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LICEO SCIENTIFICO DELLE SCIENZE APPLICATE V ANNO FILOSOFIA - Romanticismo Europeo - L’Idealismo Tedesco - Schopenhauer - Kierkegaard - Ludwig Feuerbach: Vita e Pensiero Filosofico - Karl Marx - Manifesto del Partito Comunista - Il Positivismo Caratteri Generali - Auguste Comte e la Legge dei Tre Stadi - La Teoria dell’Evoluzione di Darwin e le Prove a Favore Di Essa - Apollineo e Dionisiaco: La Maschera e il Volto - Sigmund Freud: dagli Studi sull’Isteria alla Psicanalisi

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LICEO SCIENTIFICO DELLE SCIENZE APPLICATE

V ANNO

FILOSOFIA - Romanticismo Europeo - L’Idealismo Tedesco - Schopenhauer - Kierkegaard - Ludwig Feuerbach: Vita e Pensiero Filosofico - Karl Marx - Manifesto del Partito Comunista - Il Positivismo Caratteri Generali - Auguste Comte e la Legge dei Tre Stadi - La Teoria dell’Evoluzione di Darwin e le Prove a Favore Di Essa - Apollineo e Dionisiaco: La Maschera e il Volto - Sigmund Freud: dagli Studi sull’Isteria alla Psicanalisi

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ROMANTICISMO EUROPEO

Caratteri generali del Romanticismo tedesco ed europeo Per Romanticismo (che originariamente faceva riferimento al romanzo cavalleresco) si intende un movimento, nato in Germania nella fine del Settecento. E’ di difficile catalogazione; per esso valgono principalmente due definizioni: quella di Hegel e dei romantici in genere, secondo i quali il Romanticismo è la cultura che esalta il sentimento e che ruota attorno al Circolo di Jena. Tale definizione è però troppo ristretta e privilegia soprattutto le arti, per cui è più preciso considerare il Romanticismo come “un’atmosfera” storica, cioè una situazione mentale generale che si riflette sull’arte, sulla filosofia, sulla politica ecc. Non è però neanche esatto rinunciare totalmente di definire tale movimento (come fanno parecchi studiosi odierni), perché è sempre possibile dare i tratti principali, come la ricchezza di “ambivalenze” (che denotano come, pur permanendo, la logica aristotelica, basata sul principio di non contraddizione, stia per essere superata da quella Hegeliana): c’è l’esaltazione del genio (cioè del singolo) e contemporaneamente l’esaltazione della società, il sentimentalismo e il razionalismo, l’esaltazione del passato e l’attesa del futuro ecc., movimenti antitetici ma che hanno basi comuni e che insieme sintetizzano il Romanticismo. Le ambivalenze, inoltre, derivano anche dal periodo storico, caratterizzato dal ritorno in auge della Chiesa e dei sovrani e contemporaneamente dalla nascita delle sette e dei moti. Perché il Romanticismo nasce in Germania? Perché, dopo tanto tempo, c’è in Germania un movimento filosofico originale? Per capirlo dobbiamo presupporre che la Francia aveva speso sangue e soldi nelle guerre napoleoniche (tra l’altro erano nate tante industrie belliche che ora bisognava riconvertire) e che l’Inghilterra era il principale paese antinapoleonico. Tra le cause della rivoluzione francese (e della conseguente ascesa di Napoleone) c’è la diffusione del pensiero illuminista, quindi in tutta Europa le sue idee furono rigettate, mentre in Francia e Inghilterra avvenne un abbandono totale della filosofia. La Germania, invece, che aveva visto quegli avvenimenti da lontano, pur rigettando l’illuminismo, continua a filosofare: tale rigetto avviene soprattutto nei giovani del nutrito gruppo “Sturm und Drang” (tempesta e assalto), che esaltano il sentimento smodato, l’amore libero e vanno contro le regole in genere. Questo movimento si incrocia con il neoclassicismo (che riprende i motivi classici, aggiungendo la tragicità contemporanea). Sturm und Drang e neoclassicismo sono due movimenti antitetici: la loro sintesi dialettica forma il Romanticismo. Rigettando l’illuminismo, il Romanticismo vede nella ragione i limiti che gli aveva imposto Kant, per cui per raggiungere l’infinito essa è inutile: è necessario il sentimento. L’esaltazione del sentimento è affiancata dal culto dell’arte, vista come porta della conoscenza, e in particolare della musica (celebrata non solo dai musicisti ma anche dai filosofi, come Schopenhauer). Diffusa in tutti i romantici è

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la ricerca dell’infinito, diversi sono, invece, i rapporti con il finito. La visione predominante è quella panteista, che tende a concepire il finito come realizzazione vivente dell’Infinito; panteismo accompagnato ad una religiosità cosmica, diversa delle fedi positive. Accanto ad essa c’è la visione teista e trascendete, che distingue finito da Infinito (vedendo nel finito una manifestazione più o meno adeguata dell’Infinito). Un altro motivo ricorrente tra i romantici è la visione della vita come sforzo incessante: l’uomo è preda di un “demone dell’infinito” che lo porta sempre a trascendere gli orizzonti del finito. L’espressione germanica “Sehnsucht” (desiderio, brama…) sintetizza bene il pensiero dei romantici, che tendono sempre a desiderare l’impossibile, per il piacere provocato dal desiderio stesso (che porta al senso di noia e di vuoto rispetto alle esperienze umane). Tale stato esistenziale si accompagna all’ironia e al titanismo. L’ironia deriva dalla consapevolezza che ciò che accade è solo manifestazione particolare dell’Infinito e quindi è inutile prendere le cose “sul serio”. Il titanismo (detto anche prometismo, visto che i romantici vedono in Prometeo il simbolo della ribellione in quanto tale) è invece una sorta di sfida e di ribellione di chi si propone di combattere sapendo già che sarà sconfitto. Tant’è vero che a volte il titanismo mette capo al suicidio, visto come massima sfida contro il destino. L’anelito all’infinito porta anche al disprezzo verso il quotidiano e alla tendenza all’evasione e all’amore dell’eccezionale, del meraviglioso e del primitivo. Tale desiderio di evasione si manifesta nel culto del medioevo e dell’esotismo e soprattutto del mondo dei sogni (l’intera arte romantica sembra muoversi in un’atmosfera rarefatta e quasi transmateriale), che a volte si tingono di macabro (come accade nel “Romanticismo nero”, popolato da cadaveri, scheletri e simili). Collegata all’evasione è anche la figura romantica del “viandante”, che, diversamente dal “viaggiatore” cosmopolita illuminista (che viaggiava per curiosità e studio), “vaga” inquieto in cerca di un non so che di irraggiungibile (è un’altra manifestazione della “Sehnsucht”). Altro tema caratteristico del Romanticismo è l’”immediatezza felice” e “l’armonia perduta”, secondo la quale, in un non meglio precisato periodo della storia, l’uomo ha perso la sua simbiosi con la natura (nella quale corpo e spirito non erano in lotta), diventando “inautentico” e quindi desideroso di ricomporre la scissione uomo mondo. Secondo ciò Schiller fa una distinzione tra “poesia ingenua” (tipica degli artisti antichi, che erano natura) e “poesia sentimentale” (degli artisti moderni, per i quali la natura è oggetto di ricordi e nostalgia). Questa concezione di armonia iniziale scissione intermedia ricostruzione futura basata sul ricupero del passato (che anticipa la logica di Hegel) vede la storia come regresso e come progresso contemporaneamente. C’è quindi una mitizzazione del passato felice e la consapevolezza di essere al momento culminante della scissione: il poeta si sente nella mezzanotte del mondo, mentre attende l’alba. Le caratteristiche precedenti, piuttosto sfumante, valgono soprattutto nel Romanticismo letterario. Nel Romanticismo filosofico è centrale, invece, la figura dell’uomo come “Spirito”, inteso come: attività infinita inesauribile, che supera di continuo i propri ostacoli; soggetto in funzione di cui esiste e trova un senso l’oggetto. Questa teoria, che mette capo all’equazione Io = Dio, nasce con Fichte (non a caso indicato da

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Schlegel come iniziatore del Romanticismo tedesco). L’io di Fichte, però, è costretto ad obbedire alla necessità razionale ed è quindi limitato, quello della scuola romantica (Novalis, Tieck ecc.), invece, si basa sul sentimento è quindi non ha limiti. Entrambi comunque si basano sull’infinita potenza dello spirito: che si manifesta nel romanticismo filosofico come sorgente necessaria di produzioni reali, mentre in quello letterario come libertà assoluta di produzioni fantastiche. Da questi due modi di vedere nasce il parallelismo tra individualismo e anti-individualismo: da una parte notiamo il riconoscimento del valore della personalità (che ama, soffre, teme la morte…), l’esaltazione del genio (tutti “pensano” allo stesso modo, ma ognuno “sente” diversamente, quindi il genio spicca tra gli altri), fino a cadere nel soggettivismo; dall’altra parte, in antitesi, vediamo la proclamazione della missione sociale del dotto e l’esaltazione della società. Il Romanticismo esalta anche l’amore (tale esaltazione discende principalmente dalla ricerca di evasione dal quotidiano) come sentimento che solleva lo spirito. La prima caratteristica dell’amore romantico è la globalità, ovvero la ricerca di una sintesi tra anima e corpo, spirito e istinto. L’ideale di donna cambia: la donna dell’illuminismo, chiusa in certi schemi (con falsi pudori e sottostante alla tradizione), fa posto ad una donna più emancipata (capace di amare senza freni, presupponendo una parità di sessi nella vita come nella cultura). Seconda caratteristica dell’amore è la ricerca dell’unità assoluta degli amanti, cioè della completa fusione delle anime e dei corpi. In terzo luogo, l’amore viene visto come “cifra dell’assoluto”: nell’amore si intravede l’infinito (Dio è trascendente ma illumina l’anima di colui che ama). Nel Romanticismo c’è anche il culto della storia, che non è più dominata dall’uomo (come nell’illuminismo), bensì da un soggetto provvidenziale assoluto (Dio, lo Spirito del mondo, l’Io trascendente…). La storia è dunque vista positivamente: come continuo progresso (si tende alla perfezione: ogni evento comprende e supera il precedente; la pensano così i filosofi della metà dell’Ottocento). Oppure come insieme di momenti tutti ugualmente perfetti. (l’errore nella storia è l’antitesi della logica Hegeliana, che poi porterà alla sintesi; la pensano così i filosofi del primo Ottocento e in particolare Hegel). Vengono quindi rivalutate il medioevo e la tradizione: il passato non è più visto criticamente (come facevano gli Illuministi, che giudicavano il passato alla luce dei valori del presente), bensì viene santificato (come “corso di Dio nella storia”, nel quale ogni periodo ha la sua individualità). In politica, inizialmente il romanticismo tedesco assume forme (come lo erano già i partecipanti dello Sturm und Drang) di radicalismo repubblicano e anche di ribellismo anarchico: si assiste allo sviluppo del tema dell’individuo contro la società. In seguito, però, in virtù della visione provvidenzialistica e tradizionalistica della storia, il Romanticismo si fa conservatore ed esalta l’Autorità (i romantici, non tutti e soprattutto in Germania, si schierano dunque dalla parte della Restaurazione). Nasce l’idea di nazione: l’illuminista è cosmopolita e parla di “popolo” (insieme di individui che “vogliono” stare insieme, perché hanno stipulato un contratto sociale); la nazione è invece un insieme di individui che “devono” stare insieme, perché altrimenti rinnegherebbero tradizioni, razza, religione e, di conseguenza, se stessi. Il culto della nazione, comunque, non è

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solo esaltazione dell’autorità: fuori dalla Germania (per esempio in Italia) si assiste ad una saldatura tra il concetto di nazione e quello di libertà, libertà non solo dallo straniero ma come libertà nello stato (ognuno ha una libertà limitata da una legge universale che porti la pace nella società, affinché “tutti” siano liberi). In Mazzini, per esempio, il culto della nazione è unito al liberalismo (salvaguardia dei diritti individuali), alla democrazia (teoria del popolo come sovrano), al patriottismo (battaglia affinché lo stato coincida con la nazione) e all’autodeterminazione nazionale (ogni nazione deve essere padrona del proprio destino politico). La natura è manifestazione dell’infinito. In antitesi alla visione meccanicistica nata con Galileo, si presentano, una visione organicistica (la natura è composta da organi tutti utili), una energetico vitalista (la natura è energetica), una finalistica (la natura è strutturata così per determinati scopi), una spiritualistica (la natura è uno spirito in divenire) e una dialettica (la natura è organizzata secondo coppie opposte). Viene posto un forte legame tra uomo e natura (per cui è autorizzata l’interpretazione psicologica dei fenomeni fisici e l’interpretazione fisica di fenomeni psichici). Dividendo la natura qualitativamente, la filosofia romantica sembra fare un passo indietro: filosofia e scienza si dividono (tra l’altro lo scienziato si va specializzando e nascono le équipe). Nonostante il Romanticismo sia permeato di pessimismo (la base stessa del Romanticismo è l’anelito impossibile all’infinito; e l’infelicità viene vista come il prezzo da pagare per diventare grandi), in una visione complessiva la sua atmosfera è ottimista, a causa della visione provvidenzialistica del reale che hanno i romantici (e anche gli atei sublimano il negativo, la sofferenza, nel positivo, l’arte). Dal kantismo all’idealismo La filosofia kantiana viene studiata e approfondita e criticata per i suoi dualismi. Gli viene accusato che la realtà noumenica, non essendo conoscibile, non può neanche essere introdotta. Inoltre l’ammissione del noumeno viene vista pericolosa, perché se si scoprisse, le leggi che dipendono dalla rivoluzione copernicana non varrebbero più: studiare il noumeno è dunque inutile e pericoloso. Diversi filosofi preferirono, quindi, intendere il noumeno non come cosa eterna bensì come limite interno dell’attività dell’io (per poi arrivare infine alla completa negazione dell’esistenza della realtà noumenica). Nasce in questo periodo, con Fichte e Schelling, l’idealismo (che riconduce tutto ad un principio, che è la spiritualità), che fa scomparire il dualismo: la materia è anch’essa spirito.

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L’IDEALISMO TEDESCO 1. I critici di Kant: Schulze, Maimon, Jacobi ovvero la messa in crisi del concetto di cosa in sé; 2. Fichte e l’idealismo soggettivo o etico ovvero l’eliminazione della cosa in sé: unica realtà è il soggetto, l’Io; 3. Schelling e l’idealismo oggettivo o estetico ovvero la rivalutazione della Natura, che Fichte aveva ridotto a semplice non-Io; 4. Hegel e la filosofia dell’Assoluto ovvero la sintesi Hegeliana delle posizioni di Fichte e Schelling: la filosofia dell’Assoluto. I critici di Kant A Jena (città della Turingia, celebre per la battaglia del 1806 con cui Napoleone sconfisse i Prussiani aprendosi la strada verso Berlino) nasce il Circolo di Jena, centro di diffusione del movimento culturale di quest’epoca, il Romanticismo, di cui l’idealismo è la massima incarnazione filosofica. Fanno parte del Circolo: i fratelli Schlegel, Novalis, Tieck, Hölderlin. Jena mantiene collegamenti con l’altro grande centro culturale tedesco che è la Weimar di Goethe. A Jena insegna il maggior continuatore del pensiero kantiano, Reinhold, e vi iniziano la propria carriera i massimi filosofi dell’idealismo (Fichte, Schelling, Hegel). L’idealismo è la corrente filosofica più importante dopo Kant e della filosofia di Kant rappresenta uno sviluppo, anche se dagli esiti piuttosto divergenti rispetto al criticismo. La cultura illuministica e Kant avevano messo in luce i limiti dell’essere umano e la sua tendenza a cercare l’infinito. Il Romanticismo eredita questa contrapposizione, la esalta e cerca di superarla. In questo quadro si spiegano i capisaldi del pensiero romantico: 1. la tensione verso la totalità e l’infinito: in contrasto contro la tendenza al finito del classicismo, il romanticismo esalta l’infinito. L’uomo si sente parte di un tutto da cui è separato e cui vuole ricongiungersi. L’uomo perciò tende all’infinito e si pone come “passione dell’infinito”. Il termine tedesco che descrive questa condizione è Sensucht, “struggimento” (dovuto alla tensione insoddisfatta verso il tutto da cui ci si sente separati) o “malattia dell’anelare”. 2. il titanismo [termine che deriva da titano, con riferimento alla ribellione dei Titani contro gli dèi dell’Olimpo e, in particolare, alla sfida di Promèteo contro il potere di Zeus]. Il rapporto con l’infinito può essere vissuto anche come un rapporto di sfida e di ribellione. Io sono parte di un tutto (la natura matrigna di cui parla Leopardi, ad es.) contro cui assumo un atteggiamento di ribellione, pur nella consapevolezza del mio fallimento. Il titanismo è la ribellione contro tutte le forze superiori all’individuo

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(divinità, destino, natura, potere dispotico sia politico sia economico-sociale, ecc.). E’ la ribellione del finito contro l’infinito. 3. l’ottimismo metafisico: d’altra parte, molte filosofie romantiche esaltano l’infinito come perfezione e razionalità; in questo quadro, il dolore, l’insoddisfazione, ecc. trovano il loro significato e si superano nel culto della totalità. I drammi del singolo assumono un altro significato se vengono inquadrati nella dimensione della totalità. Ad esempio, ciò che può essere visto come un dramma per un individuo (il soffrire in una guerra che abbia come scopo di abbattere la tirannide), assume un significato positivo se quella stessa guerra viene inquadrata nel processo di miglioramento della società e della civiltà: quella lotta creerà una società più giusta e ne beneficeranno altri esseri umani. Ciò che è male per il singolo è bene per il tutto. 4. il provvidenzialismo storico: è un concetto connesso all’ottimismo metafisico. La storia segue un disegno, realizza degli scopi, è guidata dalla razionalità. Anche le vicende negative assumono un senso positivo nel disegno complessivo che guida lo sviluppo degli eventi (cfr. la Provvidenza cristiana o la Ragione di cui parla Hegel). 5. il tradizionalismo: è un concetto connesso al provvidenzialismo. La tradizione non è come sostenevano gli illuministi un cumulo di errori e superstizioni, ma va valorizzata perché i vari momenti storici preparano l’affermazione della razionalità e del bene. A questo atteggiamento si ricollega ad esempio la riscoperta romantica del Medioevo come epoca storica in cui sono nate le nazioni moderne. • Cominciamo dunque a vedere come il kantismo e l’illuminismo siano entrati in crisi con i cosiddetti seguaci immediati di Kant, che muovono delle obiezioni al suo sistema filosofico. Tra di essi citiamo i seguenti pensatori: Schulze (1792) Secondo Kant la cosa in sé è inconoscibile, dunque di essa non si può dire nulla, neanche che sia causa della rappresentazione (scetticismo). Kant perciò si contraddice sostenendo che essa è la causa delle nostre rappresentazioni. Jacobi (1787) Kant asserisce che la cosa in sé è causa delle nostre sensazioni, ma così facendo si contraddice perché applica al rapporto fenomeno-noumeno il nesso causale, che invece è valido solo tra i fenomeni. “Il sole scalda la pietra” è un giudizio causale legittimo perché mette in rapporto due oggetti fenomenici attraverso il nesso fenomenico di causalità. Dire invece che il fenomeno è causato dal noumeno,

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significa uscire dal campo del fenomeno e applicare il nesso causale tra fenomeno e noumeno, e questo è illecito. Fichte e Schelling Fichte: idealismo soggettivo o etico Vita e opere: • 1762 – 1814 • povero, riesce però a studiare teologia grazie a un benefattore • affascinato da Kant, si reca da lui e ne diviene amico • professore universitario, si dimette con accuse di ateismo • 1808, incita i giovani con i Discorsi alla nazione tedesca, dopo che le campagne napoleoniche hanno smembrato la Prussia • nel 1813 si unisce ai combattenti nella battaglia di Lipsia con la quale la Germania ebbe la riscossa contro Napoleone; ma prende dalla moglie, che cura i feriti negli ospedali, una febbre epidemica e muore nel 1814 • opere: Discorsi alla nazione tedesca; Fondamenti della dottrina della scienza 1. La filosofia di Fichte viene definita idealismo soggettivo (o etico) perché elimina il noumeno kantiano (ritenuto qualcosa di contraddittorio: se esso è inconoscibile, allora non è lecito, sul piano teoretico, affermarne o negarne l’esistenza) e riduce tutta la realtà a rappresentazione o atto del soggetto (Io). 2. Principio di ogni cosa è dunque l’Io puro, cioè non l’Io empirico di questo o di quell’uomo, ma l’Io nella sua universalità, come natura costitutiva di qualsiasi uomo. 3. L’Io puro viene inteso da Fichte non come una sostanza stabile e permanente, ma come un’attività che non subisce imposizioni dall’esterno, ma cerca e costruisce da se stessa la propria verità e la propria felicità. In questo egli è vicino alla concezione dell’uomo elaborata nel Rinascimento: l’uomo è l’unica creatura la cui essenza consiste nel non avere un’essenza prestabilita, ma che è chiamato a darsela secondo le proprie scelte morali: cfr. l’orazione di Pico della Mirandola Sulla dignità dell’uomo, in cui Dio dice all’uomo: “tu sei l’unica creatura che può scegliere di essere quello che vuole, angelo o bestia”. Ma questa concezione dell’uomo va ricondotta anche all’atmosfera illuministica entro cui il filosofo è vissuto: l’idea che l’uomo possa dominare la realtà con la propria ragione e con il proprio spirito, trova un corrispettivo metafisico nell’elaborazione della teoria idealistica secondo cui tutto è spirito e nulla si sottrae alla razionalità umana: tutta la realtà è spirituale e razionale, nessun “noumeno” limita l’uomo.

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4. Proprio per esplicare la sua natura attiva, l’Io pone il non-Io, ovvero l’ostacolo che deve necessariamente avere davanti e tentare di superare. Non c’è infatti alcuna attività se non vi sono ostacoli da superare. Solo così è possibile intendere l’Io come un’attività. 5. Nel porre davanti a sé l’ostacolo (che Fichte chiama non-Io), l’Io si limita e diventa molteplice. Ecco allora che dall’unicità dell’Io puro indivisibile si passa alla molteplicità degli Io empirici, che costituiscono l’umanità. 6. Questo triplice processo che spiega la derivazione di tutta la realtà dall’Io, viene riassunto da Fichte in tre momenti, che egli chiama “i tre principi della dottrina della scienza”: a) l’Io pone se stesso; b) l’Io pone il non-Io; c) nell’atto di limitarsi ponendo il non-Io, l’Io diventa molteplice e si frantuma in una moltitudine di Io empirici. 7. E’ un processo logico e non cronologico. Va inteso perciò come qualcosa di eterno e fuori dal tempo. Ciascuno dei tre momenti non viene uno dopo l’altro ma ciascuno implica logicamente l’altro, come in una formula matematica: i singoli elementi di cui essa è costituita non vengono uno dopo l’altro, ma si implicano e si comprendono a vicenda, tanto che nell’atto in cui si parla dell’uno occorre fare necessariamente riferimento all’altro e non è possibile isolarli e separarli. 8. Il compito dell’uomo, ovvero dei singoli Io empirici derivanti dalla frantumazione dell’Io puro, è quello di superare la scissione raggiungendo la situazione dell’Io puro privo di limiti e di ostacoli, perciò libero e infinito, incondizionato, non limitato da nulla. Ecco allora che per gli Io empirici, questo processo di superamento del non-Io può essere inteso solo come un ideale; cioè non è mai una realtà in atto ma una meta ideale del loro agire. Fichte sostiene che per gli Io empirici l’infinito e la libertà non esistono come realtà in atto, ma come continuo sforzo o tensione per raggiungerli (Streben). Meglio parlare perciò di infinitizzazione più che di infinito, per gli uomini. 9. Il processo di infinitizzazione degli io empirici va inteso come un processo inesauribile, perché deriva dalla stessa struttura logica (e non cronologica: non ha perciò un inizio e una fine, ma è eternamente in atto nelle stesse modalità) della realtà (Io – non-io – frantumazione degli io e loro tentativo di ripristinare l’unità originaria). 10. Ciò spiega anche perché l’idealismo di Fichte viene caratterizzato come idealismo etico: l’Io empirico è costituito da un preciso compito, un dovere inesauribile, di superamento del limite, che si rivela essere la caratteristica principale del suo essere.

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11. Dal punto di vista politico, Fichte sostiene che l’integrazione dei diversi popoli condurrà alla ricomposizione dell’intera umanità in un unico Io, riaffermando l’unità originaria. In questo processo di integrazione il popolo tedesco ha un ruolo di guida: da qui il nazionalismo di Fichte. Schelling idealismo oggettivo Vita e opere • 1775 – 1854 (nasce quasi negli stessi anni di Hegel, ma gli sopravvive di circa un ventennio); • condiscepolo di Hegel a Tubinga, fonda insieme a lui il Giornale critico di filosofia, ma poi ruppe con l’amico quando questi pubblicò la Fenomenologia, in cui mostrava di voler percorrere altre vie; • fu professore a Jena, dove intorno a lui si formò il primo nucleo della scuola romantica (fratelli Schlegel); poi a Monaco e infine a Berlino; • opere: Idee sulla filosofia della natura; Sistema dell’idealismo trascendentale; Esposizione del mio sistema. a) La filosofia di Schelling viene definita idealismo oggettivo (o filosofia della identità) poiché, reagendo all’idealismo soggettivo di Fichte che relega la natura al ruolo di semplice non-Io, restituisce ad essa la sua realtà e la sua dignità mettendola sullo stesso piano dell’Io. b) Secondo Schelling infatti occorre porre come originario un principio concepito come unità indifferenziata (o identità) da cui derivano sia la natura che lo spirito, il soggetto e l’oggetto. Schelling identifica tale principio nell’Assoluto, unità indifferenziata o identità di soggetto e oggetto. L’Assoluto di Schelling assomiglia perciò alla Sostanza spinoziana che pur essendo unica, si differenzia negli attributi dell’estensione e del pensiero. Ma mentre la Sostanza di Spinoza era concepita come qualcosa di statico, ovvero come l’ordine oggettivo che costituisce la realtà, l’Assoluto di Schelling è dinamico e perciò assomiglia anche all’Io di Fichte che intendeva quest’ultimo come un’incessante attività di superamento del non-Io. c) Diversamente da Fichte, Schelling sostiene però che la natura (il non-Io) non è un semplice strumento dello spirito per la realizzazione della vita morale, ma possiede un suo valore autonomo, e differisce dallo spirito solo perché è un’attività spirituale di grado inferiore o inconscia che tende verso la coscienza come la meta di un lungo processo che si compie soltanto nell’uomo. La natura è infatti una realtà dinamica e intimamente spirituale, una gradualità di processi (dall’azione delle forze più elementari che agiscono nel mondo inorganico alla formazione di organismi naturali sempre più evoluti e coscienti) entro i quali una coscienza addormentata si viene progressivamente svegliando. Si ha così una negazione della realtà della materia che viene ricondotta allo spirito sotto forma di forze di attrazione e repulsione.

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d) L’idea di fondo della filosofia di Schelling è che esiste uno stesso slancio vitale che percorre e unisce natura e spirito, mondo e io, realtà materiale e realtà ideale. Essi formano una totalità, un organismo universale. Il sistema della natura e il sistema dello spirito non mettono dunque in luce che i due aspetti di uno stesso essere (cfr. la Sostanza di Spinoza e i due attributi in cui si manifesta) che può essere ritrovato percorrendo due vie diverse: partendo dalla natura per risalire allo spirito oppure partendo dallo spirito per risalire alla natura. L’analisi filosofica di Schelling si articola perciò in due momenti: 1) Prima via: la filosofia della natura, che parte dall’oggettivo per derivarne il soggettivo. Essa descrive lo sviluppo della natura, intesa come una realtà organica unitaria, dalle sue forme più semplici (regno minerale, vegetale, animale, ecc.) fino all’emergere dello Spirito, con l’uomo. 2) Seconda via: la filosofia trascendentale, che parte dal soggettivo per derivarne l’oggettivo. Essa descrive come la spiritualità inconscia divenga Spirito consapevole nell’uomo e plasmi la realtà e la Storia. In un primo momento l’uomo avverte la natura come qualcosa di completamente distinto da sé (sensazione) e le ragioni per cui ciò avviene sono analoghe a quelle che esponeva Fichte: l’io ha bisogno di avere di fronte a sè degli oggetti avvertiti come estranei per poter esplicare quell’attività che costituisce la sua natura. L’io poi passa attraverso altre fasi di sviluppo fino a riconoscersi, nel momento conclusivo (riflessione e atto assoluto di volere), come costitutivo della realtà stessa. Il soggetto avverte di essere padrone e plasmatore della natura e della realtà, che non percepisce più come estranea a sé ma in suo potere e totalmente plasmata dalle sue strutture soggettive (cfr. Kant: il soggetto plasma l’oggetto; idealismo trascendentale). Riassumendo, possiamo dire che Schelling traccia una vera e propria storia filosofica dell’Io, individuando tre momenti: 1. Prima epoca: sensazione (l’oggetto è avvertito come estraneo, come un dato che limita l’io) 2. Seconda epoca: intuizione (l’io comincia ad avvertire se stesso, ma si sente ancora immerso negli oggetti) 3. Terza epoca: riflessione e volontà (l’Io si sente padrone degli oggetti e diventa consapevole di poterli gestire con la propria volontà). Entriamo qui nel mondo umano e nel campo della Storia, dove l’Io diventa padrone di sé e si autodetermina. • Come abbiamo appena mostrato, secondo Schelling l’acquisizione della consapevolezza dell’Assoluto, ovvero dell’identità di natura e spirito, si può raggiungere attraverso le due vie descritte (filosofia della natura e filosofia trascendentale). Tali vie offrono però un tipo di consapevolezza ricostruita, mediata, indiretta (sempre collegata alle due polarità dell’oggettivo e del soggettivo), e non immediatamente intuitiva e chiara. Questa consapevolezza immediata si può avere

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solo per via estetica. Nell’attività creatrice dell’arte si ha la sintesi di soggetto e oggetto, spirito e natura, conscio e inconscio. L’artista infatti quando crea è insieme esecutore cosciente della sua opera, ma produce anche per ispirazione, attraverso cioè una forza inconscia che quasi lo trascende e lo domina. Il vertice della conoscenza non è perciò la ragione ma l’arte, sintesi di conscio e inconscio. E’ questa una delle caratteristiche peculiari dell’idealismo di Schelling, che perciò è stato anche caratterizzato come idealismo estetico. e) La filosofia di Schelling è una forma di monismo idealistico perché sostiene che tutta la realtà è la manifestazione di un unico principio spirituale. Questo principio si ravvisa in tutti gli aspetti della realtà sia quelli inconsci (la natura) sia quelli consci (il mondo umano, la Storia, ecc.). Fichte e Schelling Fichte • Idealismo soggettivo (elimina il noumeno e riduce tutto all’Io, al soggetto); • Idealismo etico: l’Io viene inteso come un’attività; • I tre momenti dell’attività dell’Io: L’Io pone se stesso, L’Io pone il non-Io Nell’atto di limitarsi, l’Io diventa molteplice; • Il legame tra questi tre momenti è logico e non cronologico; • L’uomo ha come ideale di ricostituire l’unità originaria. Tale compito si configura come inesauribile visto il carattere logico e non cronologico della scissione • Compito del popolo tedesco nel tentativo di ricomporre la scissione. Schelling • Rimprovera a Fichte di aver ridotto la natura a semplice non-Io 1) Riabilita la natura elaborando la filosofia dell’identità: il principio originario della realtà non è l’Io ma l’Assoluto, ovvero l’identità indifferenziata di soggetto e oggetto da cui derivano sia l’Io sia il non-Io, ovvero lo spirito e la natura; 2) La natura non è il semplice non-Io, strumento dello spirito per la realizzazione della vita morale, ma è anch’essa un’attività spirituale anche se di grado inferiore o inconscia rispetto a quella dell’Io. • Spirito e natura costituiscono un unico slancio vitale, un’unica totalità (monismo idealistico) che può essere percorsa seguendo due vie differenti:

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1) Filosofia della natura: parte dalla natura e risalire via via dalle sue forme più organizzate e consapevoli fino all’emergere dell’uomo; 2) Filosofia trascendentale: descrive come lo Spirito divenga consapevole nell’uomo fino a plasmare la realtà e la storia ricostruzione di questa genesi dello Spirito: • sensazione (l’oggetto è avvertito come estraneo) • intuizione (l’io comincia ad avvertire se stesso, ma si sente ancora immerso negli oggetti) • riflessione e volontà • l’idealismo di Schelling viene definito estetico perché solo nell’arte si può ritrovare in maniera immediata quella identità di conscio e inconscio che costituisce l’intima essenza dell’Assoluto. Relazioni tra Fichte, Schelling ed Hegel: • Fichte è il più vecchio dei tre; Schelling ed Hegel, più giovani, sono condiscepoli a Tubinga, si conoscono e collaborano; • Fichte viene riconosciuto sia da Schelling che da Hegel come il fondatore dell’idealismo, ma: 1) Schelling gli rimprovera di non aver saputo cogliere l’oggetto e la natura; 2) Hegel gli rimprovera di non aver saputo cogliere la storia e l’Assoluto. • Hegel rimprovera a Schelling due cose: 1) l’Assoluto non è un’unità indifferenziata di Natura e Spirito, soggetto e oggetto (“l’infinita notte in cui tutte le vacche sono nere”), ma unità formale che contiene in sé virtualmente tutte le determinazioni formali della realtà (= pensabilità del reale); 2) l’Assoluto non si coglie attraverso un atto intuitivo immediato, come è l’intuizione estetica (“un colpo di pistola”, scrive Hegel), ma attraverso la ricostruzione lenta e graduale di un processo e di uno sviluppo. Il vero è l’intero scrive Hegel e l’intero è il risultato assieme a tutto il processo che lo ha prodotto. Percorso breve sull’idealismo tedesco • Fichte: la necessaria correlazione tra Io e non-Io; l’Io come attività che ha bisogno di un ostacolo per esplicarsi. L’Assoluto come ideale (Streben) • Schelling: la polemica sul non-Io di Fichte e la rivalutazione della Natura. Tutta la realtà è concepita come un grande organismo con differenti gradi di coscienza. L’arte come strumento privilegiato per cogliere l’Assoluto. • Hegel: la ripresa di Fichte e di Schelling. Il distacco da Schelling: per cogliere come si articola l’Assoluto bisogna servirsi della filosofia e non dell’arte.

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• Ricostruzione sommaria della visione della realtà elaborata da Hegel mediante l’esposizione dei capisaldi del suo pensiero (il finito non esiste, la dialettica, il reale è razionale, la funzione giustificatrice della filosofia). Cenni alla Filosofia della Natura e alla Filosofia dello Spirito, in particolare a quella dello Spirito oggettivo. • Trattazione della figura del servo-padrone per illustrare un esempio di analisi dialettica. • Trattazione di un tema esemplare per illustrare la filosofia di Hegel: la filosofia della Storia. Hegel La ripresa e il distacco da Schelling: la superiorità della filosofia sull’arte Hegel prosegue l’impostazione di Schelling e ritiene che tutta la realtà sia la manifestazione dello Spirito o della Ragione. (Il grande ideale degli Illuministi è diventato realtà!) Ritiene però che lo strumento per cogliere il carattere spirituale della realtà non sia l’arte ma la filosofia perché essa usa i concetti che permettono di cogliere i collegamenti tra tutte le cose e perciò la profonda unità di tutte le cose che ci sembrano separate e finite (il non-Io di Fichte). Tutte le cose in realtà sono l’espressione di un unico principio spirituale (l’Io di cui parlava Fichte) e ciò tutto ciò che ci appare finito le opposizioni, i contrasti tra le cose, tra l’Io e il non-Io, il soggetto e l’oggetto, l’io e il mondo, ecc. – in realtà non esiste. I capisaldi della filosofia di Hegel In effetti per Hegel tutto ciò che noi chiamiamo finito non esiste. L’esempio del fiore e del frutto lo dimostra. La verità sta nell’intero (il vero è l’intero) e poiché solo il concetto consente di cogliere la totalità, solo la filosofia può cogliere perfettamente l’Assoluto. Altri esempi del vero è l’intero, oltre al fiore: la Storia, la totalità della persona, le anime dantesche, ecc.. • Intelletto e Ragione. Inversione rispetto a Kant: ciò che è razionale è reale. • La filosofia come la nottola di Minerva. • Per cogliere l’assoluto occorre utilizzare una nuova logica che includa le contraddizioni, la dialettica. Tutta la realtà come manifestazione dello Spirito Hegel ricostruisce perciò tutto lo sviluppo della realtà. Nella sua Filosofia della Natura (analogamente a quanto aveva fatto Schelling) mostra come tutta la natura sia pervasa da forze spirituali, dai suoi strati più bassi, fino agli organismi più complessi.

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Tra questi il più complesso di tutti è l’uomo, che riesce a sviluppare una coscienza sempre più raffinata che gli consentirà di prendere coscienza dell’essenza spirituale di tutto ciò che esiste e del carattere razionale di tutta la realtà (in fondo è solo nella mente dell’uomo, l’unico essere che è in grado di elaborare una filosofia della natura, che la natura svela il suo carattere razionale! La natura pensa se stessa attraverso l’uomo). Tutto è spirituale, tutto è Io, ma solo negli organismi più elevati, come sosteneva Schelling, la coscienza di ciò si sviluppa. Nell’uomo e nelle società lo Spirito trova il luogo dove svilupparsi meglio Hegel sostiene che l’uomo è l’organismo più complesso che vi sia in natura, ma è anche vero che esistono al di sopra di lui degli organismi ancora più complessi, all’interno dei quali egli vive e si sviluppa. Questi sono le istituzioni collettive (famiglia, società, popolo, Stato), che Hegel chiama spirito oggettivo (per distinguerle dallo spirito individuale che si realizza nei singoli soggetti). E’ in questi macro organismi che lo spirito raggiunge il suo massimo sviluppo. Ad esempio, nel rapporto tra classi superiori e classi asservite si crea una dialettica che fa progredire lo Spirito. (Eventuale es.: la figura fenomenologica di signoria e servitù, riconducibile alla società antica: è un esempio di come la coscienza progredisca nell’individuo e diventi sempre più raffinata attraverso il contrasto con altri individui dotati di coscienza; l’uomo diventa così sempre più consapevole della propria indipendenza dalla natura, dall’oggetto e della sua superiorità su di essa, che è il tema ricorrente della filosofia di Hegel). L’evoluzione dello Spirito oggettivo Anche questi macro organismi però sono soggetti a delle forme di sviluppo. Quelli più primitivi sono inferiori a quelli più evoluti. Le tribù primitive sono meno evolute degli Stati feudali, e così via. In particolare, è negli Stati moderni che garantiscono sempre più diritti e libertà agli individui che lo Spirito raggiunge il massimo grado di sviluppo. E’ in questi Stati che si avverte come la realtà risponda perfettamente ai bisogni dell’uomo e il mondo si configuri pienamente a immagine della Ragione. Non c’è più distacco tra Io e Mondo, Soggetto e Oggetto, ma identità e corrispondenza. L’Assoluto è stato raggiunto (“L’ingresso di Dio nel mondo è lo Stato”). Il mondo risulta l’immagine speculare della Ragione umana (il grande ideale degli Illuministi si è realizzato). Perciò, la Storia del mondo non è altro che la storia dei continui progressi che la coscienza umana effettua nel tempo, attraverso il succedersi di società sempre più evolute e civili, fino al punto d’approdo che è l’epoca in cui Hegel vive, quella dell’Illuminismo in cui l’umanità prende coscienza che la ragione umana può dominare il mondo, che tra soggetto e oggetto non vi è più separazione ma identità.

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La necessità per lo spirito infinito di articolarsi in un mondo finito Ci si potrebbe chiedere perché sia necessario questo lungo cammino perché lo Spirito prenda coscienza di sé e si realizzi. La risposta è che lo Spirito è soggetto a sviluppo perché l’opposizione tra Io e non-Io di cui parlava Fichte è necessaria per la vita dello Spirito. Mentre però per Fichte il processo di razionalizzazione del mondo non si concludeva mai e l’uomo veniva concepito come un essere perennemente in tensione verso l’Assoluto (Streben), per Hegel invece il percorso a un certo punto si conclude nella sua epoca e finalmente l’uomo riesce ad acquisire la consapevolezza che tutto è razionale attraverso la filosofia. La Storia universale La concezione della Storia come esemplificazione del modo di pensare di Hegel. Il sistema filosofico elaborato da Hegel L’Io implica necessariamente il non-Io. Il non-Io consente all’Io di esplicarsi come attività e di acquisire consapevolezza di sé, di pensarsi; la sintesi di Io e non-Io conduce cioè ad un incremento di consapevolezza dell’Io. Hegel sostiene perciò che lo sviluppo di tutta la realtà avviene attraverso tre momenti fondamentali: 1) l’Io o Idea; 2) il non-Io o Natura; 3) lo Spirito, inteso come momento di accresciuta consapevolezza raggiunta dall’Io dopo essersi estraniato nel non-Io Questi tre momenti corrispondono al sistema di Hegel: 1) l’Idea è studiata da quella parte del suo sistema che Hegel chiama Logica; 2) la Natura è studiata nella Filosofia dello Spirito; 3) lo Spirito, nella Filosofia dello Spirito.

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SCHOPENHAUER Schopenhauer si pone come punto d’incontro tra esperienze filosofiche eterogenee: Platone, Kant, Romanticismo, Idealismo e la spiritualità indiana. Di Platone lo attrae la teoria delle idee; da Kant deriva l’imposizione soggettivistica della gnoseologia; dell’illuminismo lo interessano il filone materialistico e quello dell’ideologia, da cui mutua la tendenza a considerare la vita psichica e sensoriale in termini di fisiologia del sistema nervoso; dal romanticismo trae alcuni temi di fondo del suo pensiero come l’irrazionalismo, l’importanza attribuita all’arte e alla musica e il tema dell’infinito, cioè la tesi della presenza nel mondo di un principio assoluto di cui le varie realtà sono manifestazione transeunti, altro motivo romantico è quello del dolore, tuttavia mentre sul piano filosofico il Romanticismo mostra una tendenza globalmente ottimistica, Schopenhauer appare orientato a una visione pessimistica della realtà. Velo dei maya Il punto di partenza della sua filosofia è la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, ma questa distinzione ha poco in comune con quella effettiva kantiana, se infatti per quest’ultimo il fenomeno era la realtà (l’unica accessibile alla mente umana) e il noumeno era un concetto- limite che rammentava all’uomo i limiti della conoscenza, per Schopenhauer il fenomeno è illusione, sogno (denominato velo dei Maya dalla sapienza indiana) mentre il noumeno è quella realtà che si nasconde dietro l’ingannevole trama del fenomeno. La rappresentazione ha due aspetti essenziali e inseparabili la cui distinzione costituisce la forma generale della conoscenza: da una parte c’è il soggetto rappresentante dall’altra l’oggetto rappresentato. Soggetto e oggetto esistono come elementi imprescindibili della rappresentazione così se il materialismo è falso perché nega il soggetto riducendolo all’oggetto o alla materia, l’idealismo è errato in quanto compie il tentativo opposto e impossibile di negare l’oggetto riducendolo al soggetto. Egli ritiene che la nostra mente risulta corredata da forme a priori, tuttavia a differenza di Kant, ammetta solo tre forme a priori (spazio, tempo e causalità); quest’ultima è l’unica categoria in quanto le altre sono riconducibili ad essa e in quanto la realtà stessa dell’oggetto si risolve nella sua azione causale sugli altri oggetti. La causalità assume diverse forme in base agli ambiti in cui opera, manifestandosi come necessità fisica, logica, matematica e morale, ovvero come principio del divenire (regola i rapporti tra gli oggetti naturali), del conoscere (regola i rapporti tra premesse e conseguenze), dell’essere (regola i rapporti spazio-temporali e le connessioni aritmetico-geometriche), e dell’agire (regola le connessioni tra azione e i suoi motivi). Attraverso le forme a priori la visione delle cose si deforma, e definisce la vita come un sogno cioè un tessuto di apparenze. L’uomo è considerato un animale metafisico

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che è portato a stupirsi della propria esistenza e a interrogarsi sull’essenza ultima della vita. Tutto è volontà Se noi fossimo soltanto conoscenza e rappresentazione non potremmo uscire dal mondo fenomenico ma poiché sia dati a noi stessi anche come corpo, non ci limitiamo a vederci da fuori ma ci viviamo anche da dentro, godendo e soffrendo, ed è proprio per questo che permette all’uomo di squarciare il velo del fenomeno e di afferrare la cosa in sé, ripiegandoci su noi stessi ci rendiamo conto dell’essenza profonda del nostro io, la cosa in sé del nostro essere, è la brama o la volontà di vivere. Dall’essenza del corpo all’essenza del mondo Quando io vivo il mio corpo lo sottraggo all’approccio fenomenizzante, cioè smetto di usare spazio, tempo e causalità. In tal modo mi privo degli strumenti che individuano gli oggetti, cioè che pongono i fenomeni come una molteplicità di cose distinte, il principio di individuazione consiste proprio nell’apparato di forme e categorie attraverso il quale il soggetto si rappresenta gli oggetti. Per questo l’essenza che riscontro del mio corpo ha perso i limiti dell’individualità, pertanto è corretto di parlare di fenomeni al plurale ma di noumeno al singolare perché non operano né spazio né tempo. L’io di Schopenhauer si qualifica come la coincidenza di coscienza, volontà e corpo, non vi è dunque la rinuncia delle componenti umane che vengono invece viste nella loro unità. Caratteri e manifestazioni della volontà di vivere Essendo al di là del fenomeno, la volontà di vivere presenta caratteri contrapposti a quelli del mondo della rappresentazione in quanto si sottrae alle forme proprie di spazio, tempo e causalità. La volontà primordiale è inconscia, indica il concetto più generale di energia o impulso, la volontà risulta unica, poiché esistendo al di fuori dello spazio e del tempo si sottrae al principio di individuazione. La volontà è anche eterna e irraggiungibile, poiché essendo oltre la forma del tempo è un principio senza inizio e senza fine. La volontà si configura anche come una forza libera e cieca, ossia come energia incausata, senza uno scopo; infatti noi possiamo cercare la ragione di questa o quella manifestazione fenomenica della volontà ma non della volontà in sé stessa.

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Il pessimismo La vita è dolore per essenza, infatti volere significa desiderare e ciò significa trovarsi in uno stato di tensione per la mancanza di qualcosa che si vorrebbe avere. Quindi il desiderio è assenza, vuoto ossia dolore. Poiché nell’uomo la volontà è più cosciente che negli altri esseri, proprio l’uomo risulta il più bisognoso e mancante, destinato a non trovare mai un appagamento definitivo. Ciò che gli uomini chiamano godimento o gioia non è altro che una cessazione di dolore, perché ci sia piacere bisogna per forza che ci sia uno stato precedente di tensione o dolore. La stessa cosa non vale per il dolore, che non può essere ridotto, un individuo può infatti sperimentare una catena di dolori senza che questi siano preceduti da altrettanti piaceri, mentre ogni piacere nasce come cessazione di qualche persistente tensione fisica o psichica, pertanto il piacere è solo una funzione derivata dal dolore. Accanto al dolore subentra la noia, la quale subentra quando viene meno l’aculeo del desiderio oppure quando cessano le attività e le preoccupazioni. La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia, passando attraverso l’intervallo fugace del piacere e della gioia. Poiché la volontà di vivere che è tensione perennemente insoddisfatta che si manifesta sotto forma di una vera e propria Senshucht cosmica, il dolore non riguarda solo l’uomo ma investe ogni creatura. L’uomo soffre più delle altre creature perché è destinato a sentire in modo più accentuato la spinta della volontà e a patire maggiormente l’insoddisfazione dei propri desideri e l’offesa dei valori. Il filosofo perviene nella forma di pessimismo cosmico che afferma che il male non è solo nel mondo, ma nel principio stesso da cui dipende. Le vie della liberazione dal dolore Schopenhauer afferma che l’esistenza, in virtù del dolore che la costituisce, risulta una cosa tale che si impara poco per volta a non volerla. Si potrebbe pensare che il suo sistema metta a caso una filosofia del suicidio universale ma in realtà egli condanna il suicidio per due motivi di fondo: il suicidio è atto di forte affermazione della volontà, infatti anziché negare la volontà egli nega piuttosto la vita; il suicidio sopprime soltanto una manifestazione fenomenica della volontà di vivere e lascia intatta la cosa in sé, la quale, pur morendo in un individuo rinasce in mille altri. Pertanto la vera risposta alla liberazione del dolore dal mondo consiste nella stessa volontà di vivere; esistono quindi degli individui eccezionali che in tutti i tempi hanno intrapreso il cammino della liberazione di sé stessi dalla volontà di vivere e dalla tirannia, a essa connessa, dei bisogni e dell’egoismo. E’ con la presa di coscienza del dolore e con il disinganno di fronte alle illusioni dell’esistere che prende avvio il cammino di liberazione dell’individuo. Le vie della liberazione dal dolore sono tre: arte, morale e ascesi. L’arte è conoscenza libera e disinteressata che si rivolge alle idee, ossia alle forme pure, il soggetto che contempla le idee, ovvero gli aspetti universali della realtà, non è più l’individuo naturale particolare ma il puro soggetto del conoscere, il puro occhio del mondo. L’arte sottrae l’individuo alla

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catena infinita dei bisogni e dei desideri, offrendogli un appagamento compiuto e immobile. Tra le arti spicca la tragedia che costituisce l’autorappresentazione del dramma della vita, la musica si pone come immediata rivelazione della volontà a sé stessa. Ogni arte è quindi liberatrice, poiché il piacere che essa procura è la cessazione del bisogno, raggiunta attraverso lo svincolarsi della conoscenza della volontà e il suo porsi come disinteressata contemplazione. La morale implica un impegno nel mondo a favore del prossimo, l’etica costituisce infatti un tentativo di superare l’egoismo e di vincere quella lotta incessante degli individui tra loro che costituisce l’ingiustizia che rappresenta una delle maggiori fonti di dolore per l’uomo. L’etica sgorga da un esperienza vissuta, ovvero da un sentimento di pietà, di compassione attraverso cui avvertiamo come nostre le sofferenze degli altri. Non è conoscenza a produrre moralità ma è la moralità a produrre la conoscenza. Solo per un sogno illusorio il malvagio si crede separato dagli altri e dal loro dolore ma il rimorso temporaneo e la duratura angoscia che accompagna i suoi misfatti costituiscono la consapevolezza dell’unità del valore cosmico. La moralità si concretizza in due virtù: la giustizia che consiste nel non fare il male e nel riconoscere agli altri ciò che siamo pronti a riconoscere per noi stessi; la carità si identifica con la volontà positiva e attiva di fare del bene al prossimo. Sebbene la morale rimane sempre all’interno della vita e presuppone un qualche attaccamento ad essa, per questo egli non si accontenta di approfondire l’esperienza della pietà ma prosegue nella liberazione totale non solo dall’egoismo e dall’ingiustizia, ma dalla stessa volontà di vivere. Questa liberazione si raggiunge con l’ascesi, esperienza attraverso la quale l’individuo si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, di godere e di volere.

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KIERKEGAARD È un grande pensatore: introduce temi e questioni che rivoluzionano la filosofia. È riconosciuto come il fondatore dell’esistenzialismo, cioè di quella corrente filosofia che si svilupperà tra il 1930 e porrà al centro della sua indagine l’esistenza umana e tremi come la finitezza, la scelta, il rischio, la disperazione, la possibilità. Kierkegaard, ultimo critico di Hegel, appartiene, così come Schopenhauer, alla reazione antiHegeliana: Hegel, con la sua filosofia, non aveva presentato il mondo nella giusta prospettiva. Per molti versi ricorda Schopenhauer: è ai margini delle filosofia del suo tempo, è convinto che un giorno sarà ricordato tra i grandi del pensiero e rifiuta il panlogismo Hegeliano, ovvero l’identità tra reale e razionale. Kierkegaard mette in discussione il primato della ragione e della conoscenza, che troviamo nella filosofia di Schopenhauer, e asserisce la superiorità della fede sul sapere. A suo modo di vedere, le filosofie tradizionali sbagliano perché vogliono scoprire la verità sul mondo, senza comprendere che l’unica verità importante è quella che tocca la reale esistenza di ciascuno. Kierkegaard riflette non sull’essere ma sull’esistere (Existere, provenire da, uscire dal nulla significa scegliere): al centro della ricerca filosofica sono il singolo e la sua esistenza concreta, perché ciò che conta è comprendere il senso e il valore della vita individuale. Non si può però parlare della vita umana, del suo valore e del suo senso, senza fare riferimento al rapporto con Dio, ma tale rapporto va svincolato dalla consuetudine della pratica religiosa. Secondo Kierkegaard, infatti, il disegno di Dio è insondabile e la salvezza è un dono agli uomini che si avvicinano a Dio non attraverso ragionamenti e pratiche, bensì esclusivamente attraverso la fede. L’uomo non deve conoscere Dio, ma abbandonarsi ad esso. (Pascal) La vita Nasce a Copenaghen (Danimarca) nel 1813. Figlio di un agiato commerciante, ebbe un’infanzia caratterizzata da una rigida educazione religiosa. Una serie di lutti famigliari, quali la morte del padre e di cinque fratelli, gli impedisce di diventare il pastore protestante che il padre voleva. Si laurea nell’università di Copenaghen in filosofia e teologia. In questi anni vive una tormentata vicenda con Regina Olsen, di famiglia borghese: la chiede in sposa, ma rescisse poco prima delle nozze il fidanzamento. Negli anni seguenti mostrò di esserle ancora molto legato, ma non offrì mai nessuna spiegazione del suo allontanamento, se non un vago riferimento a un tormento profondo. Frequenterà le lezioni di Schelling, ma in poco tempo l’iniziale entusiasmo si spense. Nella vita pubblica si presenta come un dandy raffinato e snob, ma al suo Diario confidava di sentirsi isolato, straniero nel mondo. Muore quarantenne nel 1855. La filosofia dell’esistere La filosofia di Kierkegaard si occupa dell’esistenza umana, affidata al possibile, alla situazione del forse. Il filosofo esce dalle categorie Hegeliane e assume come oggetto di indagine il singolo. Il singolo è la categoria originale ed insostituibile dell’esistenza, superiore all’intero genere umano. La verità riguarda sempre e solo l’individuo ed ha senso nella

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dimensione esistenziale di ciascuno di noi. Concetti generali come totalità, stato, popolo, umanità sono del tutto astratti, rispondono a prospettive quantitative e generiche. Nel Singolo invece la prospettiva è solo qualitativa e non mira al sapere o alla conoscenza di verità assolute ma solo alla salvezza attraverso la fede. Il pensiero logico (Hegel) si occupa dell’essenza e cerca una verità oggettiva, all’analisi esistenziale occorre invece definire la verità soggettiva volta all’interiorità del singolo, che rappresenta la coscienza di un determinato individuo in una situazione data. Ciascuno di noi ha rapporti reali solo con individui singoli e specifici, non con l’umanità e dunque in questa dimensione bisogna muoversi per cercare risposte vere e non astratte. La possibilità (opposta al necessario, logico, scientifico) è la categoria (astratta) dell’esistenza che accompagna il singolo, in un certo senso la più pesante. Solo da essa scaturisce la libertà, che però non è mai condizione serena e rassicurante. L’uomo ha esperienza della libertà quando si trova di fronte a una scelta. Ad essa è connesso il rischio e per questo ad essa si accompagnano angoscia e disperazione. Come modo di essere del singolo e della sua esistenza, la libertà è la minaccia del nulla: nel possibile tutto è possibile. L’aut aut che governa l’esistenza dell’uomo è libertà ma contemporaneamente minaccia costante, a differenza dell’et-et Hegeliano che conduceva alla sintesi pacificatrice. La possibilità si configura solo nel regno della Libertà e dell’esistenza e non del Necessario o della Scienza (Hegel, Positivismo). La disperazione, prima condizione esistenziale, è la categoria che si riferisce al rapporto dell’uomo con se stesso: l’uomo, essere finito, chiede a sé stesso di raggiungere l’infinito, scontrandosi così con la finitudine del suo essere. Questo fallimento porta l’uomo a una situazione di disperazione. La disperazione nasce dal peccato originale, colpa incancellabile che presiede nella finitezza del singolo. Può essere: incosciente e mascherata dalla continua ricerca dei piaceri della vita che portano l’uomo a pensare di essere felice; cosciente: può cioè condurre a Dio, l’unico infinito a cui l’uomo può aspirare, o, all’opposto, portare al suo rifiuto (disperazione demoniaca dell’ateo). Solo il primo caso è la porta della salvezza. È definita da Kierkegaard come “malattia mortale”, perché vive la morte dell’IO come negazione del tentativo umano di rendersi autosufficiente (diventare infinito nel finito) o di evadere da sé (impossibile perché è finito, è corpo). Unica terapia efficace per questa malattia di tutti gli uomini è la fede, dove l’individuo riconosce la sua dipendenza da colui che può garantire la sua realizzazione (perché è l’essere cui tutto è possibile) e non si illude di essere autosufficiente come uomo. L’angoscia, seconda condizione esistenziale, è generata dalla “vertigine” della libertà, dal timore del peccato e dalle infinite possibilità negative che incombono sulla vita e sulla personalità dell’uomo. Si prova quando l’uomo entra in rapporto con il mondo ed è legata a ciò che non è ma può essere. È diversa dalla paura che si prova di fronte ad una specifica situazione o persona determinata in quanto questa può essere superata. L’angoscia è il puro sentimento del possibile, cioè del futuro, il senso di ciò che può accadere, il forse che non si conosce e che trascina l’uomo alla sua finitudine e alla sua umanità. È la realtà della libertà come possibilità per la possibilità, ed è esperienza esclusivamente

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umana, non del genere animale, che invece è privo di spirito. Nel possibile tutto è possibile, anche il nulla. Disperazione e angoscia sono dimensioni esistenziali inevitabili: subire l’insensatezza della vita e la perdizione permette di vedere la strada per la riconciliazione con Dio e per la redenzione; e quando si sente che la vita e il mondo generano soltanto noia, in quanto nulla di ciò che accade o esiste ha senso al di fuori della fede, si è pronti per la chiamata di Dio. Con la noia inizia il cammino verso Dio. L’uomo attraverso la scelta può quindi vincere queste condizioni di disperazione e angoscia. L’individuo non è quel che è ma ciò che sceglie di essere (quel che diventa), per cui egli si prospetta come tale solo nella scelta. È il rivelarsi del Singolo a sé e al mondo. Anche non scegliere è una scelta, ma in tal caso l’uomo rinuncia a farsi valere come io e rinuncia alla salvezza. La salvezza scaturisce dalla fede: l’uomo deve abbandonarsi a Dio, ottenendo così l’eternità. La fede offre salvezza poiché non deriva da conoscenze e dimostrazioni, ma è il frutto di un salto esistenziale e logico. Nessuna dimostrazione e nessun sistema filosofico possono sperare di comprendere e spiegare la storia del Cristianesimo. I tre stadi dell’esistenza L’esistenza umana è un cammino, che non riguarda la conoscenza ma solo la salvezza del Singolo. Distinguiamo tre cammini: Stadio estetico, non ha un tempo, non c’è scelta, è vita inautentica (perché non sceglie mai.) Nella vita estetica dominano la ricerca del piacere, della novità, del desiderio, dell’ebbrezza, dal rifiuto di indirizzare la propria esistenza versi finalità che vadano oltre il godimento dei piaceri. L’esteta rifiuta di scegliere, si limita a dilettarsi con ciò che di volta in volta appare interessante; egli non solo si circonda di oggetti belli, ma da essi è dominato. L’esteta è il seduttore, la cui vita risulta essere amorale, priva di senso, volta alla ricerca dell’emozione. Kierkegaard si serve della figura del Don Giovanni: seduttore crudele e affascinante, che accende la passione delle donne senza desiderarle veramente. Don Giovanni è per il filosofo un emblema della modernità, della ragione sradicata dell’esistenza; il suo destino è tragico: egli evita ogni presa di coscienza, si rifugia nella non scelta e nell’indifferenza, ma a un certo punto diventa preda dei suoi stati d’animo. Sente che le infinite possibilità sono in realtà angoscianti, perché senza scelte le possibilità non si concretizzano in realtà, e quindi l’infinitamente possibile risulta uguale all’impossibile. L’individuo che vive esteticamente non può essere autenticamente sé stesso: la sua sarà una vita inautentica, dominata dalla noia, condizione esistenziale derivante dall’insufficienza della vita stessa e indispensabile per il cammino verso la salvezza. Dal confronto con sé stesso, l’uomo prende consapevolezza della propria insufficienza e impotenza per il peccato commesso: subentra così la disperazione, che interrompe la stasi della non scelta e apre lo spirito a volere, decidere, scegliere. Stadio etico Nel momento in cui l’individuo sceglie di vivere e realizzare sé stesso, si ispira all’ideale etico: assume responsabilità, progetta, realizza il suo ruolo sociale, si

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impegna con un’altra persona nel matrimonio e nella famiglia. Ma il passaggio dalla vita estetica a quella etica non avviene per maturazione o per evoluzione: è invece un cambiamento brusco, frutto di una scelta che viene compiuta con un salto in una dimensione completamente diversa dalla precedente. È un salto che scaturisce dalla disperazione di scoprire il nulla in sé stessi e di riconoscerlo come male, mentre prima dominava l’indifferenza che non permetteva la distinzione tra bene e male. Invece di illudersi di vivere bene, rinunciando a qualsiasi impegno, l’individuo si mette in gioco: sceglie di scegliere, quindi sceglie sé stesso e diventa quello che è. Ma nemmeno la scelte del bene mette l’individuo al riparo dal peccato. La persona etica tende ad affidarsi alle norme della moralità comune e vivere secondo modelli generali, ovvero si conforma all’universale, abbandonando la spontaneità in favore di convenzioni. La sua moralità diventa allora moralismo: applica leggi e norme perché “deve”, come insegna l’imperativo categorico di Kant. Ma questo non è bene: il dovere può derivare dalla scelta, ma se la precede ne snatura il senso autentico. Mentre l’esteta nega sé stesso perché non sa di sé stesso e non sa di possedersi, l’etico nega la sua esistenza singolare all’interno dell’universale. Il moralismo alimenta la presunzione di sentirsi un giusto che ha guadagnato la salvezza di Dio, e questo è il più terribile dei peccati. Poiché il peccato è frutto della libera scelta dell’uomo, è possibile redimersi tornando a Dio con umiltà. Invece il peccato di chi sente giusto non è rimediabile, perché egli non comprende di avere bisogno della grazia di Dio e pensa di trovare in sé il fondamento della propria salvezza. L’individuo si macchia del peccato moralistico, dimenticando Dio come persona e sostituendolo con il “divino”, concetto con cui intende la fonte di norme e precetti. Stadio religioso è vita autentica Da qui la necessità di abbandonare anche l’ideale etico, per abbracciare l’ideale religioso. Per farlo occorre un altro salto, ancora più incomprensibile alla ragione perché comporta il superamento di ciò che è consueto e razionale. Si entra infatti in una dimensione assolutamente sconcertante per la ragione. Non ci sono passaggi logici o trasformazioni graduali: è la scelta individuale e solitaria di avvicinarsi a Dio come persona abbracciando la fede. L’individuo sceglie di ritrovare sé stesso nella sua singolarità, rifiutando l’astrazione e l’universalità che lo accomunano agli altri ma che gli fanno perdere sé stesso. La fede porta l’uomo di fronte a Dio, come persona, creatore, fonte di amore, e lo allontana dal divino che detta regole. È la scelta coraggiosa di affrontare verità che, dal punto di vista della ragione appaiono senza senso: Dio che in Gesù si fa uomo come noi e viene torturato e ucciso; Dio che distrugge la vita di Giobbe, uomo giusto, per una scommessa con Satana. La salvezza scaturisce dalla dedizione totale e incondizionata a Dio , dalla fede che è fedeltà a Dio. Follia, assurdità, scandalo e paradosso sono le categorie della fede cristiana. Già San Paolo aveva definito il cristianesimo come scandalo; Kierkegaard riprende quest’interpretazione di fronte all’evento di Dio che si fa uomo. L’incarnazione di Dio nell’uomo Gesù (“paradosso assoluto” del cristianesimo) è per la ragione uno

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scandalo: implica l’eternità che si fa tempo, l’irruzione dell’eternità nel tempo. La fede è un paradosso, poiché non è né logica né razionale, ma nasce da una contraddizione. La fede non è consolante, ma getta l’individuo nello sconforto in quanto pone l’individuo in assoluta solitudine di fronte a Dio. La vicenda di Abramo è esemplare: in spregio a qualunque morale umana, Dio gli chiede in sacrificio il figlio Isacco. In osservanza dell’etica Abramo dovrebbe rifiutare, ma poiché ha fede esegue l’ordine divino. All’ultimo istante Dio impedisce la morte di Isacco e premia Abramo. Ciò non toglie che la scelta di Abramo sia stata del tutto illogica e immorale: Dio getta Abramo nella disperazione della solitudine, della scelta incompresa e incomprensibile. Questo accade agli uomini di Dio: sono consumati dal timore di sbagliare e dal tremore per la punizione. La fede è salvezza: 1. È scelta dell’assoluto, della trascendenza, non c’è panteismo o teofania, Dio è irriducibile all’uomo; 2. Scaturisce da una ignoranza socratica: so di non sapere su Dio ma lo scelgo per la salvezza della mia esistenza. La religione NON porta alla razionalità della filosofia (Hegel) ma è traguardo paradossale, privo di logica; 3. È fulmineo innesto del divino nell’uomo, dell’eterno nel tempo, incontro paradossale tra la linea verticale della trascendenza e la linea orizzontale dell’immanenza; 4. È salto, si compie nel timore e tremore, nel rischio e nell’incertezza; 5. È sospensione dell’etica, paradosso, si pone al di sopra dell’etica (Abramo); 6. Richiede il silenzio, l’isolamento del Singolo posto davanti a Dio, non è eticità mondana e storica (Hegel); 7. È salvezza solo possibile, non garantita; 8. Sostituisce alla disperazione la speranza e la fiducia in Dio; 9. L’instabilità dell’esistenza (nel possibile tutto è possibile) fa appello all’unico principio stabile, Dio, unico essere a cui tutto è possibile; 10. L’unica scelta che vince, anche se non elimina del tutto, l’angoscia e la disperazione; 11. È una scelta personale, avviene nell’istante non nella storia; 12. Non si può cogliere con la ragione né con la logica; 13. La fede conclude la dialettica dell’aut…aut: qui non c’è conciliazione o sintesi razionale (et…et, vero è l’intero in Hegel) ma solo rottura rispetto alle altre esistenze. E’ dialettica qualitativa, della scelta del Singolo, non quantitativa, della totalità da raggiungere. Confronto con Hegel e Schopenhauer Confronto con Hegel: K. rifiuta qualunque percorso di conoscenza e di spiegazione razionale, considerati aspetti di vita inautentica. La filosofia studia l’esistenza non l’essenza. Ruolo dialettica: non concilia come in Hegel, ma costringe alla scelta, portando con sé angoscia e disperazione. Confronto con Schopenhauer: S. ammette un principio irrazionale (la Volontà) e pertanto muove anch’egli dal rifiuto del panlogismo Hegeliano ma aspira ancora ad una salvezza possibile solo attraverso la conoscenza metafisica (il nirvana).

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K. la salvezza sta nella fede. Kierkegaard non lascia invece posto ad alcuna conoscenza, obiettivo è solo la salvezza. Il sapere non salva.

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LUDWIG FEUERBACH: VITA E PENSIERO FILOSOFICO Il pensiero di Feuerbach si inserisce nell’ampio dibattito che nasce fra gli intellettuali post- Hegeliani (di destra e di sinistra) alla morte di Hegel, sugli esiti della filosofia Hegeliana. Feuerbach è un Hegeliano di sinistra. Opera (in Germania) intorno agli anni ’40 dell’Ottocento. Sintesi del suo pensiero • critica all’idealismo Hegeliano • religione come proiezione delle caratteristiche e dei desideri dell’uomo in un essere superiore (alienazione) • passaggio dalla teologia all’antropologia • filantropismo e amore Sue opere principali: • “L’essenza del cristianesimo” (1841) • “L’essenza della religione” (1845) Critica all’idealismo Hegeliano La filosofia di Feuerbach parte dall’esigenza di cogliere l’uomo e la realtà nella loro concretezza, criticando la visione idealistica che, secondo il filosofo, riducono l’uomo e la realtà a puro pensiero. - Contesta a Hegel di non aver riconosciuto la dimensione sensibile, materiale dell’uomo. L’idealismo fa del “concreto” la manifestazione dell’”astratto”: cioè, trasforma la realtà concreta, finita (ad es.: l’uomo, la famiglia, la società civile, lo stato), in manifestazione razionale e necessaria dello Spirito (astratto, Infinito), che si realizza in essa.

• La realtà ha valore solo in quanto è la manifestazione nella storia di questo spirito immanente che la determina.

L’idealismo, cioè, offre una visione rovesciata delle cose, in cui ciò che viene realmente prima (il concreto, il reale) figura come ciò che viene dopo, e viceversa:

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per Hegel viene prima il pensiero (che chiama “ragione”, o “spirito”, o “assoluto”) e poi la realtà concreta (l’essere, il reale, l’uomo): il pensiero (l’infinito) crea la realtà (il finito). Per questo, secondo Feuerbach la ragione di Hegel è una trasposizione del dio trascendente cristiano: nella filosofia di Hegel la materia e il sensibile (quello che per Hegel è il “finito”) risultano “creati” dall’attività immateriale, spirituale della ragione (che per Hegel è l’”infinito”), così come nella religione cristiana dio (che è spirito infinito) “crea” l’uomo e la natura (ciò che è concreto, finito). La filosofia di Hegel è, quindi, una “teologia mascherata”, perché ha divinizzato la ragione. E’ una teologia razionalizzata e modernizzata. Rovesciamento dell’Hegelismo Per Feuerbach, invece, è necessario compiere il cammino inverso: riconoscere che è il “finito” (cioè la realtà concreta, empirica, come effettivamente “è”; l’uomo come portatore di bisogni concreti, non solo spirituali) a dover essere il momento iniziale della riflessione filosofica (e non l’astratto, l’infinito, come nell’idealismo). E’ del “finito” (dell’uomo concreto) che la filosofia deve occuparsi. - La filosofia deve porre al centro della propria riflessione l’uomo. Mentre per Hegel l’uomo era solo puro pensiero, per Feuerbach l’uomo va riconsiderato nella sua completezza, fatto di pensiero ma anche di esigenze pratiche; come centro di bisogni, non solo spirituali ma anche materiali: Feuerbach recupera la dimensione sensibile dell’uomo. La sua è, quindi, una filosofia materialista. Umanismo: per questa rivendicazione della centralità dell’uomo, la sua filosofia è definita umanismo = rifiuto di considerare l’individuo come astratta spiritualità o razionalità. L’uomo è visto come essere che vive concretamente e ha “bisogni” da cui si sente dipendente, che risulta condizionato dal corpo e dalla sensibilità (“l’uomo è ciò che mangia”). Particolarmente importante è a questo proposito la critica di Feuerbach alla religione (in cui consiste l’aspetto più originale e centrale della sua filosofia). Critica alla religione: l’effettiva emancipazione dell’uomo presuppone, secondo Feuerbach, che si facciano i conti con la religione. La critica del cristianesimo e di ogni altra forma di religione si basa sull’analisi della nascita delle religioni, che secondo Feuerbach hanno origine dalla coscienza umana. Feuerbach vuole capire: come mai è nata la religione? Qual è la sua funzione? Secondo lui, la religione ha una funzione consolatoria, quindi ha un’origine pratica: nasce affinché l’uomo possa consolarsi. Le religioni sono l’oggettivazione, la proiezione della coscienza umana in un essere superiore e separato, indipendente da essa.

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L’uomo proietta in dio le sue qualità migliori, separate da sé, innalzate, divinizzate e a cui egli si sottomette: il divino non è altro che l’essere umano, proiettato in un mitico aldilà e adorato come tale. Quindi, per Feuerbach: - Non è dio (l’astratto) che ha creato l’uomo (il concreto), ma è l’uomo che ha creato dio, a sua immagine e somiglianza. L’alienazione: nella sua opera più famosa, “l’essenza del cristianesimo”, Feuerbach interpreta la coscienza religiosa in termini di alienazione. La religione è una forma di alienazione: il credente è un alienato (cioè ha ceduto una parte di sé a un essere superiore. Il termine “alienare” è un termine giuridico che significa “cedere”, “vendere” qualcosa). Per Feuerbach, quindi, il termine alienazione ha un significato puramente negativo: è la condizione dell’uomo religioso che si scinde da se stesso e si proietta fuori di sé in una potenza superiore (dio), alla quale si sottomette. Nella religione l’uomo non ha consapevolezza che dio non sia altro da sé, indipendente da lui. Questa mancanza di consapevolezza rende l’uomo alienato. Nella religione l’uomo annulla la propria coscienza. Compito della filosofia è consentire all’uomo di riappropriarsi di se stesso, della propria coscienza; di restituire all’uomo il suo essere perduto, alienato in dio. Dalla teologia all’antropologia: attraverso l’analisi delle origini della religione si arriva a comprendere che la religione non è altro che antropologia (capovolta): Il compito della filosofia è proprio quello di consentire alla teologia di riconoscersi come antropologia, cioè come disciplina che, studiando l’uomo, ne individua come componenti essenziali la corporeità, la materialità, la sensibilità. Ma la filosofia feuerbachiana non si riduce a puro materialismo: l’uomo è sintesi di esigenze materiali e di attività spirituali, non può essere concepito solo come puro spirito, né solo come pura materia (umanismo). La sensibilità che appartiene all’uomo si concretizza attraverso le passioni, in particolare l’amore, che consente di scoprire se stessi relazionandosi agli altri, maturando una propria coscienza. L’amore, quindi, è inteso da Feuerbach come il riconoscimento dell’esistenza e dei bisogni concreti dell’uomo: è questo l’aspetto del pensiero di Feuerbach che viene definito filantropismo (= amore per l’uomo ). Il senso della vita non può essere costituito dall’annullamento della propria coscienza nella religione, ma dal riconoscimento della necessità della vita sociale per realizzare la propria essenza comunicativa. Essenza sociale dell’uomo: l’essenza dell’uomo si sviluppa a pieno solo con gli altri uomini. Dice Feuerbach: l’”io” non può stare senza un “tu”: l’uomo si eleva non da solo, ma insieme all’altro. Dall’amore per dio si arriva all’amore per l’uomo, dalla fede in dio alla fede nell’uomo: ecco l’esito dell’ateismo di Feuerbach. Liberarsi da dio vuol dire liberare l’uomo: la liberazione dell’uomo consiste nel rivalutare l’uomo come unità psico-fisica.

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KARL MARX Filosofo, economista e politico tedesco, fondatore con Friedrich Engels del socialismo scientifico. Marx studiò nelle università di Bonn, Berlino e Jena. Nel 1842 divenne dapprima collaboratore e poi direttore della "Rheinische Zeitung" (Gazzetta renana) di Colonia. I suoi articoli, incentrati sulla critica delle condizioni sociopolitiche dell'epoca, gli crearono problemi con le autorità: il giornale fu, infatti, soppresso nel 1843. Marx si recò quindi a Parigi, dove instaurò contatti con i movimenti socialisti, completò la sua formazione teoretica in filosofia e si dedicò ai primi studi di economia politica. Marx riconosce ad Hegel il merito della concezione dialettica della realtà, secondo cui la realtà si sviluppa attraverso continue contrapposizioni dei contrari (tesi e antitesi) che trovano poi l'accordo nella sintesi. Ma il modo in cui Marx considera la dialettica è diverso rispetto ad Hegel. Per Marx il momento prevalente che spiega il divenire e lo sviluppo della realtà non è quello della sintesi, come in Hegel, ma è proprio quello della contrapposizione, del conflitto tra gli elementi della realtà. Per Marx la lotta è la vera molla e causa della storia e la dialettica non ha, come in Hegel, valore giustificativo della realtà (secondo il principio dell'identità di reale e razionale), ma è uno strumento rivoluzionario. Secondo Marx, l'errore principale di Hegel è quello di interpretare il mondo alla rovescia, di invertire il corretto rapporto tra soggetto e predicato: invece di partire dagli uomini concreti, dalle loro azioni e dai loro bisogni, ed assumerli quindi come il soggetto da cui si sviluppa tutto il resto, Hegel parte dallo Spirito, cioè dall'Idea e dal pensiero astratto, che considera il vero soggetto, facendo derivare dallo Spirito gli uomini reali, la famiglia, la società e lo Stato. Ma si tratta di una mistificazione, ossia di un'interpretazione falsa della realtà. Altrettanto, prosegue Marx, invece di partire dalle persone concrete e considerare lo Stato un loro prodotto, frutto quindi di precise condizioni materiali e storiche, Hegel fa esattamente l'opposto e considera i cittadini un prodotto dello Stato. E poiché per Hegel ciò che è reale è sempre anche razionale, allora per Hegel ogni tipo di Stato è sempre giusto e deve essere sempre giustificato, mentre invece lo Stato, in realtà, non è un prodotto dello Spirito razionale ed infallibile, ma è un prodotto degli uomini i quali possono sbagliare, per cui lo Stato può essere anche ingiusto. Quella di Hegel, afferma Marx, è "ideologia", cioè un pensiero che giustifica sempre, per principio preso, l'ordine esistente. L'errore di Hegel, commenta ancora Marx, nasce dalla separazione che egli opera fra teoria e prassi (=l'azione concreta degli uomini). Ma la teoria separata dalla prassi diventa vuota, diventa ideologia. La teoria invece deve essere sempre unita alla prassi, il conoscere cioè non deve valere in se stesso ma deve valere per guidare l'azione e l'attività umana. L'unione di teoria e prassi è il primo importante principio della filosofia di Marx. Le idee non si modificano sostituendole con altre idee, poiché le concezioni degli uomini non sono la causa ma l'effetto, sono il prodotto delle condizioni materiali di vita in cui ci si trova (libertà e benessere o

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servitù e povertà) e quindi le idee possono essere modificate solo cambiando radicalmente le sussistenti condizioni materiali. Non c'è dapprima la coscienza, le idee, e poi, di conseguenza, un certo tipo e certe condizioni di vita, ma il tipo di coscienza acquisita deriva, al contrario, dalle condizioni individuali e storiche in cui si vive. In altri termini, non è la coscienza (il modo di pensare) che determina la vita (le condizioni di vita), ma è la vita che determina la coscienza. Second Marx, non è con la semplice critica ma con la rivoluzione che si fa e si cambia la storia. Soltanto attraverso una prassi rivoluzionaria che modifichi le condizioni materiali di vita si può mutare la realtà e quindi anche le coscienze, cioè il modo di pensare degli uomini. Marx riconosce che gli economisti classici borghesi, in particolare Adam Smith e David Ricardo, hanno correttamente elaborato la teoria secondo cui il valore di ogni merce è determinato dalla quantità di lavoro necessario per produrla (quanto maggiore è il lavoro che una merce richiede tanto più essa vale, cioè costa). Ma, prosegue Marx, essi vedevano nell'economia solo rapporti tra oggetti, ossia lo scambio di una merce con l'altra tramite la moneta, mentre invece l'economia è fatta soprattutto di rapporti tra uomini (padroni e lavoratori). L'economia classica considera come permanenti le proprie leggi economiche, giustificando in questo modo il sistema economico esistente anche se ingiusto. L'economia classica ci dice come vanno le cose ma non spiega il perché; considera la proprietà privata come un fatto naturale, ma non spiega come nasce. Per Marx invece la proprietà privata non è una legge assoluta, un fatto naturale e immodificabile, bensì la conseguenza di una certa evoluzione storica, la quale può allora essere cambiata. Tanto più che nella società capitalistica la proprietà privata per eccellenza è quella sui prodotti del lavoro altrui, cioè dei lavoratori: il capitalista espropria (deruba) il lavoratore del suo prodotto e da ciò consegue la condizione di alienazione del lavoro umano. La critica di Marx si estende anche al socialismo utopistico perché, egli dice, se i socialisti utopisti hanno avuto il merito di aver individuato gli aspetti negativi dell'industrializzazione (lo sfruttamento dei lavoratori), essi però non hanno compreso le leggi scientifiche e le vere cause del sistema capitalistico industriale. Essi si illudevano di eliminare le ingiustizie della società borghese senza far ricorso alla lotta di classe, ma confidando semplicemente nei buoni sentimenti e negli ideali di solidarietà umana. Ma questo, dichiara Marx, è un moralismo che non serve. Al socialismo utopistico Marx contrappone il proprio socialismo, definito "scientifico" perché basato sulla scoperta delle leggi scientifiche del capitalismo e, quindi, dei modi più efficaci per superarlo e cambiarlo. Marx condivide la tesi di Feuerbach circa la non esistenza di Dio e l'invenzione puramente umana della religione. Tuttavia, secondo Marx, Feuerbach non ha spiegato adeguatamente perché l'uomo crea la religione. A differenza di Feuerbach, Marx sostiene che non è vero che gli uomini si alienano, escono fuori da se stessi e proiettano in un Dio immaginario i loro più nobili ideali, per un semplice meccanismo psicologico e di coscienza. Essi invece si alienano in Dio e nella religione quando le loro condizioni materiali e sociali di vita sono opprimenti, di

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sottomissione e mancanza di libertà tali da impedire la libera realizzazione di se stessi e delle loro aspirazioni. La religione, proclama Marx, è l'oppio dei popoli. Per superare e vincere l'alienazione religiosa non basta criticarla dal punto di vista filosofico, come ha fatto Feuerbach. Anche in questo caso bisogna unire la teoria (la critica filosofica) alla prassi (l'azione): bisogna cioè cambiare le condizioni materiali di vita e di sfruttamento che provocano l'infelicità dell'uomo e lo costringono a crearsi illusioni religiose, cioè l'illusione di un Dio che premierà le sofferenze in una vita ultraterrena. Mentre per Feuerbach l'alienazione religiosa è prevalentemente un fatto di coscienza individuale, per Marx è invece un prodotto di natura socioeconomica ed altresì l'imposizione della religione è un fatto storico determinato dalla classe dominante al fine di ottenere l'obbedienza della classe dominata. In una nuova società più umana, realizzata attraverso la rivoluzione, la religione è destinata a scomparire naturalmente, perché non esisteranno più le condizioni dell'infelicità degli uomini. L'alienazione del lavoro. Alienazione (dal latino “alienus”) in generale significa estraniarsi da sé, diventare estraneo e straniero a se stesso; uscire fuori da sé; perdere la coscienza e la fiducia di sé; non credere in se stessi ma in qualche cosa d'altro di diverso. Per alienazione del lavoro Marx intende la perdita del possesso dei prodotti del proprio lavoro subita dal lavoratore poiché di tali prodotti si impossessa il capitalista. Per Marx l'alienazione si verifica all'interno e a causa del sistema capitalistico di produzione e delle relative condizioni di lavoro. Il lavoro, per Marx, è l'essenza dell'uomo: attraverso il lavoro l'uomo dovrebbe poter realizzare pienamente sè stesso, dimostrare la propria capacità e creatività. Invece, il sistema capitalistico di produzione e la proprietà privata (la proprietà dei mezzi di produzione, cioè degli impianti, dei macchinari, delle tecnologie e della stessa attività dei lavoratori) non rendono libero il lavoro bensì costrittivo (il lavoratore è costretto a lavorare secondo il modo di organizzazione del lavoro stabilito dal capitalista e a lui deve cedere ciò che produce). Anziché lavorare per utilizzare i frutti della natura e per soddisfazione personale, il lavoratore lavora per la pura sussistenza. L'operaio è costretto a vendere il proprio lavoro in cambio del salario. Il lavoro è quindi trattato come merce e non come realizzazione e creatività umana. In cambio del salario l'operaio viene espropriato, privato degli stessi prodotti del suo lavoro, che finiscono nelle mani del capitalista. Dunque, nel lavoro salariato dipendente l'operaio è costretto ad alienarsi, ad estraniarsi dai prodotti del suo lavoro che non appartengono a lui. È costretto altresì ad un lavoro ripetitivo, organizzato e imposto dal capitalista a suo proprio vantaggio, che non consente creatività e libertà: è questa l'alienazione del lavoro che caratterizza il sistema capitalistico di produzione. Ed è da questa alienazione che per Marx derivano tutte le altre forme di alienazione, quella religiosa e quella politica. Il superamento di questa situazione può avvenire solo attraverso la lotta di classe e la rivoluzione che eliminerà la proprietà privata e quindi anche il lavoro alienato. La teoria dell'alienazione del lavoro conduce Marx a formulare l’altra sua fondamentale teoria che è quella del "materialismo storico" (qui materialismo significa la prevalenza dell'economia, che è materiale, sulle idee, che sono spirituali). La teoria

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dell'alienazione segna il passaggio dal cosiddetto umanesimo di Marx (cioè dalla sua filosofia ispirata a valori umanistici) al suo materialismo storico (cioè alla sua filosofia ispirata all'analisi storico-economica della società), che in quanto tale si contrappone all'idealismo storico. Abbiamo visto che per Marx non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, il loro tipo di vita bensì il contrario. Ciò consente di specificare il rapporto che esiste tra struttura economica della società e quella che Marx chiama la "sovrastruttura ideologica" della società stessa. Marx definisce come "ideologia" l'insieme delle idee (del tipo di mentalità e cultura) prodotte dalla classe dominante al fine di garantire il mantenimento del proprio potere. Per struttura economica Marx intende l'insieme delle forze produttive, dei rapporti di produzione e dei modi di produzione sussistenti. Le forze produttive sono costituite dai lavoratori, dagli impianti, dai macchinari e dalla tecnologia, cioè dalle conoscenze tecniche e scientifiche applicate alla produzione lavorativa. I rapporti di produzione sono quelli che stabiliscono il possesso dei mezzi di produzione (delle attrezzature, degli impianti e macchinari), che nel sistema capitalistico sono proprietà privata del capitalista, nonché sono quelli che stabiliscono la ripartizione (la proprietà) del prodotto, che nel sistema capitalistico resta in mano al capitalista. La combinazione tra il tipo di forze produttive e il tipo di rapporti di produzione sussistenti costituisce i modi di produzione che caratterizzano il sistema economico in un dato periodo storico. Per "sovrastruttura ideologica" Marx intende l'insieme delle idee, delle concezioni di vita, dei saperi, della morale, della mentalità, della politica e della cultura di una società. La tesi di Marx è che la vera base reale della società in un determinato periodo storico è costituita dal tipo di struttura economica esistente, la quale condiziona non solo la coscienza, cioè la mentalità, la cultura, il modo di pensare, le idee, ma anche la stessa politica, la morale, la religione e la filosofia: condiziona cioè quella che è stata definita la "sovrastruttura ideologica", che non è autonoma ma dipende dalla struttura economica e dalla classe sociale dominante: la struttura economica condiziona la sovrastruttura ideologica. Gli uomini, secondo il tipo di struttura economica esistente, entrano in rapporto tra di loro in modo predeterminato e necessario, indipendente dalla loro volontà ma dipendente dai rapporti di produzione vigenti in corrispondenza al grado di sviluppo storico-economico della società. Il materialismo storico è quindi la teoria secondo cui le idee morali, filosofiche, religiose, politiche, ecc. sono condizionate dalla struttura economica sussistente. Nel loro insieme queste idee sono soltanto una sovrastruttura che deriva dalla struttura economica stessa. In sostanza, sostiene Marx, la coscienza e la cultura sociali non sono indipendenti e tanto meno sono prevalenti, anzi sono condizionate se non determinate dalla base economica, dalla struttura economica materiale di base esistente nella società, organizzata secondo gli interessi imposti dalla classe sociale dominante. Non sono le idee che determinano le condizioni materiali di vita, ma è l'attività pratica, la base economica sussistente e la classe dominante al potere che condizionano o determinano le idee. Le idee dominanti di un'epoca sono sempre state le idee della classe in quel momento dominante: queste idee sono, appunto, "ideologia".

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Soltanto il cambiamento della struttura economica, anche attraverso una rivoluzione sociale, può comportare il cambiamento della sovrastruttura ideologica, e quindi delle idee, della società. Il materialismo di cui si tratta è definito "storico" perché nei vari periodi storici la sovrastruttura ideologica di una società è determinata dalla struttura economica sussistente in ciascuno di tali periodi. Quando muta la struttura economica si ha un corrispondente cambiamento del sistema di idee, cioè della sovrastruttura ideologica. A grandi linee, le diverse epoche storiche che si sono succedute, caratterizzate ciascuna da una propria struttura economica materiale che ha determinato una corrispondente sovrastruttura ideologica, sono: 1. il modo di produzione asiatico, caratterizzato da una società di tipo tribale

(formata da un insieme di tribù) nella quale non esistevano ancora distinzioni di classe sociale, ma soltanto un sistema di divisione del lavoro secondo il sesso (alcuni lavori erano maschili ed altri femminili);

2. il modo di produzione antico, caratterizzato dalla distinzione e lotta di classe fra uomini liberi e schiavi;

3. il modo di produzione feudale, caratterizzato dalla distinzione e lotta di classe fra padroni (nobili) e servi della gleba (contadini);

4. il modo di produzione borghese-capitalistico, caratterizzato dalla distinzione e lotta di classe tra borghesi-capitalisti e proletari (operai).

Ogni struttura economico-sociale, teorizza Marx, lungo la sua storia produce dentro di sé delle contraddizioni, dei conflitti, destinati prima o poi a provocarne il mutamento con la nascita, conseguentemente, di una nuova struttura economico-sociale. In ogni struttura economico-sociale c'è una classe sociale dominante e un certo tipo di produzione economica, le quali costituiscono la tesi. Ad esse si contrappone la classe sociale dominata, che costituisce l'antitesi. La vittoria della classe sociale dominata comporta la nascita di una nuova struttura economico-sociale e di un nuovo tipo o modo di produzione economica, che costituiscono la sintesi. A sua volta la sintesi diventa una nuova tesi, cui si contrappone una nuova antitesi, conducendo insieme ad una nuova sintesi e così via. Sono proprio le contraddizioni che si generano in ogni epoca storica e in ogni struttura socio-economica le molle autentiche dello sviluppo storico che danno luogo a nuove forme sociali. In tal senso, nelle società tribali la lotta fra le tribù ha comportato la vittoria di talune di esse e la riduzione in schiavitù delle altre. Nella società antica gli schiavi, i barbari, si sono ribellati e sono prevalsi sui patrizi, diventando signori feudali. Nella società feudale i servi della gleba sono riusciti infine a liberarsi e a diventare classe borghese dominante. Nella società capitalistica sorge la classe dei proletari (gli operai) destinati a contrapporsi e a superare la classe borghese. Il materialismo dialettico è quindi la teoria secondo cui il divenire storico, la storia, si svolge in base ad un processo dialettico, cioè in base a contrapposizioni e conflitti tra classi sociali. La storia di ogni società è dunque storia di lotta di classe. Così è anche per la società capitalistica, in cui si trovano in lotta, da una parte, la borghesia, cioè i capitalisti

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proprietari dei mezzi di produzione, e, dall'altra, il proletariato, cioè i lavoratori salariati, costretti a vendere la loro forza-lavoro per procurarsi i mezzi di sussistenza. L’avidità, la continua ricerca del profitto, induce i capitalisti ad ingrandire sempre di più le loro imprese e quindi ad aumentare sempre di più gli operai alle loro dipendenze, cioè i proletari, e a sfruttarli sempre di più. Ma più diventano numerosi e sono sfruttati, tanto più i proletari si organizzano e diventano forza e classe sociale rivoluzionaria. Come la borghesia sia destinata a cadere ed il proletariato a vincere viene spiegato da Marx nella sua celebre opera "Il capitale”. L'opera "Il Capitale" inizia con l'analisi della merce. Essa ha un duplice valore: 1. un valore d'uso, ossia l'utilità della merce, del prodotto, vale a dire quanto è utile ed è richiesta; 2. un valore di scambio, ossia la capacità di ogni merce di essere scambiata con un'altra merce, salvo che, per maggior comodità, lo scambio non è diretto, non è in forma di baratto, ma è indiretto ed avviene tramite la moneta. Il valore di scambio di una merce (quanto essa vale) dipende secondo Marx dalla quantità di lavoro necessario per produrla, cioè dal tempo medio di lavoro impiegato nella produzione della merce. Ebbene, critica Marx, il capitalismo considera ogni merce come avente valore di per se stessa, ma si dimentica invece che essa è il frutto del lavoro umano. Lo scambio delle merci, pertanto, non è un semplice rapporto tra cose, ossia tra le merci (feticismo delle merci), ma è soprattutto un rapporto tra uomini (i produttori e consumatori). Lo stesso lavoro del proletario (operaio o contadino che sia), che Marx chiama forza-lavoro, è considerato anch'esso una semplice merce dall'economia capitalista: il lavoro del proletario è cioè considerato come una merce che egli vende al capitalista in cambio del salario. Ma la forza-lavoro (il lavoro del proletario) è una merce particolare, dice Marx, perché il suo valore è superiore al valore di scambio, cioè il lavoro del proletario produce di più e vale di più di quanto riceve come salario, stabilito in quantità appena sufficiente per il suo mantenimento. Ad esempio, se l'operaio è obbligato a lavorare dieci ore al giorno e se il salario percepito vale invece sei ore di lavoro, l'operaio produce nelle quattro ore rimanenti un prodotto aggiuntivo che il capitalista non paga, ma di cui si appropria e che intasca. La produzione aggiuntiva non pagata all'operaio e che il capitalista fa propria è chiamata da Marx plus-valore. Il plus-valore che il capitalista si mette in tasca rende possibile l'accumulazione, cioè l'accrescimento del capitale: infatti, caratteristica del capitalismo non è il consumo ma proprio l'accumulazione. Il plus-valore cioè viene solitamente consumato dal capitalista solo in parte per i suoi bisogni e i suoi capricci. La maggior parte viene invece reinvestita ed utilizzata per aumentare il capitale (le dimensioni dell'impresa, la quantità dei macchinari ed attrezzature, il numero degli operai) allo scopo di vincere la concorrenza. In tal modo l'impresa capitalistica diventa sempre più grande a danno di quelle più deboli che falliscono. I capitalisti che falliscono diventano proletari e così la proprietà dei capitali e delle imprese, e quindi la ricchezza, si concentra nelle mani di un numero sempre minore di capitalisti. Ma più l'impresa diventa grande e quanto più essa produce, tanto più facili

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sono le crisi di sovraproduzione: molte merci rimangono invendute ed il profitto diminuisce. Per evitare o limitare la diminuzione del profitto, il capitalista allora da un lato comprime, cioè diminuisce i salari e, dall'altro lato, al posto dei salariati, aumenta l'uso dei macchinari, che 5 sono meno costosi degli operai, parte dei quali viene perciò licenziata ed espulsa dal lavoro. Cresce in tal modo la massa dei miserabili. Prima o poi però tutte queste contraddizioni, questi contrasti, scoppiano e provocano la rivoluzione dei proletari contro i capitalisti, la quale farà cadere il capitalismo e farà nascere una nuova società senza più classi sociali, farà nascere cioè il comunismo, la società comunista, nuova sintesi dello sviluppo dialettico della storia. In mancanza di classi sociali non ci sarà più lotta di classe, quindi lo sviluppo dialettico-conflittuale della società si arresterà, non seguiranno più nuove strutture economico-sociali e il comunismo diverrà la forma permanente della società.

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MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA Tutte le grandi potenze europee si sono alleate contro il comunismo, movimento nascente in tutto il Vecchio Continente. È usato come insulto contro i propri oppositori politici. Le conclusioni sono due: • Il comunismo è riconosciuto come potenza dalle potenze europee. • È giunto il momento che i comunisti si riuniscano e mostrino al mondo le proprie idee in un manifesto. Proprio per questo motivo i comunisti più importanti si sono riuniti a Londra per scrivere questo manifesto, pubblicato in varie lingue fra cui inglese, tedesco, italiano e francese. Borghesi e proletari In ogni società esistita fino ad ora c’è stata una lotta di classe. Oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, e tale conflitto è sempre culminato in una rivoluzione o con la rovina di entrambe le classi. Nell’antichità la società era divisa in caste. La moderna società borghese non è riuscita ad eliminare tale lotta, ha solo cambiato le condizioni fra le classi sorte, Borghesia e Proletariato. I Borghesi derivano dai servi della gleba medievali. Le scoperte geografiche offrirono ad essa nuove prospettive e possibilità. I maestri di bottega vennero invece soppiantati durante la crescita della nuova economia di mercato dalla manifattura e dal nuovo ceto industriale. Con le macchine a vapore alla manifattura subentrò la grande industria moderna e al ceto medio industriale succedette i moderni borghesi. Con il progredire dei mercati e della tecnologia la borghesia ha acquisito potenza, soppiantando tutte le altre classi eredi del medioevo. Il potere politico è nelle sue mani, ed è usato come mezzo per fare il proprio tornaconto. Questa classe ha storicamente avuto funzione rivoluzionaria, distruggendo tutte le istituzioni e i rapporti medievali. Ha sostituito lo sfruttamento in nome della religione con uno aperto, senza pudore. Ha ridotto tutto ad un semplice rapporto di denaro. L’epoca borghese è caratterizzata da continui sconvolgimenti e rivoluzionamenti dei mezzi e dei rapporti di produzione, riesce ad infilarsi in ogni angolo più remoto del globo terracqueo (piantatela di ridere, coglioni, concentratevi su KM). Ha tolto all’industria la base nazionale sfruttando i mercati globali. Le piccole industrie soccombono dinanzi a quelle più grandi, o a quelle più avanzate. Non lavorano più le materie prime, ma altre materie che arrivano da tutte le parti del mondo, tutto in nome del progresso e del rivoluzionamento, creando un rapporto di dipendenza fra le nazioni. È tutto sacrificato in nome di un mondo globalizzato, un’unica letteratura mondiale, e anche le nazioni più arretrate vengono spinte al progresso per unirsi alle altre più

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avanzate. La borghesia ha anche aumentato il numero della popolazione urbana rispetto a quella contadina, strappando parte della popolazione all’analfabetismo e alla vita rustica. Mira ad una centralizzazione politica di province che poco hanno a che fare l’una con l’altra. I mezzi di produzione che hanno permesso tutto questo derivano dalla società feudale, che però aveva condizioni che le inceppavano. Quando queste furono abbattute fu possibile la nascita della borghesia. Ora sta succedendo la stessa cosa, ma la Borghesia non riesce più a controllare il demone che ha evocato. Ha problemi con le crisi commerciali e le epidemie sociali, come la sovrapproduzione, che la porta a distruggere gran parte dei prodotti da essa creati. Non c’è la ricchezza per permettersi i prodotti. L’unico modo per uscirne è distruggere i prodotti e conquistare nuovi mercati, e creando crisi che solo essa può risolvere, riducendo i mezzi per prevenirle. Le armi usate contro il feudalesimo si rivolgono contro di lei, e non solo. Gli operai, i proletari, coloro che essa stessa ha creato, sono proprio coloro che useranno queste armi contro di lei. I proletari sono coloro che vivono soltanto finché lavorano, e possono farlo solamente fino a quando il loro lavoro aumenta il capitale. Si tratta di una merce, e come tale sono trattati dal mercato. Con l’avvento delle macchine e la suddivisione del lavoro inoltre l’operaio ha perso sempre più importanza e indipendenza, vedendosi quindi abbassato il salario. L’industria moderna ha trasformato la piccola officina dell’artigiano ella grande fabbrica del capitalista industriale. Gli operai, organizzati quasi militarmente, sono sorvegliati da sottufficiali e ufficiali, dipendenti della classe borghese. Non essendo più necessaria la forza, vengono impiegate anche donne e bambini, anche in questo senso la classe operaia viene uniformata. Quando il borghese in fabbrica ha finito di tormentarlo e lo ha pagato, gli tocca avere a che fare con altri borghesi, come l’affittuario o l’usuraio. I ceti medi sprofondano nel proletariato, poiché le loro attività soccombono all’industria. Il primo grado della lotta del proletariato avviene con la sua esistenza. La lotta è già cominciata. Prima gli operai lottano da soli, poi si uniscono quelli di tutta una fabbrica, distruggendo le macchine e i mezzi di produzione, cercando di tornare alla loro posizione medievale. Infine, si riunisce in masse più grandi, di varie fabbriche e si sviluppa così la lotta di classe, e nascono i sindacati, per tutelarsi dalle oscillazioni dei salari. Raramente vincono, ma il risultato di tutto ciò è l’unione sempre più estesa di tutti gli operai, agevolata dal miglioramento dei mezzi di comunicazione. Il problema è che è spezzata dalla concorrenza che i proletari si fanno a vicenda. Ma da queste lotte ne escono sempre più forti. La Borghesia, sempre in lotta, prima con l’aristocrazia, poi con se stessa, è costretta a chiedere aiuto al proletariato, coinvolgendolo nella politica e fornendogli le armi per colpirla. Quando accade e la classe dominante sta per essere sconfitta, una parte di essa si unisce ai proletari nella lotta, e si ricomincia da capo. I proletari sono avvantaggiati, poiché non avendo proprietà loro hanno solo da distruggere tutto l’ordine stabilito delle cose. In ogni sistema a due classi storicamente esistito la coesistenza era possibile, perché la classe dominante concedeva a quella dominata le condizioni per vivere. La Borghesia però non le concede, (in questo caso si parla del salario minimo per sopravvivere) partecipando

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così al crollo del suo sistema. La vittoria del proletariato e il crollo della Borghesia sono così inevitabili. Proletari e comunisti Analizziamo il rapporto fra proletari e comunisti. I comunisti non sono un partito separato dagli altri operai, e hanno gli stessi interessi. L’unica differenza, all’interno dei partiti, è che i comunisti non si curano del livello nazionale della lotta, ma la vogliono portare al livello internazionale. Sono la punta di lancia dei partiti, coloro che spingono per la rivoluzione. Il loro scopo immediato è il medesimo degli altri partiti proletari: rovesciare la Borghesia e la conquista del potere politico. Non sono per l’abolizione dei rapporti di proprietà esistiti fino ad ora, perché i rapporti sono sempre stati in un costante cambiamento, e la rivoluzione francese ne è un esempio. Quello che il comunismo vuole abolire è la proprietà borghese, ovvero la proprietà privata. Ai comunisti viene mossa l’accusa di voler togliere il frutto del proprio lavoro, ma non lo è. È il frutto del lavoro degli operai sfruttati. Il capitale è una potenza sociale, non personale. Lo scopo del comunismo è l’abolizione l’appropriazione del lavoro dell’operaio e il concetto per cui gli è richiesto solo l’interesse della classe dominante. Il lavoro vivo è solo un mezzo per aumentare il lavoro accumulato, mentre nella società comunista è un mezzo per migliorare lo stile di vita dell’operaio. I borghesi si spaventano per l’abolizione della proprietà privata, ma nell’attuale società i 9/10 della popolazione già non ne hanno. Il loro scopo quindi è abolirla del tutto. Anche le leggi sono serve della borghesia, sono la sua volontà. L’abolizione della famiglia, propugnata dai comunisti, è in realtà l’abolizione della famiglia basata sul capitale, la famiglia del proletario è già distrutta. Le donne borghesi sono viste come mezzi di produzione a loro volta, il comunismo non introduce la comunanza delle donne, essa è naturale. Un’altra accusa è di voler sopprimere la nazione, la patria. L’operaio non ha una patria, le patrie sono scomparse con l’ascesa della borghesia. La religione è uno strumento di dominio, usata dalla borghesia. Il comunismo mira ad abolirle. La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con la tradizione, e il primo passo sarà l’elevarsi del proletariato a classe dominante. Il potere politico crollerà, poiché è il potere organizzato da una classe per opprimere l’altra. Letteratura socialista e comunista Il socialismo reazionario a) Il socialismo feudale L’aristocrazia ha sempre scritto opere letterarie contro alla Borghesia, da cui si sentiva minacciata. Nella rivoluzione del 1830 era già stata politicamente sconfitta, e

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le rimaneva solamente la lotta letteraria. Finì per fingere di abbandonare i propri interessi e di schierarsi a fianco dei proletari. Nacque il cosiddetto socialismo feudale. Tuttavia, una volta scoperte le sue vere intenzioni, venne abbandonata dai proletari, e ne è l’esempio ciò che è successo con la Giovine Inghilterra e i legittimisti borbonici. L’aristocrazia si dimentica che lo sfruttamento messo in opera da essa non era per nulla differente da quello messo in atto dalla Borghesia. Il loro più grande rimprovero alla Borghesia è quello di produrre una classe proletaria rivoluzionaria. Ovviamente il socialismo clericale va a braccetto con quello feudale. b) Il socialismo piccolo-borghese Si tratta dei borghesi che vengono ricacciati nel proletariato dalla concorrenza. Tendenzialmente si scaglia contro le macchine e le nuove tecnologie, per tornare ai vecchi rapporti di produzione e proprietà. c) Il socialismo tedesco, o il “vero” socialismo In Germania il socialismo arriva dalla Francia in un momento in cui la borghesia ha appena cominciato la sua lotta contro l’assolutismo feudale. Subito filosofi e intellettuali fanno proprie queste idee, dimenticandosi però che le condizioni sono ben diverse. La letteratura francese in questo ambito perde dunque ogni contenuto, e assume un aspetto puramente letterario, similmente a ciò che era accaduto ai tempi della rivoluzione francese. La traduzione però fu integrata dalle “assurdità” dei traduttori, perdendo e travisando completamente ogni significato. Ma tutto ciò causò la perdita dell’astrattezza dei filosofi francesi e creò una vera lotta al regime liberale prussiano. Arrivò persino ad allarmare le classi dell’antico regime contro i pericoli della borghesia, e si accaparrò il favore anche della piccola borghesia, arrivando a riconoscerne la sua tutela come sua missione principale. Il socialismo conservatore borghese C’è una parte della borghesia che cerca di rimediare ai suoi mali per la sopravvivenza della classe borghese. Citando Proudhon afferma che vogliono le condizioni di vita della borghesia senza avere le lotte che esse comportano. Ha anche cercato di dimostrare alla classe operaia che basta cambiare i rapporti economici, e che non serve la rivoluzione. In pratica, i borghesi sono borghesi nell’interesse della classe operaia. Il socialismo e il comunismo criptico-utopistici Critica i socialisti teorici (Owen, Fourier e Saint Simon) poiché cercano una scienza sociale e delle leggi sociali per creare le condizioni materiali per l’emancipazione del

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proletariato. Si credono superiori all’antagonismo di classe, respingendo ogni azione politica e rivoluzionaria, cercando il loro scopo con mezzi pacifici. Tutto ciò è tuttavia utopistico, e si oppongono ad ogni movimento politico degli operai, finendo nel rientrare nella categoria dei reazionari. Posizione dei comunisti rispetto ai partiti d’opposizione I comunisti appoggiano dappertutto i moti rivoluzionari contro le condizioni sociali e politiche esistenti. Non nascondono le loro intenzioni, e non fanno mistero della loro volontà di abbattere l’ordinamento sociale esistente con la violenza.

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IL POSITIVISMO CARATTERI GENERALI In senso ampio, il positivismo è uno dei principali indirizzi filosofici del XIX secolo caratterizzato dalla posizione di preminenza che in esso assumono le scienze empiriche, naturali, osservative e sperimentali le quali vengono considerate unica e privilegiata fonte di conoscenza e modello cui tutti i saperi (anche quelli letterari ed umanistici) devono ispirarsi per essere considerati validi. In senso più circoscritto si è soliti designare con tale nome la filosofia del francese August Comte (1798-1857) e della sua scuola. Periodizzazione Per quanto il suo massimo sviluppo intellettuale e sociale si sia realizzato nella seconda metà dell’800, esso ha espresso molte delle sue principali elaborazioni teoriche prima del 1850, quindi nello stesso periodo di massima diffusione della cultura romantica e dell’idealismo tedesco. Non è del tutto esatto quindi affermare che il positivismo viene dopo il romanticismo e lo storicismo idealista (i testi di A. Comte risalgono agli inizi degli anni 30’) anche se va riconosciuto che la cultura positivistca trovò la sua massima espressione solo a partire dalla seconda metà dell’800, quando si legò strettamente al grande sviluppo industriale prolungando i suoi effetti fino ai primi anni del XX secolo. Del resto lo “spirito” del positivismo trova una sua eredità nella filosofia della scienza del XX secolo soprattutto negli scritti del cosiddetto Circolo di Vienna (Carnap, Wittgestein, Reichenbach) che, proprio per la vicinanza dei suoi autori a certi motivi positivistici, venne definito anche con il nome di neopositivismo logico. Nuclei tematici Proprio a causa di tale collocazione che lo pone tra ottocento e novecento, il positivismo è stato variamente interpretato da un lato come continuazione, in forme e modi diversi, della cultura dell’assoluto tipica del romanticismo (divinizzazione del scienza), dall’altro come movimento tipicamente illuminista che riprende in forma nuova gli ideali del progresso e della razionalizzazione tipici di tale corrente, dall’altro, ancora, come filosofia antimetafisica vicina, per alcuni aspetti, al criticismo di stampo kantiano. Tutte queste interpretazioni chiariscono come la filosofia positivistica non sia facilmente etichettabile e presenti diversi e complessi nuclei tematici: a.- preminenza/superiorità del sapere scientifico In questo senso si può parlare sia di una vera e propria “romantica” assolutizzazione della scienza spesso esaltata in modo

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quasi mitico-religioso, sia di una completa re-visione del rapporto tra cultura umanistico-letteraria e cultura scientifico-tecnologica che conclude in un rovesciamento della tradizione che aveva sempre privilegiato il sapere e la formazione di stampo umanistico. Nella nuova ottica inaugurata dal positivismo (è questo l’aspetto più fecondo) il modello del sapere autentico e veritativo è adesso quello offerto dalla scienze empiriche e sperimentali (la fisica galileiana e newtoniana). In tale prospettiva anche le discipline tradizionalmente legate all’ambito umanistico (letteratura, estetica, diritto, linguistica, etica) sono invitate a farsi “discipline positive” cioè discipline capaci di assumere al loro interno i criteri di oggettività e di controllo delle conoscenze scientifiche (fisica, chimica, biologia, medicina …). Il risultato più rilevante di tale “rovesciamento” del rapporto tra sapere umanistico e sapere scientifico è certamente costituito dalla nascita delle cosiddette “scienze umane” o meglio “scienze sociali” vale a dire la psicologia scientifica, la sociologia e l’antropologia culturale che proprio nel periodo positivistico, aderendo ai presupposti culturali di tale movimento, cominciano a muovere i primi passi liberandosi dalla sudditanza o dipendenza dalla filosofia e costituendosi, in tal modo, come discipline autonome dotate di un proprio metodo di analisi del comportamento umano e sociale. b.- carattere antimetafisico Il positivismo contrappone il “reale” al “chimerico” privilegiando i ragionamenti soggetti a verifica e controllo ai sistemi ipotetici e astratti della metafisica. Contrapponendosi alla pluralità dei sistemi filosofici, il positivismo asserisce che gli uomini possono trovare un sostanziale accordo attorno ai fatti empiricamente osservabili, privilegiando questi alle entità fittizie della metafisica (Dio, sostanza, Idea, Assoluto) che sfuggono ad ogni possibilità di riscontro empirico e di verifica. Il vero, dunque, per il positivista coincide con il verificato e l’unica rappresentazione accettabile della realtà è quella offerta dalla scienza e dal rigoroso rispetto (anche in campo psichico e sociale) del suo metodo fatto come diceva Galileo di “sensate esperienze” e “certe o matematiche dimostrazioni”. c.- funzione “pratica” della scienza Per il positivismo il sapere scientifico non ha solo un ruolo conoscitivo. Richiamandosi all’eredità dell’illuminismo - sebbene in un contesto storico sociale profondamente mutato – il positivismo si candida ad essere l’unica dottrina in grado di proporre la giusta soluzione ai non facili problemi del suo tempo (si pensi ai processi di urbanizzazione e ai conflitti sociali aperti dalla rivoluzione industriale e dal nascente capitalismo) e, in generale, ai problemi che da secoli affliggono l’uomo dalla malattia, alla fame, alla povertà. Proprio per questo il positivismo rappresenta la filosofia del mondo industriale moderno. Nel programma positivistco di trasformazione della cultura e della società si deve quindi scorgere anche l’esigenza di elaborare dottrine che contrastino, sul loro stesso terreno, le pretese scientifiche del nascente pensiero socialista e dell’analisi marxiana del capitalismo. Il positivismo si fa interprete di una sorta di “messianesimo tecnologico-scientifico” che vede appunto nel connubio tra scienza e tecnica lo strumento principe

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di un inarrestabile progresso capace di liberare l’uomo dalle sue più antiche paure e angosce (angoscia del futuro, paura della morte, della malattia …) e rispondere, nello stesso tempo, alle sue domande più profonde (si pensi alla teoria darwiniana sull’origine delle specie). Le specificità nazionali Il positivismo è un movimento di carattere internazionale: l’evoluzionismo darwiniano (che rappresenta la vera grande scoperta teorica del secolo positivo) diventa patrimonio scientifico comune dall’Europa all’America settentrionale; le scienze sociali si diffondono in breve tempo in tutto il mondo accademico; certi aspetti “romantici” (esaltazione della scienza ecc.) diventano presto costume, mentalità diffusa e comunemente assunta dalle classi colte e alto borghesi. Nonostante questi tratti comuni esistono tuttavia anche specificità nazionali dovute alle diverse tradizioni culturali di origine. In Francia dove è presente una forte tradizione razionalistica, cartesiana e illuministica il positivismo – che qui si esprime nell’opera del suo “padre fondatore” A.Comte – presenta gli aspetti più sistematici e persegue una precisa organizzazione unitaria del sapere fino a promuovere quasi una “religione della scienza”. In Inghilterra dove è fiorente la tradizione empiristica più che una vera e propria filosofia positivistica abbiamo assistiamo ad un approfondimento in chiave “positiva” di determinate scienze come la psicologia, la morale, l’ economia politica. Di grande influenza fu poi, come si è già detto, la diffusione dell’evoluzionismo darwiniano, che alimentò non poche riflessioni e interpretazioni. I più importanti esponenti del positivismo inglese furono H.Spencer e Stuart Mill. In Italia si ebbe uno sviluppo minore del positivismo che trovò campi di applicazione soprattutto nell’ambito della scuola, della pedagogia e contribuì alla nascita di una scienza particolare: la criminologia (Lombroso). A. Comte (1798-1857) Nato a Montpellier in Francia da una famiglia cattolica di fede monarchica, Comte aderì fin da giovane agli ideali del libero pensiero e della repubblica. Come tanti pensatori del suo tempo anche Comte avvertì che il problema fondamentale del suo tempo era rappresentato dalla crisi apertasi con la Rivoluzione del 1789. La sua opera principale, il Corso di filosofia positiva venne pubblicata nel 1830. L’originalità di tale opera consiste non soltanto nel deciso privilegiamento del sapere scientifico, ma nel legame organico che egli stabilisce tra scienza e società e tra scienza e realtà, in una prospettiva d’assieme di tipo storico-evolutivo. Comte enuncia alcuni principi che costituisco il presupposto del suo sistema e fondano quella particolare lettera e interpretazione storico scientifica che prende il nome di legge dei tre stadi: 1. I sistemi del sapere (lo stato e l’organizzazione delle conoscenze) sono sempre causa dei corrispondenti sistemi sociali e politici 2. Il progresso umano si identifica con il progredire delle scienze 3. La conoscenza procede per stadi o fasi rigorosamente determinate

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Comte individua tre stadi di sviluppo della conoscenza e del sapere ai quali corrispondono tre distinte fasi storiche e sociali: lo stadio teologico (o “fittizio”); lo stadio metafisico (o “astratto”) e lo stadio scientifico (o “positivo”). Nel primo stadio lo spirito umano è orientato alla ricerca di verità assolute che soddisfino il bisogno primitivo di conoscere le cause dei diversi fenomeni. La spiegazione degli eventi naturali così come delle vicende umane e sociali è rinvenuta nell’azione e nell’intervento di forze soprannaturali, di divinità che determinano l’insieme dei fenomeni. Lo stadio teologico conosce una sua interna evoluzione che corrisponde progressivamente ad un affinarsi degli strumenti di comprensione e spiegazione; si va quindi da una visione essenzialmente antropologica in cui l’uomo rispecchia se stesso nelle divinità, al politeismo in cui i princìpi che regolano il divenire delle cose son molteplici e diversificati, al monoteismo in cui, per una esigenza interna alla stessa ragione umana che tende all’unificazione delle cause e degli eventi, i fenomeni naturali sono assoggettati a leggi immutabili fatte dipendere un unico principio. Il monoteismo è il culmine dell’epoca teologica e trova la sua più alta espressione nella religione cristiana e nel cattolicesimo in particolare che, grazie all’operato della Chiesa, riesce a dar vita a quella che Comte chiama la prima e fino ad ora unica “epoca organica” della storia umana grazie alla perfetta corrispondenza che nel Medioevo cristiano viene a realizzarsi tra tra organizzazione sociale e stato delle conoscenze in campo scientifico, morale e politico. Allo stadio teologico succede quindi, con l’avvento dell’epoca moderna, lo stadio metafisico. Nell’età metafisica assistiamo ad una progressiva emancipazione della ragione che si libera sempre di più dagli impedimenti del pensiero teologico. Le speculazioni dominanti mantengono ancora il carattere dell’epoca precedente, tendono cioè ancora a delle conoscenze assolute, tuttavia, al posto di agenti soprannaturali, troviamo ora entità di ragione, astrazioni personificate. Queste entità (sostanza, Idea, monade, anima del mondo, natura) pur possedendo un carattere equivoco, preparano tuttavia il terreno all’esercizio veramente scientifico della ragione. Il nuovo principio unitario non è più il Dio della teologia, ma la Natura che pur nella sua carica innovativa rimane pur sempre, ad avviso di Comte, un concetto ancora ambiguo e debole. Proprio l’essenziale ambiguità dei concetti metafisici fa si che l’epoca metafisica riesca ad essere solamente critica, dissolvente e disgregatrice. Il regime metafisico pertanto da un lato tende a conservare lo stato teologico, dall’altro tende a spingere verso la critica razionale di tale spiegazione del mondo senza tuttavia riuscire ad emanciparsi del tutto da essa. Tale conflittualità fa si che lo stadio metafisico si qualifichi come una sorta di malattia cronica che pone l’individuo e la società in uno stadio intermedio tra l’infanzia e la maturità. Merita infatti osservare che la legge dei tre stadi vale, secondo il padre del positivismo, non solo sul piano dell’evoluzione storica della civiltà umana ma anche sul piano individuale: “chi di noi - dice Comte - non ricorda , contemplando la sua propria storia, di esser stato successivamente, rispetto alle nozioni più importanti, teologo nella sua infanzia, metafisico nella sua giovinezza e fisico nella sua virilità”. Il punto culminante dell’epoca metafisica (che si può anche definire come epoca ontologica) è

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rappresentato dalla Rivoluzione Francese: essa costituisce il suo trionfo politico sociale e nello stesso tempo, nel suo fallimento , essa indica anche i suoi limiti. Può avviarsi così la terza fase dello sviluppo dell’umanità, quella finalmente positiva, in cui la scienza saprà dirigere la vita singola ed associata dell’uomo. Pacificato il desiderio di conoscenze assolute, la ragione potrà dedicarsi ad investigazioni più produttive, conformate al vero spirito positivo che consiste nel vedere (conoscere) per poter poi prevedere. Proprio questa capacità previsionale è la vera forza trasformatrice dello stadio positivo. La scienza mette infatti l’uomo in grado di conoscere i fenomeni per poi poterli modificare a suo vantaggio. Tale è lo scopo di tutti i saperi positivi dalla matematica (la forma di conoscenza più semplice) all’astronomia, alla fisica, alla chimica, alla biologia fino a quella che Comte ritiene lo forma più evoluta del sapere scientifico e che chiama con il nome di fisica sociale o sociologia. Condurre questa scienza dell’uomo alla sua perfezione scientifica è il compito più importante dell’epoca positiva. Solo quando la sociologia avrà conseguito la piena maturità scientifica essa sarà in grado di far uscire l’umanità dalla crisi che la travaglia e di elaborare la riorganizzazione spirituale della società moderna. Per Comte quindi la sociologia non è una semplice scienza osservativa. Molto di più essa deve essere capace di prevedere i fatti sociali e di guidarli . Per Comte quindi la sociologia deve divenire sociocrazia, deve cioè tradursi in azione politica illuminata e guidata dalla fisica sociale. Così come il Medioevo è riuscito ad esprime un’epoca organica e unitaria attorno al dogma della fede, allo stesso modo l’epoca positiva saprà produrre attraverso la scienza un’altra epoca unitaria dove al culto religioso del soprannaturale e alla astrazione della metafisica subentrerà le fede nell’Umanità il cui perfezionamento costituisce il fine ultimo di tutte le conoscenze e azioni degli uomini. Note sulla sociologia in Comte Come si è visto per Comte la sociologia: 1. si pone come coronamento del progresso intellettuale dell’umanità e come scienza dell’uomo per eccellenza; 2. è, rispetto all’ordinamento delle varie discipline (matematica, astronomia, fisica, chimica, biologia, sociologia) il sapere più complesso sia in ordine logico (ogni scienza presuppone i fondamenti dell’altra); sia in ordine cronologico (lo sviluppo scientifico rispetta il progresso storico in cui ogni singola scienza perviene allo stato di scienza positiva); 3. si configura come fisica sociale e quindi ciò significa che essa deve costituirsi come disciplina oggettiva con il dovere di individuare proprie leggi rigorose; 4. è insieme sia strumento teorico (sapere) che pratico (fare) per cui le conoscenze che produce devono essere funzionali al processo di trasformazione politica e sociale;

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5. ha il compito infine di individuare le leggi che determinano la stabilità dei sistemi e delle istituzioni (statica sociale) e, nello stesso tempo, le leggi che decidono il mutamento, la trasformazione di tali sistemi e istituzioni (dinamica sociale).

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AUGUSTE COMTE E LA LEGGE DEI TRE STADI Introduzione Auguste Comte è considerato il fondatore del positivismo francese. Nato nel 1798 a Montpellier da una famiglia modesta, “eminentemente cattolica e monarchica”, frequentò la famosa scuola politecnica di Parigi, il che incise vivamente sulla sua formazione filosofica. Al centro della sua filosofia, infatti, vi è la matematica e la convinzione che l'unica vera forma di sapere sia la scienza. La sua non fu una vita facile: le sue idee, quand'egli era ancora in vita (morì a Parigi nel 1857), non riscossero alcun successo e tutti i suoi tentativi di entrare pienamente nella vita accademica fallirono miseramente; questi continui insuccessi, stanno probabilmente alla base dello squilibrio psichico che lo tormentò per il resto della sua vita. Discepolo di Henri de Saint-Simon, coniò il termine "fisica sociale" per indicare un nuovo campo di studi. Questa definizione era però utilizzata anche da alcuni altri intellettuali suoi rivali e così, per differenziare la propria disciplina, inventò la parola sociologia. Comte considerava questo campo disciplinare come un possibile terreno di produzione di conoscenza sociale basata su prove scientifiche. Proprio per questo Comte è ritenuto il padre ufficiale della sociologia, disciplina alla quale ha affidato il compito di porre le condizioni per il miglioramento della società. L’opera più importante e popolare è il Cours de philosophie positive (1830-42) in cui l’elemento centrale è la delineazione della legge dei tre stadi, che descrive l’evolversi dell’umanità, dove prospettiva scientifica e dimensione storica sono combinate. Questo scrive Comte del suo itinerario morale ed intellettuale: “Avevo già compiuto i quattordici anni che già provavo il bisogno fondamentale di una rigenerazione universale, a un tempo politica e filosofica, sotto l’attivo impulso della salutare crisi rivoluzionaria la cui fase principale aveva preceduto la mia nascita. La luminosa influenza di una iniziazione matematica avuta in famiglia, felicemente sviluppata all’École Polytechnique, mi fece istintivamente presentire la sola via intellettuale che poteva realmente condurre a questo grande rinnovamento”. E aggiunge che fu nel 1822 che egli ebbe chiaro il suo progetto filosofico “sotto la costante ispirazione della mia grande legge relativa all’insieme dell’evoluzione umana, individuale e collettiva”. Si tratta della legge dove è protagonista lo spirito umano, che sarebbe passato attraverso tre gradi di conoscenza: stadio teologico, stadio metafisico, stadio positivo. Nello stadio teologico i fenomeni vengono visti come “prodotti dell’azione diretta e continua di agenti soprannaturali, più o meno numerosi”, la spiegazione di eventi è affidata alla divinità, è il periodo dell'infanzia dell'umanità; nello stadio metafisico essi vengono spiegati ad opera di essenze, idee o forze astratte, è il periodo dell'adolescenza dell'uomo; soltanto nello stadio positivo, lo spirito umano, riconoscendo l’impossibilità di ottenere conoscenze assolute,

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rinuncia a domandarsi quale sia l’origine e il destino dell’universo, quali siano le cause dei fenomeni, e va alla ricerca delle connessioni tra i fenomeni e delle leggi che tali connessioni regolano, è la fase della maturità dell'uomo. Le tre categorie sono applicabili allo sviluppo delle singole branche scientifiche, alle diverse fasi storiche dell'umanità e persino alla vita dei singoli. Gli stati di questo sviluppo tendono a un costante miglioramento, lo stesso nuovo approccio positivista sarà in grado di garantire all'umanità un continuo progresso tecnologico, annunciatore di benessere e di prosperità. In uno dei suoi brani più significativi, “I tre stati delle speculazioni umane”, tratto dal Discours sur l’esprit positif (1844), Comte rappresenta un’opera comprensibile destinata al proletariato al quale voleva dare un’istruzione scientifica, in quanto proprio la classe proletaria veniva vista come la classe adatta a comprendere quegli studi positivi necessari ad una riorganizzazione spirituale della società, oppressa dall’anarchia intellettuale. La versione degli stadi evolutivi della conoscenza raggiunge qui la dimensione più cara a Comte, dove si intreccia con la possibilità si operare nel mondo per cambiarlo. La legge dei tre stadi Auguste Comte, nel suo Corso di filosofia positiva, elaborò una grande dottrina sull’intera evoluzione intellettuale dell’umanità, conosciuta come legge dei tre stadi, che contraddistinse la sua filosofia ed in un certo senso ne costituì anche il fondamento. Questa legge consiste nel fatto che ogni nostra concezione fondamentale, ciascun settore delle nostre conoscenze, passa successivamente attraverso tre stadi diversi. In altre parole lo spirito umano, per sua natura, adopera successivamente, in tutte le sue ricerche, tre metodi di filosofare, il cui carattere è essenzialmente diverso e persino opposto: all’inizio il metodo teologico, quindi quello metafisico, infine il metodo positivo. Da lí hanno origine tre tipi di filosofia, o di concezioni generali sull’insieme dei fenomeni, che si escludono reciprocamente; il primo è il punto di partenza necessario dell’intelligenza umana, il terzo la sua sistemazione definitiva e fissa, il secondo vale soltanto come momento di passaggio. Scrisse Comte nel Corso di filosofia positiva: “Studiando lo sviluppo dell’intelligenza umana dal suo primo manifestarsi ad oggi, io credo di aver scoperto una grande legge fondamentale. Questa legge consiste in ciò: che ciascuna delle nostre concezioni principali, ciascun ramo delle nostre conoscenze passa necessariamente per tre stadi teorici differenti: lo stadio teologico, o fittizio; lo stadio metafisico, o astratto; lo stadio scientifico, o positivo. Di qui tre tipi di filosofia, o di sistemi concettuali generali, sull’insieme dei fenomeni, che si escludono reciprocamente. Il primo è un punto di partenza necessario dell’intelligenza umana; il terzo è il suo stato fisso e definitivo; il secondo è unicamente destinato a servire come tappa di transizione”. I "tre stati" in questione sono stati della storia dell'umanità che ciascuno di noi è tenuto a ripercorrere nella propria vita; si tratta di stati della storia dell'umanità sotto

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un triplice aspetto, dello sviluppo scientifico, ma tendenti a corrispondere a stati delle forme organizzative-politiche-sociali della società e a corrispondere pure all'evoluzione individuale dei singoli individui. I tre stati sono, rispettivamente, lo stato teologico, quello metafisico e, infine, quello positivo. Stato teologico Nel primo stato, quello teologico, l'uomo si chiede il perchè dei fenomeni a cui assiste e prova a rispondere facendo ricorso a realtà sovrasensibili, approdando così alla teologia. Lo stadio teologico corrisponde all'infanzia dell'umanità, la quale è portata a cercare le cause prime dei fenomeni in agenti sovrannaturali, cioè negli dei, negli spiriti e nelle anime, ed infine nell'unico Dio della religione monoteistica. Durante questo stato, che Comte definisce "infantile", l’uomo nutre quindi il bisogno primitivo di trovare una spiegazione, e quindi una causa, per tutti i fenomeni che egli osserva, pretendendo così di entrare in possesso della conoscenza essenziale ed assoluta. Per fare ciò egli fa prevalentemente uso dell’immaginazione, riducendo al minimo il ragionamento. Per ben comprendere lo spirito puramente teologico di questo stato primordiale, non bisogna limitarsi a considerarlo nella sua ultima fase, che si compie nelle popolazioni più avanzate, ma diviene indispensabile osservare il suo intero naturale percorso, suddiviso da Comte in tre forme principali. La forma più immediata costituisce il feticismo, uno stato primitivo, ma valutato come superiore in quanto garantisce la massima coesione sociale, attorno a una divinità visibile. Esso consiste soprattutto nell’attribuire a tutti i corpi esteriori una vita essenzialmente analoga alla nostra, l’uomo riconduce a se stesso tutti i rapporti di causalità che intercorrono fra le cose, ponendo tutti i fenomeni sul medesimo piano di quelli che egli stesso produce e, quindi, a lui noti. Ne consegue che le cose sono prodotte da agenti strutturalmente simili all’uomo, ma ben più potenti. L’adorazione degli astri caratterizza il grado più elevato di questa prima fase teologica. La sua seconda fase essenziale costituisce il politeismo, dove lo spirito teologico rappresenta nettamente la libera preponderanza meditativa dell’immaginazione. Nasce così la concezione di esseri soprannaturali, dotati di poteri che vanno al di là delle capacità umane, in modo da poter così spiegare le cause sconosciute dei fenomeni. Questo momento segna un arretramento in quanto l'uomo adora qualcosa, esseri fittizi, che pur somigliando a fenomeni visibili, sono in sé invisibili. La terza fase teologica, il monoteismo, rappresenta l'estrema involuzione della stadio teologico dove inizia il declino della filosofia iniziale, in quanto legando l'uomo a una realtà invisibile e lontana, lo distoglie al massimo grado dalla vita sociale, spingendo così il singolo a preoccuparsi della sua anima e della sua salvezza eterna, invece che degli altri e della collettività terrestre. Significativo è il fatto che Comte nello stadio teologico anteponga lo stadio feticistico a quello politeistico e a maggior ragione a quello monoteistico. Come dire che l'umanità che Comte vorrebbe è una umanità allo stato larvale, una umanità senza ragione, persa nella dolce illusione di essere fusa con la natura e la società. Il suo disprezzo per il Cristianesimo nasce proprio dal fatto che Cristo interpella la persona,

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e ne chiede la piena attivazione di intelligenza e volontà. Ciò è per Comte fattore di asocialità: per essere uniti, nella società come la immagina lui, meglio non pensare con la propria testa, ma abbandonarsi al grande flusso della storia. Questo scrisse Comte nel suo Corso di filosofia positiva riguardo il primo stadio: "Nello stadio teologico lo spirito umano, dirige essenzialmente le sue ricerche verso la natura intima degli esseri, le cause prime e finali di tutti gli effetti che lo colpiscono, in una parola, verso le conoscenze assolute". Stato metafisico Allo stadio teologico, sostanzialmente rappresentato dall'età antica e dal Medioevo, succede quello metafisico, il quale corrisponde a quello della giovinezza, e per l’umanità identificabile con l'epoca moderna. L'umanità continua a porsi domande sui perché ultimi, l'uomo si pone le stesse domande che si poneva nello stato teologico, ma stavolta formula una risposta diversa, non ricorrendo più a cause che vadano al di là della dimensione naturale, bensì facendo ricorso a cause concrete; quindi abbandona la fantasia, per orientarsi con la ragione, una ragione che resta, secondo lui, astratta. La fusione di fantasia e ragionamento porta infatti l’uomo a figurarsi entità immaginarie, che non sono più così fantastiche da essere identificate con agenti soprannaturali, rimpiazzati così con forze astratte. Si tratta dell'epoca in cui la causa dei fenomeni viene cercata nell'essenza e nella forma. Scrisse Comte riguardo il secondo stadio: "Nello stadio metafisico, che non è in fondo che una semplice modificazione generale del primo, gli agenti soprannaturali sono sostituiti da forze astratte, vere entità (astrazioni personificate) inerenti ai diversi esseri del mondo, e concepiti come capaci di generare da sé medesimi tutti i fenomeni osservati, la cui spiegazione consiste allora nell'assegnare a ognuno l'entità corrispondente." (Corso di filosofia positiva, prima lezione). In questo stadio la società si disgrega: le certezze precedenti vengono messe in dubbio, senza che ne vengano sostituite di nuove. Predomina così l'individualismo. Stato positivo Allo stadio metafisico succede quello positivo, terzo ed ultimo stato, descritto come « lo stato virile della nostra intelligenza » e caratterizzato dalla rinuncia al chiedersi i "perchè" e il "cosa" dei fenomeni, ovvero rinunciando alle domande tipiche della religione e della metafisica; l’uomo abbandona la pretesa di conoscere l’essenza delle cose, e limita le sue indagini alla manifestazione dei fatti senza ipotizzare la presenza di entità astratte. Nello stato positivo cambia la domanda, poichè si arriva a capirne l'inutilità, dal momento che si può infatti solo rispondere in maniera teologica ai quesiti su cosa è o perché avviene un determinato fenomeno. Lo spirito positivo rigetta la ricerca del « perché ultimo » delle cose per considerare i fatti, « le loro leggi effettive, cioè le loro relazioni immutabili di successione e somiglianza » ; si ricorre

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così ai fatti, alla sperimentazione, alla prova della realtà, e ciò che ci permette di uscire dai discorsi speculativi. La metafisica è quella parte della filosofia che studia l'essere in quanto tale e quindi nei suoi principi primi; appartengono all'ambito della ricerca metafisica anche il problema dell'esistenza di Dio, dell'anima, dell'essere in sé. Per individualismo si intende, in generale, un atteggiamento filosofico, politico o morale che enfatizza il valore dell'individuo rispetto a quello della comunità o della società. L'individualismo (in particolare, ma non solo, in campo morale) viene spesso sovrapposto all'egoismo. Il sapere umano è quindi soltanto relativo, poiché esclude la cognizione delle cause assolute delle cose, né pretende di conoscere tutte le realtà esistenti. L’oggetto della scienza sono quindi le semplici relazioni tra i fenomeni, ovvero le leggi: in esse l’uomo riconosce i propri limiti, rinunciando a fantasticare su ciò che non potrà mai conoscere con certezza. Il ragionamento scientifico prevale decisamente sull’immaginazione umana e Comte saluta con gioia la fine della domanda metafisica in quanto finalmente l'umanità è entrata in uno stadio in cui non si porrà più la domanda "perché": una vera liberazione. La nuova domanda a cui si è tenuti a rispondere nello stato positivo è "come avviene il fenomeno?", il che altro non è se non una riformulazione di quelle tesi proposte a suo tempo da Galileo: ”Non mi interesso, aveva detto Galileo due secoli fa, di cosa sia la forza di gravità e del perchè ci sia (e non me ne interesso proprio perchè non ho le possibilità di rispondere in maniera rigorosa), ma, al contrario, mi occupo di come essa funzioni. Di fronte alla caduta di un grave, non ci si deve chiedere che cosa è o perchè accade, ma come accade, ravvisando in tale avvenimento una legge matematica”. La rinuncia alle domande della metafisica e della religione è dovuta al fatto che si tratta di domande a cui non si può rispondere in modo assolutamente certo, ma solo in modo "vago"; al contrario, come avvenga un determinato fenomeno è constatabile in modo rigoroso e, pertanto, ne nasce una conoscenza utile, poichè praticamente applicabile e dunque potenzialmente utile. Scrisse Comte nel Corso di filosofia positiva: "Infine, nello stadio positivo, lo spirito umano, riconoscendo l'impossibilità di raggiungere nozioni assolute, rinuncia a cercare l'origine e il destino dell'universo e a conoscere le cause intime dei fenomeni, per dedicarsi unicamente a scoprire le loro leggi effettive con l'uso ben combinato di ragionamento e osservazione -, cioè le loro relazioni invariabili di successione e similitudine. La spiegazione dei fatti, ricondotta allora ai suoi termini reali, non è più ormai che il legame stabilito tra i diversi fenomeni particolari e alcuni fatti generali, dei quali i progressi della scienza tendono sempre più a diminuire il numero. [la ricerca dell'unità] Il sistema teologico è giunto alla più alta perfezione di cui è suscettibile quando ha sostituito l'azione provvidenziale di un essere unico al vario gioco di numerose divinità indipendenti, immaginate all'inizio. Allo stesso modo, la cadenza ultima del sistema metafisico consiste nel concepire, al posto di differenti entità particolari, una sola grande entità generale, la natura, vista come l'origine unica di tutti i fenomeni. Parallelamente, la perfezione del sistema positivo, perfezione a cui tende continuamente, per quanto sia assai probabile che non riesca mai ad attingerla, sarà potersi rappresentare tutti i

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diversi fenomeni osservabili come casi particolari di un unico fatto generale, come per esempio quello della gravità. Questa rivoluzione generale dello spirito umano può d'altronde essere facilmente constatata oggi, in maniera molto evidente...". Il termine fenomeno è utilizzato in riferimento ad un evento osservabile, talvolta nell'uso corrente soprattutto se si tratta di qualcosa di speciale. Un fenomeno è un qualunque evento osservabile; i fenomeni sono gli oggetti di studio della scienza. G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Questo stato è quello ancora da realizzare e a cui tendere, regolato da leggi universali e costanti e con una società industriale organizzata razionalmente, in cui il potere spirituale è nelle mani di scienziati. Conclusione La legge dei tre stati corrisponde a ciò che effettivamente è avvenuto nella storia: ai tempi degli antichi greci regnava la religione, poi con il cristianesimo si è affermata la metafisica e infine, con Comte, è stata spodestata dalla scienza positivistica. Tuttavia, oltre ad essere un processo avvenuto nella storia dell'umanità, la legge dei tre stati è anche un itinerario che ciascuno di noi percorre dentro di sè: da bambini, quando si è più creduloni, si tende a spiegare ogni fenomeno ricorrendo ad un Dio; man mano che si cresce, la religione è sostituita dalla metafisica, ed infine, divenuti adulti, la scienza ha la meglio. Concludendo, Comte credeva che lo studio della sociologia avrebbe portato l'umanità ad uno stato di benessere, dato dalla comprensione e dalla conseguente capacità di controllo del comportamento umano, e credeva che, non essendoci alcuna verità fosse la storia a decidere tutto. La storia è per lui un cammino verso il meglio e quindi verso un’inevitabile progresso, non dipendente dalla libertà umana, ma da una forte necessità. Per questo motivo mise a punto la legge dei tre stadi, teoria sull'evoluzione della società nella storia, che è anche evoluzione del pensiero, delle facoltà dell'uomo e della sua organizzazione di vita: Comte riteneva di aver scoperto un codice fondamentale e prefigurava l'avvento dell'era positiva in cui la scienza avrebbe avuto un posto centrale nella vita degli uomini. La sociologia è la disciplina che studia le strutture sociali, le regole sociali ed i processi che uniscono (e separano) le persone non solo come individui ma come componenti di associazioni, gruppi ed istituzioni. Secondo una tipica definizione da manuale, la sociologia è lo studio della vita sociale di uomini, gruppi e società. La sociologia si occupa del nostro comportamento come esseri sociali; così il campo di interesse della sociologia spazia dall'analisi dei brevi contatti fra individui anonimi sulla strada allo studio di processi sociali globali.

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LA TEORIA DELL’EVOLUZIONE DI DARWIN E LE PROVE A FAVORE DI ESSA

Le osservazioni di un naturalista Nel 1831 Darwin si imbarcò come naturalista sul brigantino della marina militare inglese Beagle, in rotta verso il Sud America. Durante il viaggio egli raccolse molti esemplari di piante di animali fossili e registrò tutte le sue osservazioni, sia geografiche sia biologiche. In particolare, rimase colpito dalla somiglianza tra il fossile di un grosso gliptodonte e l'attuale armadillo e dal ritrovamento, nelle isole Galapagos, di tredici specie di fringuelli simili tra loro, ma con tredici differenti tipi di becco. Inoltre, ebbe modo di leggere il saggio Principi di geologia dei continenti del geologo inglese Charles Lyell. Lyell sosteneva che le forze naturali che hanno agito nei diversi periodi geologici sono le stesse che agiscono abitualmente (teoria dell'attualismo); non aveva perciò senso parlare di cataclismi e creazioni successive per spiegare le modificazioni della flora, della fauna e della geologia dei continenti. Per Lyell i grandi cambiamenti sono frutto di piccoli cambiamenti, accumulatisi nei millenni. Darwin da giovane Le riflessioni di Darwin Ritornato in patria nel 1838, Darwin iniziò subito a studiare il materiale raccolto. Nel frattempo gli capitò di leggere il Saggio sul principio di popolazione, dell'economista inglese Thomas Malthus; nel saggio, l'autore sosteneva che all'aumento della popolazione umana non si accompagna mai un adeguato aumento della disponibilità di cibo, e che l'insufficienza del cibo è all'origine della lotta per l'esistenza. Darwin concepì allora l'idea che per la lotta per l'esistenza potesse spiegare anche l'origine di nuove specie viventi e la scomparsa di altre. Interessandosi all'attività degli allevatori, Darwin scoprì anche che le grandi variazioni individuali tra gli animali d'allevamento sono dovute alla selezione naturale alla quale vengono assoggettati dall'uomo a suo esclusivo vantaggio: gli allevatori scelgono gli animali da far riprodurre e gli incroci, in modo che i discendenti presentino le caratteristiche desiderate. I risultati della selezione artificiale si ottengono in breve tempo, ma sicuramente le differenze tra le diverse specie di fringuelli delle Galapagos non potevano che essere dovute a una selezione naturale, cioè operata dalla natura, che richiede tempi molto più lunghi. Darwin formula la teoria dell'evoluzione per selezione naturale Tutte le informazioni e gli indizi raccolti portarono Darwin a concludere che le specie non sono fisse e immutabili, ma si trasformano lentamente nel corso del tempo. L'ipotesi sui meccanismi dell'evoluzione fu da lui esposta nel saggio Sull'origine della specie per selezione naturale, pubblicato nel 1859. Darwin fonda la sua teoria su alcuni presupposti. La variabilità: tra individui della stessa specie esistono differenze ereditarie. Queste possono essere più o meno vantaggiose per l'individuo. Evidente che gli individui che presentano caratteri più favorevoli

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possono sopravvivere, riprodursi e trasmettere tali caratteri alla discendenza. Le variazioni favorevoli si accumulano di generazione in generazione e gli individui diventano sempre più adatti all'ambiente. Il potenziale riproduttivo: se non ci fossero ostacoli dovuti all'ambiente in cui vivono, gli individui di ogni specie vivente aumenterebbero rapidamente di numero e non ci sarebbe cibo a sufficienza per tutti. Se tutte le uova schiudessero e i nuovi individui si riproducessero con lo stesso ritmo e senza ostacoli, una sola coppia di mosche genererebbe in pochi mesi migliaia di miliardi di mosche. Secondo Darwin, da una sola coppia di elefanti, animali notoriamente poco prolifici, in cinquecento anni discenderebbero ben quindici milioni di individui. Il potenziale riproduttivo, seppure diverso da specie a specie, è per Darwin il motore dell'evoluzione. La selezione naturale agisce in modo da contrastare il potenziale riproduttivo dalla specie. Vari fattori ambientali entrano in azione per ridurre il numero dei discendenti: la limitata disponibilità di cibo o di spazio, il clima, i predatori, l'insufficienza dei ripari, le malattie. Essi fanno sì che il numero degli individui di una specie si mantenga praticamente costante. La lotta per l'esistenza: poiché nascono più individui di quanti ne possano sopravvivere, tra essi si svolge una forma di competizione. Gli animali lottano per il cibo, per lo spazio, per il riparo; le piante competono per la luce, per l'acqua, per i sali minerali eccetera. Se un castagno producesse cento castagne e tutte germogliassero le nuove piantine dovrebbero anzitutto competere con la pianta madre e poi con le altre novantanove, non avendo spazio a sufficienza per svilupparsi. la selezione naturale al più adatto: dalla lotta per l'esistenza escono vincenti gli individui che possiedono qualche caratteristica vantaggiosa, come una vista più acuta nel caso dei falchi, una maggiore velocità di fuga nel caso dei conigli, delle zampe più adatte a correre per i cavalli. Essi risultano più adattati all'ambiente in cui vivono, e quindi riescono a sopravvivere, a riprodursi e a trasmettere ai loro discendenti le variazioni favorevoli. L'accumulo di caratteri favorevoli da una generazione all'altra fa sì che alla fine gli individui siano così diversi da quelli originari da costituire una nuova specie. L'idea più innovativa della teoria di Darwin fu aver sottolineato l'importanza della selezione naturale come giuda dell'evoluzione. Le nuove specie discendono da specie preesistenti: perché le differenze ereditarie all'interno di una specie originaria possano dare origine a nuove specie, è essenziale che la specie venga frazionata in diverse popolazioni isolate tra loro. La più comune forma di isolamento è l'isolamento geografico, che si verifica quando, per esempio, le popolazioni di una stessa specie rimangono separate da barriere naturali (sollevamento di montagne, isolamento di bracci di mare, fiumi, ecc.) che impediscono di incontrarsi e di riprodursi tra loro. Prove a favore della teoria di Darwin Dopo la morte di Darwin la teoria evolutiva fu sostenuta con fermezza o fortemente contestata. Tuttavia, molti punti oscuri della teoria sono stati chiariti, e sono state confermate numerose prove a sostegno dell'evoluzione. Diverse scienze hanno

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contribuito a fornire le prove alla teoria dell'evoluzione: la paleontologia, l'anatomia comparata, l'embriologia, la biochimica, la biogeografia. •La testimonianza dei fossili: il loro studio rivela una graduale successione di forme che variano nel tempo, dalle più semplici alle più complesse: gli strati rocciosi più superficiali e quindi più recenti contengono organismi più simili a quelli attuali; quelli più profondi, e più antichi, forme con maggiori differenze. •L'analogia delle strutture: molte specie non imparentate che vivono nello stesso ambiente mostrano strutture simili nella morfologia esterna, ma di diversa origine anatomica; per esempio, le pinne delle foche (mammiferi) e dei pinguini (uccelli). Questa convergenza evolutiva dimostra che la selezione naturale ha favorito in organismi diversi, presenti in uno stesso ambiente, adattamenti simili. • L'omologia fra strutture diverse: in molte specie adattate ad ambienti diversi si osservano strutture morfologiche diverse, ma con una struttura di base simile; questo confermerebbe la derivazione da un comune antenato (per esempio, l'arto dei tetrapodi è formato dalle stesse ossa, modificate dall'adattamento nel corso dell'evoluzione in ali o pinne). •Presenza di strutture vestigiali, o residuali: in alcune specie si riconoscono organi molto ridotti, non più funzionali, ben sviluppati invece in altre specie. Anche in questo caso sarebbero resti di una comune struttura ancestrale non più utile all'adattamento (per esempio, nell'uomo le ossa del coccige sarebbero "avanzi" della coda dei mammiferi). •La somiglianza degli stadi embrionali precoci di animali di gruppi diversi si spiega ammettendo un lontano antenato comune. •Le basi biochimiche della vita (DNA, proteine ecc.) sono comuni a tutti gli esseri viventi: questo confermerebbe una derivazione comune di tutti i viventi da uno stesso organismo primigenio. • L'enorme diversità di specie esistenti: i diversi gradi di somiglianza permettono di stabilire legami evolutivi più o meno stretti e ricostruire la storia evolutiva degli organismi. Su questi caratteri comuni si basa anche la classificazione degli esseri viventi, che rispecchia lo sviluppo delle grandi linee evolutive. Oggi, le tecniche di sequenziamento del DNA permettono un confronto diretto e molto preciso dei geni di specie diverse. •La distribuzione geografica dei viventi: alcune specie si trovano solo in una regione isolata o in un dato continente. Questo può essere spiegato dalla differente storia evolutiva delle singole specie, avvenuta dopo che sono state separate geograficamente da eventi geologici. •L'evoluzione in atto: a conferma della continuità del processo evolutivo basterebbero alcuni esempi di modificazioni di specie osservati in brevi intervalli di tempo. Per esempio, la rivoluzione industriale ha favorito le specie che si sono adattate a un nuovo ambiente, più ricco di fumi inquinanti (melanismo industriale); l'uso dei pesticidi ha favorito gli insetti resistenti; l'uso degli antibiotici la resistenza di alcuni ceppi batterici.

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APOLLINEO E DIONISIACO: LA MASCHERA E IL VOLTO Apollineo Lo Spirito apollineo è un concetto introdotto dal filosofo tedesco Friedrich Nietzsche ed è uno dei temi fondamentali della sua filosofia matura. È contrapposto allo Spirito dionisiaco e indica la "ratio" umana che porta equilibrio nell'uomo, che è capace di concepire l'essenza del mondo come ordine e che lo spinge a produrre forme armoniose rassicuranti e razionali. Senza di esso, nell'uomo ci sarebbe un'esplosione di emozioni incontrollate che hanno bisogno di essere controllate. Lo spirito apollineo è quel tentativo (proprio soprattutto dell'Antica Grecia) di spiegare la realtà tramite costruzioni mentali ordinate, negando il caos che è proprio della realtà e non considerando l'essenziale dinamismo della vita. Lo spirito apollineo, cioè, è la componente razionale e razionalizzante dell'individuo, contrapposta allo spirito dionisiaco, che rappresenta il suo contrario. Nietzsche sostiene che ci sia una fondamentale visione dolorosa dell'esistenza in seno al pensiero greco, in cui l'idea della morte e della vanità di tutte le cose si radica ossessivamente. È proprio l'essere dionisiaco, cioè il Sileno, a rivelare per primo questa verità a re Mida che lo interrogava insistentemente su quale fosse il bene supremo della vita. Il Sileno rispondeva: non esser mai nati è di certo la miglior cosa, e subito dopo una morte il più prematura possibile (così anche Edipo a Colono). Il terrore davanti a questa verità si colora davanti agli occhi dei greci con le immagini orride dei titani, cioè le divinità barbariche pelasgiche. Per esorcizzare la visione di questo panorama di morte i greci crearono, mediante un atto di pura volontà (Schopenhauer ricorre spesso), le divinità olimpiche, la cui connotazione fondamentale è la forza vitale. Ecco che un primo abbozzo dell'apollineo si viene a sovrapporre al primo abbozzo del dionisiaco sostituendolo. Ma quella che a prima vista appare come dialettica di elementi irriducibili gli uni agli altri si viene in realtà a smorzare nel momento in cui ci si rende conto che gli dei olimpici sono figli dei titani, e di Crono e di Rea in particolare. Comunque sia, il mondo omerico prende così vita, con le sue immagini immerse nell'atmosfera sognante del mito. Sulla scorta degli dei loro padri, gli eroi omerici dichiarano apertamente l'amore per la vita (l'ombra di Achille interrogata da Ulisse nel paese dei Cimmeri dichiara che preferirebbe essere schiavo di un contadino per godere ancora della luce del sole piuttosto che regnare tra i morti). Il dolore si libera nel sogno. È il sogno allora, cioè l'apparenza (ma quanto verosimigliante alla realtà!), la contemplazione ingenua della natura che si pone a fondamento del mondo omerico arcaico, con le sue figure eroiche tutelate dagli dei olimpici. Ma l'ingenuità, dice Nietzsche, non è da intendersi come uno stato "nato per se stesso", "inevitabile", alla maniera di Schiller, bensì come la più alta espressione dell'apollineo: prima dell'edificazione del mondo omerico c'è bisogno dell'azione di uccisione dei titani,

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della relegazione nel fondo del Tartaro dell'irrazionale orrore. Lo spirito apollineo è sognante, il principio di individuazione di Schopenhauer compie la sua opera preservando l'io dalle tempeste esteriori, dai titani terribili nascosti fra le pieghe del reale. Il velo di Maya non è ancora strappato. L'artista avviluppato nel velo di Maya è come un navigante al sicuro sulla propria imbarcazione che non si cura, o non si accorge, della tempesta che gli infuria intorno. Omero ci culla in apollinea quiete con i suoi versi. È in questo senso che si indirizza successivamente la teoretica neoclassica winkelmaniana della "quieta potenza". Tutto questo presuppone ovviamente un senso del limite, quel limite che Apollo non permette di superare. Il dio di Delfi ammonisce contro l'eccesso mediante il "conosci te stesso", cioè il principium individuationis. Per Arthur Schopenhauer il concetto di principium individuationis è strettamente connesso a quello di principio di ragione. Per Schopenhauer la Volontà di vivere (Wille) che finisce per auto-limitarsi nella concatenazione di spazio, tempo e causalità, è da principio infinita e libera. Fattasi oggetto, la Volontà perde la propria infinità ed è a quel punto che sorgono gli individui, apparentemente differenziati e irrimediabilmente separati l'uno dall'altro. Il principium individuationis è per Schopenhauer "la forma del fenomeno", cioè come esso appare in esteriorità. Il principium indiviuationis può allora essere definito come l'illusione del numero e della differenziazione, aspetto del Velo di Maya. E questa differenziazione, pur se solo illusoria, porta i fenomeni a scontrarsi l'uno con l'altro, poiché non comprendono di essere, in fondo, la medesima volontà oggettivata. Quando Nietzsche, nella Nascita della tragedia del 1872 scrive che lo spirito dionisiaco annulla il principio di individuazione, annulla cioè le categorie civili, statali, morali, intende allora riferire come nell'ebbrezza del Satiro, che è la verità, l'uomo colga l'orrore, l'atrocità, della propria esistenza. Il principio di individuazione, riflesso dell'istinto apollineo, tuttavia è necessario - al fine che l'uomo non si autodistrugga nel proprio lacerante grido (Iakchos) di dolore. Ma, perché è l'ebbrezza ad esser considerata come verità, e non invece la ragione, il principio di individuazione? Nietzsche è chiaro: "la musica precede l'idea", così Dioniso precede Apollo. Qui, compaiono già le linee che portano a comprendere il complesso discorso nietzschiano: la musica, infatti, precede l'idea a causa della propria immediatezza. Ciò ch'è immediato è senz'altro vero, perché è conosciuto senza i filtri della ragione; in tal senso, Nietzsche parla di conoscenza tragica contrapponendola alla conoscenza ideale, che con la logica ha creato la menzogna. Quindi, il principio di individuazione, in quanto apollineo, non può costituirsi come verità poiché non coincide con la realtà, ma con una "immagine di sogno simbolica". Nel 1886 da Sils-Maria in Engadina dove ormai in pensione il professore universitario di filologia classica si era ritirato a vivere, ripresenterà questo suo testo dedicato a Richard Wagner e nato durante la guerra franco-tedesca ritenuta la prima guerra della nuova fase storica imperialistica che si apriva proprio allora. In questa prefazione precisa ancora il suo obiettivo alla luce degli ulteriori sviluppi della sua visione filosofica che l'aveva condotto infine a rompere proprio quella forte amicizia, a lungo coltivata, che lo legava al musicista Richard Wagner e a sua moglie Cosima Wagner, che Nietzsche

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aveva soprannominato Arianna. In questa nuova edizione vi è infatti acclusa una sua nuova prefazione dal titolo emblematico "Tentativo di un'autocritica". Dionisiaco Lo Spirito dionisiaco è un concetto introdotto dal filosofo tedesco Friedrich Nietzsche nella sua prima opera matura, La Nascita della Tragedia, e rimarrà uno dei temi fondamentali della sua filosofia matura. Concetto sfuggevole e multiforme, è contrapposto allo Spirito Apollineo e indica genericamente parlando – l'impulso alla vita, alla volontà di potenza presente nell'uomo. Nel contesto della nascita della tragedia, tuttavia, il termine assume un significato più profondo, che esprime una modalità di relazione con la realtà che secondo Nietzsche squarcerebbe il velo di Maya, annullerebbe il principio individuationis e proporrebbe una modalità di relazione con la realtà non-mediata e quindi diretta. Lo spirito dionisiaco ne "La Nascita della Tragedia" Per comprendere il pessimismo greco, che Nietzsche avvertiva essere forte e radicato ma allo stesso tempo non decadente, Nietzsche riconosce come l'uomo greco percepisse a fondo la negatività e la caducità dell'esistenza, ma anche sulla scorta del pessimismo schopenhaueriano come riuscisse, tramite lo spirito dionisiaco, a superare il nichilismo che questo avrebbe comportato e a risollevarsi con un "pessimismo del coraggio". La tragedia attica di Eschilo e Sofocle, secondo Nietzsche, avrebbe rappresentato un perfetto equilibrio tra dionisiaco e apollineo. Questa armoniosa simmetria di contrasti avrebbe consentito al pubblico di immedesimarsi spontaneamente nell'eroe tragico, riscoprendo così l'unità del genere umano nella condizione precaria e caduca dell'esistenza. Ciò che porterà la tragedia alla decadenza sarà la sconfitta e la ritirata del dionisiaco: Gli imputati principali sono Euripide e Socrate, colpevoli di avere esasperato l'interpretazione razionale del mondo, sostenendone la comprensibilità ed un' ottimistica positività elementi che annullarono il dionisiaco di cui esso era l'antitesi per eccellenza e portarono alla decadenza della tragedia in Euripide. Al di fuori della metafora della società greca, Nietzsche propone come soluzione al crescente nichilismo e pessimismo dei suoi tempi l'accettazione senza remore e l'abbandono completo al flusso della vita. Essa è incomprensibile, è un continuo generare e distruggere, senza che l'uomo possa comprenderne il senso (mostrando così l'influenza di Anassimandro, Anassagora e soprattutto Eraclito). La concezione deterministica dell' universo e consequenzialmente della vita per Nietzsche è fallace: la vita non è un meccanismo, una rigida sequenza di cause ed effetti che l'uomo può scomporre e ricomporre, anzi, ogni tentativo dell' uomo di "impadronirsene", ovvero di comprenderla, non può che fallire, dal momento che la vita non è sottoposta a un ordine razionale superiore. L' espressione che Nietzsche usa in questo senso è natura rerum, una natura delle cose

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che l' uomo può forse comprendere solo in parte, ma di cui certamente non si può appropriare per l' evidente trascendenza alla mente umana che la caratterizza. Quindi l'unico modo per reagire alla dolorosissima presa di coscienza che la vita non ha senso, né tantomeno uno scopo e una fine, è abbandonarsi in toto a essa, con un coraggioso "dire di sì". Storia del concetto: Il termine dionisiaco deriva dalla figura del dio greco Dioniso il quale impersonava, in età classica, il delirio mistico e l'ebbrezza, in particolare quella generata dal consumo di vino. In Nietzsche, tuttavia, il riferimento è a Dioniso come immagine mitologica dell'impulso vitale, della creatività, del desiderio colto nel suo aspetto più produttivo e pre-razionale. Friedrich Nietszche: la nascita della tragedia La Nascita della Tragedia dallo Spirito della Musica (Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, 1872) è la prima opera matura del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche. Concepito inizialmente come un testo di breve respiro, viene redatto e allargato su suggerimento di Richard Wagner all'epoca amico di Nietzsche e contiene già in nuce molti dei temi della filosofia matura del filosofo tedesco: la teorizzazione del Dionisiaco come forma di pessimismo antidecadente, la critica al razionalismo socratico, la ricerca di una palingenesi (rinascita) morale della società tedesca ed europea ricerca che sfocerà più avanti nella teorizzazione del Oltreuomo. Il testo, per la novità delle interpretazioni proposte, ricevette inizialmente forti critiche e Wilamowitz in persona si mosse per attaccare Nietzsche. Nonostante sia tra i suoi testi più letti e studiati, La Nascita della Tragedia sarà più tardi parzialmente ripudiato da Nietzsche, che esprimerà per esso un'autocritica in Ecce Homo. Struttura e Contenuti In parte già caratterizzata dall'esposizione asistematica tipica delle opere più mature, La Nascita della Tragedia esprime un percorso parallelo tra la storia della tragedia e quella della società greca un percorso di ascesa e decadenza che Nietzsche ascrive all'espressione di dinamiche comuni. Da questo primo parallelismo Nietzsche prende spunto per una riflessione sulla decadenza dello spirito europeo e sulla necessità di una palingenesi che si aspettava provenire da un rinato spirito dionisiaco della musica tedesca. Il testo inizia in medias res ponendo la questione dell'origine del pessimismo greco, qualora questo sia da interpretare necessariamente come un sintomo di decadenza o se non possa invece esistere una forma di pessimismo “nobile” e non decadente. Per giustificare questa tesi Nietzsche introduce il lettore alle forze opposte e simmetriche di Apollineo simbolo del Sogno, delle arti plastiche, della calma magnificenza delle divinità olimpiche e Dionisiaco simbolo invece dell'Ebbrezza, della musica, della frenesia orgiastica delle feste di Dioniso. In quest'ultimo Nietzsche identifica la ragione e l'origine del pessimismo greco e la sua natura non decadente: per Nietzsche Dionisiaco è anche “gettare lo sguardo nell'abisso”,

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confrontarsi con l'orrore dell'esistenza senza esserne piegati, accettandolo e secondo una formulazione successiva “dicendo sì alla vita”. Energie opposte e in opposizione dialettica nello spirito greco, Apollineo e Dionisiaco si trovano in equilibrio nella Tragedia attica a formare una suprema forma d'arte. Particolarmente innovativa nell'opera è l'interpretazione della dualità tra attore tragico e coro, considerate trasfigurazioni di Dioniso e dei suoi Satiri; se Dioniso, l'attore tragico, è calato nell'azione, il coro dei satiri funge per lo spettatore, che in esso si identifica, come un ‘’muro vivo’’ per ripararsi dall'orrore della scena. Se l'equilibrio tra Apollineo e Dionisiaco diede origine alla tragedia attica e la portò al suo massimo nella tragedia sofoclea, il progressivo perdere terreno del dionisiaco e l'emergere di una nuova forza il “socratico” la condusse alla decadenza. Una forza che, con il suo impeto razionalistico, si sostituiva al dionisiaco nel ruolo di “giustificare il mondo” all'uomo greco. L'ottimismo socratico della possibilità della conoscenza e della possibilità di arrivare a comprendere l'interezza dell'universo con la ragione si sostituì all'accettazione dell'incomprensibilità e dell'irrazionalità dell'esistenza umana che erano rappresentate dal Dionisiaco. Nell'introdurre la figura di Socrate nel discorso e collegandola a quella di Euripide simbolo della tragedia decadente il parallelo tra società greca e tragedia attica viene esplicitato, andando a dimostrare come lo spirito razionalistico socratico e con esso la nascita dell'uomo teoretico abbia minato l'equilibrio tra forze Apollinee e Dionisiache nella società greca una degenerazione che si è espressa anche nella trasformazione della tragedia dionisiaca nella tragedia euripidea. Questo eccesso razionalistico avrebbe portato ad una degenerazione della nostra società, della sua capacità creativa, del suo rapporto con la conoscenza (che Nietzsche definisce Alessandrino) e con la vita. Il testo si conclude con un'aspirazione ad una palingenesi dello spirito europeo tramite la rinascita dello spirito dionisiaco nella musica tedesca e in particolare quella wagneriana. Apollo Apollo (in latino Apollo, Apollĭnis, in Greco Απόλλων) è una divinità dell'antica religione greca, dio di tutte le arti, della medicina, della musica e della profezia il suo simbolo principale era il Sole; in seguito fu venerato anche nella religione romana. Era patrono della poesia, in quanto capo delle Muse, e veniva anche descritto come un provetto arciere in grado di infliggere, con la sua arma, terribili pestilenze ai popoli che lo contrariavano (una sua freccia scagliata con il suo arco portava pestilenze e malattie ad intere nazioni). In quanto protettore della città e del tempio di Delfi, Apollo era anche venerato come dio oracolare, capace di svelare, tramite la sacerdotessa chiamata Pizia, il futuro agli esseri umani. Per questo, era adorato nell'antichità come uno degli dèi più importanti del Dodekatheon. Nella tarda antichità greca Apollo venne anche identificato come dio del Sole, e in molti casi soppiantò Helios quale portatore di luce e auriga del cocchio solare. Un simile "passaggio di consegne" avvenne anche presso i Romani, in quanto, a partire dalla tarda età Repubblicana, Apollo divenne "alter ego" del Sol Invictus, una delle più

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importanti divinità romane. In ogni caso, almeno presso i Greci Apollo ed Helios rimasero entità separate e distinte, almeno nei testi letterari e mitologici dell'epoca. Come divinità greca, Apollo è figlio illegittimo di Zeus e di Leto (Latona per i Romani) e il fratello gemello di Artemide (per i Romani Diana), dea della caccia e più tardi assimilata, al pari del fratello, a Selene, divinità protettrice della Luna. Le origini del culto apollineo si perdono, come si sa, nella notte dei tempi. È comunque opinione comune e consolidata tra gli studiosi che il culto del dio sia relativamente recente e che, precedentemente ad Apollo, il santuario di Pito avesse una sua antichissima religione ctonia, legata al culto della Dea Madre. Lo stesso racconto mitico di Eschilo su Apollo che riceve il santuario da Gea, Febe e Temi, tenderebbe a confermarlo. Una recentissima teoria però, basata sulla decifrazione degli enigmatici e tanto discussi documenti greci di Glozel (Vichy, Francia), tende ad ampliare il quadro mitico-storico interessante l'oracolo e collega la nuova, non identificata divinità, alla vicenda cadmea di Europa e a quella dell'alfabeto portato dallo stesso Cadmo in Beozia in periodo premiceneo. Divinità semitica che di quell'alfabeto, di provenienza siro-palestinese, era l'assoluta detentrice. Il santuario ctonio di Pito era stato dunque occupato, in qualche modo, da una divinità non greca (yh: da cui il noto successivo grido di IE, per Apollo "IEIOS") la quale però, a sua volta, venne grecizzata, secondo quanto fa intendere il noto racconto erodoteo sulla cacciata dei Cadmei, ovvero dei semiti, da parte degli Argivi. Tuttavia la divinità inglobata nella sfera della cultura greca manteneva alcuni dei caratteri orientali della divinità, come ad esempio l'ineffabilità, la figura androgina, l'aspetto di dio cacciatore e inseguitore del lupo (da cui Apollo Liceo), le qualità di dio ambiguo o obliquo (Lossia) ma, per chi sapeva capirlo rettamente, salvatore e liberatore. Con la calata dei Dori (XII -XI secolo a.C.), una volta annientati i Micenei, il santuario, verisimilmente, subì l'umiliazione e la distruzione dei vincitori e solo verso il IX - VIII secolo a.C. fu riaperto e si risollevò, ma con un Lossia del tutto trasformato e in linea con la nuova religione. Il potentissimo dio androgino di origine semitica entrava così a far parte della sacra famiglia olimpica, sdoppiandosi in Apollo e Artemide e diventando figlio di Zeus e di Leto. Sempre secondo questa teoria, supportata da solide basi documentarie, la famosa E apud Delphos (la lettera alfabetica epsilon posta tra le colonne nell'ingresso del santuario apollineo) di cui ci parla lo storico Plutarco, la "E" che stava alla base dell'epifonema esprimente 'acuto dolore' (Esichio) dei fedeli, potrebbe fornire la prova che il nome di Apollo (mai sufficientemente compreso e spiegato dagli studiosi: Farnell, Kern, Hrozny, Nilsson, Cassola, ecc.) fosse derivato da un A/E -pollòn (il grido di dolore "ah!,eh!" esclamato più volte, così come testimoniano la letteratura greca tragica e paratragica). Dioniso Dionìso (in greco attico: Διόνυσος; in greco omerico: Διώνυσος; in greco eolico: Ζόννυσσος o Ζόννυσος; di-wo-nu-so, forma genitiva di-wo- nu-so-jo) è una divinità della religione greca. L'origine del nome Dioniso è suggerita dal genitivo Διός e da

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νῦσος, quindi il nysos di Zeus: il "giovane figlio di Zeus" Inizialmente fu un dio arcaico della vegetazione, in particolare legato alla linfa vitale che scorre nei vegetali, la linfa che si ritrae nel mondo ctonio durante i mesi invernali e che poi torna a scorrere vivida in quelli estivi, ed infatti gli erano cari tutti quei frutti ricchi di succo dolce, come l'uva, il melograno o il fico. Successivamente venne identificato in special modo come Dio del vino, dell'estasi e della liberazione dei sensi, quindi venne a rappresentare l'essenza del creato nel suo perenne e selvaggio fluire, lo spirito divino di una realtà smisurata, l'elemento primigenio del cosmo, l'irruzione spirituale della zoé greca, ossia l'esistenza intesa in senso assoluto, il frenetico flusso di vita che tutto pervade. Questo dio rappresenta in particolare lo stato di natura dell'uomo, la sua parte primordiale, animale, selvaggia, istintiva, che resta presente anche nell'uomo più civilizzato, come una parte originaria insopprimibile, che può emergere ed esplodere in maniera violenta se viene repressa, anziché compresa ed incanalata correttamente. Veniva identificato a Roma con il dio Bacco (simile a Dionisio pur non essendo la stessa cosa), con il Fufluns venerato dagli Etruschi e con la divinità italica Liber Pater, ed era soprannominato lysios, "colui che scioglie" l'uomo dai vincoli dell'identità personale per ricongiungerlo all'originarietà universale. Nei misteri eleusini veniva identificato con Iacco. Il Dioniso originario, legato alla vegetazione, rappresentava quell'energia naturale che, per effetto del calore e dell'umidità, portava i frutti delle piante alla piena maturità. Era dunque visto come una divinità benefica per gli uomini da cui dipendevano i doni che la natura stessa offriva tra questi: l'agiatezza, la cultura, l'ordine sociale e civile. Ma poiché questa energia tendeva a scomparire durante l'inverno, l'immaginazione degli antichi tendeva a concepire talvolta un Dioniso sofferente e perseguitato. In particolare Dioniso era legato soprattutto alla pianta della vite (quindi alla vendemmia e al vino) e all'edera (in particolare alcune specie di edera, contenenti sostanze psicotrope e che venivano lasciate macerare nel vino). Uno dei suoi attributi era infatti il sacro Tirso, un bastone con attorcigliati pampini ed edera; altro suo attributo è il kantharos, una coppa per bere caratterizzata da due alte anse che si estendono in altezza oltre l'orlo. L'edera, peraltro, ha una forma che può ricordare quella della vite, e a volte le veniva attribuito l'appellativo poetico di oinôps o oinōpós (“color del vino”) che indica appunto la sua appartenenza a Dioniso quale dio del vino. La corrispondenza fra le due piante è illustrata da Walter F. Otto in una pagina classica del suo Dioniso: ‘’L'edera fiorisce in autunno quando per la vite è tempo di vendemmia, e produce frutti in primavera. Tra la sua fioritura e l'epoca dei frutti sta il tempo dell'epifania dionisiaca nei mesi invernali. Così, in certo qual modo l'edera rende omaggio al dio delle inebrianti feste invernali, dopo che i suoi germogli si sono librati in alto, come se recassero una nuova primavera. Ma anche senza tale trasformazione essa è un ornamento dell'inverno. Mentre la vite dionisiaca necessita il più possibile della luce e del calore solare, l'edera dionisiaca ha un bisogno sorprendentemente limitato di luce e di calore, e fa germogliare la sua freschissima verzura anche all'ombra e al freddo. Nel bel mezzo dell'inverno, quando si celebrano strepitanti feste dionisiache, si stende baldanzosa con le sue foglie frastagliate sul terreno dei boschi o si

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arrampica sui tronchi quasi volesse, al pari delle Menadi, salutare il dio e circondarlo nella danza. La si è paragonata al serpente, e la natura fredda attribuita a entrambi si ritiene sia il motivo per cui essi appartengono a Dioniso. Effettivamente il movimento con cui l'edera striscia sul terreno o si avvolge agli alberi può ricordare i serpenti che le selvagge accompagnatrici di Dioniso intrecciano nei capelli o tengono fra le mani.’’ Dioniso viene spesso rappresentato nelle arti come vestito di pelle di leopardo, su di un carro di trionfo assieme alla sua compagna Arianna, solitamente si accompagna in gioiose processioni con bestie feroci, satiri e sileni. Il corteo che accompagnava il dio era detto tiaso. Le sue sacerdotesse erano le menadi, o baccanti, donne in preda alla frenesia estatica e invasate dal dio. Quale divinità della forza vitale, dell'impulso, dell'ebbrezza e dell'estasi divenne oggetto dell'analisi del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche che contrappose lo Spirito dionisiaco allo Spirito apollineo. Ditirambo Il ditirambo (in greco διθύραμβος) era, nell'antica Grecia, un canto corale in onore del dio Dioniso. Il termine διθύραμβος compare per la prima volta nel frammento 77 di Archiloco che lo indica come quel "canto a Dioniso" che viene intonato sotto l'ispirazione del vino. Nel VII secolo a.C. Arione di Metimna lo dispone secondo un preciso schema facendolo intonare da un coro. Laso di Ermione lo trasferisce da Corinto ad Atene facendolo entrare negli agoni in onore di Dioniso, dove sembrerebbe attestato che il primo vincitore fosse Ipodico di Calcide. A partire dal VI secolo a.C., tale componimento religioso fu quindi seguito da importanti poeti come Simonide, Pindaro e Bacchilide. Ha una rilevante importanza concettuale poiché è una "forma-lancio", se così la possiamo definire, che prepara a, o meglio genera, quelle che saranno la tragedia e la commedia. Infatti verrà eseguito in senso "scenico", ad Atene, per la prima volta ad opera di un poeta "girovago" greco, Tespi ; ma solo in seguito, quando cioè Eschilo (nell'età "Aurea"), lo adatterà maggiormente al teatro con dialogo e azione (aggiungendo "attori" e "scene") nascerà la tragedia greca vera e propria. Si trattava di una composizione poetica corale, dove poesia, musica e danza erano fusi insieme e tutti e tre indispensabili in ugual misura. Il ditirambo era una danza collettiva eseguita in circolo da cinquanta danzatori incoronati da ghirlande. Era una danza drammatica e rapida, nella quale il solista rappresentava lo stesso Dioniso, mentre i coreuti lo accompagnavano con lamentazioni e canti di giubilo. Il Ditirambo accompagnava anche i cortei (pompè) di cittadini mascherati che, in stato d'ebbrezza, inneggiavano a Dioniso suonando flauti e tamburi. Il ditirambo infatti era costituito da cori accompagnati dal suono di questi strumenti; un suono cupo, poco melodico, ma di profonda potenza, furente, che accompagnava alla perfezione il corteo barcollante di uomini mascherati: alcune feste a Dioniso infatti presupponevano il totale mascheramento, con pelli di animali e grandi falli; le Menadi, seguaci dirette del Dio, portavano il Tirso, un bastone con in cima o un ricciolo di vite o una pesante pigna. Aristotele, nella Poetica, afferma che

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esso diede origine alla tragedia. Secondo la tradizione il ditirambo venne inventato nella città di Corinto da Arione di Metimna (c. 625 - c. 585 a.C.), e da Corinto si diffuse in tutto il mondo greco insieme alla diffusione del culto di Dioniso. Il ditirambo attrasse poeti di valore come Pindaro, Simonide e Bacchilide, e dal VI secolo a.C. divenne oggetto di competizioni nell'ambito delle feste dedicate a Dioniso. Nella letteratura italiana il ditirambo è un componimento giocoso sul tema del vino e dell'allegrezza conviviale. Il più celebre componimento ditirambico italiano è il Bacco in Toscana di Francesco Redi. Friedrich Nietzsche utilizzò il ditirambo come strumento filosofico: gran parte della sue poesie ed anche alcune sue opere posseggono la forma metrica ditirambica, proprio in onore al dio (o filosofo, come lui lo chiama) Dioniso. Esemplare in tal senso è l'opera maggiore di Nietzsche, così parlò Zarathustra.

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SIGMUND FREUD: DAGLI STUDI SULL’ISTERIA ALLA PSICANALISI

La rivoluzione psicanalitica ha influenzato tutta la cultura del ‘900. Sigmund Freud nasce a Freiberg nel 1856. Si laurea in medicina e intraprende gli studi di anatomia del sistema nervoso. Nel 1882 abbandona la ricerca scientifica e intraprende la professione medica dedicandosi alla psichiatria. Nel 1885 si reca a Parigi dove Charcot studiava i fenomeni isterici. Nel 1889 si stabilisce a Nancy dove venivano praticati e studiati i procedimenti dell’ipnosi . Torna a Vienna dove, in seguito a ricerche sull’isteria con Breuer, scopre l’inconscio e fonda la teoria psicanalitica. Grazie al successo delle sue teorie nel 1910 nasce a Norimberga la Società internazionale di Psicanalisi, di cui Jung è il primo presidente. Nel 1933 i nazisti bruciano a Berlino le opere dell’ebreo Freud. Egli nel 1938 lascia Vienna e si reca a Londra dove muore nel 1939. La medicina ufficiale dell’ 800 non prendeva sul serio gli stati psiconevrotici (isterie) in cui non fossero rintracciabili lesioni organiche corrispondenti. Ma ai tempi di Freud l’isteria aveva attirato l’attenzione di un gruppo di medici. Charcot era giunto ad usare l’ipnosi come metodo terapeutico. Breuer utilizzava l’ipnosi come mezzo per richiamare alla memoria avvenimenti penosi dimenticati, avendo notato che il superamento delle amnesie circa fatti spiacevoli della propria vita consentiva una liquidazione delle cariche emotive connesse a quei fatti. Breuer e Freud mettono a punto il “metodo catartico”, consistente nel tentativo di provocare una scarica emotiva (abreazione) capace di liberare il malato dai suoi disturbi. Ponendosi il problema dell’eziologia, delle ragioni dell’isteria, Freud scopre che la causa delle psiconevrosi è da cercare in un conflitto tra forze psichiche inconsce, operanti al di là della sfera di consapevolezza del soggetto, i cui sintomi sono psicogeni, non derivanti da disturbi organici, ma dalla psiche. La scoperta dell’inconscio segna la nascita della psicanalisi, psicologia abissale o del profondo. Che cos’è la psicoanalisi? • La psicanalisi è una psicologia abissale o del profondo, che non studia i comportamenti osservabili, ma le motivazioni nascoste dell’agire umano. • Rientra nell’ambito delle cosiddette “scienze umane”, che si sviluppano nel corso del 1900. • È scienza dell’uomo, non del corpo. • Si afferma da un lato come terapia, dall’altro come critica della cultura e come codice per interpretare l’arte e il sapere. La psicanalisi, infatti, ha influito notevolmente sui più svariati campi della cultura novecentesca. • Rappresenta una vera e propria rivoluzione nel modo di concepire l’uomo, in quanto basata sulla scoperta dell’inconscio: l’io non è trasparente a se stesso perché la

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coscienza non esaurisce l’identità del soggetto. Freud afferma che la coscienza, ovvero quello che l’uomo sa, è solo la punta di un iceberg, la superficie di qualcosa di assolutamente più complesso. L’uomo è dominato dall’inconscio. Questa convinzione porta al crollo dell’umanesimo classico e fa annoverare Freud tra i “maestri del sospetto”. Nell’Introduzione alla psicanalisi, Freud accosta la scoperta dell’inconscio alle altre due grandi “rivoluzioni” che hanno sconvolto il mondo della scienza: la rivoluzione copernicana e la teoria di Darwin. La realtà dell’inconscio e i modi per accedere ad esso Prima di Freud si identificava la psiche con la coscienza. Per Freud invece la maggior parte della vita mentale si svolge fuori della coscienza e l’inconscio non è il limite inferiore del conscio, ma la realtà abissale primaria di cui il conscio è solo la manifestazione visibile. Freud divide l’inconscio in due zone: Il preconscio, il quale comprende l’insieme dei ricordi che, pur essendo momentaneamente inconsci, possono divenire consci. L’inconscio, che comprende gli elementi psichici stabilmente inconsci, mantenuti tali da una forza specifica, la rimozione, che può essere superata solo in virtù di tecniche apposite. Se l’inconscio coincide con il rimosso, per superare le resistenze che sbarrano l’accesso alla coscienza, Freud in un primo tempo pensò di usare l’ipnosi. Ma la scarsa efficacia lo indusse a elaborare un nuovo metodo: quello delle associazioni libere. Anziché forzare il malato, questo metodo mira a rilassarlo e consiste nel mettere il paziente in grado di abbandonarsi al corso dei propri pensieri, facendo si che tra le parole che pronuncia si instaurino delle associazioni collegate con il materiale rimosso che si vuole portare alla luce (che agisce come un campo gravitazionale verso cui sono attratti i pensieri del paziente). Questo metodo, pur aggirando più facilmente le rimozioni, presenta notevoli difficoltà, che solo lo sforzo solidale del paziente e dello psicoterapeuta sono in grado di superare. Tutto deve essere messo al servizio della cura, compreso il fenomeno del transfert o traslazione, il trasferimento sul medico di stati d’animo ambivalenti (di amore o odio) provati dal paziente durante l’infanzia nei confronti dei genitori. Il transfert, implicando una sorta di attaccamento amoroso verso il medico, può fungere da condizione preliminare per il successo dell’analisi. Scoperto l’inconscio Freud si propose di decodificarne i messaggi tramite lo studio delle sue manifestazioni privilegiate: i sogni, gli atti mancati e i sintomi nevrotici. Conscio, psiche preconscio Inconscio • Il conscio è la sfera della consapevolezza. • Il preconscio comprende l'insieme dei ricordi che, pur essendo momentaneamente inconsci, possono, in virtù di uno sforzo dell'attenzione, divenire consci.

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• Il rimosso o inconscio comprende quegli elementi psichici stabilmente inconsci che sono mantenuti tali da una forza specifica, la cosiddetta rimozione, che può venir superata solo in virtù di tecniche apposite. L’inconscio freudiano è: • incontrollabile: l’uomo è dominato da esso e la libertà è solo un’illusione. • inosservabile: la sua esistenza è un’ipotesi teorica. • inesplorabile: non può mai venire alla luce, ma lo si coglie solo attraverso delle tracce. • attivo: coincide con la libido, un’energia psico-fisica ed una pulsione di natura sessuale. La scomposizione psicanalitica della personalità Freud afferma che la psiche è un unità complessa costituita da un certo numero di sistemi, dotati di diverse funzioni e disposti in un certo ordine, come metaforici luoghi psichici. La prima topica psicologica (studio dei luoghi della psiche) distingue tre sistemi: il conscio, il preconscio e l’inconscio. La seconda topica (1920) distingue tre istanze: l’Es, l’Io e il Super-io. • L’Es (termine tedesco che indica il pronome neutro della terza persona singolare) è il polo pulsionale della personalità, la forza impersonale e caotica che Freud definisce come ”un calderone di impulsi ribollenti”. L’Es non conosce bene, male, moralità e obbedisce solo al principio del piacere. Esso esiste al di là delle forze spazio-temporali codificate da Kant e ignora le leggi della logica, soprattutto il principio di non-contraddizione. • Il Super-io è la coscienza morale, l’insieme delle proibizioni instillate all’uomo nei primi anni di vita e che lo accompagnano sempre anche in forma inconsapevole. Esso è il successore di genitori e educatori. • L’Io è la parte organizzata della personalità, che deve fare i conti con l’Es, il Super-io e il mondo esterno. Esso è l’istanza che deve equilibrare, tramite compromessi, pressioni in contrasto tra di loro. L’Io, dunque, non è affatto una soggettività conciliata e limpida, ma attraverso una serie di meccanismi di difesa e attraverso le strategie della sublimazione e della rimozione, deve esercitare il difficilissimo compito di mediare tra tendenze opposte e inconciliabili. N.B: La sublimazione consiste nel trasformare contenuti psichici inaccettabili, facendo loro assumere forme di contenuti più elevati e moralmente accettabili (ad esempio, secondo Freud, la passione per la musica). La rimozione consiste invece nell’eliminazione di certi contenuti psichici dalla coscienza. La seconda topica, molto adatta a dar ragione della fisionomia composita e conflittuale

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della psiche, obbedisce a esigenze e finalità diverse della prima. Bisogna però evitare di confondere le due topiche o di farne corrispondere i termini. I sogni, gli atti mancati e i sintomi nevrotici • Freud vede nei fenomeni onirici la via verso la conoscenza dell’inconscio nella vita psichica. Egli ritiene che i sogni siano “l’appagamento (camuffato), di un desiderio (rimosso)”. Freud distingue all’interno dei sogni un contenuto manifesto (la scena onirica vissuta dal soggetto) e un contenuto latente ( le tendenze che danno luogo alla scena onirica). I desideri non sono richiamati direttamente dai sogni perché sono inaccettabili dal soggetto e cadono sotto l’azione della censura. Il contenuto manifesto dei sogni è la forma elaborata e travestita dalla censura in cui si presentano i desideri latenti. Se ogni sogno è la realizzazione di un desiderio, l’interpretazione psicanalitica dei sogni consiste nel ripercorrere a ritroso il processo di traslazione del contenuto latente in quello manifesto, per cogliere i messaggi segreti dell’Es. (scritto: Psicopatologia della vita quotidiana) Freud prende in esame quei contrattempi della vita di tutti i giorni (lapsus) che prima di lui si attribuivano al caso. Poiché nella nostra mente nulla avviene in modo fortuito, ma ogni evento è il prodotto necessario di determinate cause, Freud scopre come anche tali fenomeni abbiano un significato preciso. Egli scorge in essi una manifestazione camuffata dell’inconscio, una sorta di compromesso tra l’intenzione cosciente del soggetto e pensieri inconsci che si agitano nella sua psiche. Secondo la psicanalisi, esso vale per qualsiasi incidente quotidiano (ad esempio, per Freud, noi tendiamo a dimenticare determinati nomi, o a smarrire determinati oggetti, per il fatto che ad essi sono associati sentimenti spiacevoli). • Per i sintomi nevrotici Freud sostiene che il sintomo, come il sogno manifesto, rappresenta il punto d’incontro fra tendenze rimosse forze della personalità che si oppongono all’ingresso di tali credenze nel sistema conscio. Freud scoprì presto che gli impulsi rimossi, alla base dei sintomi psiconevrotici, sono sempre di natura sessuale. La teoria della sessualità e il complesso edipico Prima di Freud la sessualità era identificata con la genitalità, con il congiungimento con un individuo di sesso opposto, ai fini della procreazione. Secondo questo schema la sessualità dovrebbe mancare nell’infanzia, subentrare intorno alla pubertà e la sua meta dovrebbe essere l’unione sessuale. Se tutto ciò fosse vero, resterebbero inspiegate tutte le tendenze psicosessuali differenti dal coito: la sessualità infantile, la sublimazione e le perversioni.

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Freud fu condotto ad ampliare il concetto di sessualità, sino a vedervi un energia suscettibile di dirigersi verso diverse mete e in grado di investire gli oggetti più disparati: la libido. Freud immaginò la libido come un flusso migratorio localizzato di volta in volta, in corrispondenza dello sviluppo fisico, su alcune parti del corpo, dette zone erogene . Contemporaneamente Freud elaborò la dottrina della sessualità infantile. Freud giunse a definire il piccolo uomo come un essere perverso polimorfo, come un individuo capace di perseguire il piacere indipendentemente da scopi riproduttivi (perversione) e mediante i vari organi corporei (polimorfismo). Freud sostiene che lo sviluppo psicosessuale del soggetto avviene attraverso tre fasi, caratterizzate da specifiche zone erogene: fase orale, anale e genitale: 1) La fase orale (caratterizza i primi mesi di vita e dura sino a un anno e mezzo) ha come zona erogena la bocca ed è connesso alla principale attività del bambino: il poppare. 2) La fase anale (va da un anno e mezzo a tre anni) ha come zona erogena l’ano ed è collegata alle funzioni escrementizie, per il bambino oggetto di interesse e piacere. 3) La fase genitale (inizia alla fine del terzo anno) ha come fattore erogeno la zona genitale. Si articola in due sotto-fasi: quella fallica e quella genitale. La fase fallicaè così chiamata perché la 1scoperta del pene è oggetto di attrazione sia per il bambino che per la bambina, che soffrono di un “complesso di castrazione” (il primo perché vive sotto la minaccia di una possibile evirazione, la seconda perché si sente evirata e prova l’invidia del pene); perché l’organo di eccitamento sessuale è il pene o il clitoride. La fase genitale va dal quarto o sesto anno sino alla pubertà ed è caratterizzata dall’organizzazione delle pulsioni sessuali sotto il primato delle zone genitali. Connessa alla sessualità infantile è la dottrina relativa al complesso di Edipo. Il complesso edipico consiste in un attaccamento libidico verso il genitore di sesso opposto e in un atteggiamento ambivalente verso il genitore dello stesso sesso. Tale complesso si sviluppa tra i tre e i cinque anni, durante la fase fallica, e a seconda della sua risoluzione determina la futura strutturazione della personalità. La religione e la civiltà Freud ritiene che le rappresentazioni religiose non siano risultati finali del pensiero, ma illusioni, appagamenti dei desideri più antichi e più forti dell’umanità; il segreto della loro forza è la potenza di questi desideri. Tali desideri sarebbero quelli tipicamente infantili di sentirsi protetti contro i pericoli della vita e la figura di Dio sarebbe la proiezione dei rapporti psichici ambivalenti con il padre terreno. Freud afferma che la civiltà implica un “costo” in termini libidici e di felicità, poiché è costretta a limitare un numero rilevante di desideri e di pulsioni, e a deviare l’energia libidica e la ricerca del piacere in prestazioni sociali e lavorative. La società, proseguendo l’opera paterna, da origine a un Super-io sociale incarnato in una serie

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di norme e di divieti. Ma Freud non è contro la civiltà, né vagheggia un umanità felice e buona da recuperarsi oltre le imposizioni sociali. L’antropologia dell’ultimo Freud, che presenta molti di contatto con Schopenhauer, vuol essere realistica e pessimistica. Contro coloro che pensano che l’uomo possa essere davvero felice, Freud ribatte che la sofferenza è componente strutturale della vita, poiché siamo costretti a patire nel corpo e nella psiche , a decadere e a morire. Contro coloro che ritengono che l’uomo sia una creatura gentile che vuol essere amata, ribatte che è una creatura con un forte quoziente di aggressività. La civiltà è un male minore di quello che sarebbe un umanità senza società, che potesse dar sfogo a tutti i suoi desideri. In una situazione del genere, non solo l’uomo non sarebbe felice, ma diventerebbe ancora più pericoloso per il prossimo. Il Super-io collettivo deve perciò soffocare le pulsioni dell’Es per permettere la reciproca armonia. Freud ha diviso le pulsioni in due specie, quelle che tendono a conservare e unire e sono erotiche ( Eros del Simposio platonico) o sessuali; e quelle che tendono a distruggere e uccidere, comprese nella denominazione di pulsioni aggressive o distruttive. Nella lotta tra Eros e Thanatos Freud ha visto condensata l’intera storia del genere umano. Il binomio Eros-Thanatos: Inizialmente Freud associa l’inconscio alla libido, un’energia di natura sessuale, ma negli suoi ultimi scritti divide le pulsioni che animano la psiche umana in due specie: • Eros: sono le pulsioni che tendono a conservare e unire. Sono pulsioni erotiche (nel senso dell'Eros del Simposio platonico) o genericamente sessuali. • Thanatos: sono le pulsioni che invece tendono a distruggere e a uccidere, e sono quindi aggressive o distruttive. Nella lotta tra Eros e Thanatos, due forze ugualmente primarie e originarie, Freud ha visto condensata l'intera storia del genere umano. L’uomo: Nella prospettiva freudiana l’uomo: • è diviso, frammentato e sempre in conflitto con se stesso. • è per sua natura egoista (pulsioni di vita) e aggressivo (pulsioni di morte). • non è libero di scegliere, ma è determinato dall’inconscio. • è inevitabilmente malato(in quanto vive nella società che soffoca i suoi bisogni naturali): il confine tra normalità e patologia è infatti sottilissimo e la guarigione definitiva è impossibile. La psicanalisi svolge dunque un “compito infinito” e il suo scopo è alleviare i danni. La concezione dell’uomo, secondo Freud, è quindi tendenzialmente pessimistica e rifacendosi a Schopenhauer, afferma che la sofferenza è una componente strutturale della vita, che ci costringe a patire nel corpo e nella psiche, a decadere e a morire.