezzo ai due cherubini che sono

sopra l’arca della testimonianza…179

Fece il velo di porpora viola e di porpora rossa, di scarlatto e di bisso

ritorto. Lo fece con figure di cherubini, lavoro di disegnatore180.

E avvenne che, quando doveva celebrare il culto, nel suo turno di servizio

davanti a Dio gli toccò in sorte di incensare entrando nel tempio del Signore; e

tutta la moltitudine del popolo pregava all’esterno nell’ora dell’incenso. Gli

apparve dunque un angelo del Signore ritto alla destra dell’altare (thysiasterìo):

e al vederlo Zaccaria si turbò e il timore cadde su di lui181.

Anche il tesoro del tempio di Gerusalemme, se dobbiamo credere

ai libri dei Maccabei, è custodito da creature angeliche, soprattutto

quando Eliodoro tentò di prelevarne le ricchezze custodite182, mentre le

figure di cherubini che Dio vuole ricamate sul velo dietro il quale

collocare l’arca significano due cose: la prima, ovviamente, è la

protezione angelica esercitata sul luogo sacro. La seconda, a sorpresa di

molti, è la presenza, nel culto giudaico stesso e nel suo luogo più santo,

179 Esodo, 25, 22. 180 Ibidem, 36,35. 181 Luca, 1, 8-12. 182 II Maccabei, 3,1ss.

112

di quelle aborrite immagini sacre che taluni vorrebbero attribuire a

forme di cristianesimo decadente da riformare. A questo proposito è

bene tener presente che, come s’è visto poc’anzi, anche sul propiziatorio

dell’arca Dio avrebbe ordinato a Mosè di far scolpire le figure dei

Cherubini. L’assenza assoluta di immagini nel culto, dunque, non è

precisamente una prerogativa giudaica, né cristiana, ma piuttosto

islamica183.

183 Si è ricercata da varie parti l’origine prima dell’iconografia cristiana e, in particolare, dell’iconografia attinente alla liturgia, e ciò ha dato luogo a ogni sorta di supposizioni più o meno ingegnose. Ora queste origini ci sono diventate perfettamente chiare. Al pari di tanti altri elementi del culto cristiano primitivo, anche questo proviene dal culto della sinagoga. Sukenik, che ha studiato la maggior parte delle antiche sinagoghe di cui è rimasta qualche traccia, ci mostra senza possibilità di dubbio che l’opposizione degli ebrei a qualsiasi decorazione iconografica nelle sinagoghe non è affatto primitiva. Essa si è formata unicamente come reazione anticristiana e non prima del III o gli inizi del IV secolo della nostra era. Le sinagoghe antiche erano abbondantemente ornate di rappresentazioni di episodi biblici scelti. Tali rappresentazioni erano viste chiaramente non come semplici ricordi del passato, ma come l’espressione di una nozione soggiacente tutta l’aggadà (interpretazione tradizionale del culto ebraico). Secondo quest’ultima, le feste ebraiche erano partecipazioni permanenti del popolo agli eventi salvifici operati da Dio in suo favore nel passato. Le prime rappresentazioni cristiane, che si trovano non solo nelle catacombe, ma anche neiprimi edifici adibiti a chiese, seguono da presso l’antica selezione ebraica di tali eventi, applicando loro un’interpretazione cristiana rinnovata. Ma, quale che sia la sua novità, questa interpretazione è in linea con quella degli ebrei. Certo, il pasto degli Angeli con Abramo o il sacrificio di Isacco sono l’immagine dell’alleanza perennemente rinnovata non più mediante i sacrifici nel tempio, bensì mediante l’eucaristia. Ugualmente, Noè nell’arca non viene unicamente a ricordarci, con la Pasqua, l’esodo e la salvezza attraverso il mar Rosso, ma viene ad evocare il battesimo. E così via. Ma la selezione dei temi biblici e il modo di trattarli sono di una tale continuità che certi archeologi ammettono ancora con difficoltà che la sinagoga di Dura Europos, per esempio, sia veramente una sinagoga e non una chiesa giudeo-cristiana, a tal punto il suo ornamento assomiglia in modo sorprendente a quello di una chiesa coeva che si trova nella stessa zona. Ma, come ha dimostrato Sukenik, l’unica differenza tra la sinagoga di Dura Europos e le altre sinagoghe dell’epoca è che a Dura Europos una serie di circostanze speciali ha permesso la conservazione straordinaria di un complesso di affreschi di cui non si ritrova l’equivalente altrove, se non allo stato di frammenti sparsi. L’iconografia cristiana troverà, per la prima volta, nella chiesa bizantina la possibiltà di uno sviluppo completo e coordinato (BOUYER L., Architecture et Liturgie, Les Editions du CERF 1967 e 1991, trad. it. Edizioni Qiqajon 1994, Magnano, pp. 46-47). Il sito archeologico di Dura Europos, nel quale è stata rinvenuta la più antica sinagoga del mondo (II-III secolo),

113

L’ultima considerazione che suscita il capitolo XXV, come già si

accennava, è la particolare facoltà di abba Giovanni, monaco e

presbitero, di vedere l’intervento (letteralmente: epiphoìthesis) dello

Spirito santo nel corso della proscomidìa e dell’anàfora. Giovanni Mosco

raccoglie con vivo interesse testimonianze di questo genere su tali

argomenti, come possiamo constatare poco più avanti, al paragrafo

XXVII, dove incontriamo un monaco presbitero troppo elevato per poter

essere compreso dalla gente del villaggio per cui solitamente celebra i

divini misteri.

A dieci miglia dalla città di Ege, in Cilicia, c’è un villaggio chiamato

Mardardo184: in esso c’è una chiesa di san Giovanni Battista. Là viveva un

anziano (ghèron) presbitero185. Egli era poi assai grande186 e un anziano virtuoso.

completamente affrescata con immagini bibliche, in effetti, avrebbe già dovuto far rivedere la questione da tempo. Da notare anche che lo stile degli affreschi ricorda abbastanza quello cosiddetto bizantino. Per approfondire la ricerca sull’arte raffigurativa ebraica segnaliamo: SED-RAJNA G., L’Art Juif, Citadelles & Mazenod, Parigi 1995. 184 Il Traversari traduce il nome del villaggio con Mardando, e questa è anche la lezione seguita da Maisano (Op. Cit., p.78). 185 Con l’espressione ghèron presbyteros Giovanni Mosco non dice semplicemente che si trattava di un prete anziano; avrebbe potuto trattarsi in questo caso di un chierico sposato. Il termine utilizzato, invece è assai preciso ed equivale ad abba: lo ghèron, infatti, indica l’anziano della tradizione monastica, e cioè il monaco provato e spiritualmente maturo, in grado di guidare altri monaci e di dare consigli spirituali. Non è detto, poi, che lo ghèron fosse anziano anche anagraficamente. I monaci ancora in formazione, discepoli degli anziani, qui nel Prato, come negli Apoftegmata e in qualsiasi altra opera monastica ortodossa, sono chiamati semplicemente fratelli (adelphoì). La presenza in prossimità di villaggi di anacoreti ordinati presbiteri per la liturgia domenicale del villaggio stesso non doveva essere rara, visto che si riscontrano anche altri casi nelle fonti antiche: Il padre Macario raccontava di sé: Quando ero più giovane e vivevo in una cella in Egitto, mi presero a forza e mi ordinarono chierico nel villaggio. Ma poiché non volevo accettare, fuggii in un altro luogo (Apoftegmata, Macario 1, in MORTARI L., Vita e Detti dei Padri del Deserto, vol. II, Città Nuova 1990, Roma, p.

114

Un giorno gli abitanti del villaggio si recarono a causa sua dal vescovo di

Ege, dicendo: Liberaci da questo anziano (ghèron), perché ci affligge. Viene

infatti domenica e compie la sinassi all’ora nona e non mantiene l’ordinamento

comandato per la santa sinassi187. Il vescovo allora, prendendo in disparte

l’anziano gli dice: Monaco (kalòghere188), perché fai così? O non conosci la regola

della santa Chiesa? L’anziano, allora gli disse: In verità, mio signore, è proprio

10). L’informazione autobiografica fornitaci dallo stesso Macario è preziosa sotto due punti di vista: da una parte ci conferma la possibilità che i villaggi scegliessero i loro candidati alla carica di presbitero fra gli anacoreti più stimati che si erano insediati nei loro paraggi; d’altra parte Macario ci mostra quanto questa scelta doveva essere gradita agli anacoreti stessi. L’apoftegma, in effetti è una chiara esortazione rivolta a quanti vogliono dedicarsi al monachesimo a non lasciarsi attirare da una possibilità del genere, che in quel caso comporterebbe comunque un coinvolgimento con gli affari e le beghe del villaggio, con conseguenze immaginabili. 186 La grandezza di questo Ghèron è probabilmente da intendersi più in senso spirituale che di età anagrafica, visto il tipo di facoltà che il suo spirito aveva sviluppato, come si vedrà poco oltre. 187 Il testo latino di PG sembra attingere ad un altro manoscritto, infatti si legge: Accedit missam celebrare die Dominico, nunc hora termia, nunc autem hora nona, ut sibi visum fuerit, neque servat solemnem ac legitimum ordinem sanctae oblationis (PG 87, t. III, col. 2874). Purtroppo non viene attestata questa variante nell’edizione del Migne ed è sempre fedele al Traversari il Maisano, che rende questo passo traducendo letteralmente: La domenica viene a celebrare la funzione quando gli pare: una volta all’ora terza, una volta all’ora nona, e non segue l’ordinamento liturgico prestabilito (Op. Cit., P. 78). Sinceramente a noi pare una recensione assai sospetta e non solo perché non viene esibita la fonte che attesta l’eventuale variante del testo greco; l’anziano, infatti, rispondendo dirà che viene a stare vicino all’altare subito dopo il termine del suo canone notturno della domenica e da lì attende il manifestarsi dello Spirito santo. Più che l’imprevedibilità dell’ora di arrivo in chiesa del presbitero, era il fatto di dover spesso attendere l’ora nona per la sinassi eucaristica ad esasperare a tal punto la gente da portarla a denunciare tumultuosamente al proprio vescovo il presunto abuso. 188 Kalògheros, da kalòs ghèron, buon anziano è una variante nota per monaco ed è di uso strettamente popolare. Il Traversari, che ignorava questo dettaglio cercò di intuire e volse in latino con un rispettoso senior, al quale si accodò sprovvedutamente il Maisano con l’ancor più rispettoso: venerando padre (Op.Cit., p. 79). Kalògheros, invece, pur non essendo un insulto è un’espressione del linguaggio quotidiano del popolino, il demotikòn, e udita dalla bocca di un vescovo, dal quale ci si attende un linguaggio più elevato, assume il sapore di un amichevole rimprovero.

115

così e dici bene. Ma non so che cosa fare. Dopo il canone notturno della

domenica189 mi metto vicino al santo altare (thysiasterìo) e finché non vedo lo

Spirito santo adombrare il santo altare, non inizio la sinassi. Quando vedo

l’operazione dello Spirito santo, allora compio la liturgia190. Meravigliandosi il

vescovo della virtù dell’anziano e, dopo aver informato quelli del villaggio, li

congedò in pace glorificando Dio (PG 87, t. III, coll. 2873-2874).

Anche questo testo offre parecchi spunti di riflessione, a partire

dalle lamentele della gente, costretta ad attendere l’ora nona per la

sinassi. Il torto dell’anziano, secondo i suoi esasperati accusatori, sarebbe

quello di sovvertire l’ordinamento (tàxis) e gli orari liturgici. L’orario

prestabilito, infatti, per la celebrazione della liturgia eucaristica viene

desunto dal testo stesso, quando l’anziano dichiara di presentarsi presso

il santuario una volta terminato il canone notturno. L’alba, o comunque

il mattino, infatti è l’orario classico della celebrazione dei divini misteri.

Questo perché l’alba è collegata con la risurrezione di Cristo, la mattina,

ancora, con la Pentecoste, avvenuta all’ora terza191. Ed è dal Nuovo

189 Il Traversari nuovamente dimostra la sua comprensibile e scusabile parziale incompetenza traducendo la lezione tòn kanòna tòn nykterinòn con: nocturnos hymnos; egli era probabilmente a conoscenza dell’esistenza di una parte dell’ufficiatura bizantina denominata canone e quasi esclusivamente costituita da materiale innografico. Ignorava, però, che il canone notturno poteva anche essere, come in questo caso, la preghiera personale che il monaco compie nella propria cella, costituita da un certo numero prestabilito di salmi o altri testi religiosi, prostrazioni e invocazioni. Se ne parla diffusamente in tutte le vite di santi monaci, la descrizione del loro canone personale era considerata motivo di edificazione. 190 Maisano (Op. Cit., p. 79) omette del tutto una delle due frasi e rende così: Quando vedo che lo Spirito santo è presente, allora celebro la funzione. 191 Atti, 2,15.

116

Testamento, come testimoniano gli Atti degli Apostoli, che la preghiera

comune e l’eucaristia vengono celebrati in un tale orario, avvalorato

dalle ripetute apparizioni di Cristo risorto. Questo criterio potrebbe

risolvere da solo, a nostro avviso, la questione riguardante che cosa

intendessero principalmente celebrare i primi cristiani quando si

riunivano per la sinassi eucaristica. L’ultima cena, infatti, era avvenuta di

sera, mentre la morte in croce all’ora nona…

Non passa inosservato il fatto che, questa volta, il ritardo della

discesa dello Spirito Santo non dipende dallo ghéron, uomo assai

spirituale e illuminato a tal punto da riconoscere non solo la discesa dello

Spirito, ma anche le varie fasi della sua operazione mistica sul pane e il

vino offerti. L’ostacolo, la causa del ritardo va perciò ricercata nella gente

del villaggio, talmente indifferente alla vita dello spirito, da non

accorgersi delle qualità del loro presbitero, anzi, giungono a

lamentarsene col vescovo!

Ancora una considerazione merita tòn kanòna ton nykterinòn, vista

la facilità con cui una tale espressione viene fraintesa anche da eminenti

studiosi. Per dare un’idea di quello che poteva essere in pratica il canone

personale di un monaco, tra gli svariati esempi a nostra disposizione, ne

scegliamo tre di epoche differenti. Il primo è il celebre canone di

sant’Arsenio192 (IV secolo), divenuto leggendario.

192 Arsenio nacque a Roma nel 354 e venne ordinato diacono da papa Damaso; trasferitosi a Costantinopoli, forse come precettore dei figli dell’imperatore Teodosio,

117

Raccontavano di Arsenio che il sabato sera, quando già spuntava la

domenica, volgeva le spalle al sole e stendeva le mani al cielo in preghiera, finché

di nuovo il sole gli risplendeva in viso; allora soltanto si metteva seduto193.

Il secondo esempio di canone notturno è quello praticato da un non

meglio identificato abba Filemone, vissuto nel deserto egiziano tra VI e

VII secolo e quindi contemporaneo a Giovanni Mosco. Il testo è stato

studiato e pubblicato nella celebre Filokalìa da Nicodemo l’Aghiorita, alla

fine del XVIII secolo (Venezia 1793). I fatti narrati, la descrizione del

deserto egiziano in cui visse Filemone, le questioni dogmatiche, lo

scisma monofisita, il vocabolario usato e altri riferimenti permettono di

collocare la vita di abba Filemone in un arco di tempo piuttosto

delimitato, che va dalla morte di Giustiniano fino all’invasione araba

esclusa.

Il canone del santo anziano era questo: nella notte recitava tutto il salterio

e le odi194 tranquillamente e diceva una pericope del vangelo. Poi si sedeva, da

decise in un secondo momento di unirsi agli asceti del deserto egiziano, prima a Scete e, infine a Tura, nei pressi dell’attuale Cairo, dopo essere scampato alle due incursioni di barbari che devastarono Scete in quegli anni. Come asceta è sempre stato considerato uno dei più radicali, più che per le veglie notturne, nelle quali per altro non fu il solo a cimentarsi, soprattutto per la sua volontà di nascondimento e di isolamento e la durezza con cui difendeva il suo esilio volontario. La sua morte è collocata tradizionalmente nel 449. La sua fama non ha mai conosciuto declino nella Chiesa ortodossa, numerosi elogi e panegirici gli furono tributati persino dai padri del cenobitismo, come Teodoro lo Studita. 193 Apoftegmata, Arsenio,30, in PG 65. La traduzione italiana migliore è stata curata da MORTARI L., Vita e Detti dei Padri del Deserto, 2 voll., Città Nuova 1971, Roma. Il paragrafo da noi citato si trova nel vol. I, a pag.105, della terza edizione del 1990.

118

solo, e diceva: Kyrie eléison195 così intensamente e a lungo da non poter più

emettere la voce. Dopo prendeva sonno e poi intorno all’alba, recitava l’ora

Prima…196.

Il terzo esempio di canone monastico notturno è di un epoca

decisivamente posteriore, la descrizione proviene dalla Vita di san Nilo

di Rossano (910 – 1005), il grande asceta calabro-greco, che trascorreva 194 Si tratta dei nove tradizionali cantici biblici, che nel salterio liturgico ortodosso sono riportati in appendice, al termine dei salmi. Cfr. Psaltirion, ed. To Peribòle tes Panaghìas, Thessalonìki 2001, pp. 213-232. 195 Kyrios (lat. Dominus) era un titolo cultuale dato agli Dei nel linguaggio pagano; ma la primissima comunità cristiana lo associò al nome di Gesù Cristo, come Dio, sull’esempio di san Paolo nel suo famoso inno ai Filippesi: Ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre (la Volgata traduce male il testo greco di Fil II,11…). Il titolo era l’espressione equivalente della fede dei battezzati nella partecipazione di Gesù alla divinità del Padre… Kyrios, nella supplice prece invocativa indirizzata genericamente a Dio, s’incontra molte volte nei libri sia del Vecchio Testamento come nel Nuovo, e perfino nell’uso devozionale pagano. Noi preghiamo Iddio, dicendogli Kyrie eléison, scrive Arriano nella biografia di Epitteto (Diatribae Epiteti, II,7; cfr BISHOP, Kyrie eléison, A liturgical consultation, in Liturgica historica, 1918, pp. 126-136; DOLGER F: I., Gebet und Gesang im christlichen Altertum, Munster, 1920, p. 50 ss.). La formula liturgia invalse dapprima in oriente nell’area della liturgia antiochena, attestata dalle Costituzioni Apostoliche e dal Crisostomo (Hom. 71 in Matthaeum, 4; Const. App. VII, 6,9). In occidente non si conosceva ancora al tempo di Egeria (395 circa), perché questa fa espressamente notare che, mentre a Gerusalemme, ai diversi inviti del diacono, si rispondeva Kyrie eléison, nei suoi paesi si dice Domine miserere (Itinerarium Egeriae, 24,5). Il Concilio di Vaison (Arles) nel 529, raccomandando di adottare il Kyrie eléison nella Messa e nell’ufficio sull’esempio di Roma, lascia supporre che la sua introduzione in Italia fosse recente. E’ stato dunque non prima del V sec. che il Kyrie eléison dall’oriente venne importato a Roma e di qui passò nelle Gallie e in Spagna mantenendosi nella sua forma greca. Pp. Gelasio (+496), come tutto porta a credere, lo scelse quale risposta popolare alla Deprecatio litanica, da lui introdotta nella Messa. Il Chrìste eléison fu aggiunto al Kyrie nella Messa da S. Gregorio M. (+604)… (RIGHETTI, Op. Cit., vol. I, pp. 213-214). 196 ANONIMO, Discorso Utilissimo sull’Abate Filemone, in “La Filocalia”, vol. II, pp. 359-360, trad. it. a cura di ARTIOLI M.B. e LOVATO M.F., Gribaudi 1983, Torino. Abba Filemone è ritornato popolare dopo secoli di semi-oblio grazie alla pubblicazione della Filocalia. Un ulteriore impulso alla sua fama è stato dato dalla pubblicazione della sua vita in appendice all’edizione del 1884, curata da Teofane il Recluso, de I Racconti di un Pellegrino Russo (ed. it. a cura di CAMPO C., ed. Rusconi 1977, Milano).

119

gran parte della notte e dello stesso giorno nel compimento delle sue

lotte spirituali.

Un’ora sola egli concedeva al sonno, poiché altrimenti non avrebbe potuto

fare la digestione; il restante della notte lo spendeva nella recita del salterio, in

fare cinquecento metanie197, e nella recita degli inni del Mesonittico e del

Mattutino198.

Come si vede il canone notturno può assumere diverse forme, a

seconda dell’inclinazione e delle possibilità dell’organismo, come già era

noto nel VII secolo all’autore della Scala Paradisi199, che così riassumeva:

197 Si tratta delle grandi metanie o grandi prostrazioni di cui parlammo all’inizio della descrizione del rito della Protesi. Se vogliamo una descrizione di come si svolgeva la preghiera del canone notturno con le metanie, lo stesso Prato ci fornisce una interessante testimonianza al capo CXLVI, in cui si narra una curiosa apparizione del Martire Giuliano sotto l’aspetto di un arcidiacono suo omonimo, un’esperienza toccata al patriarca d’Alessandria Eulogio mentre compiva il suo canone notturno. Una notte mentre recitava il suo ufficio da solo nella chiesa del Patriarcato, vide in piedi accanto a sé l’arcidiacono Giuliano. Rimase turbato nel vederlo, perché aveva osato entrare senza annunciarsi; tuttavia non disse niente. Completò la salmodia e si prostrò. Così fece anche colui che gli era apparso con l’aspetto dell’arcidiacono. Quando però il Patriarca si alzò per pregare, l’altro rimase inginocchiato a terra. Allora il patriarca si rivolse a lui dicendo: Fino a quando resterai a terra? Rispose l’altro: Se non mi dai una mano per sollevarmi non riuscirò ad alzarmi. Eulogio stese la mano, lo afferrò e lo fece alzare. Poi ricominciò a salmodiare e quando si voltò non vide più nessuno. 198 GIOVANELLI G., S. Nilo di Rossano, Fondatore di Grottaferrata, Badia di Grottaferrata 1965, Roma, pp. 33-34. Si tratta dell’unica versione in italiano del Bìos del Santo, scritta nell’XI secolo dal discepolo Bartolomeo di Rossano. Ritengo utile precisare che il titolo del lavoro del Giovannelli si dimostra erroneo, dal momento che, come fra l’altro risulta dalla lettura del Bìos stesso, san Nilo non fondò il monastero di Grottaferrata, ma vi morì. 199 Giovanni Climaco, asceta sinaita, vissuto tra VI e VII secolo, anacoreta e igumeno del monastero di santa Caterina, autore della Klìmax, celebre trattato sulla vita monastica, che gli meritò il soprannome con cui è ricordato fino ai giorni nostri.

120

Alcuni innalzano a lui (Dio) le mani nella veglia della sera e della notte in

preghiera, quasi dimentichi del corpo e spogli di ogni preoccupazione; altri

attendono in veglia alla salmodia. Certuni piuttosto perseverano nella lettura;

altri invece, benché deboli, mediante il lavoro delle loro mani lottano per vincere

virilmente il sonno200.

Nelle pagine precedenti si considerava la concezione mistica

attribuita al rito ortodosso, che è provvisto, si potrebbe dire, di una sua

vita autonoma. L’attesa di segni da parte dello Spirito santo, che in

questo caso vediamo messa in atto dal santo presbitero, esclude ogni

possibilità di intendimento magico, come se, cioè, fosse sufficiente la

mera ripetizione di un tale formulario e di una tale ripetizione di gesti

per garantire sempre e comunque gli stessi effetti. Se così fosse il monaco

presbitero di Mardardo non avrebbe dovuto preoccuparsi se all’inizio

della sinassi, all’ora prestabilita dalla tàxis liturgica l’ombra dello Spirito

santo non si manifestava all’interno del santuario. Gli sarebbe stato

sufficiente iniziare il rito per attirare sempre e comunque lo Spirito

divino e per costringerlo a compiere le trasformazioni previste.

Dobbiamo anche ricordare che anche al capitolo XXV vediamo qualcosa

del genere, quando il presbitero Giovanni, ignaro dell’antecedente, non

vede i segni consueti dell’intervento dello Spirito santo, attribuisce a un

qualche suo peccato nascosto la causa di tale inconveniente. Era dunque

200 GIOVANNI CLIMACO, Scala XX,119, trad. it. a cura di RIGGI C., Città Nuova 1989, Roma. La Scala è nota in occidente col titolo di Scala Paradisi ed è pubblicata in PG 88, mentre il Prato è al volume 87, tomo III.

121

noto il fatto che qualche cosa poteva essere in grado di contristare a tal

punto lo Spirito Santo da tenerlo lontano dalla sinassi ufficiale o da

ritardarne la discesa nel santuario di ben nove ore? I testi che abbiamo

studiato vano in quella direzione: in essi constatiamo, infatti, il

manifestarsi dell’intervento dello Spirito di Dio là dove non ce lo

saremmo aspettato, come nel caso del fratello che recitava la proscomidìa

dell’anàfora recando le euloghìes in chiesa, o come nel caso del gioco dei

pastorelli; ma anche nel caso dell’altare edificato dall’anacoreta Barnaba

in una grotta del Giordano e santificato dalle sue preghiere e dalla sua

ascesi. Mentre talora, dove sarebbe normale attenderci un tale intervento,

non lo riscontriamo affatto, anzi, le persone dotate di vista spirituale non

lo avvertono. In definitiva la chiesa ortodossa, secondo questa visione,

conoscerebbe i modi corretti con cui si svolge la sinassi, e si tratta delle

parole e dei gesti del culto, ma i tempi, i momenti e le condizioni in cui

Dio gradisce l’offerta e invia il suo Spirito continuano a dipendere

esclusivamente da lui. L’uomo spirituale, il vero spirituale, dotato, in

virtù di una vita di fede intensa, purificato dalle passioni, è in grado di

accorgersi di ciò che veramente succede.

Una persona in grado, inoltre, di rendersi conto della differenza fra

l’ombra e l’azione dello Spirito santo, di distinguere una gradualità di

fasi nascoste ai sensi del corpo, che accompagnano lo svolgersi della

liturgia, compare una sola volta in tutto il Prato. Questa, molto

probabilmente è la grandezza di cui parla Giovanni Mosco presentando

122

ai lettori lo ghèron che celebrava la liturgia a Mardardo. Il segnale che egli

attendeva per iniziare la proscomidìa era l’apparire dell’ombra dello

Spirito santo sul santuario; questo è in effetti l’inizio della sinassi.

L’anàfora eucaristica veniva recitata nel momento in cui lo Spirito santo

era visto intervenire direttamente sul pane e sul vino preparati ed offerti.

Si vede con chiarezza, a mio avviso, in questo racconto, la distinzione,

ma anche la consequenzialità dei due segmenti liturgici.

Certo, per quanto consta dalle stesse fonti che ne parlano, una tale

facoltà era comunque rara e raro, effettivamente, è sempre stato il

sacerdozio fra i monaci ortodossi. Viene da chiedersi, a questo punto, se

la scelta dei candidati al sacerdozio nei monasteri del VI secolo non

dipendesse dall’acquisizione di una tale facoltà. C’è chi lo sostiene con

forza ai nostri giorni; e non solo a proposito del monachesimo, ma in

tutta la chiesa dell’era apostolica. Ioannis Romanìdis, in uno dei suoi più

appassionanti articoli201 cerca di ricostruire la vita spirituale che si

201 ROMANIDIS G., Gesù Cristo - La Vita del Mondo, in “Italia Ortodossa”, vol. I e II, 2003, pp. 30-54. Tale studio, tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia dalla rivista teologica Italia Ortodossa, è stato presentato durante il WCC Orthodox Consultation (Consiglio Mondiale delle Chiese- Consultazione Ortodossa) a Damasco (5-9 febbraio 1982). Il suo titolo originale era Jesus Christ – The Life of the World, ed è stato successivamente pubblicato in “Xenia Oecumenica” vol. 39, pp. 232-278. Scopo dell’intervento di Romanidis era l’illustrazione dello scopo fondamentale dell’esistenza della Chiesa, la terapia dell’uomo, attraverso vari approfondimenti neotestamentari e protocristiani fino all’era patristica classica. Secondo Romanidis il problema della Chiesa dell’era apostolica non era innanzi tutto e comunque come convertire il mondo alla propria religione, ma come guarire lo spirito umano dagli effetti del peccato, le passioni, di modo che possa essere abilitato all’esperienza della glorificazione. Questa suggestiva interpretazione delle Scritture trova ampio riscontro nella letteratura patristica di tutte le epoche ed è effettivamente il metodo tradizionale con cui la Chiesa ortodossa si è sempre accostata alle Scritture. Il

123

svolgeva all’interno della Chiesa dei primi secoli, incentrata su criteri di

terapia per l’anima, più che aspetti morali o missionari. La chiesa

proponeva la sua terapia dello spirito umano attraverso un percorso di

purificazione, illuminazione e glorificazione, al termine del quale l’uomo

entrava in contatto diretto con la gloria divina. Lo stato di guarigione

coincideva con la vita mistica in senso vero e proprio, quell’esperienza

che verrà descritta pochi secoli più tardi come divinizzazione. La terapia

spirituale poteva essere somministrata solo da chi era, per così dire,

guarito e quindi glorificato. Diveniva presbitero e, a maggior ragione,

episcopo, solo colui che veniva riconosciuto guarito dal suo terapeuta.

Al centro della struttura (della Chiesa) c’era la diagnosi della malattia del

cuore e la sua terapia attraverso il mezzo dei carismi il cui fondamento era la

glorificazione e il cui sine qua non era la preghiera dello Spirito santo nel cuore.

Quando la comunità locale era composta dal Corpo di Cristo paolino,

l’ecclesiologia eucaristica era la sua normale e naturale espressione strutturale.

Comunque, attraverso le varie fasi d’indebolimento del centro di questa

congregazione locale, la struttura della Chiesa ha subito un’evoluzione risultata

pensiero di Romanidis è tutt’altro che isolato all’interno della Chiesa ortodossa, ma rimane sostanzialmente sconosciuto all’occidente, che trova più corrispondenza in autori ortodossi che ignorano tali tematiche e le cui opere maggiormente rassomigliano a quelle dei teologi cattolici. Le numerose case editrici italiane, anche quelle piemontesi, che traducono e pubblicano gli autori ortodossi contemporanei hanno rifiutato finora di occuparsi delle opere di Romanidis, preferendogli studiosi assai meno rappresentativi dell’ortodossia. Egli fu anche storico; il suo maggiore contributo alla storia medievale, Franchi, Romani, Feudalesimo e Dottrina. Un Percorso Storico e Teologico alle Radici della Separazione dell’Occidente dall’Oriente, sarebbe di notevole interesse, ma rimane in attesa di pubblicazione. La sua scomparsa risale al 2003.

124

dalla determinazione di coloro che hanno trasmesso la tradizione della preghiera

dello Spirito santo di generazione in generazione, visto che questa è il cuore della

tradizione e della successione apostolica.

Si suppone che il clero fosse eletto dai fedeli, ossia da coloro che avevano

raggiunto lo stato della glorificazione o quello dell’illuminazione. Il processo

storico con il quale divenne possibile ad alcuni patriarchi e metropoliti ordinare

vescovi che non avessero raggiunto l’esperienza spirituale indicata dai dogmi il

cui mistero è inesprimibile, è descritto da san Simeone il Nuovo Teologo

(+1042), riconosciuto come uno dei più grandi Padri. Ciò significa che la sua

analisi è parte integrante dell’autocomprensione della Chiesa ortodossa.

In un lavoro sulla confessione, un tempo attribuito a san Giovanni

Damasceno, san Simeone spiega come coloro che nella Chiesa anticamente erano

laici furono ordinati vescovi simulando un’illuminazione che non avevano. Le

eresie apparvero nella Chiesa a causa di questi non illuminati…

“Incapaci di trovare simili candidati o, avendoli trovati, ma preferendo gli

indegni, alcuni patriarchi e metropoliti ordinarono vescovi coloro che non erano

nello stato di illuminazione. In luogo di questa essi richiesero solo che i nuovi

episcopi esponessero il Simbolo della fede per iscritto accettando di non avere

zelo per il bene, né di contrastare alcuno per il male, salvaguardando in questo

modo la pace nell’area della Chiesa a loro affidata, ciò che è peggio di ogni

inimicizia e di ogni gran disordine202””.

202 MIGNE, PG 95, col. 300.

125

Nella persona di san Simeone si può chiaramente distinguere la parte

della tradizione apostolica della diagnosi e della terapia, da secoli contrapposta a

coloro che volevano ridurre la salvezza alla fede confidando in dogmi e meriti

basati sulle buone opere e sulla moralità203.

E’ significativo che gli insegnamenti di Simeone il Nuovo Teologo

furono aspramente contrastati negli anni in cui visse a Costantinopoli,

causandogli persecuzioni ed esilio. Ma veramente trionfale fu la sua

postuma riabilitazione e il sinodo della Grande Chiesa gli assegnò il

rarissimo titolo di Teologo, che la tradizione ortodossa riserva a

pochissimi grandi mistici: l’evangelista e apostolo Giovanni e Gregorio

nazianzeno. Egli è, per la sua Chiesa il Nuovo Teologo, dopo i primi due

grandi. Aveva ragione, quindi, Romanidis a sottolineare come la

descrizione del decadimento spirituale, che provoca l’insorgere degli

scismi e delle eresie, sia parte integrante dell’autocoscienza che la Chiesa

ortodossa ha di sé.

Nelle pagine del Prato che finora abbiamo studiate e in molte altre

riscontriamo affinità con tali idee e l’atteggiamento dei vescovi ortodossi,

che compaiono in questi racconti, rivela chiaramente l’utilizzo di criteri

conformi a quelli esposti da Simeone il Nuovo Teologo ed esaminati da

Romanidis. In tutti gli episodi notiamo l’attenzione e l’importanza

accordata al livello di conoscenza mistica; l’autorità diocesana che

203 ROMANIDIS G. Op. Cit., pp. 48-49.

126

compare a più riprese nel Prato, si preoccupa di accertare la realtà e la

natura teofanica del fatto e non ha difficoltà a riconoscerlo

pubblicamente. Siamo, è vero in un’epoca in cui il livello mistico risulta

più frequente nel monachesimo, che non nel resto della cristianità. Ma è

anche il periodo in cui si consolida l’uso di affidare le cattedre episcopali

ai monaci; quale poteva essere il motivo che spingeva i cristiani

dell’epoca ad una tale fiducia verso il monachesimo? Forse proprio la

possibilità di reperire più facilmente fra i monaci un terapeuta che fosse

anche un asceta: in poche parole per avere comunque un mistico alla

guida della Chiesa. Il glorificato, l’uomo divinizzato, il vero mistico,

insomma, sarebbe il criterio di verità risalente alla tradizione apostolica.

Né la Bibbia, né i Padri considerano la glorificazione come un’esperienza

riservata solo alla vita dopo la morte. I terapisti normativi non sono solo coloro

che possiedono la preghiera incessante dello Spirito santo nei loro cuori, ma

anche quelli che hanno sperimentato la glorificazione già in questa vita…

Ciò significa che, per profeti, apostoli e padri, questa tradizione non è

molto differente dalla tradizione scientifica odierna. Ipotesi e teorie non possono

essere separate dalla tradizione della verifica empirica. La medicina non può

essere separata dalla diagnosi e dalla terapia. Diagnosi e terapia non possono

essere ridotte ad atti cerimoniali che non producono un attestabile ristabilimento

della salute. Allo stesso modo i sacramenti e la liturgia dalla purificazione e

dall’illuminazione della facoltà noetica, così come la fede, la preghiera, la teologia

127

e il dogma non possono essere separati dalla verifica empirica dell’incessante

preghiera dello Spirito santo nel cuore e dalla glorificazione204.

In breve lo scopo della Chiesa, come si diceva, è la terapia

spirituale, in grado di produrre in colui che vi si sottopone

completamente la guarigione ed il conseguente congiungimento con il

regno dei cieli in una esperienza reale, non immaginaria. Questo tipo di

uomo, oggetto dell’interesse di Giovanni Mosco, è il vero protagonista

degli episodi raccolti. L’esperienza mistica, in questo tipo di tradizione,

non era semplicemente il fine del monachesimo, ma del cristianesimo

stesso. Romanidis, allo scopo di definire in termini moderni la teologia

patristica ha coniato l’efficace espressione di “teologia sperimentale”,

perché basata su un metodo analogo a quello delle scienze sperimentali.

Chi non si accorge, egli continua, che molta letteratura patristica e

monastica cristiana, di cui il Prato è un esempio, si fonda su un tale

metodo, perde un elemento esegetico non secondario e rischia di

applicare i filtri interpretativi di altre epoche e di altre forme di

cristianità205. E da come ancor oggi vengono condotte molte traduzioni di

testi religiosi cristiani in lingua greca siamo indotti a ritenere che il

pericolo in questo senso non è da escludere.

204 ROMANIDIS G., Op. Cit., p. 53. 205 ROMANIDIS G., Franchi, Romani, Feudalesimo e Dottrina…, p. 51ss., Venezia 1998, traduzione pro manuscripto a cura del signor Pietro Chiaranz, che cortesemente ci ha concesso una copia in consultazione.

128

Un altro passo del Prato di notevole interesse, attestante il termine

proscomidìa, lo incontriamo al capitolo XCVII. L’occasione, questa volta,

è fornita da un problema di rapporti difficili tra monaci e vescovi; un

monaco cieco, un certo Giuliano, originario dell’Arabia, ha difficoltà a

considerarsi in comunione ecclesiale con colui che lo ha offeso,

addirittura Macario, arcivescovo di Gerusalemme e, allo scopo di avere

un parere autorevole interroga, mediante epistola, abba Simeone del

Monte Ammirabile. Probabilmente il quesito aveva la forme di quella

che oggi noi potremmo definire una “lettera aperta”. La risposta non si

fa attendere e, oltre alla prevedibile raccomandazione di non estraniarsi

dalla Chiesa per motivi personali, abba Simeone aggiunge a sorpresa

alcune notizie sul monaco Patrizio, originario dell’Armenia e

precisamente di Sebastopoli, che già era stato igumeno nel cenobio di

Abazano, ma poi aveva rinunciato per vivere in umiltà e nascondimento,

come l’ultimo dei monaci nel cenobio stesso di san Teodosio, dove

appunto viveva abba Giuliano il cieco.

Oltre a questo, sappi, fratello, che se c’è uno che può fare la proscomidìa

(proscomìsei) nel vostro cenobio, avete lì un anziano di nome Patrizio; questo

anziano sta fuori del santuario, al di sotto di tutti, vicino al muro occidentale

della Chiesa; e dice anch’egli la preghiera della proscomidìa, e viene considerata

la sua santa anafora (PG 87, t. III, coll.2953-2956).

Il testo non fu assolutamente compreso dal Traversari, il quale,

trovando strana la risposta apparentemente fuori tema correggeva il

129

verbo proscomìsei, a noi ben noto, con proskòpsei, e lo rendeva in latino

con inciderit206, intendendo così: se qualcuno cadesse (in eresia), avete lì un

anziano di nome Patrizio… Questa volta Maisano si dimostra ben più

accorto e intende correttamente: se c’è uno che può celebrare l’offertorio…207;

poco dopo, però, cade nuovamente in equivoco, interpretando così

quanto segue: vive fuori del santuario, in posizione infima, vicino al muro

occidentale della chiesa, intendendo le parole di abba Simeone come una

descrizione del luogo dove si trovava la cella in cui il monaco Patrizio

viveva. In realtà è chiaro, proprio se si intende il contesto di tutto il

discorso e il significato preciso delle parole della risposta, che abba

Simeone intende ben altro e, anzi, molto più di quanto non dica

espressamente. In parole povere egli rivela con tale messaggio, che il

presbitero allora in carica al cenobio di san Teodosio non è

assolutamente adatto al compito, dal momento che in cielo non viene

accolta la sua anafora, bensì la preghiera silenziosa e umile del monaco

Patrizio, il quale assiste alle funzioni, ovviamente dentro la chiesa, ma

fuori del santuario; il suo posto in chiesa è l’ultimo lungo il muro

occidentale ed essendo l’ultimo di tutti non viene mai coinvolto nel

servizio all’altare. Ma al momento della proscomidìa e dell’anàfora, egli,

che conosce il rito a memoria, ne ripete segretamente le parole e questa

206 PG 87, t. III, col. 2955. 207 MAISANO, Op. Cit., p. 128.

130

sua orazione nascosta, non quella compiuta dal presbitero in carica, è

quella che in realtà attira lo Spirito santo sull’offerta del pane e del vino.

Il rescritto di abba Simeone, come si diceva, è solo apparentemente

fuori tema. La lite fra i monaci di san Teodosio e l’arcivescovo di

Gerusalemme rischiava, infatti, di trascinare nello scisma e nell’eresia

probabilmente monofisita l’illustre cenobio, con gravi conseguenze,

come si può facilmente immaginare. L’asceta interpellato è dunque

arbitro di una questione che tocca non solo i rapporti disciplinari

all’interno del patriarcato di Gerusalemme; l’uscita dalla comunione

calcedoniana di un monastero così illustre avrebbe indebolito

notevolmente l’ortodossia in un momento delicato; il vasto prestigio

goduto dal cenobio all’interno della comunità cristiana palestinese

sarebbe andato tutto a favore degli anticalcedonesi, favorendone il

proselitismo. La seconda parte del rescritto, e nessuno finora sembra

averlo compreso, è collegata dunque strettamente con la risposta al grave

quesito. Abba Simeone, parlando di un monaco ignorato da tutti,

descrivendo a distanza il luogo da cui segue le funzioni in chiesa fornisce

la prova di possedere quel carisma spirituale che solo può garantire

l’autorevolezza necessaria alle sue raccomandazioni. Siamo di fronte

nuovamente a facoltà spirituali intese come il criterio di verità e autorità

della chiesa. Di fronte al pericolo della perdita di un monastero

importante abba Simeone è, per così dire, costretto a dare un segno che le

sue parole non sono semplici riflessioni umane, ma sono ispirate da Dio;

131

egli dichiara, pertanto, con un certo garbo, ma con chiarezza di conoscere

molte cose di quelle che accadono nel monastero di san Teodosio, anche

senza esservi andato, cose che soltanto in cielo sono conosciute; e cioè

che il presbitero del monastero non è degno dell’incarico e colui che è

degno è in realtà uno sconosciuto e apparentemente insignificante

ghèron, il più inosservato e meno calcolato del cenobio. La descrizione

esatta del posto assegnatogli in chiesa, da parte di una persona che non è

mai stata in quel monastero, è la prova che quanto abba Simeone dice

non è nient’altro che la pura verità. Come sappiamo dalla storia il

cenobio più antico della Palestina rimase al suo posto, fedele al concilio

di Calcedonia.

Un’ultima riflessione sul capitolo XCVI va fatta a proposito

nuovamente di una liturgia che si compie senza il concorso del

presbitero. Anzi in questo caso il presbitero sulla terra è sì presente, ma

nei cieli non è gradito. La liturgia terrestre viene accettata e unita a quella

celeste in virtù della proscomidìa e dell’anàfora recitate per devozione

personale da un monaco, sconosciuto sulla terra, ma ben noto nei cieli e

noto anche a tutti coloro che possiedono lo stesso livello spirituale.

Questa narrazione espone chiaramente e anche il tema del

riconoscimento reciproco fra carismatici, uno degli aspetti che fonda

l’autorità spirituale208. Abbiamo dunque la testimonianza che nella Chiesa

208 Il riconoscimento fra uomini detentori dello stesso carisma spirituale è testimoniato in molti altri passi del Prato. Per non dilungarci eccessivamente a

132

di quel periodo le scelte più importanti sono spesso fondate non su un

astratto principio di autorità, tipico di forme di cristianesimo di altre

epoche e altri luoghi, ma sulla parola autorevole di uomini in grado di

dare dei segni a garanzia di ciò che dicono. Ha ragione dunque

Romanidis quando parla di una teologia sperimentale, che non accetta

niente se non ci sono delle prove verificabili da chiunque. Privo di una

tale consapevolezza il Traversari, come abbiamo visto, non era in grado

di comprendere il testo e pertanto si sentiva in obbligo di correggere

arbitrariamente la lezione di proscomìsei in proskòpsei. Questo incidente,

occorso a un umanista di tale spessore, dovrebbe spingere molti ad

essere assai più cauti ad affrontare un tale genere di letture e di studi,

soprattutto se privi delle necessarie nozioni liturgiche e teologiche. La

sola conoscenza della lingua greca, la sola perizia filologica si

scapito del tema centrale della ricerca, ci limiteremo a riportare un solo altro esempio, tratto dal capitolo CIV: Una volta, prima del segnale dell'officiatura notturna, me ne stavo sdraiato sul mio lettino, quando udii qualcuno che diceva: Kyrie elèison con voce dolce e tranquilla. Contai cinquanta volte le parole Kyrie elèison. Per saper chi era quello che parlava mi affacciai alla finestra della mia cella, guardai in chiesa e vidi l’anziano inginocchiato. Una stella luminosa splendeva sul suo capo e mi rivelava chi era quel monaco. Perdonateci un’ulteriore digressione inerente all’argomento, più come curiosità che come prova scientifica. L’episodio che intendiamo ora riportare è molto simile a quello del VI secolo che abbiamo appena citato e sarebbe avvenuto in un monastero della Romania nel 1971 in presenza del celebre monaco Cleopa (1930-1998). Non sapeva che c’era qualcun altro nella chiesa perché era buio, dato che era inverno…La donna era in ginocchio nel mezzo della chiesa con le mani alzate e diceva con tutto il cuore queste parole: Signore,non mi lasciare… Allora vidi una luce bianca attorno alla sua testa che mi spaventò. La donna cadde con la faccia a terra e pregava senza voce. Il raggio di luce sopra di lei divenne più grande e crebbe sulla sua testa. Dopo un po’ di tempo la luce si spense lentamente. La donna si alzò e uscì dalla chiesa (BALAN I., Il Mio Padre Spirituale. Vita e Insegnamenti di Cleopa di Sihastria, trad. it. A cura di Rus V., ed. Lipa 2002, Roma, p. 85).

133

dimostrano insufficienti alla comprensione di queste pagine, sulle quali

anche i migliori critici del testo hanno dato prova di essere inadeguati.

Ancora al capitolo CVIII209 raccogliamo notizie interessanti per la

nostra tesi. Il fatto sarebbe avvenuto a Samo ed è riferito dall’igumeno

Isidoro, prima di divenire vescovo dell’isola; il protagonista è un non

meglio identificato presbitero, che da giovane era stato costretto dalla

famiglia a rinunciare al proposito di diventare monaco: si era sposato

con la fidanzata che gli aveva trovato la famiglia e in seguito era stato

fatto presbitero. Il suo zelo spirituale era aumentato a tal punto da

coinvolgere la sposa, con la quale viveva segretamente in castità e nella

costante recita del salterio, che entrambi conoscevano a memoria.

Essendo stata ordita una grave calunnia sul suo conto, il vescovo, che

ignorava il valore del suo presbitero, fu costretto a imprigionarlo nel

carcere ecclesiastico, dove venivano rinchiusi i chierici colpevoli di gravi

crimini.

Mentre dunque si trovava nel carcere, giunse la santa Domenica, e la

notte gli appare un giovane di gran bell’aspetto e gli dice: Alzati, presbitero, vai

nella tua chiesa a fare la santa proscomidìa210.

Il presbitero viene condotto fuori dal carcere e accompagnato fino

ad un miglio dal villaggio dove prestava servizio; a questo punto il

209 PG 87, t. III, coll. 29769-2972. 210 L’espressione usata non è questa volta il verbo proscomìzein che già abbiamo incontrato, ma la perifrasi tèn aghìan poièses proscomidèn.

134

misterioso giovane si dilegua e mentre l’ignaro fuggitivo entrato nella

chiesa del villaggio inizia la proscomidìa, la fuga viene scoperta e riferita

al vescovo.

Pensando che fosse fuggito, il vescovo manda un servo dell’episcopio

dicendo: Và e vedi se il presbitero è nel suo villaggio, ma non fargli nulla.

Andando dunque il servo lo trovò nella chiesa mentre compiva la santa anafora211

e tornando disse al vescovo: E’ là e l’ho trovato mentre faceva la proscomidìa212.

Il vescovo a questo punto decide di salire al villaggio per

l’indomani, allo scopo di trascinare nuovamente il presunto fuggiasco in

prigione con gran disonore, ma quella stessa notte lo stesso giovane

sveglia nel sono l’ignaro presbitero e lo riconduce nel carcere da cui lo

aveva tratto. L’inusitata duplice evasione, prima in un senso, poi

nell’altro, suscita non poca perplessità; si fanno indagini per identificare

lo sconosciuto complice, ma senza esito. Alla fine il vescovo riconosce

nella singolarità del fatto l’intervento di una creatura angelica, e riabilita

pienamente il presbitero ingiustamente calunniato. L’intero episodio non

211 Letteralmente: tèn aghìan anaforàn poioùnta. 212 Letteralmente: òti proscomìzonta autòn èfthasa. Si noti che il servo in questo caso utilizza proscomidìa come sinonimo di anàfora; questo non deve stupire, dal momento che nell’epoca in cui sono avvenuti i fatti narrati da Giovanni Mosco la proscomidìa o pròtesi e l’anàfora non erano separate come nell’uso successivo, ma avvenivano subito dopo il vangelo senza soluzione di continuità. In effetti è solo dalla metà del medioevo che vengono considerati due rituali disgiunti, mentre è assai più logico che il pane e il vino, dopo essere stati preparati (la proscomidìa), vengano immediatamente offerti (l’anàfora); la loro santificazione e trasformazione, nel VI secolo erano considerate tutt’altro che automatiche, dal momento che si riteneva, come s’è visto, che lo Spirito santo desse maggiore importanza a certe condizioni spirituali, più che all’azione in persona Christi di un sacerdote validamente ordinato.

135

è privo di riferimenti alla miracolosa scarcerazione dell’apostolo Pietro,

narrata in At 12, 1-19.

Un altro caso di calunnie, questa volta a carico di un vescovo viene

riportata da abba Teodoro al capitolo CL.

Ci riferì abba Teodoro che a trenta miglia da Roma c’è una piccola città

chiamata Romella213. In questa città c’era un vescovo assai grande e virtuoso.

Una volta, dunque, venero alcuni da Romella al beatissimo papa di Roma

Agapito214 e accusarono lo stesso vescovo davanti al papa dicendo: Mangia nel

213 Vani, finora, i tentativi di identificare la città di Romella. 214 Si tratta di sant’Agapito I, papa di Roma. Romano della gens Anicia, che aveva già dato papa Felice II (o III), e che poco più tardi darà san Gregorio Magno, era figlio del presbitero Gordiano, titolare della chiesa dei santi Giovanni e Paolo sul Celio. Dopo l’assassinio del padre ad opera degli avversari di papa Simmaco (501-502) intraprese egli stesso la carriera ecclesiastica; in qualità di arcidiacono della chiesa di Roma ebbe rapporti con Cassiodoro, con il quale concepì il progetto di fondare un’università cristiana sul modello delle già note istituzioni di Alessandria e Nisibi (CASSIODORO, De Institutione Divinarum Litterarum Praefatio, in PL, LXX, coll 1105 sg.) e a tale scopo fornì l’abitazione che il padre gli aveva lasciato sul Celio di una ricca biblioteca di cui si è conservata l’iscrizione (DE ROSSI G. B., Inscriptiones Christianae Urbis Romae, II, Roma 1888, pp. 16 e 28). Il 13 maggio 535 succedette a papa Giovanni II cinque giorni dopo la morte del predecessore ristabilendo la pace nella città dilaniata dalla rivalità tra il partito ortodosso e quello filo-goto. Concepì tutta la sua attività in funzione del rispetto delle tradizioni della chiesa e dei canoni sinodali, guadagnadosi così stima e popolarità anche a Costantinopoli, dove fu accolto trionfalmente nel 536. Il motivo della sua visita alla capitale dell’impero romano riguardava l’imminente spedizione di riconquista dell’Italia che l’imperatore Giustiniano si apprestava ad allestire: Teodoto, re degli Ostrogoti sperava di scongiurare l’invasione inviando papa Agapito I come mediatore presso l’imperatore. Sul piano politico la mediazione fallì, mentre sul piano religioso la sua presenza a Costantinopoli fu determinante a sventare le trame dell’augusta Teodora e del patriarca Antimo, già metropolita di Trebisonda, miranti a stabilire il monofisismo a Costantinopoli. Antimo fu deposto e lo stesso Agapito, col consenso del popolo e della chiesa costantinopolitana, consacrò patriarca l’ortodosso Mena. Un mese dopo questi fatti, il 22 aprile del 536, mentre si accingeva a tornare a Roma, la morte lo raggiunse inaspettatamente. Ebbe funerali quali non vi aveva mai avuto alcun vescovo o imperatore. La sua salma fu poi traslata a Roma in una cassa di

136

diskàrion215 santificato.Il papa, stupito da quanto udito mandò due chierici ed essi

condussero legato e a piedi il vescovo a Roma e giunti lo gettarono in prigione.

Dopo che il vescovo ebbe dunque trascorso tre giorni in prigione, giunse la santa

Domenica. E mentre il papa dormiva, allo spuntare della santa Domenica216, vede

in sogno uno che gli dice: Questa Domenica non fare la proscomidìa (mè

proscomìses), né tu, né alcun altro dei chierici, né dei vescovi che sono nella

città, ma hai (a disposizione) il vescovo che sta in prigione: lui voglio oggi a fare

piombo nel settembre dello stesso anno 536. La memoria e la popolarità di sant’Agapito I papa di Roma antica erano ancora molto vive ai tempi di Giovanni Mosco. 215 Si tratta del vassoio sul quale viene deposto il pane eucaristico. Ne abbiamo già parlato all’inizio del paragrafo dedicato alla descrizione del rito della proscomidìa o protesi. Non deve sembrare un trattamento esageratamente severo quello inflitto per punizione all’innocente vescovo. I vasi sacri e le suppellettili utilizzate per il culto non possono essere mai più utilizzati per altri usi. Quando questo accadeva non era considerato un semplice abuso, ma un atto dei più empi. Può essere utile a questo proposito menzionare l’ancor più severa punizione che Nilo di Rossano comminò al suo stesso nipote per un caso analogo. Costui, trovandosi in cammino con alcuni confratelli e portando seco un calice con una patena (diskàrion nell’originale) d’argento, per via s’imbatté in una limpidissima fonte. Volendo bere di quell’acqua, tratto fuori il sacro calice, ed invaghito dalla candidezza del metallo, vi bevve egli e tutti i suoi compagni. Venuto ciò a conoscenza del Beato, questi si sdegnò assai con lui e, fattogli un severo rimprovero, lo teneva lontano da sé, tanto che neppure gli parlava. Questo alienamento da lui sembrava quasi una ripulsa da Dio… Il fratello, intanto, sopraffatto dal dolore del rimprovero e rattristato per la ripulsa del Padre, cadde in una grave malattia e ne morì. Il Beato, durante tutti i giorni della malattia del fratello, dovendo pure, per entrare ed uscire di chiesa, passare davanti alla cella di lui, non lo volle mai vedere, né lo degnò neppure di una sua visita fin dopo la morte… Dopo la morte del fratello, vedendo uno dei monaci anziani che il Padre lo piangeva e ne lamentava la perdita, avvicinatosi a lui, in disparte, gli disse tutto addolorato che quel fratello era passato di vita per l’afflizione d’essere stato abbandonato da lui. Ed egli rispose: Se io non mi fossi in tal modo alienato da lui, Dio non lo avrebbe ricevuto con sé; ed ora io sono persuaso che, per questa piccola tribolazione, l’anima sua sarà fatta degna di un grandissimo gaudio; poiché Dio non è così ingiusto, che, liberando uno da un carcere, lo confini poi in un altro carcere (BARTOLOMEO di ROSSANO, Vita del Nostro Padre tra i Santi Nilo di Rossano, 82; trad. it. a cura di GIOVANELLI G., Op. Cit., pp. 99-100). 216 Il giorno, secondo il calendario ecclesiastico, che dipende da quello ebraico, inizia col tramonto del sole: …e fu sera e fu mattino, primo giorno (Gen 1,5).

137

la proscomidìa (ìna proscomìse). Quando dunque il papa si svegliò, andava

dicendo a se stesso a proposito dell’apparizione che aveva visto: Una tale accusa

ho accettato contro di lui e proprio costui deve fare la proscomidìa

(proscomìsai)? Gli giunse allora una seconda volta una voce da un’apparizione

che diceva: Ti dico che il vescovo che sta in prigione, lui deve fare la proscomidìa

(proscomìsai). Allo stesso modo poi apparve a lui che esitava queste cose

dicendogli. Il papa svegliatosi manda a prendere il vescovo dalla prigione e lo

interroga dicendo: Qual è la tua opera217? Il vescovo non rispondeva altro se non:

Sono un peccatore218. Allora, siccome non poteva persuadere il vescovo a dire

217L’opera (ergasìa) va intesa non come il tipo di professione, dal momento che la sua professione, e cioè quella di vescovo, era nota al papa; la domanda ovviamente è pertinente alle accuse rivolte per le quali si chiedono, in questo modo, delle spiegazioni. Il papa è già convinto, suo malgrado, di avere di fronte un uomo molto particolare e nell’interrogatorio che tardivamente compie cerca di scoprire le qualità spirituali del vescovo ingiustamente accusato. 218 Il silenzio di fronte ad accuse ingiuste è un atteggiamento attestato in numerose altre fonti apoftegmatiche o agiografiche. Che non si tratti dell’affettazione di una falsa umiltà è certificato dai rischi che vengono corsi da coloro che rifiutano di difendersi. L’apoftegma 1 di Macario ci offre un interessante esempio. Avvenne che una vergine del villaggio, tentata, cadde in peccato. Quando si accorsero che era incinta le chiesero: Chi è stato a far questo?Disse: L’anacoreta. Quelli del villaggio vennero a prendermi, mi attaccarono al collo delle pentole nere di fuliggine e dei manici di vasi di terracotta, percuotendomi e dicendo: Questo monaco ci ha violato la vergine, prendetelo, prendetelo!… I genitori di lei dissero: Non lo lasceremo andare finché non avrà assicurato di mantenerla. Lo dissero al mio servitore ed egli garantì per me; ed io, tornato nella mia cella, gli detti tutti i canestri che avevo dicendogli: Vendili, e dà da mangiare a mia moglie. E dicevo fra me: Vedi, Macario, hai trovato moglie; devi lavorare un po’ di più per mantenerla. Facevo canestri notte e giorno e glieli mandavo. Venne per l’infelice il tempo di dare alla luce il bimbo, e il travaglio durò parecchi giorni senza che riuscisse a partorire. Le dicono: Che cosa significa ciò? Lo so, rispose, la ragione è che ha calunniato falsamente l’anacoreta accusandolo falsamente. Non è stato lui, ma quel giovane. Il mio servo venne a raccontarmi felice che la ragazza non poté partorire finché non ebbe confessato: Non è stato l’anacoreta, ho mentito contro di lui. Ed ecco che, udito ciò, tutto il villaggio vuole venire qui per darti onore e chiederti perdono. Ma io a questa parole, per non essere disturbato dalla gente partii e mi rifugiai qui a Scete. Questo fatto è all’origine della mia venuta qui ( cfr MORTARI L., Op. Cit., vol. II, pp. 10-11).

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altro, il papa gli dice: Oggi tu devi fare la proscomidìa (proscomìsai). E stando

egli davanti al santo altare (thysiasterìo), e stando il papa accanto a lui, mentre i

diaconi circondavano (kigchlisànton)219 l’altare il vescovo iniziò la santa anafora

e compiuta la preghiera della santa proscomidìa, prima della conclusione della

preghiera rimanente, iniziò una seconda volta la santa anafora e ancora una

terza ed una quarta volta. Meravigliandosi tutti della lentezza, il papa gli dice:

Che cos’è questo, perché hai detto per la quarta volta la santa preghiera e non la

concludi? Il vescovo allora rispose: Perdonami, o santo papa, poiché non ho visto

come di solito l’intervento (epiphoìtesin) dello Spirito santo: e per questo non ho

concluso; piuttosto allontana dal santo altare il diacono che ha il flabello, perché

io non oso parlare. Allora il divino Agapito dà l’ordine e il diacono s’allontanò e

subito il vescovo e il papa videro la venuta (parousìa) dello Spirito santo; ma

anche il velo220 che stava sopra il santo altare si sollevò da solo e coprì il papa e il

vescovo e tutti i diaconi che assistevano insieme col santo altare per tre ore (PG

87, t. III, coll. 3013-3016).

Al termine della singolare esperienza il papa, addolorato per

l’immeritato trattamento che egli stesso aveva impulsivamente e troppo

219 L’espressione utilizzata in greco: kigchlisànton, potrebbe essere intesa anche con l’alternarsi dei diaconi nel servizio alla mensa eucaristica, cosa prevista nel rituale quando vi sono numerosi diaconi, come nella liturgia archieratica descritta. 220 La mensa eucaristica, anche presso i latini, era rinchiusa da un velo, che veniva aperto solo durante l’anafora eucaristica. La presenza del velo là dove viene celebrata l’eucaristia ed è collocato il libro dei Vangeli è un chiaro elemento sinagogale, che trae la sua origine dal già citato passo di Esodo 36,35: Fece il velo di porpora e di bisso, di scarlatto e di bisso ritorto. Lo fece con figure di cherubini, lavoro di disegnatore. Si tratta di quello stesso velo dietro il quale stava l’arca, quel velo che, secondo i vangeli si lacerò al momento della morte di Cristo in croce (Lc 23,45).

139

precipitosamente inflitto al vescovo calunniato, stabilì di non prendere

più provvedimenti disciplinari prima di aver compiuto i necessari

accertamenti.

Merita un cenno il prodigio del velo d’altare sollevato per tre ore.

Fino a medioevo inoltrato la mensa eucaristica rimaneva chiusa dal velo

e gli stessi celebranti si limitavano a deporvi le specie eucaristiche

sollevando il velo quel tanto che bastava per richiuderlo

immediatamente. L’anafora era recitata con il velo chiuso, così che

nessuno vedeva il pane e il vino durante la preghiera eucaristica221. In

alcuni casi, per alcune persone illuminate si riteneva che lo Spirito santo

desse un segno della sua venuta e della sua operazione sui doni offerti;

qui abbiamo la descrizione appunto di un suo intervento spettacolare

che accomuna il momento della liturgia eucaristica al giorno della

Pentecoste: sull’altare della chiesa di Roma discende un vento che

221 L’uso di recitare l’anafora sul pane e il vino offerti e deposti sull’altare tenendo chiuso il velo dell’altare stesso fu praticato anche in occidente almeno fino al XIV secolo. Nel XIII secolo abbiamo diverse testimonianze: Circa hoc autem notandum est quod triplex genus veli suspenditur in ecclesia, videlicet quod sacra operit, quod sanctuarium a clero dividit, et quod clerum a populo secernit. Primum est nota littere legis; secundum nota nostre indignitatis qua indigni sumus immo inpotentes celestia intueri; tertium coercitio nostre voluptatis carnalis (DURANTI GUILLELMI, Rationale Divinorum Officiorum, I,35, trad. it. a cura di FREGUGLIA G., Lib. Ed. Vaticana 2001, Città del Vaticano, pp. 60ss). Molte preghiere liturgiche accennano a tale pratica, come per esempio l’orazione dopo il quinto vangelo nel rito dell’Olio Santo: Tu che hai chiamato anche me, umile peccatore e indegno tuo servo, che mi trovo intrecciato in molti peccati e avvolto in molte passioni e in tante maligne compiacenze, alla santissima e altissima e insuperabile dignità sacerdotale e mi hai reso degno di entrare nella parte più interna del Santuario, nel Santo dei Santi, ove i Santi Angeli desiderano affacciarsi e udire la voce evangelica del Signore Dio, e di vedere con i propri loro occhi la Santa Anàfora e di godere la divina e santa Liturgia… (cfr Mikròn Euchològhion, p. 206-207, ed. Apostolikì Diakonìa, Athina 1992).

140

solleva per tre ore il velo, mentre nel cenacolo di Gerusalemme

cinquanta giorni dopo la risurrezione di Cristo, si udì dal cielo un tuono

come di vento impetuoso che soffiando riempì tutta la casa222. Anche nel

vangelo secondo Giovanni lo Spirito santo veniva accostato al vento:

Lo Spirito soffia dove vuole e tu ne odi la voce, ma non sai donde venga,

né dove va: così capita a ognuno che è nato dallo Spirito223.

I segni dunque di una liturgia offerta in modo gradito e da persone

gradite potevano essere o il fuoco celeste o il vento impetuoso; entrambe,

comunque le manifestazioni avevano un riscontro nella narrazione della

Pentecoste. Il centro e il culmine del culto cristiano non era, dunque, la

crocifissione del Signore, pur commemorata, o se vogliamo,

memorializzata, ma la discesa dello Spirito santo.

Dobbiamo ammettere che se il Prato fosse stato conosciuto in

occidente nel basso medioevo sarebbe senza dubbio stato utilizzato da

coloro che sostenevano che i sacramenti amministrati da chierici indegni

non erano validi224. Ma prima di tradurre in termini di utilità apologetica

questa fonte, dobbiamo porci il quesito: come mai, là dove questi testi

sono stati scritti e furono sempre letti, la questione della validità dei

sacramenti non si è mai posta? Potremmo ipotizzare, senza dubbio

forzando la mano alla storiografia, che ciò accadde in occidente quando

222 Atti 2,2. 223 Gv 3,8. 224 Una trattazione di questo aspetto esula completamente dal nostro oggetto di ricerca. Si può consultare MERLO G.G., Eretici ed Eresie Medievali, Bologna 1989.

141

fu chiaro il divorzio fra carisma ed istituzione, quando, cioè, fra i chierici

non vi furono più dei carismatici? Certo, nel Prato riscontriamo molti

esempi di anafore non gradite, di liturgie solo apparenti, di diaconi e

presbiteri la cui presenza presso la mensa eucaristica contristerebbe lo

Spirito santo225 a tal punto da impedirgli di intervenire sul pane ed il vino

offerti; ma dall’altro versante i carismatici non difettano, né nel clero

monastico, né in quello secolare; e nemmeno fra i vescovi è raro

trovarne. Non si può, comunque, negare che il papato agli inizi del

secondo millennio si accinse ad un’opera politica assai complessa

mirante all’instaurazione di una forma di dominio teocratico diretto e

che molte formulazioni teologiche e disciplinari elaborate nei vari

cosiddetti concili di riforma della chiesa romano cattolica dall’XI secolo

in avanti vanno in quella direzione, accentuando il potere assoluto del

sacerdozio in tutti i campi. Non si poteva e non si doveva dubitare di chi

era detentore di un’ordinazione valida e legittima, a prescindere da ciò

che intendeva compiere. L’ingresso diretto in politica, sempre evitato dal

clero ortodosso, fu dunque la pietra di scandalo che spinse la cristianità

d’occidente nei primi secoli del secondo millennio a dubitare di avere

ancora a che fare con una gerarchia ecclesiastica appartenente alla Chiesa

di Cristo? Non è oggetto del nostro studio trovare delle risposte ad una

tale domanda. Certo rimane interessante scoprire che nella Chiesa del

VI-VII secolo si riteneva che l’indegnità del clero avrebbe potuto

225Efesini, 4,30.

142

contristare a tal punto lo Spirito santo da rendere vana la stessa

celebrazione dei divini misteri. Si riteneva anche che Dio non facesse

differenze fra persone e che a certe condizioni particolari avrebbe potuto

compiersi una liturgia anche in assenza di un presbitero; o nonostante la

sua sgradita presenza. Si riteneva infine che vi fossero ancora molti

vescovi e presbiteri carismatici e molti altri monaci e laici illuminati, in

grado di guidare la Chiesa locale e universale sulla retta via. Non

abbiamo altre spiegazioni alla domanda che ci siamo posti poc’anzi.

Rimane il fatto che la Chiesa ortodossa ha sempre stimato, diffuso e

raccomandato la lettura del Prato e che se vi avesse riscontrato delle idee

in contrasto con la dottrina da lei professata il testo e l’autore sarebbero

stati giudicati eretici immediatamente. Questo significa che le

convinzioni che abbiamo poco sopra riassunto erano ritenute ortodosse

già agli inizi del VII secolo, quando vene pubblicata l’opera di Giovanni

Mosco.

Potremmo aggiungere alcune considerazioni circa la liturgia

praticata nella Chiesa di Roma, che Giovanni Mosco descrive senza

precisare differenze e dotata comunque di proscomidìa; a nostro avviso

tutto ciò non è sufficiente a darci notizie sulla liturgia romana del VI

secolo. L’autore potrebbe aver fatto ricorso a una descrizione stereotipata

e in ogni caso lo studio e la classificazione dei riti con le loro

particolarità, differenze e somiglianze, era al di fuori degli orizzonti degli

scrittori ecclesiastici di quell’epoca. Per Giovanni Mosco la chiesa di

143

Roma era una chiesa calcedonese e la sua liturgia era una liturgia

ortodossa.

Certo, l’aver rilevato alcune interessantissime particolarità della

liturgia eucaristica nel rito mozarabico226, come la presenza, a un certo

226 Con l’espressione un po’ imprecisa di rito mozarabico s’intende la liturgia vigente nella penisola iberica assai prima dell’invasione araba; essa fu praticata fin oltre il secolo XII. Il termine deriva dall’espressione: mustaarib, che significa: arabizzato. In realtà il rito mozarabico non è una particolarità esclusiva della penisola iberica, ma era comune con il nord Africa latino, nel quale il cristianesimo si spense rapidamente in seguito all’invasione arabo-islamica. Con la conversione all’ortodossia di re Reccaredo (589) il culto cristiano in Spagna subì l’intromissione di elementi disciplinari e liturgici di provenienza germanica, non tali però da alterarne la fisionomia; ed è per questo che il rito in questione è stato definito non senza ragione come ispano-visigoto. BAUMSTARK, in Orientalisches in Altsspanicher Liturgie, in Oriens Christianus, 1935, pp. 3-37, ha pure tentato di dimostrare l’influsso dell’oriente bizantino, mediato dal contributo germano-visigoto ed in effetti alcuni elementi lo fanno legittimamente supporre. Dagli usi delle Gallie giunsero poi altri elementi, fino a cristallizzare la situazione al momento dell’invasione araba, avvenuta negli anni 711-712. A differenza però del nord Africa il cristianesimo iberico non venne completamente cancellato, né sottomesso politicamente, anche se gli arabi controllavano buona parte della penisola. Per prima è la Catalogna indipendente ad essere spinta all’adozione del rituale latino-germanico consolidatosi ormai definitivamente nella chiesa di Roma ad opera di papi di origine germanica fra il 1046 e il 1072 (Clemente II, Damaso II, Leone IX, Vittore II, Stefano IX, Gregorio VII): nel 1068 il cardinale Le Blant, legato di Alessandro II, nel sinodo di Barcellona riesce ad imporre per la prima volta, almeno teoricamente, il rito papale a quella chiesa. Nel 1085 lo stesso Gregorio VII, il ferreo assertore della superiorità del rito romano sugli altri riti, invitava i re di Castiglia, di Lione e di Aragona a farsi carico di questo mutamento, distaccandosi dagli antichi usi della chiesa di Toledo. Lo stesso anno al sinodo di Burgos i desideri personali del papa vennero accolti in pieno ed anche lo stesso re Alfonso di Toledo poneva limitazioni al rito della sua chiesa in modo tale da segnarne la lenta eutanasia. Nelle terre controllate dagli arabi la situazione non variava fin tanto che la reconquista non progrediva. Di fatto là dove gli arabi venivano allontanati, quei cristiani ai quali l’islam aveva permesso di rimanere fedeli alle loro antiche osservanze, erano costretti dai loro liberatori ad adeguarsi a modelli liturgici e disciplinari più recenti e del tutto alieni alle loro tradizioni. L’intolleranza dei papi di origine germanica nei confronti di altri culti cristiani non era evidentemente una mera questione di rubriche liturgiche, ma andava insieme con l’affermarsi del peso politico internazionale del papato. Adeguare la cristianità intera al modo di pregare desiderato dal papa aveva indubbiamente un significato politico assai rilevante. Il caso ispanico non era isolato, anzi. Negli stessi decenni i Normanni strinsero con la

144

punto dell’anafora, di una singolare forma di frazione del pane in nove

particelle, dedicate alla commemorazione degli eventi salvifici attuati da

Cristo, lascia molto pensare227.

Un’altra cosa sicura è che il rito della Messa tridentina è alquanto

recente e non è possibile retrodatarlo rispetto al XVI secolo, essendo il

frutto di una riforma a tavolino piuttosto pianificata e condotta secondo i

criteri teologici apologetici e disciplinari di quell’epoca che vedeva in

occidente sfidarsi in tutti i sensi i partigiani della transustanziazione e

quelli della sola fide. A quanto sappiamo, e ci riferiamo a quanto già

esposto a proposito del pane lievitato e del vino, il rito romano del VI

secolo non doveva sembrare totalmente alieno a un contemporaneo

monaco palestinese. E lo stesso confine fra un rito e l’altro doveva essere

chiesa di Roma un’alleanza sotto forma di vassallaggio, impegnandosi a convertire gradualmente al più recente rito latino-germanico della chiesa di Roma tutte le terre da loro conquistate (Inghilterra, Italia meridionale). La sovversione del rito mozarabico era quasi del tutto compiuta quando nel 1495 il cardinale Francisco Ximenes, divenuto arcivescovo di Toledo, provvide alla recompilatio degli antichi codici; si giunse così alla loro prima edizione a stampa e al ristabilimento del rito stesso nella cattedrale di Toledo. L’approvazione di papa Giulio II, nel 1508, portò al mantenimento della situazione fino ai giorni nostri. 227 La ripartizione del pane eucaristico avviene commemorando nove mysteria Christi; il sacerdote, come recita la rubrica, distacca nove particelle e le depone sulla patena, il corrispettivo latino del diskàrion, componendo la figura della croce. Mentre viene compiuta questa operazione il celebrante enuncia semplicemente: Corporatio, Nativitas, Circumcisio, Apparitio, Passio, Mors, Resurrectio, Gloria, Regnum. Come si vede anche in questo caso è compendiato nell’evento liturgico tutto il percorso della salvezza e della glorificazione. Regnum posto a conclusione non è solamente un riferimento all’avvenimento storico della Pentecoste, ma esprime in modo tanto conciso quanto completo l’aprirsi alla dimensione increata, il dischiudersi dell’esperienza mistica del regno di Dio, la partecipazione alla gloria divina (Missale Hispano-Mozarabicum, Conferencia Episcopal Espanola, Arzobispado de Toledo 1994, p. 53).

145

alquanto labile; senza dimenticare, poi la presenza costante e

numericamente rilevante dell’elemento etnico ellenico, o meglio

ellenofono, nella città di Roma antica, in un periodo che vide non pochi

vescovi di Roma di origine o almeno di lingua greca228. La cosiddetta festa

della candelora229, per esempio, è una delle tante e consistenti tracce che

quel periodo ha lasciato alla cristianità d’occidente. Anche i testi

innografici latini dell’Epifania, consultabili reperendo una qualsiasi

copia del Breviarium Romanum, in uso presso il clero romano cattolico

fino a pochi decenni fa, sono una chiara traccia dell’influsso liturgico

orientale sulla chiesa di Roma, ma non si tratta di un caso del tutto

isolato e limitato al rito romano: gli studi di liturgia comparata hanno

228 Teodoro I di Grecia (642-649); Agatone di Sicilia (678-681); Leone II di Sicilia (682-683); Giovanni V di Siria (685-686); Sergio I di Siria (687-701); Giovanni VI di Grecia (701-705); Giovanni VII di Grecia (705-707); Sisinnio di Siria (708); Costantino di Siria (708-715); Gregorio III di Siria (731-741); Zaccaria di Calabria (741-752); Stefano III di Sicilia (768-772). 229 Si tratta della commemorazione dell’avvenimento evangelico della presentazione al tempio di Gesù neonato e di sua madre al quarantesimo giorno (Lc 2,22–38) allo scopo di espletare le purificazioni legali previste dalla legge mosaica (Es 13,2 ss., Lev 12,2-8). La sua prima attestazione storica ci viene dall’Itinerarium di Egeria alla fine dal IV secolo. La sua diffusione in tutto l’oriente cristiano è ampiamente testimoniata, per esempio da Cirillo di Scitopoli e da Severo di Antiochia, mentre la sua introduzione a Roma fu voluta da Sergio I, papa di provenienza siriaca (687-701): Constituit ut diebus Adnuntiationis Domini, Dormitionis et Nativitatis sanctae Dei Geintricis semperque virginia Mariae, ac S. Simeonis, quod Hypapante Greci appellant, laetania exeat aS. Hadriano et ad S. Mariam populus accurrat (DUCHESNE, Liber Pontificalis I, 376). I testi liturgici stessi anticamente usati nel rito romano per tale solennità mostravano eloquentemente la loro origine orientale. Negli altri riti occidentali entrò in uso successivamente; infatti Alcuino (+804) annotava che al suo tempo in molte parti dell’impero carolingio essa era ignorata. Se a Milano essa venne accolta senza problemi nel rito ambrosiano, in Spagna essa s’impose con l’affermarsi del rito della chiesa di Roma a scapito delle antiche consuetudini liturgiche mozarabiche.

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portato con sicurezza ad identificare nel rito ambrosiano una forma più

antica di rito romano o genericamente italico, nel quale i contatti e gli

influssi con l’oriente sono palesi230. Non sembra dunque così improbabile

che un monaco orientale del VI-VII secolo vedesse l’Italia come un paese

ortodosso. Per esempio il salterio liturgico ambrosiano, purtroppo in

disuso dagli anni sessanta del secolo scorso, è suddiviso in dieci gruppi o

decuriae; ogni decuria è a sua volta suddivisa in sei sottogruppi di salmi,

corrispondenti con precisione, alle sessanta stasi del salterio liturgico

bizantino231. Sappiamo fra l’altro che Carlomagno in persona tentò di

imporre altri usi liturgici alla chiesa di Milano, ma, in seguito alla

manifestazione di un prodigio ritenuto di provenienza divina, fu

230 RIGHETTI, Op. Cit., vol. I pp.169-179. 231 Il rito ambrosiano, eccezion fatta per il rito mozarabico, è l’unico rito alternativo a quello cosiddetto romano che finì con l’imporsi definitivamente a tutta la cristianità d’occidente solo verso la metà del secondo millennio. Come abbiamo visto la penisola iberica aveva una sua tradizione locale collegata con quella dell’Africa latina; la Gallia aveva una sua tradizione che gli studiosi definiscono come rito gallicano; al di fuori dei confini stessi dell’impero romano, in Irlanda si era sviluppato un rito denominato iberno-celtico. In Italia centro meridionale, ai confini con le Calabria e la Puglia bizantine rimase in uso per molto tempo il rito beneventano. Anche la chiesa di Aquileia, sede di un patriarcato d’occidente assai presto offuscato dalle vicende politiche dell’alto medioevo, aveva un suo rito del quale abbiamo purtroppo soltanto qualche frammento. L’uniformarsi al rito della Chiesa di Roma aveva soprattutto un significato politico e ciò accadeva là dove veniva accettata o imposta una forma di alleanza-vassallaggio almeno teorica a favore del papa di Roma. Il colpo mortale alle tradizioni liturgiche locali venne inflitto al concilio di Trento (1545-1564), quando fu imposta definitivamente una sorta di globalizzazione liturgica, che provocava l’irrimediabile scomparsa di tutte quelle tradizioni non in grado di dimostrare un’antichità superiore almeno ai duecento anni. L’adeguamento fu drasticamente applicato anche oltre il limite dei duecento anni a danno di tradizioni che in realtà erano più antiche del rito tridentino cui tutta la cristianità d’occidente non interessata dalla riforma protestante dovette uniformarsi.

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costretto a non insistere232; non di meno ottenne che la città di Monza, pur

rimanendo sotto la diocesi di Milano, passasse al rito propagandato dai

carolingi.

Il fatto che ai monarchi occidentali dell’alto medioevo stesse tanto a

cuore la pratica di un rito liturgico anziché un altro dovrebbe, a mio

avviso, portare gli storici contemporanei ad affrontare la questione con

minor sufficienza, anche solo per esaminare i rapporti fra liturgia e

politica. E’ un fatto molto ben testimoniato per esempio che l’impero

romano d’oriente non si occupava se non in modo molto marginale di

questioni liturgiche, mentre i carolingi, gli ottoni, i sovrani spagnoli e lo

stesso papato germanizzato dell’XI secolo233 facevano coincidere la

sovversione delle tradizioni liturgiche locali con l’espansione della loro

egemonia politica. La cancellazione delle tradizioni locali a favore di una

232 LANDOLFO SENIORE, Historia Mediolanensis, II, 12, in PL 147, col. 852. 233 Nell’elenco dei papi compare, già alla fine del secolo X, con il nome di Gregorio V (996-999) Brunone dei duchi di Carinzia e Sassonia, al quale succede Gerberto d’Aurillac con il nome di Silvestro II (999-1003). La lista continua con Clemente II (!046-1047): Suitgero di Morsleben e Honburg di Sassonia; Damaso II (!048): Poppone di Baviera; Leone IX (1049-1054): Brunone dei conti di Egisheim-Dagsburg in Alsazia; Vittore II (1055-1057): Gebeardo dei conti di Dollntein-Hierschberg; Stefano IX (1057-1058): Federico dei duchi di Lorena; Niccolò II (1059-1061): Gerardo di Chevron in Savoia; Gregorio VII (1073-1085): Ildebrando di Soana. Numerosi pontefici romani anche se di provenienza italiana, erano comunque discendenti da famiglie franco- tedesche e l’elenco, in realtà è assai più lungo. Gli avvenimenti politici di quegli anni sono cruciali ed irreversibili per la storia della Chiesa di Roma antica e sono stati ben ricostruiti da LAMPRYLLOS C., in: La Mystification fatale, ed. L’age d’Homme, Lausanne 1987. I mutamenti liturgici e dogmatici iniziano con i papi tedeschi, fautori dei cosiddetti concili di riforma, che porteranno la cristianità d’occidente sempre più lontano dalle tradizioni precedenti. Quanto accadeva in campo liturgico, in quegli anni, aveva un suo corrispondente immediato in politica. Allo scisma del 1054 seguirono le crociate, ma non solo. I normanni operarono diversi tentativi di estendere il loro dominio a spese dell’impero romano d’oriente.

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uniformità completa anche in fatto di culto venne perseguita con

maggiore o minore accanimento a seconda delle epoche e delle

ambizioni politiche dei singoli sovrani, ai quali effettivamente poco

poteva interessare di per sé il modo con cui si celebrava la liturgia.

L’interesse per il rito era piuttosto dettato dal fatto che esso era in grado

di determinare effetti politici interessanti, come per esempio

l’allontanamento e l’estraniamento dalle tradizioni ortodosse precedenti

nei territori di recente conquista. Una Calabria o una Puglia latinizzate,

per esempio, non avrebbero più guardato a Costantinopoli come punto

di riferimento, sia religioso, sia politico. Ma anche una Roma, per così

dire germanizzata avrebbe vissuto i suoi contatti con l’oriente cristiano

in modo assai diverso rispetto all’epoca in cui non era impossibile per un

greco o un orientale in genere essere eletto papa.

L’ultimo brano del Prato ad offrire spunti interessanti alla nostra

ricerca è al capitolo 199.

Uno dei padri narrò che un anziano era puro e santo a tal punto che nel

compiere la proscomidìa vedeva angeli stare alla sua destra e alla sua sinistra.

Costui però aveva imparato la proscomidìa dagli eretici e siccome era inesperto

dei divini dogmi, mentre offriva con semplicità e innocenza, recitava senza

sapere di sbagliare.

Provvidenzialmente venne a trovarlo un fratello che aveva conoscenza dei

dogmi divini. Accadde dunque che in sua presenza l’anziano compisse la

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proscomidìa: e disse il fratello (era infatti diacono): Le cose che tu, padre hai

detto alla proscomidìa non sono della fede ortodossa, ma di quella cacodossa234.

Ma l’anziano, che vedeva gli angeli mentre offriva, non diede attenzione alle cose

che gli erano state dette, anzi, le disprezzò. Il diacono insisteva dicendo: Stai

sbagliando, monaco235: la Chiesa non accetta queste cose236. Mentre l’anziano

vedeva se stesso rimproverato e corretto dal diacono, vide come sempre gli angeli

e domandò loro: Perché il diacono mi parla così, che significa questo? Gli dissero:

Ascoltalo, sta parlando bene. L’anziano allora disse loro: E perché non me l’avete

detto voi? Gli dissero: Perché Dio ha così disposto: l’uomo sia corretto

dall’uomo. E da allora si corresse ringraziando Dio e il fratello237.

La mensa eucaristica, aghìa Tràpeza o Thysiastèrion è considerato

come il luogo per eccellenza in cui cielo e terra si uniscono e la liturgia

eucaristica il momento più intenso in cui questa unione può essere

sperimentata. Come abbiamo visto finora, nel Prato è chiaramente

espressa la convinzione che la chiesa sia una raffigurazione della dimora

234 Ortodossia ha il suo contrario in questa sorta di neologismo greco del tardo-antico: all’ortodossia, retta dottrina, ma anche retto culto, modo corretto, cioè di glorificare Dio, si contrappone la cattiva dottrina e il cattivo culto, che glorificano Dio in modo errato. Nell’episodio in questione è evidente il duplice valore del termine ortodossia: l’anziano era ortodosso perché, pur nella sua sprovvedutezza teologica, era in comunione di fede con la chiesa ortodossa, anche se la proscomidìa da lui compiuta era eterodossa o cacodossa. 235 Nel testo greco: kalòghere; vedi la nota 188 a pag. 113. 236 Il Traversari amplia decisamente il testo nella sua traduzione. Egli infatti rende così: Non enim admittit fides catholica ista quae dicis, neque mater Ecclesia (PG 87, III, coll. 3087). Siccome non sono segnalate varianti nei codici, dobbiamo supporre che quanto uscito dalla sua penna fosse dovuto ad un eccesso di zelo; forse addirittura un tentativo di rafforzare l’ortodossia del Prato in chiave cattolica romana. 237 PG 87, III, coll. 3087-3088.

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di Dio in grado di mettere in comunicazione reale con il santuario celeste

e la liturgia terrena ha come scopo la concelebrazione con la dossologia

celeste offerta dagli angeli davanti al trono di Dio. Tali elementi non

sono acquisizioni posteriori nell’immaginario teologico o semplici

rivisitazioni della teologia veterotestamentaria del tempio. Una

concezione in parte ereditata dall’ebraismo, nel quale, però si cercano

non tanto i canoni, ma le figure della Nuova Alleanza, e in parte

sviluppata secondo criteri e rivelazioni neotestamentarie, fra le quali

l’Apocalisse e la lettera agli Ebrei. L’interpretazione degli spazi

architettonici in cui il rito cristiano si svolge fu sistematizzata nella

Mistagogia di Massimo il Confessore238, la cui composizione risale

presumibilmente intorno al 630; Massimo il Confessore sistematizza, non

innova il pensiero teologico cristiano e il Prato dimostra che tali

considerazioni era già ben presenti e diffuse alla fine del secolo

precedente.

La convinzione che la presenza degli angeli accompagni lo

svolgimento della liturgia, quando essa è degnamente celebrata, è stata

sottolineata da alcuni importanti e significativi testi innografici ed

eucologici. Prima dell’inizio dell’anafora, ad esempio, quando nel rito

della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo, il calice e il diskàrion

vengono solennemente trasferiti dal tavolino della proscomidìa alla mensa

eucaristica, attraversando tutta la navata del tempio, è previsto il canto

238 PG 91, 664-684.

151

del cosiddetto inno cherubico, che Taft ritiene introdotto dagli anni 573-

574, insieme con la preghiera del piccolo Ingresso che riporteremo poco

oltre:

Noi che misticamente raffiguriamo i Cherubini e alla vivificante Trinità

l’inno trisagio offriamo, deponiamo ogni preoccupazione della vita, così da

accogliere il re di tutti scortato invisibilmente dalle angeliche schiere. Alleluia239.

Il testo è previsto anche per lo svolgimento della liturgia di San

Basilio240 e viene cantato anche nella liturgia di San Giacomo fratello del

239 Il testo originale è reperibile nello Ieratikòn della chiesa ortodossa edito dalla Apostolikì Diakonìa, Athina 1987, p.118. I codici liturgici medievali non riportano varianti significative per questo inno. 240 Il culto ortodosso conosce cinque diversi formulari liturgici, che prendono il nome dal santo che viene tradizionalmente ritenuto l’autore o comunque il compilatore principale dell’anafora eucaristica. Le liturgie di san Giovanni Crisostomo e di san Basilio presentano lo stesso svolgimento, mentre differiscono nell’anafora e in alcune altre preghiere sacerdotali. Sono dunque due varianti dello stesso rito. Sensibilmente diversa è, allo stato attuale la liturgia attribuita a san Giacomo, fratello del Signore, che viene celebrata ormai soltanto nel giorno della sua commemorazione (23 ottobre); il fatto che la proscomidìa si svolga in modo stringato dopo il vangelo e che sia prevista l’offerta di cinque pani, uno solo dei quali destinato alla santificazione da peso alla opinione tradizionale che essa sia rimasta fedele a forme assai più antiche delle due precedenti. Non molto diversa da quella del Crisostomo è invece la Liturgia di san Gregorio il Teologo (Nazianzeno), officiata il giorno della sua memoria (25 gennaio). Un discorso a parte merita la Liturgia dei Doni Presantificati, che in realtà non prevede alcuna preghiera eucaristica ed è invece una sorta di vespro al cui termine viene distribuita la comunione conservata appositamente dalla domenica precedente. E’ un rito esclusivamente quaresimale. Viene conservata in alcuni codici liturgici una liturgia attribuita all’apostolo ed evangelista Marco, che però non ha più una sua collocazione nel calendario liturgico ortodosso. Essa è comunemente praticata dai copti e dagli etiopi. Si potrebbe ipotizzare che l’abbandono di questo formulario da parte della chiesa calcedonese avvenne in conseguenza dello scisma monofisita. In questo caso poteva essere appartenuta a questo formulario liturgico la proscomidìa cacodossa che l’incauto asceta aveva imparato. Al momento attuale è impossibile riscontrare spiegazioni sull’abbandono da parte dei calcedonesi dell’anafora di san Marco, ma è significativo, comunque che essi non nutrano sospetti dogmatici nei suoi riguardi già da molti secoli.

152

Signore241. Non si tratta dunque di un inserto tardivo, ma probabilmente

di un segmento abbastanza antico, previsto per lo svolgimento della

celebrazione eucaristica. Non si riscontra nell’ancora poco studiata

241Il Sinassario bizantino, riportato anche in forma abbreviata nelle edizioni più complete dell’Horològhion To Mèga, riporta la notizia di un primo matrimonio di Giuseppe di Nazaret dal quale sarebbero nati quel Giacomo al quale ci stiamo riferendo, Iosis Simone e Giuda, insieme con alcune imprecisate loro sorelle, secondo quanto riferito dalla narrazione del vangelo di Matteo: Non è costui il figlio del falegname? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Iosis, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte con noi? (Mt 15,55-56). Il Sinassario lo identifica con il primo vescovo di Gerusalemme, costituito per la sua parentela stretta con Gesù a partire dall’ascensione ai cieli di quest’ultimo. Il suo ruolo di primo capo della comunità cristiana, da lui guidata fino alla sua morte, è evidente negli Atti degli Apostoli che riportano il suo intervento risolutivo sulla questione degli obblighi da imporre ai pagani che volevano diventare cristiani (At 15,13-21); nell’epistolario paolino riscontriamo una testimonianza di Paolo stesso sul timore di Pietro nei confronti di Giacomo, sempre a proposito della missione ai pagani di Antiochia: Infatti prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli (Pietro) prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò ad evitarli e a tenersi in disparte per timore dei circoncisi (At 2,13). Il Sinassario bizantino, dopo aver commemorato tali fatti e altre notizie agiografiche conclude attribuendogli l’estensione della Lettera Cattolica di Giacomo, facente parte del canone del Nuovo Testamento. A proposito del suo ruolo di primato nella prima comunità cristiana troviamo un cenno interessante anche nel Vangelo gnostico di Tommaso: I discepoli dissero a Gesù: Sappiamo che te ne andrai da noi. Chi tra di noi sarà il più grande? Gesù rispose loro: Dal luogo ove sarete, andrete da Giacomo, il Giusto, per il quale sono stati fatti il cielo e la terra (cap. 12,30). Per consultare direttamente il Sinassario cfr Horològhion To Mèga, ed. To Perivòli Tis Panaghìas, Thessalonìki 2002, pp. 261-262. Ovviamente l’agiografia del Sinassario non può essere accettata indiscriminatamente come prova scientifica; in questo caso, però, ci aiuta a comprendere la complessità della tradizione orientale, che non ammette la perdita di nessun elemento rituale, anche quando succede, come nel caso della liturgia di san Giacomo, che esso cada in disuso. I vari formulari eucaristici sono sopravvissuti a lungo senza escludersi a vicenda e la loro sopravvivenza negli eucologi ortodossi è stata collegata all’importanza della tradizione locale che essi rappresentavano: il rito palestinese o gerosolimitano, storicamente perdente nei confronti del modello antiocheno e costantinopolitano non è stato cancellato, ma conservato almeno per la festa del primo vescovo di Gerusalemme. Lo stesso si può dire dell’anafora delle chiese anatoliche, conservata per la festa di san Gregorio Nazianzeno, come per la Liturgia di san Gregorio papa di Roma. Siamo davanti all’atteggiamento opposto a quello della globalizzazione liturgica indiscriminata cui si accennava poc’anzi.

153

Liturgia dei Doni Presantificati242, che la tradizione liturgica ortodossa fa

risalire a san Gregorio il Dialogo243, papa di Roma. Essa viene celebrata

durante la Grande Quaresima limitatamente il mercoledì e il venerdì e in

alcuni altri giorni particolari, come i primi giorni della Settimana santa. Il

nome stesso specifica esaurientemente che si tratta di un atto liturgico

privo di anafora, mentre il pane e il vino che vengono comunicati sono

stati pre-santificati la domenica precedente e vengono conservati fino al

venerdì successivo. La celebrazione consiste fondamentalmente in un

vespro quaresimale, al quale, dopo le letture bibliche vengono aggiunte

alcune litanie proprie della liturgia eucaristica e l’ingresso solenne del

242Ieratikòn, Op. Cit., pp. 202-221. 243 Si tratta di san Gregorio Magno, autore presunto dei Dialogi, la cui diffusione presso l’oriente cristiano ha recato a questo padre latino una fama tale da meritargli spesso un posto negli affreschi in varie ed importanti chiese ortodosse dal medioevo ad oggi. Nel Prato vengono riferiti alcuni episodi che lo hanno come protagonista. Il più significativo è al capitolo 151 ed è un elogio dell’umiltà del santo vescovo.

…Andai a Roma per venerare le reliquie dei santi apostoli Pietro e Paolo. Una volta, mentre mi trovavo al centro della città, vidi il papa Gregorio che stava per passarmi accanto. Pensai di andarlo a riverire. Quelli del suo seguito, appena mi videro, cominciarono a dirmi, uno dopo l’altro: Padre, non ti prosternare. Io non capivo perché mi dicevano questo: mi parve comunque fuori luogo non rendergli omaggio. Quando il papa mi fu accanto vide che mi accingevo a prosternarmi e, ve lo giuro davanti a Dio, fratelli, lui per primo si prosternò fino a terra e non si rialzò prima di me. Mi salutò con molta umiltà e di sua mano mi diede tre monete d’oro, ordinando che mi si desse un mantello e tutto ciò che mi poteva servire. Io resi gloria a Dio che gli aveva fatto dono di tanta umiltà, carità e amore per tutti gli uomini.

L’attribuzione di questo formulario liturgico per la comunione nei giorni feriali della quaresima di Pasqua a san Gregorio Magno, non è privo di alcun fondamento. A differenza delle chiese d’oriente, nelle quali la quaresima prevedeva la sospensione della celebrazione eucaristica per i giorni di digiuno stretto (da lunedì a venerdi), la chiesa di Roma celebrava la liturgia quotidianamente al termine del vespro; e in effetti la liturgia cosiddetta di san Gregorio Il Dialogo, papa di Roma, non è altro che un vespro al termine del quale viene distribuita la comunione.

154

calice e del discàrion recanti i doni eucaristici del pane e del vino pre-

consacrati, viene accompagnato da questa variante dell’inno cherubico.

Ora le potenze dei cieli con noi invisibilmente danno culto. Ecco infatti

entra il re della gloria. Ecco il sacrificio mistico compiuto viene accompagnato.

Con fede e amore accostiamoci, per diventare partecipi della vita eterna244.

Sia l’inno cherubico della liturgia del Crisostomo, sia quest’ultimo

previsto per la liturgia dei Presantificati non vengono cantati solo dal

coro, ma anche ripetuti tre volte in modo antifonale dal diacono e dal

presbitero. L’identificazione dunque con le potenze celesti riguarda

anche il sacerdozio, che anche in questo caso non viene identificato come

l’unico rappresentante della divinità. Anzi, in questo caso si comprende

meglio come sia stato impossibile per il sacerdozio ortodosso concepirsi

in un livello di vicariato divino esclusivo. La sua azione sarà pertanto

un’azione angelica, non un’azione in persona Christi. Lo spazio principale

all’interno del culto rimane proprietà di Dio, che è per natura invisibile,

ma per compassione e misericordia disposto a comunicarsi misticamente

ai puri di cuore. Così infatti dice la preghiera che viene recitata mentre il

coro canta l’inno cherubico:

Nessuno di quanti sono legati da desideri e piaceri carnali è degno

di avvicinarsi o di presentarsi o di servirti , re della gloria. Infatti servirti

è cosa grande e tremenda anche per le stesse Potenze sovracelesti…245

244Ieratikòn, Op. Cit., p. 214. 245 Ibidem, p. 117.

155

Il culto cristiano è associato a quello angelico e anche l’azione del

sacerdote che offre come sacrifici incruenti il pane e il vino, l’incenso e le

preghiere246 è intesa come una partecipazione alla dossologia e alla

liturgia angelica. Vecchio e Nuovo Testamento contengono diversi

riferimenti a questo tema.

Sappiate dunque che, quando tu e Sara eravate in preghiera, io presentavo

il memoriale delle vostre preghiere davanti alla gloria del Signore247.

Poi venne un altro angelo e si fermò all’altare, reggendo un incensiere

d’oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di

tutti i santi bruciandoli sull’altare d’oro, posto davanti al trono. E dalla mano

dell’angelo il fumo degli aromi salì davanti a Dio, insieme con le preghiere dei

santi248.

La diffusione di questo tema fu vasta e va studiata nell’innografia

più che nell’omiletica. Gli studi storici e teologici hanno sempre

privilegiato quest’ultima senza rendersi conto che il cristianesimo delle

epoche passate era fatto più di inni e preghiere eseguiti in pubblico che

non di libri pubblicati e letti, sebbene la produzione letteraria cristiana

sia innegabilmente immensa. La scarsa alfabetizzazione, il costo

materiale dei libri, l’attitudine all’apprendimento mnemonico sono

elementi significativi per valutare meglio quali erano le fonti

246 Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini è costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati (Eb., 5,1). 247 Tobia 12,12. 248 Apocalisse 8,3-4.

156

dell’esperienza religiosa comune nei secoli passati. Il culto e la preghiera,

più che la lettura privata, costituivano e plasmavano la spiritualità.

Un’omelia o una catechesi, una volta pronunciate, anche se

eventualmente registrate da abili trascrittori, cessavano di essere

accessibili ai più. Le preghiere e gli inni della liturgia, invece, erano

ripetute ad ogni celebrazione. E’ su questo versante, dunque, che lo

studio del cristianesimo può offrire ancora elementi di sorpresa agli

storici.

Sempre secondo Taft249 nella seconda metà del VI secolo compare la

preghiera del piccolo ingresso, che precede la processione solenne del

vangelo. Essa è presente sia nel formulario di san Giovanni Crisostomo,

sia in quello di san Basilio.

Sovrano Signore, Dio nostro, che hai stabilito nei cieli ordini ed eserciti di

angeli e arcangeli, per la liturgia della tua gloria, fà che, insieme con il nostro

ingresso avvenga l’ingresso di angeli nostri concelebranti e conglorificanti la tua

bontà. Poiché a te si deve ogni gloria, onore e venerazione, Padre, Figlio e Spirito

Santo, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen250.

La presenza di Dio è dunque da ricercare in un’esperienza mistica,

non nella persona del sacerdote, che il cattolicesimo romano dal basso

medioevo in poi finirà con l’identificare nel celebrante nell’atto di

249 TAFT R. F., Storia Sintetica del Rito Bizantino, Libreria Editrice Vaticana 1999, Roma, p. 45. 250 Ieratikòn, Op. Cit., p. 109.

157

ripetere le parole dell’ultima cena: Questo è il mio corpo… questo è il mio

sangue…251

La concezione di una comunanza fra angeli e uomini nel culto

cristiano è abbondantemente testimoniata nell’innografia bizantina. E’

uno dei temi più ricorrenti, accentuato dal fatto che il monachesimo

ortodosso stesso ha iniziato ben presto a concepire se stesso come una

partecipazione integrale alla condizione degli esseri celesti252. Molti

ritengono che la fondazione della grande Chiesa di Santa Sofia a

Costantinopoli, avvenuta pochi decenni prima ad opera dell’imperatore

Giustiniano, abbia giocato un ruolo determinante nell’affermazione di

questi concetti. La semplice lettura dell’Apocalisse o della lettera agli

Ebrei rivela, però, l’origine del tema in questione o almeno ne attesta la

presenza fin dall’era apostolica. Taft ammette in effetti che con Santa

Sofia gli ortodossi non inventarono il concetto di chiesa come immagine

biblica del cosmo, che si estende dal trono di Dio elevato sui cherubini

fino al regno inferiore; nella costruzione giustinianea venne espressa una

concezione mistica dell’architettura che ha un suo innegabile riscontro

nell’Antico Testamento, ma non si esauriva nella ripetizione del tempio

251 Mc 14, 22-23. 252Monaco è l’ordine e la condizione degli incorporei compiute in un corpo materiale ed impuro (GIOVANNI CLIMACO, Scala 1,2; PG); Il monaco è un angelo e l’opera sua è misericordia, pace e sacrificio di lode (GIOVANELLI G., Op. Cit., p. 91). Le ultime parole riportate sono tratte dalla vita di san Nilo di Rossano, composta da Bartolomeo di Rossano, discepolo del santo; l’espressione: misericordia, pace e sacrificio di lode, sono un segmento liturgico appartenente alla divina Liturgia, collocato all’inizio dell’anafora eucaristica.

158

salomonico in chiave cristiana. Il culto stesso per cui era stata edificata

Santa Sofia non era incentrato sull’atto sacrificatorio in vista

dell’espiazione delle colpe, non c’erano olocausti cruenti da immolare, né

rituali complessi di purificazione legale da espletare. Il santuario

edificato doveva essere una icona del santuario celeste; l’icona era tratta

dalle descrizioni fornite da coloro che si riteneva lo avessero visitato di

persona: Isaia e soprattutto l’apostolo Giovanni, l’autore del libro

dell’Apocalisse. Durante la liturgia l’icona poteva trasfigurarsi

nell’archetipo e parteciparne in modo mistico. L’esigenza di riunire la

chiesa per la liturgia in un luogo che assomigliasse anche materialmente

al santuario celeste al quale si riteneva di poter comunicare misticamente

durante il culto, non sembra in netto contrasto con le precedenti

concezioni che avevano portato al distacco dal tempio di Gerusalemme;

quest’ultimo non serviva più perché il culto giudaico che vi si svolgeva

non serviva più, non perché la costruzione di edifici di culto pubblici

fosse contraria all’essenza del cristianesimo. Gli splendori imponenti, la

luminosità e la grandiosità di Santa Sofia rafforzarono sicuramente il

concetto di una liturgia cristiana intesa come concelebrazione angelica,

un tema che comunque ritroviamo ben presente e chiaramente espresso

anche là dove Costantinopoli non era e non fu mai presa a modello. E’

noto infatti che la costruzione voluta dall’imperatore Giustiniano venne

intrapresa e terminata quasi un secolo dopo il concilio di Calcedonia

(451), in seguito al quale si era prodotta una profonda lacerazione tra i

159

suoi sostenitori (calcedoniani) e i suoi oppositori (anticalcedoniani), una

lacerazione che dura fino ad oggi. Ciò che è comune fra la liturgia delle

ore dei calcedoniani cosiddetti bizantini e quella degli anticalcedoniani

copti e anche etiopi denota l’antichità della sua origine, come la struttura

delle preghiere canoniche previste a certe ore del giorno e della notte,

insieme con numerose composizioni innografiche e testi eucologici253.

Considerata l’attenzione che si aveva da parte dei calcedoniani a non

utilizzare liturgie proprie dei non calcedoniani, e l’atteggiamento doveva

sicuramente essere ricambiato dall’altra parte, come ricaviamo

dall’ultimo episodio del Prato che abbiamo preso in esame, si deve

concludere che quanto hanno in comune gli Horologhia bizantino copto

ed etiopico dovrebbe essere precedente alla rottura. Ma ciò che colpisce

in questo caso non è la presenza di testi simili o identici inerenti questo

253 Per il rito bizantino si può consultare il già citato Horològhion To Mèga, ed. To Peribòli Tis Panaghìas, Thessalonìki 2002; il manoscritto liturgico più antico in lingua greca, purtroppo mutilo, ne riporta una recensione non molto dissimile. Si tratta del famoso Codex sinaiticus graecus 863 del IX secolo. E’ stato pubblicato e commentato da MATEOS J., in suo saggio pubblicato nel 1964 da Orient Chrètien, vol.III,2; lo studio è intitolato: Un Horologion Inèdit de saint Sabas. Molto del materiale liturgico presente sia nal codice sinaitico greco 863, sia nella stessa recensione attualmente in uso presso la Chiesa Ortodossa è stato datato in modo convincente da Stig Ragnvald Froyshov, autore di quell’ eccellente studio su un codice liturgico georgiano che abbiamo già menzionato. Secondo lo studioso norvegese, molto di quello che riscontriamo oggi nell’Horològhion bizantino risale alla chiesa di Gerusalemme del IV-V secolo. Il rito copto utilizza un Horològhion denominato Agbìa; chi volesse rendersi conto di persona delle somiglianze con la tradizione cosiddetta bizantina, può consultare: O.H.E. KHS BURMSTER, The Horologion Of The Egyptian Church, ed. del Centro Francescano di Studi Orientali Cristiani, Cairo 1973. Si tratta dell’edizione di un manoscritto liturgico medievale in lingua copta ed araba; oltre a fornirne la versione inglese, Burmster ne ha curato anche le ricche note. Per la tradizione etiopica, per quanti ignorano l’amarico, è necessario ricorrere a VAN LANTSHOOT, Horologium Aethiopicum iuxta recensionem Alexandrinam-Copticam, Typis Vaticanis 1941.

160

argomento, bensì lo sviluppo autonomo del tema della concelebrazione

angelica presso gli etiopi, con testi propri di cui non si ha una matrice

copta.

Questa Chiesa benedetta delle genti assomiglia alle potenze dei cieli;

giorno e notte, con cuore puro e animo saldo, così cantano e dicono: Miriadi e

miriadi di schiere del Signore lodano il Signore sul santo monte Sinai. I cieli e

quanto contengono si prostrano davanti a Te, pioichè tu sospendesti come

firmamento il cielo e stabilisti la terra sulle acque e separasti la luce dalle tenebre

e hai dato un nome a ciascuna stella fra la sterminata moltitudine…254

Poiché solo il suo nome viene esaltato, o voi tutti che temete il Signore,

non siate pigri nel mezzo della notte; pregate perché in questa stessa ora le stelle

del cielo, la luce del sole e della luna, le folgori e le nubi, gli angeli, i loro

comandanti, i principati, le dominazioni e le loro schiere, gli abissi, i mari e i

fiumi, le fonti, il fuoco, l’acqua, la rugiada e tutto ciò che piove, i temporali e il

vento e tutte le anime dei giusti e dei santi lodano il suo nome e coloro che

sempre pregano sono assimilati all’essenza di Dio…255

Difficilmente l’anonimo etiope che paragonò la chiesa delle genti

all’assemblea degli angeli poteva ritenere Santa Sofia di Costantinopoli,

la grande chiesa costrutita e officiata dai calcedoniani, come modello

ispiratore. Questi concetti, e lo riconosce ampiamente Taft, come s’è

detto, non erano una novità al momento della costruzione di Santa Sofia;

254VAN LANTSHOOT, Op. Cit., p. 60. 255 Ibidem, p. 54.

161

si tratta dunque di un’acquisizione precedente che conobbe sviluppi

analoghi anche in aree geografiche lontane fra loro. Tutto ciò,

ovviamente, fu sviluppato con notevole ricchezza dall’innografia

ortodossa in lingua greca già nelle sua fase più antica ed è attualmente

raccolto in una sezione dell’ufficiatura del Mattutino prevista per la

quaresima256.

Con tutte le potenze celesti acclamiamo come Cherubini a Colui che è

nell’alto dei cieli, intonando l’inno trisagio: Santo, santo, santo sei tu, o Dio…

Imitando le potenze superiori, noi che siamo sulla terra, a te eleviamo un

inno di vittoria, o Buono: santo, santo, santo sei tu, o Dio…

Come i cherubini glorifichiamo il Padre senza principio, il Figlio con lui

senza principio, lo Spirito coeterno, unica divinità: Santo, santo, santo sei tu, o

Dio…

Come le schiere degli angeli in cielo, così le nostre assemblee umane sulla

terra con timore ti offrono l’inno di vittoria o Buono: Santo, santo, santo sei tu,

o Dio…

Osando rappresentare i tuoi eserciti spirituali, a te, Trinità senza

principio, con bocche indegne acclamiamo: Santo, santo, santo sei tu, o Dio…

256 I testi quaresimali, più o meno in tutte le tradizioni liturgiche, ma soprattutto nel rito bizantino, non sono altro che l’ordinamento liturgico più antico, risalente a un epoca in cui il calendario festivo era assai ridotto. L’analisi di questo aspetto è opera di Baumstark, l’inventore della Liturgia comparata come disciplina. Questa sua tesi è stata ampliamente confortata e confermata.

162

Non osando guardarti i Cherubini volano e gridano tra le acclamazioni la

divina melodia del canto trisagio; con loro anche noi cantiamo: Santo, santo,

santo sei tu, o Dio…257

Lo sconfinamento tra la terra e il cielo, provocato dall’intervento

(epifoìtesis) dello Spirito santo risulta essere lo scopo e la possibilità

offerta dal culto cristiano, secondo l’autore del Prato e la tradizione i cui

testi abbiamo accostato alla sua narrazione; altrimenti Govanni Mosco ci

avrebbe intrattenuto con altri prodigi e altre visioni incentrate sulla

passione di Cristo, per esempio, sul sacrificio della croce o sui dolori del

Redentore e della sua Madre. Lo sguardo della mente, l’attenzione dello

spirito ha invece come oggetto il mondo invisibile, o meglio il santuario

celeste, il regno di Dio, pronto a manifestarsi e ad assumere nello spazio

e nel tempo privilegiato della liturgia la chiesa dei credenti riunita nel

culto.

Il calendario ortodosso ha conservato la memoria della dedicazione

di alcune chiese importanti, tra cui anche quella di Santa Sofia, ma in

tutto l’anno liturgico viene commemorata solennemente soltanto la

dedicazione della chiesa della Risurrezione di Gerusalemme, avvenuta il

13 settembre probabilmente dell’anno 330. La dedicazione di Santa Sofia

è annotata nel Sinassario, ma non viene altrettanto solennizzata dal

calendario. Anche questa potrebbe essere una ragione per ipotizzare un

257 Horològhion To Méga, Op. Cit., pp.70ss.

163

eventuale ridimensionamento dell’influenza che la costruzione della

chiesa giustinianea contribuì a dare allo sviluppo architettonico e

liturgico delle epoche successive; Santa Sofia di Costantinopoli fu

costruita applicando un modello già consolidato, ampliandolo,

ufficializzandolo definitivamente. Il modello precedente, l’archetipo non

era, però a Costantinopoli, ma a Gerusalemme. L’innografia composta

per quella lontana occasione è conservata nei vari libri liturgici ortodossi

e vale la pena soffermarvisi per avere un’idea di come questi contenuti

fossero espressi in modo compiuto.

Come la bellezza del firmamento di lassù, tale hai mostrato quaggiù lo

splendore della santa dimora della tua gloria, Signore. Consolidala nei secoli e

accetta, per l’intercessione della Madre di Dio le suppliche che in essa ti offriamo

senza sosta, o vita e risurrezione di tutti.

Cielo dalle molte luci è stata resa la Chiesa, perché illumina tutti i fedeli;

tenendoci in essa noi gridiamo: Consolida, Signore, questa casa258.

La copia terrestre del divino santuario celeste risplende della

partecipazione a questa gloria; è importante considerare che non si parla

in questi testi di una gloria futura che è stata promessa, ma di una gloria

che è presente, che si è manifestata in modo perfetto, in modo tale da

rendere cielo dalle molte luci il luogo terrestre di una tale gloriosa

258 Horològhion To Mèga, Op. Cit., pp. 241-242.

164

manifestazione. Il riferimento va sicuramente oltre alla sfarzosità

esteriore del culto, come appunto viene specificato dai testi che seguono.

Il brano successivo è tratto dall’ufficiatura del vespro ed appartiene

al genere denominato Doxastikàrion259.

Celebrando la dedicazione del sacratissimo tempio della tua risurrezione,

noi glorifichiamo te, Signore, che lo hai santificato e portato a compimento con la

tua perfetta grazia e ti allieti per i mistici e sacri riti in esso celebrati dai fedeli,

accetti dalla mano dei tuoi servi i sacrifici puri ed incruenti e rendi in cambio, a

chi li offre rettamente, la purificazione dai peccati e la grande misericordia260.

L’espressione purificazione dei peccati e grande misericordia possono

trarre facilmente in inganno. Non siamo davanti alla ripetizione del

tempio salomonico per due motivi. Il primo e più banale riguarda

l’assenza di sacrifici cruenti: l’immolazione di olocausti animali, l’offerta

di sacrifici di comunione non è prevista più nella nuova alleanza, il culto

compiuto e insegnato da Cristo richiede sacrifici puri e incruenti; la

259 L’innografia bizantina si è sviluppata come un ampliamento del testo biblico. Dal punto di vista compositivo essa si basa sul tropario; il tropario non è altro che una strofa mai eccessivamente lunga, anzi, talora non comprende altro che due versetti, da intercalare ai versetti dei salmi o dei cantici biblici. Il tropario inframmezzato alla salmodia del vespro o delle lodi è chiamato stìchiron prosòmion, mentre quello che segue la prima metà della piccola dossologia (Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito santo), prende il nome di doxastikòn. I tropari dedicati alla Madre di Dio vengono invece definiti theotokìa, mentre quelli conclusivi, cantati al termine del Vespro o del Mattutino sono detti apolytìkia. Il canone (kanòn: regola), genere innografico famoso e studiato con attenzione non è altro che l’organizzazione di stichirà prosòmia da intercalare ai versetti del canone degli otto cantici biblici del Mattutino. La proliferazione di questi testi portò all’abbandono della recita del canone delle odi bibliche a favore delle sole strofe innografiche, che ne ereditarono il nome. 260 Anthologhion, Op. Cit., vol. I, p. 609.

165

seconda e più importante ragione sta nella consapevolezza che l’effetto

del culto giudaico non era la discesa dello Spirito santo, ma la semplice

espiazione o cancellazione delle colpe. Le parole purificazione dei peccati e

grande misericordia, infatti, adombrano una realtà assai diversa dalla

semplice remissione delle trasgressioni. La preghiera che accompagna

l’offerta dell’incenso non deve sembrare fuori luogo in questo discorso;

l’incenso era compreso fra le offerte da indirizzare a Dio già nel tempio

di Gerusalemme261 e il culto cristiano non ha mai ignorato la sua

simbologia262. I mistici e sacri riti cui accena l’antichissimo doxastikàrion

della Dedicazione della chiesa della Risurrezione erano accompagnati da

abbondanti offerte d’incenso; l’incenso stesso, tra l’altro era considerato

una delle offerte simboliche ed incruente.

Offriamo a te incenso, Cristo Dio nostro, in soave sacrificio spirituale:

accettandolo sul tuo altare sovraceleste, in cambio fa scendere su di noi la grazia

del tuo santissimo Spirito263.

Sotto la duplice espressione, dunque di purificazione dei peccati e

grande misericordia, si intende la discesa e l’intervento dello Spirito santo,

261 Farai poi un altare sul quale bruciare l’incenso… porrai l’altare davanti al velo che nasconde l’arca della Testimonianza, di fronte al coperchio che è sopra la Testimonianza, dove io ti darò convegno. Aronne brucerà su di esso l’incenso aromatico: lo brucerà ogni mattina quando riordinerà le lampade e lo brucerà al tramonto, quando Aronne riempirà le lampade: incenso davanti al Signore per le vostre generazioni (Es 30,1.6-8). Il sacerdote prenderà da essa una manciata di fior di farina e d’olio, con tutto l’incenso, e lo brucerà sullaltare come memoriale: è un sacrificio consumato dal fuoco, profumo soave per il Signore (Lev 2,2). 262 Salga la mia preghiera come incenso davanti a te (Sal. 140,2). 263 Ieratikòn, Op.Cit., P. 100.

166

la cui manifestazione è oggetto di grande interesse nel Prato di Govanni

Mosco. E’ interessante notare anche come venga usato il termine

purificazione (kàtharsin) e non perdono (sygchòresin) dei peccati, che pure

viene utilizzato spesso. Ciò vuol dire che i peccati sono considerati

perdonati da parte di Dio, ma che ciò non è sufficiente perché lo spirito

umano ne sia purificato. Il perdono divino è irreversibilmente concesso

da quando Cristo sulla croce pregava: Padre, perdonali, perché non sanno

quello che fanno264, ma il peccato lascia come una scoria tossica nello spirito

umano e la guarigione, o purificazione da una tale infermità o infezione

non è istantanea. E’ ben chiaro, come esprime il Crisostomo, che non è in

questione la possibiltà di ricevere il perdono divino.

Entrate tutti nella gioia del Signore nostro: primi e secondi, godete la

mercede. Ricchie poveri danzate insieme in coro. Continenti e indolenti, onorate

questo giorno. Quanti avete digiunato e quanti non lo avete fatto, oggi siate lieti.

La mensa è ricolma, deliziatevene tutti. Il vitello è abbondante, nessuno se ne

vada con la fame. Tutti godete la ricchezza della bontà. Nessuno lamenti la

propria miseria, perché è apparso il nostro comune regno. Nessuno pianga le

nostre colpe, perché il perdono è sorto dalla tomba. Nessuno tema la morte,

perché la morte del Salvatore ci ha liberati265.

Non è in gioco affatto, secondo questa visione, il perdono e la

remissione dei peccati da parte di Dio. Ciò che è in gioco è la

264 Lc 23,34. 265 GIOVANNI CRISOSTOMO, Catechesi Pasquale, in PG 59, 722-3.

167

purificazione interiore dell’animo umano, la sua disposizione soggettiva

nei confronti della misericordia divina, la sua possibilità di recepire ed

esperire la vita divina comunicata nella Pentecoste. Solo uno spirito

umano perfettamente guarito e ristabilito è in grado di reggere e di

sostenere l’esperienza dello Spirito santo, e ottiene così quel dono

gratuito voluto dalla grande misericordia divina. La discesa dello Spirito

santo, come abbiamo visto finora, non può avere altri caratteri che quelli

di un’esperienza mistica del regno increato di Dio.

E’ evidente, pertanto, che non siamo affatto davanti al ritorno a

categorie sacrificali giudaiche veterotestamentali. Alla materialità

dell’atto rituale corrisponde un atteggiamento interiore; non dobbiamo

dimenticare che il cristianesimo nasce in un mondo e in una cultura che

non concepisce la materia e lo spirito come antagonisti; soltanto là dove

l’influsso di filosofie e religioni dualiste si farà sentire, l’offerta

dell’incenso sarà vista come un atto imperdonabilmente materiale e

quindi, proprio in quanto materiale, per sua natura pagano. Altro fattore

da non sottovalutare, a favore dell’incenso, è la testimonianza dell’autore

dell’Apocalisse che abbiamo poco sopra ricordato: il santuario celeste,

che egli avrebbe visto dopo aver attraversato la porta aperta nel cielo266 è

provvisto di un altare, come risulta anche dalla stessa lettera agli Ebrei 267.

266 Apocalisse 4,1. 267 Noi abbiamo un altare del quale non hano alcun diritto di mangiare coloro che sono al servizio del Tabernacolo (Eb 13,10).

168

Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di

coloro che furono immolati a causa del verbo di Dio e della testimonianza che gli

avevano resa268…

Poi venne un altro angelo e si fermò all’altare, reggendo un incensiere

d’oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere dei

santi. Poi l’angelo prese l’incensiere, lo riempì del fuoco preso dall’altare e lo

gettò sulla terra: ne seguirono scoppi di tuono, clamori, fulmini e scosse di

terremoto269.

Non doveva pertanto sembrare fuori luogo l’offerta dell’incenso

nel culto cristiano a quanti erano a conoscenza di queste pagine del

Nuovo Testamento.

Per completare il discorso riguardante la dedicazione della chiesa

della Risurrezione, ma anche per segnalare come fosse chiara questa

concezione della diversità di scopo, o meglio, questa peculiarità

268 Apocalisse 6,9. 269 Ibidem 8,3-5. Sull’altare veterotestamentario degli olocausti, come indica la parola greca stessa (òlon: tutto; caùso, variante di kaìo: bruciare), ardeva un fuoco continuamente alimentato nel quale le vittime offerte in sacrificio venivano consumate (Es 29,36ss). L’altare celeste dispone a sua volta di un fuoco celeste, lo stesso che abbiamo più volte incontrato, la cui discesa sulla terra reca gli inconfondibili segni della teofania pentecostale in spirito e fuoco. La discesa di Dio sul monte Sinai, nella nube gloriosa, era accompagnata da clamori, tuoni, fumo e fuoco e tutto il monte era scosso dalle fondamenta (Es 19,16-19). Lo stesso evento della Pentecoste è accompagnato dal rombo violento di un soffio impetuoso e dal segno visibile del fuoco che si divide in fiamme che siposano sul capo di ciascun apostolo (Atti 2,2-4). La discesa dello Spirito santo è pertanto associata a questi segni, che non mancano nelle stesse pagine del Prato.

169

pentecostale del culto cristiano patristico scegliamo fra tanti esempi un

ultimo testo presente nell’ufficiatura del Mattutino del 13 settembre.

Tutto hai illuminato Cristo con la sua presenza; ha rinnovato il mondo

con il suo divino Spirito, le anime sono rigenerate, perché ora è stata dedicata a

gloria del Signore una casa, dove il Cristo Dio nostro rigenera i cuori dei fedeli

per la salvezza dei mortali270.

In queste parole troviamo confermata la centralità del dono dello

Spirito santo, ma anche la purificazione, qui chiamata rigenerazione delle

anime e dei cuori degli uomini. La rigenerazione (egkaìnia) o

rinnovamento è un’attività propria dello Spirito santo e dell’età, o

meglio, della condizione pentecostale. In definitiva: un edificio viene

edificato perché sia riservato al culto; il culto che vi si svolge ha come

scopo l’esperienza pentecostale e ciò viene espresso anche mediante

simboli, immagini e rituali ricavati dalle Scritture.

270 Anthologhion, Op. Cit., Vol. I, p. 610.

170

CONCLUSIONI SUL PRATO DI GIOVANNI MOSCO

Gli episodi narrati nel Prato da Giovanni Mosco contengono

numerosi riferimenti alla liturgia cristiana del VI secolo che esprimono in

modo diffuso e naturale una sensibiltà religiosa ricca di mistica e

incentrata sull’azione dello Spirito santo. Il rito della liturgia eucaristica

conosce una parte denominata proscomidìa ed una parte denominata

anàfora. Non si tratta di due sezioni separate, come avverrà poco dopo,

ma alla proscomidìa segue senza soluzione di continuità l’anàfora. Si può

supporre che nella proscomidìa avvenga la discesa dello Spirito santo,

mentre nell’anàfora si abbia l’intervento del medesimo Spirito. La

proscomidìa era incentrata sul memoriale dell’ultima cena, della passione

e morte di Cristo, mentre l’anafora, se gradita, era in grado di produrre i

segni di un rinnovamento della Pentecoste. La Pentecoste stessa risultava

essere l’evento liturgico per essenza. La liturgia era considerata compiuta

veramente non quando si svolgeva in conformità alle regole

ecclesiastiche, ma quando lo Spirito santo rinnovava i segni della

Pentecoste.

Il sacerdote è presente non per attirare il fuoco, ma lo Spirito Santo; prega

per molto tempo, non perché un fuoco disceso dall’alto consumi le offerte, ma

perché, discendendo la grazia sul sacrificio (thysìa), si accendano per mezzo di

essa le anime di tutti e le renda più splendenti dell’argento purificato nel

171

fuoco… Ignori forse che, senza il grande aiuto della grazia divina, l’anima

umana non potrebe sopportare quel fuoco del sacrificio (thysìas), e che tutti

sarebbero completamente annientati?271.

Leggendo queste parole non possiamo non rammentare l’episodio

del gioco liturgico dei pastorelli, che provocarono una inaspettata

teofania alla quale non erano affatto preparati; l’altare del tempio

giudaico aveva una fiamma materiale che consumava gli olocausti;

Crisostomo suggerisce ciò che abbiamo riscontrato spesso nel Prato: sulla

mensa eucaristica cristiana, altare della Nuova Alleanza, durante il culto,

arde una fiamma invisibile e spirituale che non solo trasforma la natura

delle specie offerte, ma purifica, illumina e glorifica quanti vi si

accostano.

La potenza di Dio era ritenuta incontrollabile e non costretta alle

condizioni dettate dagli uomini e l’evento liturgico poteva compiersi

anche al di fuori delle circostanze normali, mentre poteva succedere che

là dove le normali circostanze si verificavano apparentemente in modo

regolare, qualcosa di invisibile, ma allo stesso tempo di sostanziale,

impediva il compimento dell’evento liturgico e il culto rimaneva vuoto,

puramente esteriore, non in grado di comunicare la partecipazione al

regno increato di Dio. In particolare il clero doveva garantire il livello

spirituale adeguato per degnamente servire all’altare. Scriveva, infatti,

271 GIOVANNI CRISOSTOMO, Sul Sacerdozio, III, 4, in PG 48, col. 642.

172

ancora il Crisostomo: La Scrittura chiama angelo il sacerdote272. In caso

contrario, qualora il presbitero, a causa di una condotta non

propriamente angelica, non fosse all’altezza del compito spirituale, era

comunque possibile che la presenza, inosservata ad occhi umani, di

qualche altro spirituale nella chiesa potesse rimediare all’indegnità del

clero officiante. Il servizio di culto cristiano era concepito come una

concelebrazione angelica, ma ciò riguardava la chiesa in se stessa, intesa

come comunità di credenti: il ruolo del presbitero era, com’è facile

comprendere, senza dubbio centrale, ma questa centralità non lo

collocava in uno spazio riservato al clero, separato e non comunicante

con il resto della comunità; egli esercitava in prima persona un compito

ed un’attività proprie della chiesa, non di un sacerdozio di tipo

monarchico; le prerogative e i poteri esercitati erano prerogative e poteri

della chiesa; in parole povere il ruolo del presbitero era quello di

impersonare queste prerogative della chiesa, ma se per disavventura non

si trattava di una persona degna di stare accanto agli angeli, era possibile

che nella liturgia celeste qualcun altro, per economia divina, prendesse il

suo posto e venisse accolta la sua anima purificata come la vera anafora

eucaristica della chiesa. Da una parte la profondità spirituale, l’intensità

della vita interiore, che venivano sicuramente considerate prima del

regolamento ecclesiastico, dall’altra parte era tenuta in considerazione la

potenza intrinseca del culto ortodosso. Quando queste due componenti

272 GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla Genesi, L, 4,260-262, PG 54,448.

173

si incontravano lo Spirito divino, secondo quanto leggiamo nell’opera di

Giovanni Mosco, interveniva anche in assenza di sacerdoti; o malgrado

la presenza di sacerdoti decaduti spiritualmente. Addirittura, la forza

della spiritualità personale, se unita all’adesione all’esperienza di fede

della chiesa ortodossa, poteva superare l’ignoranza del rito ortodosso,

come nel caso dell’anacoreta che conosceva l’anafora degli eretici e la

utilizzava ritenendola ortodossa.

174

GERMANO, PATRIARCA DI COSTANTINOPOLI

LA VITA E LE OPERE

Di Germano non è possibile precisare l’anno della nascita, che può

essere compreso tra il 631 e il 649. Il Sinassario Costantinopolitano colloca

la sua nascita in un non meglio precisato anno del regno dell’imperatore

Eraclio (5 ottebre 610, o 611-febbraio 641) e riferisce che la morte lo

raggiunse novantenne. Le scarse e contraddittorie notizie che riguardano

i suoi dati anagrafici non permettono nemmeno di ipotizzare con

approssimazione l’anno della sua morte. Alcuni suppongono che il

decesso avvene intorno al 733; in questo caso però non sarebbe nato al

tempo dell’imperatore Eraclio, ma almeno due anni dopo la sua morte.

Suo padre, il patrizio Giustiniano, era un discendente in linea

collaterale dell’imperatore Giustiniano I273. Sotto Eraclio egli aveva

espletato importanti mansioni pubbliche, ma sarebbe caduto in disgrazia

sotto il regno di Costante II o Costantino Pogonato, imperatore dal 641 al

668. Probabilmente implicato nell’assassinio del Pogonato, avvenuto a

Siracusa il 15 settembre del 668, venne condannato a morte da

Costantino IV (668-685), mentre il figlio di lui, Germano, futuro patriarca

di Costantinopoli, venne mutilato e reso eunuco.

273 STEIN E., Die Abstammung des okumenischen Patriarchen Germaons I, in Klio, XVI, 1920, p. 207.

175

Dopo questi fatti Germano riuscì comunque a far parte del clero

della Grande Chiesa (santa Sofia), distinguendosi assai presto grazie alle

sue qualità. Una lettera (di discussa autenticità) indirizzata da papa

Gregorio II (715-31) all’imperatore Leone II ci informa che Germano,

insieme col patriarca Teodoro, avrebbe persuaso l’imperatore Costantino

IV a scivere a Roma per invitare il papa a mandare i suoi legati a

Costantinopoli in vista del grande Sinodo (il III costantinopolitano e VI

ecumenico) che doveva condannare il monotelismo (680-81). Ciò

suggerisce che in quella data (678) Germano occupasse un posto di

rilievo nel clero di Santa Sofia: comunque non è necessario che, per poter

prendere una tale iniziativa, egli fosse il cinquantenne immaginato dal

bollandista Hensckens274. Ignoriamo tuttavia quale parte abbia avuto in

quel sinodo come anche nel sinodo Trullano convocato nel 691

dall’imperatore Giustiniano II, suo parente275.

Poco dopo il suo ritorno dall’esilio (settembre del 705), Giustiniano

fece eleggere Germano metropolita di Cizico, nell’Ellesponto. In qualità

di metropolita partecipò al sinodo riunito dall’imperatore Filippico

Bardane a Costantinopoli nel 712 per abolire il concilio del 681 e

restaurare il monotelismo. Con il patriarca Giovanni e il vescovo Andrea

di Gortina di Creta, egli è citato in alcune cronache tra i prelati che

274 Acta SS. Maii, III, Parigi 1866, p. 158BC. 275 STEIN, art. cit.

176

cedettero kat’oikonomìan276 di fronte alla volontà dell’imperatore eretico277,

alla morte del quale, però, immediatamente ritrattarono.

L’11 agosto del 715, sotto l’imperatore Anastasio II, detto anche

Artemio (713-715), Giovanni venne trasferito da Cizico alla sede

patriarcale di Costantinopoli. L’atto di trasferimento fu compiuto con

l’approvazione… di tutto il venerabile clero, del sacro senato e del popolo

romano278 amico di Cristo in presenza del santissimo presbitero Michele,

apocrisario della sede apostolica e degli altri sacerdoti e vescovi279.

Lo stesso giorno della sua intronizzazione a Santa Sofia Germano

dovette benedire la madre di santo Stefano il Giovane, prossima al parto:

poi il patriarca battezzerà il santo pargoletto280. Secondo il Synodikòn

dell’Ortodossia281 avrebe anatemizzato, forse già nel 715 in un sinodo di

cento vescovi, i fautori del monotelismo, nominalmente i partiarchi suoi

predecessori. Ma la testimonianza non è priva di difficoltà e la notizia

276 Letteralmente: per economia. Si intende un certo modo di applicare un’eccezione alle regole mantenendo una riserva interiore. E’un’espressione tipica del linguaggio teologico, entrato nell’uso quotidiano fino ai giorni nostri. 277 TEOFANE, Chronografia, ad. A. 6204, in PG, CVIII, col. 773; NICEFORO, Historia Syntomos, in PG, C, coll. 952. 278 Si noti come le fonti storiche ignorano l’esistenza dell’impero cosiddetto bizantino e continuino a riferirsi tranquillamente e senza nessuna forzatura ideologica all’impero romano. 279 TEOFANE, Op. Cit., ad. A. 6207, in PG, CVIII, col. 780. 280 STEFANO DIACONO, Vita di santo Stefano il Giovane, in PG 100, coll. 1076-1080. 281 Si tratta del lungo testo che viene letto solennemente al termine della liturgia il giorno della festa dell’Ortodossia, la prima domenica di Quaresima. Fu composto al termine dell’ultimo periodo iconoclsta, quando, nell’843 furono definitivamente restituite al culto le sante icone. E’ riportato nel volume dell’innografia quaresimale denominato Triodion (ed. Phòs, pp. 155-66).

177

non sembra trovare conferma; anzi, l’epoca a cui risalirebbe il fatto non

era favorevole alla riunione di un numero così consistente di vescovi, dal

momento che i primi anni del suo patriarcato si svolsero in un clima di

piena anarchia politica: il thema dell’Opsikion si era ribellato contro

Anastasio proclamando imperatore Teodosio III. Portatosi a Nicea

Anastasio aveva tentato invano di domare la sedizione; dopo un lungo

assedio Costantinopoli fu presa dai ribelli che riuscirono così ad

insediare l’usurpatore. Germano, accompagnato dai notabili della Città

dovette allora recarsi a Nicea per far capire ad Anastasio che ormai ogni

resistenza era inutile282. Ma anche il nuovo regno di Teodosio fu di breve

durata. Fu nuovamente il patriarca Germano a fungere da intermediario

tra il primo usurpatore e il secondo, Leone Isaurico283. Il 18 aprile del 716

Leone Isaurico era proclamato imperatore e, il 25 marzo 717, festa

dell’Annunciazione, veniva solennemente incoronato a Santa Sofia dal

patriarca284. Il 24 dicembre 719 Germano incoronò la basilissa Maria,

sposa di Leone III e battezzò il loro primogenito, Costantino. Durante la

cerimonia si verificò lo spiacevole incidente che procurò al futuro

Costantino V il soprannome di Copronimo. Nell’accaduto Germano

avrebbe visto il presagio del grande male che il futuro imperatore

iconoclasta avrebbe causato alla Chiesa.

282 NICEFORO, Op. Cit., PG 100, col. 956. TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col. 781. 283 TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col. 789. 284 NICEFORO, Op. Cit., PG 100, col. 958.

178

In quegli stessi anni Germano, preoccupato per il problema dello

scisma monofisita, prese l’iniziativa di riallacciare relazioni religiose con

gli Armeni, separati dalla chiesa ortodossa dai tempi del Concilio di

Calcedonia (451). Approfittando della presenza a Costantinopoli verso il

715-20 di un sacerdote armeno, tale Stefano, futuro metropolita di Siunia,

fece pervenire tramite questi al katholikòs Giovanni III Ojnec (711-28)

una lettera di pace nella quale si esponeva la fede ortodossa, spiegando

bene il diofisismo calcedonese con frequenti riferimenti a san Cirillo di

Alessandria ed esplicita condanna a Nestorio e respingendo l’accusa di

nestorianesimo imputata a san Leone magno papa di Roma. L’esito del

gesto patriarcale resta poco chiaro, tuttavia non mancano argomenti in

favore di un temporaneo ristabilimento dell’unione tra la chiesa

ortodossa e quella armena285. Invece è da scartare la leggenda secondo la

quale Leone III e Germano avrebbero invitato Stefano a recarsi a Roma

per rintracciarvi un’opera perduta di Cirillo alessandrino286.

Da notare, inoltre, la parte che il patriarca Germano ebbe nel

sostenere l’animo della popolazione angosciata dalle frequenti incursioni

degli arabi, principalmente al tempo del terribile assedio del 718.

E’risaputo come il santo patriarca ponesse la sua fiducia nella protezione

285 KOGYAN L.S., L’Eglise Armènienne. Jusq’au Concile de Florance. Etude Historique (in armeno con riassunto in francese), Beiruth 1961, pp. 272-274. 286 STEFANO VESCOVO DI SIUNIA, Storia della Casata di Sisakan (in armeno), ed. a cura di EMIN J.B., Mosca 1861, p. 9.

179

della Madre di Dio, ma non affatto certo che egli abbia introdotto la festa

dell’inno Akàthistos per la quinta settimana di quaresima.

Il nome di Germano è collegato soprattuto alla prima fase della

crisi iconoclasta. Nel luglio del 721 il califfo Jasid II ordinò di distruggere

tutte le immagini, tanto negli edifici publici, quanto nelle case private287.

Ispirata, si dice, da un ebreo di Siria288, tale misura trovò un sostenitore

nel palazzo imperiale nella persona del favorito Beser, un apostata forse

anch’egli di origina sira. Germano intervenne immediatamente per

ottenere l’allontanamento da palazzo del losco individuo e sembra pure

che vi riuscì: ne abbiamo conferma da quanto leggiamo in una lettera del

723-24, indirizzata dal patriarca a papa Gregorio II (715-731). Nel

frattempo l’iconclasmo si diffondeva, col sostegno dell’episcopato,

soprattutto in Asia Minore, trovando delle figure di spicco in Teodosio di

Efeso e Costantino di Nacolia. Quest’ultimo, essendosi urtato col

proprio metropolita Giovanni di Sinnade, ricorse al patriarca,

verosimilmente per guadagnarlo alla causa iconoclasta; da parte sua

Giovanni informò Germano chiedendogli se era opportuno riunire il

sinodo provinciale per esaminare il caso. In una conversazione privata

che ebbe luogo a Costantinopoli, il vescovo di Nacolia promise a

Germano di conformarsi all’insegnamento tradizionale relativo alle sante

icone. Il patriarca pensò di averlo persuaso, poiché gli consegnò la sua 287 VASILIEV A.A., The Iconoclastic Edict of tehe Caliph Yazid II, in Dumbarton Oaks Papers, IX-X, 1956, pp. 23-47. 288 TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col. 812.

180

risposta destinata al metropolita di Sinnade, ma di ritorno alla sua

diocesi Costantino rifiutò di riconciliarsi con il suo metropolita al quale

non trasmise la lettera patriarcale. Informato dell’accaduto, Germano

scrisse un breve messaggio all’irriducibile vescovo di Nacolia per

esortarlo, con autorità a mantenere le sue promesse. Più tardi, nel 725,

Germano fu sorpreso nell’apprendere che un altro vescovo, Tommaso di

Claudiopoli, da lui ben conosciuto e stimato, si era opposto al culto delle

sante icone. Perciò gli indirizzò una lunga lettera dogmatica in difesa

della dottrina tradizionale.

Ma il movimento guadagnava terreno, favorito principalmente

dall’imperatore che si era subito schierato dalla parte degli iconomachi.

In quell’anno Leone III iniziò a tenere conferenze pubbliche nelle quali

esprimeva chiaramente la sua intenzione di sottrarre le icone alla

devozione pubblica289.

All’inizio dell’estate del 726 l’eruzione vulcanica di Santorini venne

interpretata dall’imperatore, così almeno si disse, come un funesto

presagio: per scongiurare l’ira divina occorreva dichiarare la guerra alle

immagini sacre290. Il che fu fatto promulgando verosimilmente un editto,

ma la popolazione di Costantinopoli si oppose ai primi tentativi di

profanzione ai danni delle icone dell’isola di Chalki, la seconda

289 TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col.816. STEFANO DIACONO, Op. Cit., PG 100, col 1084.; cfr BREHIER L., Sur un Text Relatif au Début de la Querelle Iconclaste, in Echos d’Orient, XXXVII, 1938, pp. 17-22. 290 NICEFORO, Op. Cit., PG 100, col.964. TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col.816.

181

dell’arcipelago delle isole Principe, situate di fronte alla Città in

direzione dell’Asia Minore. La sgradita novità provocò la ribellione del

thema degli Elladi e di quello delle Cicladi291.

Anche in occidente le iussiones imperiali provocarono scandalo e

tumulti. Papa Gregorio II, rispondendo con una lettera ad una missiva di

Leone III, esortava fermamente l’imperatore a non sovvertire gli antichi

dogmi della Chiesa292. Nel frattempo Leone, dopo aver respinto

un’incursione di saraceni (estate del 727), riprendeva il controllo dei

themata ribelli. Non riuscendo ad allargare il consenso alla sua politica in

materia religiosa, l’imperatore tentò nuovamente di guadagnare alla sua

causa il papa e il patriarca, ma Germano fu irremovibile a tal punto da

definire Leone III come precursore dell’Anticristo293. Vista l’indomabile

resistenza del patriarca egli decise allora di sbarazzarsene e il 17 gennaio

del 730 riunì nella sontuosa sala del suo palazzo294 detta “tribunale dei

XIX letti” un silention, ossia un’assemblea del senato e di alti dignitari,

davanti al quale fu fatto comparire sotto scorta militare lo stesso

Germano295. Si tentò inutilmente di far sottoscrivere a Germano il decreto

iconoclasta, ma questi, dopo molta insistenza rassegnò le dimissioni,

291 Ibidem, col. 964. 292 TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col. 816. 293 Ibidem, col. 821. 294 GUILLAND R., Etudes sur le grand Palais de CP. Les XIX Lits, in Jahrbuch Osterreichischen Byzantinischen Gesellschaft, XI-XII, 1962-63, pp. 85-113. 295 STEFANO DIACONO, Op. Cit., PG 100, col. 1085.

182

rifiutandosi di modificare la dottrina della fede ortodossa296. Dopo aver

deposto le insegne della dignità patriarcale sull’altare di Santa Sofia , per

alcuni297, o piuttosto, come altri ritengono298, nella vicina chiesa del

Salvatore, si ritirò a vita privata in Platanion, dominio paterno sito a

nord della Città, nelle vicinanze del monastero di Cora.

Le fonti non precisano la durata della sua forzata abdicazione,

comunque sembra che egli abbia avuto la forza, nonostante l’età molto

avanzata e la mancanza di libri, di scrivere a memoria una storia delle

eresie. Meno attendibili sono le notizie fornite dal bìos, secondo le quali,

dopo essere fuggito a Cizico, si sarebbe nascosto in un monastero

femminile travestendosi da monaca; approfittando di questo curioso

anonimato avrebbe potuto così gettare in mare le icone del Salvatore e

della Madre di Dio di Lydda, le quali avrebbero per così dire navigato

fino a Roma dove il papa le avrebbe solennemente accolte, per poi

tornare con grandi onori a Costantinopoli alla fine dell’iconoclasmo299.

Morì al termine di una breve malattia, il 12 maggio di un anno

imprecisato. Sembra poco fondata la notizia secondo cui Germano

sarebbe stato strangolato insieme con l’arcidiacono Antimo nel

monastero di Cora per ordine imperiale300.

296 TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col. 825. NICEFORO, Op. Cit., PG 100, col. 965. 297 GIORGIO MONACO, Chronicon, IV, 248, in PG 90, col. 921. 298 Cfr EBERSOLT J., Le Grand Palais de CP., Parigi 1910, p. 115 e n. 16 della pianta. 299 GIORGIO MONACO, Chronicon, IV, in PG 110, col. 921. 300 FABRICIUS A.-HARLESS G.C:, Bibliotheca Graeca, XII, Amburgo, pp. 112-113.

183

Mancano argomenti validi per affermare, con la gran parte degli

storici occidentale contemporanei, che Germano morì nel 733 e tanto

meno nel 740, come sostengono gli orientali301. Il luogo della sua sepoltura

non è il Ponto, conme sostiene Henskens302, ma la stessa Costantinopoli,

non lontano dal cenobio di Cora.

Gli avvenimenti tumultuosi in cui fu coinvolto non gli impedirono

di produrre una certa quantità di opere; o meglio, forse fu proprio la

complessità e la drammaticità dei problemi che travagliavano la sua

epoca ad offrirgli lo spunto, se non proprio l’urgenza, di intervenire con

lo scritto e l’autorità di patriarca in questioni della massima gravità per

la storia della Chiesa. Il corpus delle sue opere è in massima parte

raccolto nel volume 98 del Migne. In esso figurano le sue epistole, alcune

delle quali abbiamo citato; ci è giunto sotto il suo nome un trattato

teologico sulla prescienza e provvidenza divina, intitolato De Vitae

Termino303, composto in forma dialogica. Sono state conservate un certo

numero di omelie per le festività e i tempi liturgici, delle quali hanno

avuto una buona diffusione nei secoli successivi quelle mariane, alle

quali gli studiosi romano cattolici associano tradizionalmente il suo

nome. Germano si è occupato anche di storia nel trattato De Sanctis

301 STIERNON D., La Date de la nassaince et de la Mort de s. Germain, patriarche de Costantinople, in Euntes Docete, XVIII, 1965. 302 HESKENS, Acta SS. Maii, III, Parigi 1866, col. 154. 303 PG 98, coll. 89-132.

184

Synodis et de Haeresibus304, dedicato al diacono Antimo: si tratta di una

raccolta di tutte le eresie che hanno attraversato la storia del

cristianesimo dall’era apostolica (il primo eresiarca a comparire è Simon

Mago) fino all’iconoclasmo. Considerate le circostanze in cui venne

composta, in assenza totale, cioè di libri e altre fonti su cui documentarsi,

dobbiamo concludere che le lacune e le imprecisioni non sono tali da

compromettere la serietà dell’opera.

Una sua trattazione dal titolo De Vera et Legitima Retributione è

andata perduta. Secondo il riassunto che ci ha lasciato il patriarca Fozio

Germano scagionava in questo scritto Gregorio di Nissa dall’accusa

postuma di origenismo, in merito alla negazione dell’eternità della

condanna per i demoni e gli uomini dannati305. Secondo il cardinale Mai

egli sarebbe anche l’autore di un Commentario su Dionigi l’Areopagita, fuso

con quello di san Massimo il Confessore306. Altre opere sono andate

perdute, se è vera, come è probabile, la notizia riportata dal Bìos secondo

la quale Leone l’Isaurico avrebbe fatto distruggere tutte quelle opere che

era riuscito a rintracciare. Non è da sottovalutare la sua produzione

liturgica, soprattutto innografica. Enrica Follieri307 ha raccolto ben

304 PG, 98, coll. 40-88. 305 PG 102, coll. 1105-1108. 306 MAI A., Spicilegium Romanum, VII, Roma 1858, p. 274. 307 FOLLIERI E., Initia Hymnorum Graecorum, 6 voll., Città del Vaticano 1960-1965; vol. VI, indice.

185

centoquattro Stichirà308 e ventidue Canoni liturgici a lui attribuiti e

disseminati nei Minei ortodossi. Oltre ai componimenti liturgici, che

nessuno è in grado, allo stato attuale, di attribuire con assoluta certezza,

ma che comunque non sembrano eccessivamente estranei, come

argomento, vocabolario e stile dalle omelie, ci è giunta sotto il suo nome

un’opera dedicata al commento delle liturgie di Giovani Crisostomo, di

Basilio e dei Presantificati, intitolata Istorìa Ekklesiastikè kaì Mystikè

Theorìa309 che ha avuto per molto tempo seri problemi d’attribuzione.

IL COMMENTARIO LITURGICO:

Mystikè Theorìa DELLA CHIESA

La sezione di cui stiamo per occuparci ha conosciuto una vasta

diffusione purtroppo non sempre lineare. Anzi, proprio la sua vasta

diffusione ha giocato un ruolo determinante nella confusione e

sovrapposizione delle recensioni manoscritte. Si contano almeno cinque

versioni mutile o anonime, mentre ve ne sono ben venticinque che

riportano questo testo come un’opera di Basilio Magno; tre sono quelle

che lo attribuiscono a Cirillo, una addirittura riporta il nome di Giacomo

apostolo, tanto per limitarci alle pricipali tradizioni manoscritte. In tutto

308 Il termine stychiron indica un particolare componimento lturgico solitamente breve da intercalare ai versetti (stychon = versetto) dei salmi del lucernario o delle lodi. 309 PG 98, coll. 384-454.

186

questo caos solo cinque manoscritti riportano il nome di san Germano,

patriarca di Costantinopoli310. Il problema critico non era costituito

soltanto dall’attribuzione, ma dalle interpolazioni e dalle abbondanti

contaminazioni che appesantivano il testo rendendo irriconoscibile

l’originale. Né l’uno, né l’altro problema ormai dovrebbero sussistere

grazie alla scoperta del Pitra311, dal momento che la versione latina che

Anastasio il Bibliotecario curò per il re dei franchi Carlo il Calvo venne

compiuta fra l’867 el’886 in un’epoca non troppo lontana dall’estensione

dell’originale e quindi, come documento antico, riveste una certa

importanza312. Bisogna osservare che il Vat. Gr. 790, nonché il Neap. GR. II

B. 29 forniscono una recensione greca perfettamente sovrapponibile alla

versione latina in questione; questo fatto ci permette di ritenere di avere

una versione almeno non eccessivamente lontana dall’originale sulla

quale possiamo lavorare con tranquillità.

310 Chi volesse rendersi conto personalmente della situazione può consultare di NILO BORGIA, Il Commentario Liturgico di S. Germano patriarca Costantinopolitano e la Versione Latina di Anastasio Bibliotecario, Tipografia Italo-Orientale “S. Nilo” 1912, Grottaferrata. A pagina 2 viene riassunta la situazione dei manoscritti. Il Borgia nell’introduzione ricostruisce le circostanze della scoperta della versione latina di Anastasio il Bibilotecario, che permise al Pitra di attribuire con certezza l’opera a Germano di Costantinopoli. Bisogna comunque precisare che l’attribuzione di una tale opera a Basilio o a uno dei due Cirillo era contraddetta dal testo stesso, all’interno del quale si fa riferimento a particolarità del culto ortodosso che oggi conosciamo come introdotte con certezza in pieno VI secolo, come per esempio l’inno trisagio: Aghios o Theòs, àghios ischyròs, àghios athànatos, elèeson ymàs… Giustamente dunque il Borgia ridimensiona l’entusiasmo del Pitra, che non seppe trattenersi dal polemizzare contro quella che lui definiva la foeda spurcitia dei graeculi. 311 PITRA, Iuris Ecclesiastici Graecorum Historia et Monumenta, 1868, Parigi. 312 Due sono le versioni manoscritte del IX e x secolodi questa celebre versione giunte a noi: Camerac. Bibl. Municip. 711 e Paris Bibl. Nat.

187

Non sappiamo assolutamente in quale periodo della sua

avventurosa quanto lunga esistenza Germano compose la Mystikè

Theorìa; in ogni caso l’opera è una testimonianza preziosa degli usi e

delle tradizioni liturgiche precedenti l’iconoclasmo. Possiamo affermarlo

con sicurezza dal momento che conosciamo perfettamente la posizione

di Germano circa le novità e i cambiamenti operati sulle tradizioni

dogmatiche e liturgiche: Se io sono Giona, gettatemi pure in mare; ma senza

un concilio ecumenico, o imperatore, mi è impossibile innovare in materia di

fede313. Se furono proprio queste le parole con cui spiegò la sua posizione

al silention voluto dall’imperatore Leone III per costringerlo ad

appoggiare l’iconomachia, lo ignoriamo; certo esprimono ottimamente il

pensiero di un patriarca che si oppose sempre e risolutamente

all’iconoclasmo perché in esso vedeva un sovvertimento dei dogmi e

delle tradizioni del culto cristiano. Quanto descritto, dunque, nella

Mystikè Theorìa in merito al culto cristiano era indubbiamente stato

ricevuto dall’Autore come una tradizione antica ed egli a sua volta

intendeva trasmetterlo come tale con questo scritto. Ci sorprenderebbe

scoprire innovatore proprio un uomo che interpretava la sua dignità e il

ruolo religioso e politico che ne derivavano, come custodia e difesa delle

tradizioni, un uomo che pagò con l’abdicazione forzata e

l’allontanamento dalla vita pubblica, la distruzione dei propri scritti e

con la diffamazione la sua opposizione a ciò che ai suoi occhi appariva

313 TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col. 825.

188

come una novità che alterava il culto e il dogma della chiesa di cui era

gerarca.

Il fatto poi che egli visse solo il primo periodo dell’iconoclasmo,

rafforza questa considerazione: la vittoria dell’ortodossia

sull’iconomachia portò al centro della vita religiosa, e non solo, il

monachesimo studita che aveva sopportato in prima persona un

particolare accanimento delle persecuzioni; gli anni dell’iconoclasmo

conobbero anche l’acquisizione di una svolta decisiva nella storia del rito

ortodosso. La svolta non è da intendersi come un mutamento, ma come

l’approfondimento di elementi già presenti, anche se fino ad allora in

forma meno consistente. Si è scritto molto sul contributo degli studiti314

314 Il termine studiti indica i monaci appartenenti alla comunità del celebre monastero di Stoudios in Costantinopoli (Istanbul), fondato intorno al 460 e dedicato a san Giovanni. Il nome deriva dall’ex-console Stoudios (cfr DELEHAYE H., Stoudion-Stoudios, in Analecta Bollandiana 52, 1934, 64s) che fondò il monastero nel quartiere occidentale della Città accanto ad un altro famoso centro monastico, quello degli Acémeti. Nel 798 vi si trovarono personalità monastiche di spicco, quali san Platone e san Teodoro, entrambi passati alla storia con l’appellativo di studiti, e dal momento in cui queste eminenti personalità ortodosse presero posizione a favore delle sante icone, il monastero fu coivolto nelle aspre repressioni messe in atto dall’autorità imperiale, durante le quali molti studiti persero la vita o subirono carcere, torture e mutilazioni. La resistenza e le persecuzioni subite, insieme con la vasta cultura che vi si coltivava e la profonda spiritualità vissuta, resero il monastero degli Studiti uno dei centri monastici più importanti della cristianità. Fra i monaci più famosi vi furono Simeone il Pio (+986-7), maestro spirituale di Simeone il Nuovo Teologo (+1022), Niceta Stethatos (+ dopo il 954), Antonio III Studita (+ 9839, patriarca di Costantinopoli, Giuseppe Bryennios (+1431), predicatore e apologista. Durante l’occupazione della Città da parte dei crociati (1204-1261), la comunità fu dispersa, ma nel 1290 Costantino Palelogo ricostruì il monastero. Nel 1453 la chiesa principale fu trasformata in moschea (Miharor o Imrahor Camii) e nelle epoche successive il resto degli edifici venne danneggiata dai terremoti, cosicchè delle antiche costruzioni rimane ben poco.

189

alla cultura bizantina ortodossa315 e la loro influenza va cercata in primo

luogo, ovviamente, nella liturgia. Con le solite esagerazioni gli studiosi

romano-cattolici parlano di una vera e propria riforma liturgica studita

della quale nel 1999 stavano cercando assai faticosamente le tracce, per

conto di Arranz, alcuni laureandi del Pontificio Istituto Orientale di

Roma316. Se però gli anni dell’iconoclasmo fungono da spartiacque,

Germano, che ne visse la prima fase, può ben essere considerato come

rappresentante dell’epoca precedente. Del resto non conosciamo rapporti

particolari fra il patriarca e gli studiti negli anni in cui Germano guidò la

chiesa di Costantinopoli. Inoltre gli studiti divennero protagonisti

particolari delle tortuose vicende del periodo iconoclasta negli anni

successivi alla morte di Germano e precisamente sotto la guida di

Teodoro Studita (+826), al quale si può ascrivere buona parte del peso

che lo studismo ebbe sulla società e sulla cultura religiosa.

Quanto sappiamo dunque rafforza senza alcun dubbio la posizione

tradizionalista di Germano e quindi gli elementi liturgici da lui descritti

nell’esposizione della Mystikè Theorìa hanno una buona probabilità di

essere tradizioni acquisite già prima dell’insorgere dell’iconoclasmo. Il

confronto con la Mystagogìa, un’opera che Massimo il Confessore

compose con l’identico scopo di illustrare la natura della chiesa e dei

suoi riti, come vedremo, mostrerà quanto già prima del patriarcato di 315 GALLINA M., Potere e Società a Bisanzio, Ed. Einaudi 1995, Torino, pp. 147ss. 316 TAFT R.F., Storia Sintetica del Rito Bizantino, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, pp. 59ss.

190

Germano fosse consolidata buona parte della teologia liturgica cristiana

ortodossa in una varietà notevole di elementi. A che punto però collocare

l’apparire dei singoli elementi? Se l’iconoclasmo e il monachesimo

studita fanno da spartiacque ideale fra due periodi del costituirsi del rito

bizantino ortodosso, un ulteriore spartiacque va, a nostro avviso,

ricercato nei concili ecumenici dei secoli precedenti, soprattutto

nell’epoca che segue Calcedonia, studiando le famiglie liturgiche

parallele mediante il metodo della liturgia comparata. E’ poco probabile,

infatti che gli anticalcedonesi, dopo che fu consumato lo scisma, con i

contrasti e le lotte ne seguirono, recepissero influenze liturgiche dai

calcedonesi e viceversa. Quanto dunque v’è di comune tra il rito copto o

siriaco e quello bizantino ha buone possibiltà di risalire ad un’epoca

precedente il Concilio di Calcedonia. Ma su questo punto torneremo più

avanti.

E’ utile, a questo punto soffermarsi brevemente sul titolo

dell’opera: Istorìa Ekklesiastikè kaì Mystikè Theorìa. La prima parte del

titolo, l’espressione, cioè, Istorìa Ekklesiastikè non ha bisogno di

approfondimenti, mentre la seconda parte Mystikè Theorìa, merita un

cenno particolare. Theorìa, archetipo del termine italiano teoria non

condivide con il suo calco italiano il significato; la radice è la stessa del

verbo Theoréo, il cui significato letterale equivale a: vedere, scorgere,

contemplare, guardare, assistere a, osservare, esaminare. Theorìa è quindi

un’esperienza, non uno schema mentale astratto, un modello, come

191

diremo impropriamente noi, teorico. L’aggettivo mystikè è collegato alla

radice del verbo myo, chiudere, serrare, tacere, stare quieto. La complessa

e ricca esperienza religiosa del tardo-antico aveva collegato a questa

radice e ai suoi derivati le iniziazioni, le dottrine e i riti che venivano

praticati a porte chiuse e quindi non erano visibili ai non iniziati.

L’etimologia, così arricchita di valenze e suggestioni religiose ci permette

di rendere Mystikè Theorìa, senza allontanarci eccessivamente, con

contemplazione segreta o anche visione arcana.

Il titolo dunque contiene o meglio, intende compendiare l’aspetto

visibile e storico, Istorìa Ekklesiastikè, e quello non immediatamente

visibile, la Mystikè Theorìa della chiesa stessa, secondo uno schema che

verrà rispettato fedelmente all’interno dell’opera, come vedremo.

La chiesa è tempio di Dio, santuario santo, casa di preghiera, adunanza di

popolo, corpo di Cristo: il suo nome è sposa di Cristo317.

Ecco rispettate le premesse, come dicevamo: prima l’aspetto

visibile, storico, materiale della chiesa come luogo di culto consacrato a

Dio e assemblea dei credenti; poi l’aspetto mistico, quello nascosto ai

sensi corporei, ma visibile agli iniziati nello Spirito santo: il corpo di

Cristo, la sposa di Cristo. Teniamo a precisare che il tipo di visione

mistica non è da confondere con la visione intellettuale o allegorica, ma

si tratta di una esperienza dello spirito; altrimenti non sarebbe utilizzato

317 GERMANO, Mystikè Theorìa I, PG 98, col. 384.

192

il termine di Theorìa, che, come abbiamo visto, in greco non indica nulla

di intelletttuale o di astratto; ai greci non mancavano certo i termini per

indicare quella che noi intendiamo oggi come teoria: per esempio

ypòthesis. Quando affermiamo che l’esperienza dell’iniziazione veniva

intesa come un’iniziazione spirituale mediante una certa esperienza

mistica (questa volta nel significato attuale del termine), facciamo

riferimento alle numerose testimonianze che abbiamo esaminato nel

Prato di Giovanni Mosco. L’iniziazione completa è identificata, come

abbiamo visto, con l’esperienza pentecostale. E’ importante averlo

sempre presente, dal momento che l’equivoco intellettualista è una

trappola ricorrente per chi, come noi occidentali, utilizza una vasta

terminologia greca svuotata dell’etimologia originaria.

L’espressione casa di preghiera (oìkos proseuchès) è una doppia

citazione delle Scritture; la prima è dal profeta Isaia:

Li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di

preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare,

perché il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli318.

Il brano di Isaia è citato ancora nel Nuovo Testamento nel celebre

episodio in cui Cristo caccia i mercanti dal tempio319.

318 Isaia 56,7. 319 Mc 11, 15-17; Mt 21, 12-14; l’episodio è ricordato anche in Giovanni (Gv 2, 13-19), ma la recensione in questo caso è priva della citazione di Isaia 56,7.

193

Come vediamo Germano utilizza il procedimento della climax per

passare dall’aspetto materiale a quello mistico: la chiesa è tempio,

santuario, casa di preghiera, assemblea di popolo, che è il significato

originario classico, e infine corpo di Cristo e sposa di lui; dal luogo

materiale, con le sue funzioni ed i suoi scopi, fino a ciò che vive

misticamente e invisibilmente ai più all’interno di ciò storicamente e

materialmente viene conosciuta come Chiesa.

Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le

membra, pur essendo molte sono un corpo solo, così anche Cristo… Ora voi siete

corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte320.

E’ da notare che con queste semplici parole Germano intende

spiegare che la Mystikè Theorìa della chiesa storica e materiale,

l’esperienza spirituale contenuta nell’aspetto materiale, consiste

nell’apparizione del corpo di Cristo risorto; è questa visione dunque

l’oggetto e la sostanza della Mystikè Theorìa. Inoltre, dopo aver citato

l’apostolo Paolo, nell’affermare che la chiesa è il corpo di Cristo, subito

aggiunge un’altra definizione neotestamentaria assai cara ai padri della

chiesa: il suo nome è sposa di Cristo321.

Dall’acqua del suo battesimo purificata e aspersa dal sangue di lui e

adornata come sposa e sigillata dall’unguento dello Spirito Santo, secondo il

verbo profetico: “unguento effuso il nome per te” e “ nel profumo dei tuoi

320 I Cor 12, 12. 27. 321 II Cor 11, 2; Ef 5, 25ss; Ap 19, 7-9; 21, 2; 2, 17.

194

unguenti corriamo” e “come unguento profumato sul capo che discende sulla

barba di Aronne322.

Le tre citazioni provengono da due libri dell’Antico Testamento e

precisamente, secondo il loro ordine: le prime due dal Cantico dei

Cantici (1,3), la terza dal Salterio (132,2). Inoltre nell’accostamento dei

due verbi purificata (kathartheìsa) e aspersa (rantistheìsa) è evidente

un’assonanza del Salmo 50: Aspergimi con issopo e sarò purificato323.

Ma non è l’unico elemento da segnalare l’uso della Scrittura come

fonte; stilisticamente siamo di nuovo di fronte a quel procedimento

retorico denominato climax: su un piano materiale o storico, vediamo

riassunti i misteri, o sacramenti dell’iniziazione cristiana e cioè

nell’ordine in cui sarebbero citati: battesimo (la purificazione con

l’acqua), comunione (l’aspersione col sangue) e la cresima (il sigillo

dell’unguento dello Spirito santo). Ma il fatto che non sono citati

nell’ordine consueto: battesimo, cresima e comunione, ma invertendo

l’ordine del terzo e del secondo è alquanto sospetto; forse non è una

semplice svista. Se proviamo ad abbandonare l’interpretazione

sacramentale possiamo trovare delle risposte più soddisfacenti:

purificazione e aspersione, che costituiscono il primo gradino

alluderebbero piuttosto al primo livello spirituale, la purificazione; il

rivestimento degli abiti nuziali, che configura il secondo gradino,

322 GERMANO, Op. Cit. 323 Rantieìs me yssòpo, kaì katharisthésomai (Sal 50,79).

195

alluderebbe alla fase spirituale dell’illuminazione, quando lo spirito

umano riceve i primi doni carismatici, mentre il terzo livello spirituale è

associato al sigillo dello Spirito santo: il matrimonio spirituale, l’unione

mistica si compie con l’intervento dello Spirito santo; e ritroviamo

nuovamente l’evento pentecostale. Come si vede è assai rischioso

affrontare questo genere di testi avendo come unico orizzonte il

sacramentalismo romano-cattolico. Molti dimenticano che Germano di

Costantinopoli, come il Damasceno o lo stesso Crisostomo non avevano

letto, per esempio, la Summa di Tommaso d’Aquino.

La chiesa è cielo terrestre nel quale il sovraceleste Dio abita e passeggia,

raffigurante la crocifissione, la sepoltura e la risurrezione di Cristo; glorificata al

di sopra della tenda (skenè) del testimone Mosè, nella quale sta il propiziatorio

(ilastèrion) e il Santo dei Santi; prefigurata nei patriarchi, preannunciata nei

profeti fondata negli apostoli, abbellita nei gerarchi e completata nei martiri324.

L’espressione cielo terrestre (epìgheios ouranòs) ricalca ottimemente

quei testi che abbiamo confrontato nei paragrafi precedenti: Come la

bellezza del firmamento di lassù, tale hai mostrato quaggiù lo splendore della

santa dimora della tua gloria, Signore… Cielo dalle molte luci è stata resa la

Chiesa, perché illumina tutti i fedeli…325 mentre poco oltre, con il verbo

emperipateì (letteralmente: passeggia) si ha un esplicito riferimento alla

passeggiata di Dio nel giardino terrestre, avvenuta subito dopo la caduta

324 GERMANO, Op. Cit. 325 Horològhion To Mèga, Op. Cit., pp. 241-242.

196

di Adamo, come riportato nella narrazione del libro della Genesi326; la

chiesa viene associata al paradiso terrestre, il luogo dove Dio cammina,

passeggia insieme con l’uomo e comunica direttamente con lui, il luogo,

soprattutto, dove Dio cerca il peccatore per risanarlo come un tempo

cercò Adamo ed Eva, ma essi persero l’occasione nascondendosi e, una

volta costretti a confessare la caduta, si accusarono a vicenda. Essa è

ancora l’antitipo di alcuni prototipi fondamentali del dogma cristiano,

quali la crocifissione, secondo la pianta architettonica a forma di croce, la

sepoltura e la risurrezione, che fungono da tipo o modello sia per

l’architettura generale, sia per i singoli elementi, come intende spiegare

l’Autore. Nel riferimento alla crocifissione, che la pianta a croce stessa

riproduce, potremmo trovare giustificato un ulteriore riferimento alla

chiesa della risurrezione in Gerusalemme, la celebre basilica risalente

all’epoca costantiniana, chiamata nelle fonti di tutte le epoche l’Anàstasi,

la Risurrezione, all’interno della quale sorge il santo Sepolcro, ma in

questo caso ci saremmo aspettati piuttosto tàphos, sepolcro, che non

taphèn, sepoltura; nondimeno, anche se con riserva citiamo questa

possibiltà.

Vengono poi confrontate l’Antica e la Nuova Alleanza: il

propiziatorio, il coperchio dell’arca, sul quale veniva asperso il sangue

dell’olocausto davanti al Santo dei Santi sono un riferimento alla lettera

agli Ebrei che parla del rito del tempio giudaico precisando esattamente

326 E udirono la voce del Signore Dio che passeggiava nel paradiso al tramonto (Gen 3, 8).

197

la presenza oltre il secondo velo (skenè) del propiziatorio(ilastèrion); anzi,

tutta la frase è una reminiscenza di un passo della lettera agli Ebrei:

Dietro il secondo velo poi c’era una tenda (skenè) detta Santo dei Santi,

con l’altare d’oro per i profumi per l’Arca dell’Alleanza tutta ricoperta d’oro,

nella quale si trovavano un’urna d’oro contenente la manna, la verga di Aronne

che aveva fiorito e le tavole dell’alleanza. E sopra l’arca stavano i cherubini della

gloria che facevano ombra al propiziatorio (ilastèrion)327.

La gloria della Nuova Alleanza risulta ovviamente superiore per il

ragionamento condotto nell’epistola agli Ebrei, che qui è implicitamente

ricordato mediante la concisa citazione: i patriarchi hanno solo

adombrato la gloria futura, mentre i profeti la preannunciarono328. Questo

edificio spirituale, questo cielo terrestre dai molti splendori è fondato

sugli apostoli, il suo ornamento sono i gerarchi e i martiri l’hanno

completata; e rientriamo, con tali osservazione nell’ambito delle cose da

contemplare con una visione mistica, nella sfera della Mystikè Theorìa

vera e propria. La descrizione, insomma, dell’architettura degli spazi e

delle suppellettili consacrati al culto cristiano è il pretesto per ascendere

327 Eb 9, 3-5. 328 La grazia del Nuovo Testamento è misticamente (segretamente) nascosta nella lettera dell’Antico… la legge contiene l’ombra del vangelo; il vangelo è immagine dei beni futuri. L’una infatti proibisce le opere cattive, l’altro propone le azioni buone… La legge possedeva l’ombra e i profeti l’immagine dei beni divini e spirituali che sono nel vangelo. E il vangelo a sua volta ci ha mostrato nella realtà la verità stessa, quella che è adombrata dalla legge, prefigurata dai profeti (MASSIMO IL CONFESSORE, Duecento Capitoli sulla Teologia e sull’Economia dell’Incarnazione del Figlio di Dio, I, 90-93 passim, in PG 90, 1120-1121, trad. it. in NICODEMO AGHIORITA e MACARIO di CORINTO, La Filocalia, a cura di ARTIOLI M.B. e LOVATO M.F., Gribaudi1983, Torino, vol. II, p.133).

198

alla descrizione delle realtà gloriose che i padri della chiesa ritengono

presenti nella Nuova Alleanza e disponibili, o meglio, sperimentabili da

coloro che praticano intensamente il cristianesimo. La chiesa visibile,

storica e architettonica è tipo della chiesa invisibile; è la chiesa mistica

non fatta da mano d’uomo (acheiropìetos) di cui parlava già Massimo il

Confessore.

La Chiesa santa, dunque, come primo elemento di contemplazione, porta il

tipo e l’immagine di Dio, diceva quel beato anziano: così da averne in se stessa

l’energia grazie all’imitazione e al modello329.

Per Massimo lo scopo della natura umana stessa è l’imitazione di

Dio, come leggiamo altrove nelle sue opere, e quindi la chiesa è la

realizzazione della vera natura dell’uomo; e in questo caso per chiesa si

intende, ovviamente, la sua realizzazione del modello archetipo divino;

si può dire che quanto realizzato in contrasto con tale finalità spirituale

non è vera chiesa, anche se promosso e attuato da esponenti autorevoli

dell’istituzione pubblica cristiana; ma si può anche conseguentemente

sostenere che tutto ciò che si accorda con una tale finalità, in qualunque

contesto possa essere riscontrato, appartiene alla vera chiesa mistica non

fatta da mano d’uomo, giacchè tutto ciò che imita intenzionalmente Dio

partecipa anche della sua energia vitale ed è appunto in questa attività di

imitazione-partecipazione che si manifesta la chiesa: l’umanità, per

329 MASSIMO IL CONFESSORE, Mystagogìa,I, 493, PG 91, col. 663.

199

Massimo e per Germano, ha come fine il diventare chiesa. In sostanza, la

mancata imitazione di Dio allontana l’uomo dalla chiesa, mentre la

realizzazione di una tale somiglianza unisce di fatto la persona alla

chiesa. Il vertice dell’esperienza ecclesiale, la sostanza dell’essere chiesa è

una realtà mistica, denominata divinizzazione. Il criterio classico

dell’imitazione che reca con sé la partecipazione, trova nella patristica

ortodossa un’applicazione spinta finio alle estreme conseguenze.

L’imitazione comporta la partecipazione all’energia e alla vita

dell’imitato.

Come già nei teologi alessandrini e cappadoci, così anche per

Massimo il compito principale del cristiano è l’imitazione di Dio. Questo

concetto risale in ultima analisi a Platone, come anche l’altro della

“assimilazione a Dio”, che fu ripreso da Filone d’Alessandria e fu

associato alla dottrina biblica dell’immagine e somiglianza impressa da

Dio nell’uomo nell’atto di plasmarlo conle sue stesse dita330. Il concetto ha

avuto fortuna anche nella scuola alessandrina ed è stato analizzato da

Gregorio di Nissa331.

330 Genesi 2,7. 331 Cfr MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua. Problemi Metafisici e Teologici su testi di Gregorio di Nazianzo e Dionigi Areopagita, trad. it. e commento a cura di MORESCHINI C., Bompiani 2003, Milano, pp. 119ss. Il Moreschini, però, come la gran parte dei suoi colleghi, trascura di sottolineare come nel vangelo di Giovanni venga espresso chiaramente un tale concetto, in quel passo in cui Cristo compie l’esegesi del salmo 81: Non è forse scritto nella vostgra legge: Io ho detto: Voi siete dei (sal 81, 1)? Ora, se essa ha chiamato dei coloro ai quali si è rivolto il Verbo di Dio (e la scrittura non può essere annullata), a colui che il Padre ha consacrato e inviato nel mondo, voi dite: Tu bestemmi… (Gv 10, 34-36). Una tale affermazione non è sfuggita alle prime generazioni cristiane, che in queste parole attribuite a Cristo, ancor prima che in Platone, colsero sempre e

200

Come esista l’altra Chiesa non fatta da mano d’uomo, è reso manifesto da

questa che è stata sapientemente fatta da mano d’uomo332.

La costruzione dell’edificio materiale, dunque, segue e deve

seguire norme e principi ispirati alla rivelazione di Dio e del suo regno

increato. Così è per la suddivisione in due spazi, il santuario (ierateìon),

erroneamente chiamato dai nostri critici d’arte presbiterio, e la navata

(naòs); la separazione in due spazi interni è compiuta proprio per

esprimere l’esistenza delle due chiese, quella visibile e quella invisibile,

la coesistenza dei due mondi, materiale e spirituale, delle due

dimensioni, creato ed increato. Non sono separate perché facenti parte

dello stesso edificio; sono distinte e comunicanti, ma a certe condizioni. E

soprattutto la porta si apre dall’interno del santuario.

Ancora, uno solo è il mondo (della Chiesa), le cui parti non sono separate;

al contrario, anche la distinzione per proprietà naturale di queste parti si

definisce nel rapporto con l’unione e l’indivisibilità333.

La Chiesa, in definitiva, è il luogo dello sconfinamento tra creato ed

increato, quel luogo visibile, fisico e storico in cui è possibile entrare in

contatto con l’invisibile, fare l’ingresso nel regno celeste. Essa è il mondo

dove i mondi separati per natura si uniscono per energia divina. Ma è

fin dall’inizio un esplicito riferimento alla deificazione della natura umana. Per approfondire questo aspetto si può iniziare con GIUSTINO, Dialogus cun Tryphone Iudaeo, 124, in PG 6, 764-765; IRENEO, Contra Haereses 3, 6, 1, in PG 7, 860-861; 4, 38, 4, in PG 7, 1108-1109; CIRILLO ALESSANDRINO, In Ioannem 1, 9, in PG 73, 128. 332 MASSIMO IL CONFESSORE, Mystagogia I, 496, in PG 91, col. 669. 333 Ibidem, 497.

201

pure, continua Massimo, tipo e immagine dell’uomo, la cui natura è

composta di anima e di corpo. A sua volta l’anima stessa dell’uomo è

composta di parti e di facoltà quali le pulsioni psichiche più elementari,

l’anima animale da una parte, il lògos, la potenza intellettiva e la volontà

dall’altra. E ancora la facoltà intellettiva è ripartita in un livello

denominato pràxis e in livello superiore denominato theorìa e così via334.

Tutto questo è racchiuso misticamente nei simboli materiali che ornano

l’aspetto visibile e storico della chiesa. Il cosmo, visibile e invisibile,

l’uomo stesso, come radice e riassunto del cosmo e la sacra scrittura sono

compendiati nella chiesa, intesa come edificio architettonico, ma anche

come apparato di culto e di dottrina, come comunità e organizzazione di

uomini. Quelle realtà, che i sensi corporei non colgono, si offrono in essa

e in tutto ciò che la costituisce nei suoi vari livelli, in un’esperienza

contemplativa da non confondere, lo ripetiamo, con una attività

intellettuale o speculativa. L’esperienza contemplativa di cui parlano i

padri bizantini ortodossi si concretizza sotto forma di evento

334 Theorìa e pràxis sono un’espressione classica della letteratura ascetica e mistica dal tardo-antico fino alla fine del medioevo; si tratta di due aspetti collegati l’uno all’altro; il loro rapporto è perfettamente descritto nel tropario principale che l’innografia bizantina de4dica a sant’Antimo, vescovo di Nicomedia e martire sotto Massimino nel 288: Divenuto partecipe della vita degli Apostoli e successore sul loro trono, hai posto la pràxis a fondamento della theorìa; per questo, insegnando il verbo della verità, hai lottato fino al sangue per la fede, ieromartire Antimo;prega Cristo Dio di salvare le nostre anime (Horològhion Tò Méga, ed. Tò Peribòle Tès Panaghìas 2002, p. 235).

202

pentecostale: Invocalo nella preghiera dicendo: Sia santificato il tuo nome. Il

tuo regno venga. Cioè, venga la Spirito santo e il tuo Unigenito Figlio335.

Germano, da parte sua, si sofferma molto sui particolari anche

minimi dell’oggettistica, come l’uso del symantron, una grossa e ricurva

lama di bronzo che viene battuta con un apposito martelletto, anch’esso

metallico. Il symantron veniva, e viene ancora alternato alla campana per

segnalare non solo l’inizio delle funzioni, ma anche i momenti più

solenni dei riti stessi per quanti non potevano e non possono essere

presenti. Germano vede significate nel symantron le trombe degli angeli

che invitano gli uomini al combattimento contro i nemici invisibili. Dopo

aver ritrovato nella vasca o conca battesimale il simbolo protocristiano

del sepolcro da cui risorse il Cristo, ma anche un richiamo alla grotta

della natività336, entrambi i luoghi, appunto erano aperture nella roccia,

l’Autore si sofferma sul punto centrale di tutto l’edificio, la mensa

eucaristica.

335 NILO SINAITA (ma: EVAGRIO PONTICO), Centocinquantatre Capitoli sulla Preghiera, 59, in PG 79, 1180. 336 L’iconografia ortodossa della natività ha sempre trasmesso, nella raffigurazione del bimbo avvolto in fasce (othònia), un esplicito richiamo alla sepoltura del Cristo, nuovamente avvolto in fasce (othònia). Sembra che proprio i vangeli, nell’utilizzare gli stessi termini per indicare le fasce del neonato e quelle del la sepoltura lascino ad intendere il legame teologico fra la prima nascita e la seconda, la rinascita della risurrezione.

203

La santa mensa è al posto del luogo in cui fu deposto nel sepolcro Cristo337:

in essa è deposto il Pane vero e celeste, il sacrificio mistico, incruento e vivente,

che ha posto la sua carne e il suo sangue come cibo di vita eterna per i credenti.

E’ anche trono di Dio nel quale il Dio che siede sui Cherubini338,

incarnatosi ha riposato; presso questa mensa e nella sua mistica cena, sedendo in

mezzo ai suoi discepoli e prendendo pane e vino disse ai suoi discepoli e

apostoli339: Prendete, mangiate e bevetene: questo infatti è il mio corpo e il mio

sangue. Prefigurata, invero, nella mensa legale, nella quale c’era la manna, che è

il Cristo che scende dal cielo340.

Abbiamo riscontrato spesso nel Prato l’importanza del luogo della

mensa eucaristica ed è significativo che Germano ad essa accosti il

riferimento del Salmo 79: esso in effetti è il luogo originario verso cui e

davanti al quale si innalzano le preghiere e le offerte spirituali, sia

durante il culto, sia nella preghiera personale. Abbiamo visto nel Prato

quell’anacoreta che si era edificato una mensa eucaristica per così dire

privata nel suo eremo allo scopo di pregarvi innannzi; ma dovremmo

piuttosto riferirci agli studi di Louis Bouyer sull’architettura liturgica

cristiana e i suoi rapporti con la sinagoga, dalla quale è mutuata in realtà

337 L’espressione al posto di (antì) sembra alludere direttamente al Santo Sepolcro di Gerusalemme come luogo reale e non semplicemente simbolico. 338 Sal. 79, 2. 339 La frase, così come suona è un’evidente assonanza dell’anafora eucaristica crisostomiana: Prendendo il pane nelle sue mani… lo diede ai suoi santi apostoli e disepoli dicendo… ( Cfr. Ieratikòn, Op. Cit., p. 125). 340 GERMANO, Op. Cit., IV, in PG 98, 388-89.

204

l’architettura della chiesa, per renderci conto che dal punto di vista

architettonico, ma non solo, la chiesa non è altro che la sinagoga di

Cristo. La mensa eucaristica, infatti, tiene il luogo che nella sinagoga

ebraica spetta all’arca, sulla quale sono scolpiti i due cherubini curvati in

atto d’adorazione: Tu che siedi sui Cherubini… (Sal. 79,2)341. Ma mentre la

sinagoga era rivolta verso il Santo dei Santi di Gerusalemme, la chiesa è

rivolta ad oriente, come abbiamo visto, segno eloquente del fatto che la

Gerusalemme celeste, attesa negli ultimi tempi, non fu mai intesa come

la ricostruzione della prima Gerusalemme: questo perché il luogo della

341 Materialmente l’arca della tenda del convegno e poi del tempio era una sorta di cassa di legno… Sebbene l’arca fosse utilizzata per deporvi cose sacre – e innanzi tutto le tavole della Legge, la testimonianza data a Mosè -, non era tanto il suo interno ad attirare l’attenzione, quanto piuttosto lo spazio vuoto al di sopra. L’arca infatti era un intesa come un trono, un trono vuoto in cui non si doveva vedere nulla, soprattutto nessuna immagine scolpita. Ma su questo trono si credeva che fosse presente Dio stesso, unico oggetto dell’adorazione di Israele. Ecco perché ai due lati si vedevano due Cherubini, cioè una rappresentazione dei due spiriti elementari – tà stoicheìa toù kòsmou, dirà Paolo (Gal 4,3) -, che a loro volta erano oggetto di adorazione deviata degli altri popoli. Ma essi erano là, in adorazione dinanzi alla presenza temibile, e le loro ali la proteggevano con rispetto da qualsiasi approccio profano, al pari del velo, nascondendo l’arca. “Tu che siedi sui Cherubini…”: tale era l’invocazione abituale al Dio del cielo, che aveva acconsentito, nella sua grazia e nell’amore per il suo popolo, a dimorare liberamente in mezzo ad esso. Questa presenza localizzata nel tempio, nel Santo dei Santi, sul coperchio (ilasèrion), tra i Cherubini, era chiamata shekinà. Questo termine vuole indicare la presenza sotto la Tenda del convegno del Dio onnipotente, ospite del suo popolo. La nube luminosa che aveva riempito prima la tenda e poi il tempio di Salomone (cfr. Es 40, 34-35; I Re 8, 10-11), ne era la manifestazione… Da questa presenza tra i Cherubini si credeva che Dio avesse parlato a Mosè e ad Aronne e più tardi a Samuele. In un’epoca molto più tarda, la vocazione di Isaia prenderà la forma di una visione, nel tempio, di questa medesima presenza, circondata non solo da Cherubini visibili, ma anche da Serafini, spiriti di fuoco (come la colonna di fuoco celeste sotto la nube al Sinai), che cantano l’iino rituale di adorazione della Shekinà: Santo, santo, santo il Signore Dio Savaòth: la terra è piena della sua gloria (Isaia 6,3)… L’arca delle sinagoghe era e resta come un’eco dell’arca primitiva, il cui coperchio (ilastèrion) veniva asperso ogni anno con il sangue dell’espiazione, come pegno di riconciliazione tra Dio e il popolo… La sua arca (della sinagoga) indicava sempre la direzione di qualcosa che la superava, cioè il fulcro ultimo del culto della sinagoga: il Santo dei Santi, il solo e unico “debir” che si trovava a Gerusalemme… (BOUYER L., Op. Cit., pp. 16-18).

205

shekinà è ovunque si celebri la liturgia. Gli ebrei pregavano e pregano

nella sinagoga guardando verso l’arca e, al di là di essa, verso il luogo

del Santo dei Santi da essa evocato; i cristiani, per contro, rivolgevano il

loro culto indirizzandosi verso la mensa eucaristica, o altare della Nuova

Alleanza, sul quale si offrivano il pane e il vino e davanti al quale si

bruciava l’incenso in attesa della manifestazione potente della shekinà,

quell’esperienza pentecostale che i numerosi passi del Prato di Giovani

Mosco riferiscono342.

La chiarezza con cui sono espressi tali elementi in Germano non

lascia dubbi: la coscienza di possedere la stessa realtà adombrata e, in

qualche modo già presente, sia pure in modo parziale, nel culto

veterotestamentario, non può che significare continuità con le forme

giudaiche; anzi, il culto giudaico, in quanto ombra delle realtà future, ne

possedeva le forme: il culto cristiano, invece, possiede la sostanza delle

forme un tempo adombrate. Come scriveva alcuni secoli prima

Ambrogio di Milano

Umbra Evangelii et Ecclesiae congregationis in lege, imago futurae

veritatis in evangelio, veritas in iudicio Dei; ergo quae nunc celebrantur in

Ecclesia, eorum umbra erat in sermonibus prophetarum, umbra in diluvio,

umbra in Rubro Mari, quando baptizati sunt patres nostri in nube et in mari,

umbra in petra quae aquam fluxit et populum sequebatur… Sed iam decessit

342 Cfr. BOUYER L., Op. Cit., pp. 23ss.

206

umbra noctis et caliginis Iudaeorum, dies appropinquavit Ecclesiae. Videmus

nunc per imaginem bona et tenemus imaginis bona…343

L’assoluta certezza di essere la continuazione o meglio, il

compimento del culto giudaico era ben visibile nell’architettura come nel

rito della chiesa e ciò era un elemento strutturale: i complessi e non di

rado conflittuali rapporti con la sinagoga tradizionale in questa luce

vanno interpretati non come la rivalità fra due religioni estranee, che non

si riconoscevano e poco disposte a tollerarsi a vicenda, ma come un

conflitto all’interno della stessa religione fra riformatori e tradizionalisti.

Il successo politico del cristianesimo rese sempre più autonomo

quest’ultimo dall’ebraismo; l’accettazione massiccia di proseliti

provenienti da altre etnie accentuò senza dubbio l’allargarsi della

distanza e dell’estraneità fra le due comunità, ma rimane il fatto

incontestabile che i pagani convertiti al cristianesimo, anche se non

venivano circoncisi, di fatto erano ammessi ad un culto le cui origini e

forme giudaiche erano chiarissime, o perché mantenute, come, per

esempio, l’architettura del luogo di culto o una parte consistente dei testi

sacri, o perché trasformate intenzionalmente da Cristo, come per

esempio il pane lievitato al posto dell’azzimo e così via.

Non è nostra intenzione seguire punto per punto le descrizioni di

Germano su ciascun arredo o elemento architettonico, però è da

343 AMBROGIO, Exsplanatio Psalmorum, 83, 25; PL 14, 1015-1052.

207

segnalare quanto afferma nuovamente, poco oltre, a proposito del

ciborio (kibòrion)344, paragonato anch’esso all’arca dell’antica alleanza,

chiamata dalla sacra Scrittura Santo dei Santi e sua santificazione, sulla quale

Dio ordinò che ci fossero sui due lati due cherubini345. Ma è ancora il

thysiastèrion, in questo caso inteso come sinonimo della mensa eucaristica

a provocare maggiori riflessioni e suggestioni: esso è il santo sepolcro di

Cristo e qui si allude più che alla sua passione, alla risurrezione.

In esso diede in sacrificio se stesso a Dio Padre attraverso l’offerta del suo

corpo, come agnello offerto e come sommo sacerdote e figlio dell’uomo, offerente e

offerto in mistico sacrificio incruento (anaìmakton) e culto (latreìan) razionale

(loghikèn) consacrato per i credenti, perché diventiamo per mezzo suo partecipi

della vita eterna ed immortale346.

E in queste parole ritroviamo alcune espressioni tipicamente

crisostomiane, concentrate efficacemente nell’apice liturgico dell’anafora

eucaristica, l’invocazione per ottenere la discesa dello Spirito Santo,

quelle parole, cioè che incautamente ripetevano i pastorelli del Prato che

abbiamo ricordato più volte, come anche altri personaggi di Giovanni

Mosco:

344 Si tratta di uno scrigno nel quale viene conservata la riserva di pane eucaristico per i malati; la sua normale posizione è sulla santa mensa. Il ciborio era utilizzato anche dalla chiesa latina, che lo sostituì dal 1500 con il cosiddetto tabernacolo, non più uno scrigno asportabile, ma fisso e sovrastante l’altare a muro delle chiese barocche o rinascimentali. 345 GERMANO, Op.Cit., 6, in PG 346 Ibidem.

208

Ancora ti offriamo questo culto (latreìan) razionale (loghikèn) e incruento

(anaìmakton) e ti preghiamo e ti supplichiamo e chiediamo. Fa’ scendere il tuo

Santo Spirito su di noi e sopra questi doni offerti347.

Non solo sul pane e sul vino è richiesta la discesa dello Spirito

santo, ma anzi, prima che sulle specie eucaristiche, sui partecipanti alla

liturgia; siamo di fronte ad una chiara e inequivocabile richiesta:

l’effusione invocata non è una generica assistenza o ispirazione dello

Spirito di Dio, ma una trasformazione della natura umana, così come la

natura del pane e del vino verrà mutata nella carne e nel sangue di

Cristo. La metamorfosi dell’umanità è, appunto, l’avvenimento

pentecostale, provocato dalla discesa potente del Paraclito.

La dipendenza, poi, del santuario cristiano dal santuario celeste e,

di conseguenza del culto cristiano dal culto angelico, piuttosto che dal

santuario e dal culto giudaico è asserita con assoluta certezza in quanto

segue:

L’altare è e viene detto a causa dell’altare sovraceleste e spirituale nel

quale sono raffigurate le forze gerarchiche, spirituali e liturgiche delle potenze

superne e immateriali: e i sacerdoti terrestri e materiali, assistendo e servendo

sempre il Signore, è necessario che siano fiamma ardente (pyr flégon)348 come

347 Ieratikòn, Op. Cit., p. 126. 348 Pyr flégon è una chiara reminiscenza del Salterio (Sal. 103, 5), dove è detto che Dio ha fatto i suoi angeli come fuoco ardente: Colui che fa i suoi angeli spiriti, e i suoi servi fiamme di fuoco (pyròs flòga).

209

loro. E infatti il servizio dei sovracelesti e l’ordinamento dei terrestri il Figlio di

Dio e giudice di tutti ha ordinato349.

Rischiamo di ripeterci, ma, dopo l’esame delle fonti, non possiamo

che insistere nel far notare come i testi patristici collegano direttamente

la liturgia della chiesa con quella del santuario celeste, non con quella del

tempio di Gerusalemme. La natura del legame fra santuario celeste e

santuario terrestre è, per Germano, per Giovanni Mosco, per Massimo il

Confessore, per non citare lo Pseudo-Dionigi, il Crisostomo, Ambrogio

di Milano, Efrem il Siro, uno statuto divino: tramite le attività liturgiche e

spirituali della Chiesa, Dio avrebbe stabilito una porta d’accesso al cielo.

Liturgia, ma anche ascesi predispogono l’uomo all’attraversamento della

barriera che altrimenti sarebbe naturalmente insormontabile. Liturgia e

insieme ascesi non hanno più come obiettivo il perdono e l’espiazione

delle colpe, come nell’Antica alleanza, ma la purificazione dalle passioni

che ottenebrano lo spirito umano e lo rendono greve e incapace a

sopportare il peso della gloria di Dio, l’alta tensione, per così dire,

provocata dalla discesa e dall’effusione dello Spirito Santo. La liturgia

priva della purezza delle facoltà spirituale è inefficace, mentre l’ascesi

della purezza di cuore, se innestata nel corpo della chiesa ortodossa, può

venire considerata liturgia e sacerdozio angelico, come abbiamo visto più

volte nel Prato.

349 GERMANO, Op. Cit.,

210

Come la sinagoga, chiesa dei Giudei, anche la chiesa di Cristo, è

suddivisa al suo interno in due zone, delimitate da una tenda; Germano

ha iniziato, fin dal paragrafo dedicato alla mensa eucaristica, la

descrizione mistica dei singoli elementi ed arredi che stanno al di là della

tenda e a questo punto esamina il luogo definito béma già nella sinagoga

pre-cristiana, nel suo insieme. Esso è separato, si diceva da una prima

tenda, che viena aperta durante il servizio liturgico e vi si accede

attraverso tre porte o cancelli, nei quali Germano vede simboleggiata la

preghiera, che, grazie alla disposizione della chiesa è rivolta verso

l’oriente:

Il pregare rivolti ad oriente, è stato trasmesso insieme con le restanti cose

dai santi Apostoli: è così a causa del sole spirituale della giustizia, Cristo nostro

Dio che apparirà in terra dalla parte dell’oriente fisico, secondo il profeta che

dice: “Oriente è il suo nome350”, e ancora: “Adorate il Signore, terra tutta, colui

che è salito al cielo del cielo da oriente351”, e: “Adoriamo il luogo dove stavano i

suoi piedi352”. E ancora: “Stavano i piedi del Signore sul monte degli ulivi verso

oriente353”. Queste cose dissero i profeti e per questo speriamo di nuovo nel

350 Zaccaria 6, 12 nella versione dei Settanta. 351 Salmo 67, 34 nella versione della Settanta. La citazione non è letterale, dal momento che il testo biblico esordisce, all’inizio del versetto 34 con un verbo diverso da: Adorate (proskynésate) riportato da Germano: Cantate (psàlate) al Dio che è salito al cielo del cielo da oriente. Come si vede nel versetto originale del salmo non c’è nemmeno: la terra tutta (pàsa è ghè). 352Salmo 131, 7 nella versione dei Settanta. 353 Zaccaria 14,4 nella versione dei Settanta.

211

paradiso dell’Eden atteso da oriente: e così dunque avremo l’oriente

dell’apparizione luminosa della seconda parousìa di Cristo nostro Dio354.

Vista l’insistenza su questi temi ci sentiamo, a questo punto, di

negare quel regresso a categorie sacrificali ed espiatorie

veterotestamentali intravisto probabilmente da quanti hanno una

conoscenza piuttosto limitata delle fonti patristiche. Un’altra

considerazione va fatta, a nostro avviso, a proposito del perdono dei

peccati: il fatto che Cristo abbia perdonato tutto sulla croce e che tutti i

peccati, presenti passati e futuri sono perdonati da Dio e che non c’è

bisogno di ulteriori sacrifici ed espiazioni è chiarissimo:

Dio e Signore delle Potenze e Creatore di tutte le cose, che per la

misericordia della tua bontà senza limiti hai inviato il tuo Figlio unigenito

nostro Signore Gesù Cristo per la salvezza del genere umano e che per la sua

Croce veneranda hai lacerato il libello (Cheirògraphon)355 dei nostri peccati e su

di essa hai soggiogato i principati e le potestà delle tenebre…356

Il testo di questa preghiera, attribuita a Basilio di Cesarea illustra

ottimamente l’acquisizione da parte dei Padri della chiesa di questa

nozione paolina, ma, come si diceva, il perdono dato da Dio mediante la

lacerazione del libello delle colpe dell’umanità non significa che gli

uomini, da una parte, abbiano smesso di peccare, né, dall’altra, che lo

354 GERMANO, Op. Cit., 355 Col 2, 14ss; Ef 6, 12. 356 Horològhion Tò Méga, Op. Cit., p.144.

212

spirito umano non abbia bisogno di essere purificato dall’amore per il

peccato. L’esercizio della vita ascetica consisterebbe, allora, nella

purificazione dell’energia del desiderio, come dimostra con chiarezza

l’eccellente studio di Jean-Claude Larchet357. Dio non condanna più

nessuno, ma non intende risanare l’uomo che non vuole essere risanato.

E’ su questa linea della terapia spirituale, e non sul filone della colpa che

si sviluppa il pensiero ortodosso, mantenedosi in continuità con le

origini protocristiane dell’era apostolica. Anche lo Pseudo-Dionigi, nel

descrivere la gerarchie ecclesiastica, rispecchiante la gerarchie celeste,

mette in luce l’aspetto terapeutico di essa, mentre per secoli i lettori

occidentali non sembrarono in grado di cogliere il tema di quest’opera.

La Gerarchia Ecclesiastica, infatti, associa a ciascuna delle tre classi un

compito terapeutico e una fase spirituale dell’animo umano: il diacono,

primo gradino del sacerdozio, ha come compito di accompagnare i

neofiti nella purificazione, prima fase della vita spirituale; il presbitero

riceve i neofiti purificati e li accompagna nell’illuminazione; l’episcopo,

nel terzo ed ultimo livello sacerdotale, accoglie a sua volta gli illuminati

per introdurli nell’ultimo livello spirituale, la glorificazione, ossia

l’iniziazione all’unione mistica con Dio, detta altrimenti divinizzazione.

357 LARCHET J.C., Thérapeutique des Maladies Spirituelles. Une Introduction à la Tradition Ascétique de l’Eglise Orthodoxe, Les Editions du Cerf, Paris 1997, trad. it. a cura di BORRIELLO L., ed. San Paolo 2003, Cinisello Balsamo (Milano), 63ss. dell’edizione italiana.

213

L’episcopo è il terapeuta dei terapeuti e lo era alle origini solo chi era

stato glorificato.

L’ordine che purifica è quello dei diaconi, l’ordine che illumina è quello dei

sacerdoti e l’ordine che dà il compimento è quello dei vescovi simili a Dio358.

Questa attività di guida verso la glorificazione veniva espletata

attraverso i riti liturgici, le catechesi, l’esercizio nelle virtù cristiane

(l’ascesi), accompagnate dalla diagnosi spirituale individuale che solo un

glorificato poteva compiere. Non v’è alcun dubbio che la natura di questi

riti sempre secondo lo Pseudo-Dionigi, ma anche in tutta l’ampia

letteratura patristica coeva era terapeutica. I riti non erano intesi come

espiazione o riparazione nei confronti di un dio adirato e offeso per una

qualche colpa ancestrale, bensì erano stati istituiti e venivano praticati

allo scopo di guarire lo spirito umano dal peccato, inteso come un cancro

dell’anima e del corpo; la guarigione avveniva introducendo nell’uomo

l’energia divina di cui i riti potevano pregni. Questa energia divina,

mischiandosi con l’energia umana359 produrrebbe la purificazione,

l’illuminazione e la divinizzazione dell’uomo; l’anima umana in questo

modo risorgerebbe dalla morte spirituale e raggiungebbe la vita di Dio

che è immortale e il corpo condannato alla corruzione riceverebbe la

predisposizione alla resurrezione finale, quando sarà incorruttibile lui

stesso. Tutto ciò definisce con maggior precisione la natura dell’evento

358 PSEUDO-DIONIGI AREOPAGITA, Gerarchia Ecclesiastica, VI, 5, in PG 3, 549. 359 PSEUDO-MACARIO, Omelia 32, in PG 34, 733-741.

214

pentecostale secondo le fonti patristiche. La chiesa appariva, secondo

una descrizione del Crisostomo come un laboratorio spirituale, in cui si

preparano medicamente affinchè si possa trovare qualcosa per guarire le piaghe

che il mondo ci infligge360.

Il fatto che una tale visione sia non un genere letterario, ma il tema

o almeno uno dei temi principali dell’esperienza ecclesiale è manifestato

con evidenza non solo nelle omelie, ma anche nelle preghiere liturgiche,

nei riti dei sacramenti e negli stessi testi canonici e legislativi dei concili361.

L’uso della terminologia medica per esprimere la natura della liturgia e

360 GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento a san Giovanni, II, 5. 361 Occorre che colui che ha ricevuto da Dio il potere di sciogliere e di legare, consideri la natura del peccato e la ferma risoluzione di conversione in colui che ha peccato e così dia un rimedio appropriato alla malattia: per paura che, se in un modo o in un altro egli mancasse di misura, non pregiudichi la salute di colui che è malato. Infatti la malattia del peccato non è semplice, ma complessa e multiforme, quindi provoca molti sviluppi del male: attraverso di essi il male si diffonde ampiamente e continuerà ad estendersi fino a che non venga fermato dall’intervento di un medico. Per questo colui che professa la scienza della medicina dell’anima deve osservare innanzi tutto le disposizioni di colui che ha peccato e considerare se si orienta verso la guarigione o se, al contrario, per il proprio modo di vivere, favorisce la malattia in se stesso; deve, altresì, considerare se, nel tempo, lungo la sua vita, egli è preoccupato di mostrarsi ragionevole e convertirsi: e se egli non resiste al medico e se la piaga dell’anima non aumenta per l’applicazione del rimedio; e così occorre che la misericordia gli sia concessa secondo il merito. In realtà Dio fa tutto, e anche colui al quale è stato affidato l’incarico di pastore, per radunare le pecore smarrite, per curare colui che è stato ferito dal serpente, per non spingerlo attraverso i precipizi della disperazione, né tantomeno verso la distruzione della vita e il disprezzo di sé allentando i freni: ma affinchè lotti contro ilmale unicamente per mezzo di medicamenti sia più forti e astringenti, sia più dolci e più rassicuranti, e affinchè egli lavori alla cicatrizzazione della piaga, esaminando i frutti del pentimento, guidando e governando saggiamente l’uomo che è chiamato ad uno splendore superiore. Occorre infatti sapere due cose: quelle che dipendono dallo stretto diritto e quelle che appartengono all’uso comune; ora, per coloro che non accettano le misure estreme, occorre seguire la tradizione, come ci insegna Basilio (Canone 102 del Concilio di Trullano, in JOANNNOU P.P., Fonti, t. IX, Disciplina Generale Antica (II-IX), Roma 1962, pp. 239-241).

215

dei sacramenti fu così vasto e generale da non lasciare alcun dubbio al

riguardo: siamo ben oltre al genere letterario e al simbolo.

Il sacerdote deve usare rimedi curativi. E’ un cattivo medico colui che

tratta con dolcezza gli ascessi tumefatti e che lascia il veleno proliferare nelle

parti interne del corpo. La ferita dev’essere aperta e incisa e, dopo l’asportazione

delle parti incancrenite, deve intervenire con una cura energica, anche se il

malato protesta, grida e si lamenta perché non può sopportare il dolore: in

seguito egli ringrazierà il medico dal momento che si sentirà in buona salute362.

Entrate nella chiesa, fatevi penitenza: là risiede il medico che guarisce e

non il giudice che condanna; là non esiste il castigo del peccato, ma si ottiene la

remissione363.

Emerge con chiarezza e vigore nella ricca letteratura cristiana

dell’era patristica, una massiccia serie di testimonianze che certificano la

presenza di una visione terapeutica dello scopo della chiesa e delle sue

attività, che avvicina il cristianesimo, più che alle grandi religioni

dell’epoca, alla medicina e addirittura alla moderna psichiatria.

Inquietudine, ansia, tormenti interiori, nevrosi e depressione, diremmo

oggi, sono interpretati come sintomi inequivocabili di un animo malato;

il peccato, più che una colpa da espiare veniva visto come una malattia

dello spirito, mentre la penitenza era condotta allo scopo di guarire la

malattia, non per placare l’ira divina. I peccati e le loro radici, le passioni

362 CIPRIANO di CARTAGINE, Sui “Lapsi”, 14, in PL 4, 491-92. 363 GIOVANNI CRISOSTOMO, Trattato sulla Penitenza, III, 4, in PG 49, 297-98.

216

furono sempre oggetto di studi specialistici; da un certo secolo in avanti

fu il monachesimo ortodosso a dimostrarsene specialista attraverso la

pubblicazione di importannti opere ascetiche, quali la Scala di Giovanni

Climaco, le Collationes di Giovanni Cassiano, i vari trattati di Evagrio

Pontico…

Mancano in sostanza gli elementi, nell’epoca in questione, per una

teologia della colpa, premessa necessaria per un culto e un sacerdozio di

tipo espiatorio-sacrificale. Probabilmente Cullman non lesse abbastanza

o non prestò sufficientemente attenzione alle numerosissime fonti

patristiche, che mi esimo dal citare, ritenendo sufficienti quelle riportate.

La teologia della colpa, premessa necessaria per uno sviluppo in senso

espiatorio-sacrificale, andrebbe piuttosto ricercata storicamente in

occidente a partire dal XI-XII secolo, quando si afferma, grazie alla

riforma gregoriana, un sacerdozio di tipo monarchico. Non sarebbe un

caso che queste concezioni appaiono la prima volta in uno scritto di

Anselmo da Aosta. Il clero cristiano dell’epoca in questione, invece, non

era concepito, né concepiva se stesso come una classe addetta ad un culto

sacrificale, ma come i collaboratori specializzati nella cura dei mali che

affliggevano lo spirito umano. I sette concili ecumenici, in questa chiave

potrebbero equivalere ai congressi medici di oggi…

217

LA PROSCOMIDIA O PROTESI

NELLA Mystikè Theoria

Dopo aver esaminato ad uno ad uno i singoli paramenti diaconali e

sacerdotali, Germano offre la prima descrizione particolareggiata del rito

della proscomidìa o protesi, che ha luogo, come oggi, prima dell’inizio

della liturgia stessa. Possiamo innanzi tutto concludere che tra la morte

di Giovanni Mosco (probabilmente il 634) e la stesura della Mystikè

Theorìa la proscomidìa o protesi propriamente detta, venne separata

dall’anafora e collocata prima dell’inizio della Divina Liturgia.

Il pane della protesi, cioè (il pane) puro, rappresenta l’abbondanza della

ricchezza della bontà dello stesso Dio nostro, che, essendo Figlio di Dio, divenne

uomo ed offrì se stesso come sacrificio e offerta in riscatto e propiziazione per la

vita e la salvezza del mondo; assumendo tutto l’impasto della natura umana

eccetto il peccato, offrì se stesso come olocausto scelto ed eccezionale a Dio Padre

per l’impasto umano, come è detto: “Io sono il pane disceso dal cielo364” e: “Chi

mangia questo pane vivrà nei secoli365”; a questo proposito dice il profeta

Geremia: “Venite e mettiamo del legno nel suo pane366” indicando il legno della

crice nel corpo confitto367.

L’elemento principale della proscomidìa, estrapolata dal suo luogo

tradizionale al centro della liturgia eucaristica, come inizio dell’anafora è

364 Giovanni VI, 51. 365 Ibidem, VI, 54. 366 Geremia XI, 19. 367 GERMANO, Op. Cit., 20.

218

il memoriale della croce, visto come l’archetipo dell’olocausto perfetto, il

riassunto, o meglio il compimento dei sacrifici veterotestamentari. Colui

che fu indicato dal Battista e indicò se stesso come l’agnello di Dio, puro

e immacolato, che prende su di sé i peccati del mondo, colui che,

mostrando del pane e del vino, disse nel cenacolo: questo è il mio corpo,

questo è il mio sangue offerto per molti, ha sostituito e abolito

definitivamente la dinamica del sacrificio espiatorio cruento. I suoi

discepoli, per suo comando, offriranno allora pane e vino in sua

memoria per ricevere i frutti del suo olocausto; e come nell’Antica

Alleanza alcune offerte particolarmente gradite erano state

contrassegnate dalla discesa del fuoco celeste, così nella Nuova Alleanza

l’offerta gradita del pane e del vino, accompagnati dalla purificazione

interiore, sono in grado di ottenere la discesa dal cielo di una fiamma

spirituale, sotto il cui effetto cielo e terra si uniscono, la natura divina e la

natura umana entrano in comunione, il regno dei cieli si manifesta con

potenza e gli uomini sperimentano l’ingresso nell’avvenimento della

Pentecoste.

Il pane e il vino della protesi, dunque, nei quali Cristo stesso indicò

il proprio corpo e il proprio sangue immolati in olocausto, vengono

trattati con il trattamento che nel tempio giudaico era riservato agli

agnelli da immolare. Ed è logico, allora, che questo segmento liturgico,

arricchitosi di reminiscenze veterotestamentarie, sia stato trasportato al

di fuori della Divina Liturgia e, soprattuto prima dell’acclamazione

219

iniziale: Benedetto il regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ora e

sempre e nei secoli dei secoli. Amin. Il rituale della protesi non consiste nella

ripetizione del sacrificio della croce; tale sacrificio non viene ripetuto

essenzialmente per due motivi: in primo luogo perché è impossibile, in

secondo luogo esso è avvenuto una volta per tutte con pieno successo e

non servirebbe ripeterlo, anzi significherebbe che la prima volta non era

sufficiente al compimento del disegno di Dio. Taft è giustamente

convinto che lo sviluppo della categoria storica nella liturgia ortodossa

sia un contributo della sensibiltà teologica e religiosa del cristianesimo

siro-antiocheno368. Il fatto che le suppellettili stesse che almeno dal VII

secolo sono necessarie allo svolgimento della proscomidìa, evochino allo

stesso tempo sia l’immolazione degli olocausti e dei sacrifici di

comunione che avvenivano nel tempio di Gerusalemme, sia i racconti

evangelici della passione e morte di Cristo, sottolineandone il legame

profetico, ci induce a vedere nello sviluppo intrapreso dal rituale della

protesi un forte influsso della cosiddetta scuola di Antiochia,

tradizionalmente più attenta al lato storico dei misteri cristiani. In

Germano, inoltre, per la prima volta compare in una fonte liturgica la

lancia (lògche), che abbiamo visto in precedenza:

Il fatto che venga inciso con una lancia significa questo: “Come pecora fu

condotto al macello e come agnello muto davanti al tosatore”369. 368 Cfr. TAFT, Storia Sintetica del Rito Bizantino, Libreria Editrice Vaticana, 1999, Città del Vaticano, pp. 52-55. 369 GERMANO, Op. Cit., 21.

220

La corrente teologica storicista non nasce, però, con Germano di

Costantinopoli, né si afferma solo ora, con l’accentuazione dell’elemento

sacrificale che essa sembra imprimere alla liturgia costantinopolitana. La

drammatizzazione della preparazione del pane e del vino offerti per la

liturgia, infatti vengono trasportati al di fuori dell’eucaristia e separati

dall’anafora forse proprio per non alterarne il senso cosmico e

pentecostale. Nessuno ha mai pensato che il pane e il vino una volta

terminata la loro preparazione, nell’intervallo che intercorre tra il

termine della proscomidìa e l’inizio dell’anàfora siano già trasformati. La

loro preparazione complessa è sì, una consacrazione, un’offerta

preliminare per la liturgia divina, durante la quale lo Spirito santo

getterebbe la sua ombra sopra di loro; ma il momento in cui lo Spirito li

trasformerebbe sarebbe nel corso dell’anàfora, come abbiamo letto nel

Prato di Giovanni Mosco, a proposito di quel monaco che aspettava di

vedere i segni dello Spirito Santo prima di iniziare a celebrare.

Il vino e l’acqua sono il sangue e l’acqua sgorgati dal suo fianco, come dice

il profeta: “Pane darà a lui ed acqua da bere370”. Al posto infatti della lancia che

trafisse Cristo sulla croce c’è quest’altra lancia.

Il pane e il calice sono propriamente e veramente ad imitazione di quella

cena mistica in cui Cristo, preso del pane e del vino, disse: “Prendete, mangiate e

bevete tutti: questo è il mio corpo e il mio sangue371”. Perciò anche il sacerdote,

370 Isaia 33, 16. 371 Matteo 26, 27-28, con variazioni.

221

prendendo nel paniere dal diacono o dal suddiacono la prosfora372, prendendo la

lancia e pulendola, segnandola allora con il segno della croce, dice: “Come pecora

fu condotto al macello e come agnello muto davanti al tosatore”373. Detto ciò,

deposta la prosfora sul discàrion indicandola col dito dice: “Così non aprì la sua

bocca: nella sua umiliazione fu esaltato il suo giudizio: la sua generazione chi la

narrerà? Poiché è stata tolta dalla terra la sua vita374”. E dopo aver detto questo,

preso il santo calice, mentre il diacono vimesce vino ed acqua, nuovamente dice

il sacerdote: “Uscì dal fianco di Gesù sangue ed acqua e colui che ha visto ne dà

testimonianza e la sua testimonianza è vera375”. Poi, dopo questo, deposto il santo

calice sulla mensa divina, indica col dito, intendendo l’agnello ucciso al posto del

pane e il sangue effuso al posto del vino, e dice ancora queste cose: “Tre sono

coloro che dano testimonianza: lo spirito, l’acqua e il sangue e questi tre sono

uno, ora e sempre e nei secoli dei secoli376”. Quindi prendendo l’incensiere compie

la preghiera della protesi377.

Possiamo dire di essere di fronte alla proscomidìa di cui parlava

Giovani Mosco? Non dovrebbe essere stata troppo lontana da questa

forma, vista la vicinanza storica e geografica. La forma descritta, però, da

Germano è già scorporata dall’anàfora, dal momento che la Mystikè

372 Il pane liturgico è così denominato nelle fonti patristiche dal VII secolo in avanti. E’ il nome ancor oggi utilizzato nella chiesa ortodossa. 373 Isaia 53, 7. 374 Ididem, 7. 375 Giovanni 19, 34-35. 376 I Giovanni, 5, 7. 377GERMANO, Op. Cit., 22.

222

Theorìa, dopo queste descrizioni, si diffonde nella spiegare il canto delle

antifone iniziali, la processione del vangelo, il trisagio, la lettura

dell’epistola dell’apostolo, l’Alleluia, l’incensazione e il canto del

vangelo, la chiusura del velo e il rinvio dei catecumeni e tutto il resto

della liturgia, ormai fissata nella forma divenuta poi tradizionale e ancor

oggi praticata.

223

LA PROSCOMIDIA O PROTESI NEL RITO SIRIACO

Se il trattato del patriarca Germano contiene la prima notizia della

presenza di una lancia liturgica, in realtà un oggetto dalle dimensioni di

un coltellino, la cui forma riprende la sagoma di una punta di lancia

piatta, la presenza dell’asterìscos, la stelletta che ricopre il discàrion, che

abbiamo visto a suo tempo, viene riscontrata nella liturgia della chiesa

siro-giacobita. In realtà quest’ultimo paragrafo dovrebbe essere

un’appendice, dal momento che i testi che stiamo per esaminare

appartengono ad una tradizione non ancora studiata. Le fonti sono quasi

tutte in siriaco, le poche traduzioni reperibili sono in arabo classico e

pochissimi ricercatori hanno affrontato questa materia che dispone di

un’imponente massa di manoscritti dispersi in numerose biblioteche,

mal catalogati e, a causa delle note vicende politiche di questi ultimi

anni, per lo più difficilmente raggiungibili.

Il testo che riportiamo è a sua volta una mystikè theorìa della liturgia

in uso presso la chiesa siro-giacobita ed è stato tradotto dall’arabo da

parte dell’igumeo Andreij Wade del Patriarcato di Mosca, esperto

liturgista.

Il prete toglie il velo che copre le sacre suppellettili e prende la spugna e il

cucchiaio e li mette a destra del tavolino alla sua sinistra e pone il cuscino e la

stella alla sinistra del tavolino, alla sua destra e poi pone la copertura del piatto

(discàrion) alla sua destra e la copertura del calice alla sua sinistra e poi strofina

224

con la spugna il piatto e il calice. Poi prende dalle prosfore presentate quella più

bella fra di loro e la esamina molto bene perché non sia bucata o rotta o bruciata

o che ci sia in essa qualunque difetto come era la scelta del sacrificio di

presentazione378 e poi la prende nella sua mano con le dita delle sua mani e la

innalza diritto sopra il piatto significando i padri i quali offrivano le loro offerte

con l’innalzamento delle loro mani e poi la depone sul piatto indicando la discesa

del Figlio di Dio dal cielo e la sua incarnazione dal grembo di Maria, oppure

indicando ciò che fece la Vergine, quando prese Gesù e lo depose nella

mangiatoia; e quando ha fatto questo è necessario che il prete prenda le prosfore

avanzate, perché è necessario che avanzino delle prosfore al prete, disponendole

in ordine a forma del segno della croce, se il piatto è grande, oppure alcune di

loro sopra le altre, se il piatto è piccolo, come dice il Libro delle Offerte al capitolo

IV,4. Poi prende il calice del vino nella sua mano sinistra e la coppa dell’acqua

nella sua mano destra e mescola il vino con l’aggiunta di quanto conviene

d’acqua indicando il sangue e l’acqua che scorrevano dal fianco di Cristo sulla

croce e poi li versa nel calice e durante tutte le azioni menzionate recita

preghiere speciali che esprimono il significato e la chiesa ha l’offerta di pane e

vino separati l’uno dall’altro al modo che tenne Gesù quando insegnò questo

mistero. Poi egli copre il calice e il piatto con i loro coperchi e scende dalla scala e

spiega le sue mani recitando l’hosòio…379

378 Cfr. Levitico 22, 18-25. 379 ISACCO SAKA, Spiegazione della Liturgia Secondo il Rito della Chiesa Siro-Antiochena, II ed. 1977, tipografia di Babilonia, Baghdad, pp. 35ss. L’hosoio è un genere poetico tipico della letteratura religiosa siriaca, dedicato ad argomenti penitenziali.

225

Tutto ciò viene compiuto, come possiamo leggere in

BRIGHTMAN, Liturgies Eastern and Western (vol. I, Oxford 1896; p. 71

della ristampa del 1965) recitando le parole della profezia del Deutero-

Isaia che abbiamo incontrato nel rito bizantino:

Come pecora fu condotto al macello e come agnello muto davanti al

tosatore Detto ciò, deposta la prosfora sul discàrion indicandola col dito dice:

Come agnello muto davanti al tosatore, così non aprì la sua bocca: nella sua

umiliazione fu esaltato il suo giudizio: la sua generazione chi la narrerà? Poiché

è stata tolta dalla terra la sua vita.

Il pane, poi, al momento della frazione, che avviene al termine

dell’anafora, subito dopo la recita del Padre nostro, viene suddiviso in

nove particelle380, che il prete dispone sul piatto (il discàrion

costantinopolitano) componendo la figura dell’agnello381. Il patrimonio

letterario e liturgico dei siro antiocheni è purtroppo ancora

irraggiungibile e perciò non ci è possibile spingerci oltre nelle analisi.

Quanto abbiamo appreso dai pochi testi al momento reperibili in

una lingua a noi nota, ci permette comunque di giungere ad alcune

conclusioni. La chiesa siro-antiochena o Siro-giacobita è nata

dall’organizzazione dei dissidenti anticalcedonesi di lingua siriaca. Gli

elementi in comune con la chiesa di Costantinopoli possono così essere

380 Ricordiamo che in nove parti viene diviso anche il pane eucaristico nel rito ispano-mozarabico e che ancora nove frammenti vengono staccati nella proscomidìa cosiddetta bizantina in memoria di nove categorie di santi. Curiose coincidenze… 381 Cfr. BRIGHTMAN F.E., Op. Cit., pp. 99ss.

226

datati con buona probabilità di successo all’epoca precedente lo scisma.

Così la presenza di un rito particolare da svolgere nella preparazione del

pane e del vino, che prevede la recita delle profezie di Isaia, proviene

dall’antico rito antiocheno e risale molto probabilmente almeno al IV-V

secolo. L’elemento originario e costitutivo di questo rito è appunto

l’identificazione del pane e del vino offerti per la liturgia nella carne e nel

sangue di Cristo, mediante la recita della profezia di Isaia: è il memoriale

dell’olocausto di Cristo, seguito dall’infusione dell’acqua e del vino in

ricordo del sangue e dell’acqua che sgorgavano dal fianco trafitto di

Cristo; ma la liturgia non è ancora compiuta a questo punto.

Forse la liturgia siro-giacobita conserva la protesi nella sua fase più

antica e comunque, se non c’è la lancia, è previsto il cucchiaio, la spugna

e l’asterisco, tre suppellettili presenti nel rito della Grande Chiesa di

Costantinopoli. Difficile sostenere che dopo il 451 vi siano state delle

influenze reciproche fra calcedonesi e anticalcedonesi.

Un’ultima considerazione merita che sia spesa nei riguardi della

teoria di Nilo Borgia, seguito poi da Taft, secondo cui il rito della

preparazione del pane e del vino era inizialmenete compiuto dai diaconi:

se ha valore quanto abbiamo appena osservato nel rito della chiesa siro-

antiochena, se hanno valore le numerose testimonianze del Prato di

Giovani Mosco, la protesi o proscomidia era compiuta dal presbitero

assistito da uno o più diaconi.

227

Potremmo ancora considerare gli sviluppi successivi che

arricchirono la protesi ortodossa portandola alla forma attuale, già

comunque ben riconoscibile all’epoca degli Studiti, uno sviluppo che

presso i siro-antiocheni sembra non essersi verificato. In questo campo,

come in altri contesti, come l’innografia, la chiesa di Costantinopoli si

dimostrò più antiochena e cioè più semita che ellenista. E questo è il

paradosso ancora attuale della chiesa ortodossa, più debitrice nei

confronti del giudeo-cristianesimo che della grecità classica o

tardoantica. Ma questo può essere valutato meglio studiandone le forme

di culto, più che nel cercare le fonti neoplatoniche di questo o di

quell’autore. E’ nel culto, infatti che l’esperienza religiosa si è tramandata

nei secoli.

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Oggi sono sciolti i vincoli della sterilità: poiché Dio esaudendo Gioacchino ed Anna promette loro che, contro ogni speranza, genereranno la divina fanciulla: colei dalla quale egli stesso, l’incircoscrivibile, divenuto mortale, è stato partorito, lui che, mediante un angelo, ha ordinato di acclamare a lei così: Salve, piena di grazia, il Signore è con te (Apolytìkion del 9 dicembre, memoria della concezione di sant’Anna, madre della Santissima Madre di Dio).

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INDICE Prefazione 2 Fonti antiche 6 Bibliografia moderna 10 Introduzione 18 Liturgia eucaristica e regno dei cieli 27 Il regno nei sinottici 40 Il rito della pròtesi o proscomidìa 53 Descrizione del rito della pròtesi o proscomidìa 55 Fonti della proscomidìa o pròtesi 71 Fonti liturgiche 71 Fonti giuridiche 77 Fonti storiche 79 Giovanni Mosco: la vita e l’opera 80 La proscomidìa nel Prato di Giovanni Mosco 88 Conclusioni sul Prato di Giovanni Mosco 170 Germano, patriarca di Costantinopoli. La vita e le opere 174 Il commentario liturgico: Mystikè Theorìa della chiesa 185 La proscomidìa o pròtesi nella Mystikè Theorìa 217 La proscomidìa o pròtesi nel rito siriaco 223 Indice 229