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Leggi un capitolo del libro

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Leggi un capitolo del libro

© Erickson, 2012. Riproduzione vietata.

Il sostegno è un caos calmo

© Erickson, 2012. Riproduzione vietata.

Editing

Carmen Calovi

impaginazionE

Alessandro Stech

immaginE di copErtina

© Lorenzo Poli

copErtina

Giordano Pacenza

© 2012 Edizioni EricksonVia del Pioppeto 2438121 TRENTOTel. 0461 950690Fax 0461 [email protected]

StampaEsperia srl – Lavis (TN)

ISBN: 978-88-590-0024-2

© 2012, Carlo Scataglini, Il sostegno è un caos calmo, Erickson

Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo effettuata,

se non previa autorizzazione dell’Editore.

© Erickson, 2012. Riproduzione vietata.

Carlo Scataglini

Il sostegno è un caos calmo

E io non cambio mestiere

Erickson

© Erickson, 2012. Riproduzione vietata.

Carlo ScatagliniInsegnante specializzato di L’Aquila, è formatore sulle metodologie di recupero e sostegno. Per le Edizioni Erickson ha pubblicato numerosi libri di narrativa e testi e CD-ROM di didattica.

Gli episodi narrati in questo racconto sono ispirati a fatti che mi sono realmente accaduti. Ma i luoghi, le persone, i nomi degli insegnanti, dei genitori, dell’alunno e della scuola di cui racconto non sono quelli reali, sono frutto della mia fantasia. Gli avvenimenti, poi, sono stati mescolati tra loro e spostati nel tempo e nello spazio. Qualsiasi riferimento a persone reali è quindi puramente casuale.

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Io co’ te ciò litigato!

Pescara. Stazione di Pescara.

È in partenza il mio treno, destinazione Bologna. Non lo so nemmeno io perché ho deciso di partire il giorno stesso in cui mi è arrivata la lettera, praticamente subito. Senza cercare maggiori informazioni, senza provare almeno a stabilire un contatto con i genitori di Mario. Senza provare a procurarmi il numero di telefono di qualche parente per sapere come stanno veramente le cose. In macchina, di volata, da L’Aquila a Pescara. E ora in treno, il primo utile, fino a Bologna.

«Sto male mi vieni a trovare subbito firmato Mario Micozzi via Menotti 40 Bologna.» Rileggo la lettera telegrafica, scritta di suo pugno da Mario, cercando tra quelle poche parole qualcosa che mi possa convincere a scendere dal treno e a evitarmi un viaggio che potrebbe essere doloroso. Troppo.

Mario sta male. Non ho sue notizie da vent’anni, da quando ha finito la terza media. Anno scolastico 91/92. Scuola media «Ovidio» di Sulmona. Sezione F. Secondo banco nella fila di sinistra, sempre quello per tre anni, anzi quattro visto che ha frequentato per due volte la terza classe. E la mia sedia di insegnante di sostegno vicina alla sua. Attaccata alla sua e guai a chi osava spostarla! Sapevo solo che la sua famiglia si sarebbe trasferita in un’altra città subito dopo gli esami. Suo papà è un militare, colonnello mi sembra. Adesso sarà generale oppure sarà in pensione. Un generale in pensione, probabilmente.

Mario sta male. Di cosa si ammalano i ragazzi Down? Che domanda stupida, si ammalano di qualsiasi cosa. Come tutti gli altri

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ragazzi. Poi Mario non è più un ragazzo. Faccio i conti: ha trentasei anni.

Il treno si muove e appoggio il foglio sul tavolinetto davanti a me, di fianco all’agenda nera che mi porto sempre dietro. Mi viene spontaneo mettere foglio e agenda con i bordi paralleli tra loro, si-stemandoli con attenzione. Mario faceva così ogni giorno alle otto e mezza. Diario e astuccio rettangolare, libro e quaderno, penna rossa e penna nera: ogni cosa era disposta con una precisione maniacale. Tutto era simmetrico e sistemato con equilibrio sul suo spazio di pertinenza: il banco. E i pastelli avevano la punta tutti della stessa lunghezza. Guai se uno era fuori misura. Subito Mario si alzava e andava a rifargli la punta col temperino. Non importava cosa stesse accadendo in quel momento, quale fosse la lezione o l’attività. Pote-vano mancare cinque minuti alla fine di una verifica scritta, giusto cinque minuti per terminarla perfettamente. Se c’era una punta da sistemare lui lasciava tutto, insensibile ai miei richiami, e andava al cestino della carta per farlo. Un training durissimo per me, che mi agitavo sempre. Poi tornava al posto e con quel colore perfetto riprendeva la verifica e la terminava in tre minuti. «N’avere paura, faccio a memoria!» concludeva sempre con queste parole per invitarmi ad avere più fiducia in lui e a lasciarlo fare.

Ancona. Stazione di Ancona.

Due ragazzi seduti di fronte a me ridono forte. Mi chiedo quale possa essere il motivo del loro viaggio e la ragione delle loro risate. Avranno più o meno sedici anni, l’età di Mario quando frequentava la terza media. Anche lui rideva spesso e aveva un carattere gioviale, amicone con tutti. Gli piaceva farmi degli scherzi e sapeva scegliere benissimo il momento giusto per farli: quando ero teso o in ansia per qualcosa. Come quella volta per le scale all’uscita dalla scuola. La sua classe era al terzo piano e io avevo avvistato il preside che stazionava sul pianerottolo al primo. Il dirigente scolastico era una persona estremamente severa e sgridava i ragazzi che, passandogli vicino, non lo salutavano con rispetto. Lo avvisai con molta decisione: «Senti Mario, per le scale c’è il preside. Mi raccomando, salutalo a voce alta dicendogli buongiorno». Scendendo le scale non staccavo

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gli occhi da Mario che procedeva con la sua andatura ciondolante, le mani ficcate fino in fondo alle tasche dei jeans e il suo enorme zaino appeso dietro le spalle. Non mi sfuggì la sua espressione furba e sorridente, tipica di quando progettava qualcosa per prendersi bo-nariamente gioco di me. Arrivato nelle vicinanze del preside, Mario si fermò, si voltò verso di me e mi chiese a voce alta: «Carlo, è lui?», anche se lo conosceva benissimo da almeno quattro anni. Rosso in faccia come un peperone gli feci cenno di sì e lui, con una specie di inchino, declamò: «Buongiorno, signor preside!». Tutti là intorno scoppiarono a ridere, preside compreso, e io incassai la figuraccia associandomi imbarazzato a quella risata.

Stessa cosa il giorno degli esami orali. Mario si sedette tran-quillo davanti a tutti i suoi insegnanti e al presidente esterno della commissione. Questi lo salutò e lo invitò a firmare nell’apposito spazio. Mario appoggiò la penna sulle labbra e assunse un’aria pen-sosa, quasi a volersi ricordare come si facesse a mettere una firma. E sì che lo faceva tre o quattro volte al giorno, era abituato a firmare tutti i suoi compiti, gli esercizi per casa, sempre. Migliaia di firme messe nei quattro anni in cui era stato uno studente della «Ovidio». Il presidente della commissione lo guardava perplesso, probabilmente si chiedeva se era giusto dare la licenza di scuola media a un ragazzo che non sapeva fare nemmeno la firma. Girandosi verso di me e con un sorriso beffardo Mario mi ripeté per l’ennesima volta la sua formula consueta: «N’avere paura. Faccio a memoria!» e poi firmò in maniera fluida e precisa nello spazio di fianco al suo nome: Mario Micozzi. Era il suo modo di giocare con me, di farmi preoccupare e poi tirare un sospiro di sollievo. Lo faceva spesso, probabilmente gli piaceva molto riuscire a farmela sempre.

Pesaro. Stazione di Pesaro.

Il treno si ferma per dieci minuti e io mi accodo alle persone che scendono per prendere al volo un caffè al chiosco mobile che staziona proprio davanti al binario. Vende anche i giornali, vedo una rivista scientifica per ragazzi e la compro subito. In copertina c’è una cellula, la porterò a Mario, chissà se si ricorda. Chissà se si ricorda di quell’interrogazione fantastica, senza dubbio la migliore di tutte.

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Aveva costruito un modellino tridimensionale di cellula e lo aveva appoggiato sulla cattedra davanti al professore di scienze. Nucleo, membrana, citoplasma. Mitocondri, ribosomi, apparato del Golgi. Di ogni cosa sapeva ricordare il nome e spiegare la funzione, con tutti i riferimenti giusti all’esempio classico della fabbrica. Gli avevano fatto un applauso, i compagni. Gli aveva assegnato un otto, il professore. E lui aveva alzato quella cellula tra le mani come fosse il trofeo della Champions League e preteso di portarsela a casa, in camera sua. Era la sua cellula e lui l’aveva capita e l’aveva saputa spiegare come i suoi compagni, probabilmente meglio di alcuni di loro.

Sfoglio la rivista mentre il treno riparte e ripenso a come Mario fosse orgoglioso di utilizzare gli stessi libri di testo dei compagni. Con gli aggiustamenti e le semplificazioni necessari, certo. Con le evidenziazioni, gli schemi e le immagini aggiuntive. Ma gli stessi libri degli altri. Una volta, quando era in prima media, gli proposi un sussidiario delle elementari per geografia. Mi sembrava che là l’Abruzzo fosse spiegato meglio, in maniera più semplice. «Non lo voglio! È dei piccoli!» mi disse spingendolo verso di me e tirando fuori dallo zaino il suo libro di testo delle medie. Mi chiedo se con Mario ho più insegnato o imparato. Ci penso, ma non lo so dire.

Rimini. Stazione di Rimini.

Non manca molto, riprendo in mano la lettera e la inserisco tra le pagine della rivista. Non è l’unica lettera che mi ha scritto, la prima però da quando ha finito la scuola. Più che lettere erano stati biglietti, tanti biglietti. Lui teneva per il Milan e me ne scriveva uno canzonatorio per ogni sconfitta dell’Inter, cosa che in quegli anni non capitava certo di rado. Non ce li ho più, non so dove siano finiti, magari conservati in qualche libro già letto che riaprirò per caso tra altri venti anni. Sarà bello ritrovarli e rileggerli.

Ripenso all’ora di ginnastica, le prime ore di ginnastica della prima media. Mario che giocava a pallavolo e non voleva lasciare il campo quando finiva il turno della sua squadra e ne doveva entrare un’altra. «Io non esco. Gioco!» ringhiava sedendosi sul linoleum della palestra a gambe incrociate, piantato al centro del campo. Non accettava la turnazione, non la capiva probabilmente, non ci era

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abituato. Io non ho saputo spiegargliela e una volta l’ho sgridato. Il suo sguardo infuocato mi ha accompagnato tutta la mattina e il suo continuo dondolio sulla sedia, nelle ore successive, manifestava il nervosismo che provava dentro. Pensavo che fosse giusto così: anche la frustrazione fa parte della vita. Che gli facesse bene provarla. All’una e mezza, poi, mentre cercavo nelle tasche del mio giubbotto le chiavi della macchina, ho trovato un foglietto arrotolato.

«Io co’ te ciò litigato!» c’era scritto. «Io con te voglio fare pace» era scritto su quello che gli consegnai

la mattina dopo. Dopo averlo rigirato per un po’ tra le mani mi disse: «N’avere

paura. Ti perdono». Col tempo, poi, Mario riuscì ad accettare il principio che a pallavolo si gioca a turno e che tutti hanno il diritto di giocarci. Era solo questione di tempo, forse, tanto che lo capì da solo e lo accettò senza troppa fatica.

Bologna. Stazione di Bologna.

Scendo dal treno e mi infilo in un taxi. Via Menotti 40. Mi fermo davanti al portone d’ingresso e leggo sul citofono il cognome che mi interessa: Micozzi. Non voglio suonare, però. Non saprei cosa rispondere alla domanda «Chi è?». «Sono il professor Carlo, vi ricorda-te di me?» mi sembra troppo ridicolo. Una signora con le buste della spesa si avvicina, apre e entra. Io la seguo. Salgo fino al terzo piano dove finalmente leggo sul campanello che là abita Mario con la sua famiglia. Suono. La porta si apre e mi trovo davanti un ragazzone di trentasei anni con un filo di barba sulle guance. È lui! Spalanca occhi e bocca, mi riconosce subito. «Carlo, il professore!» urla mentre mi abbraccia. «Mario, come stai?» chiedo io preoccupato. Si stacca da me, mi guarda da capo a piedi per registrare sul mio corpo tutte le variazioni che i venti anni di più mi hanno regalato. «N’avere paura. È passata influenza» mi dice poi mentre mi fa entrare dentro casa.

Seduto in cucina parlo con sua madre davanti a un caffè. Mi racconta degli spostamenti da una città all’altra per seguire il lavoro del marito, degli anni delle superiori di Mario, dei tanti compagni e professori che gli hanno voluto bene. Come si fa a non volere bene a Mario?

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Lui, dopo essere sparito per un po’, torna e poggia sul tavolo una pila di quaderni. «Aspetta!» mi dice e sparisce di nuovo. Torna dopo un attimo con il modello tridimensionale della cellula. Una meraviglia, ancora più bello di come me lo ricordavo. Prende a sfogliare di fianco a me i suoi quaderni delle medie. Prima scienze, poi antologia e poi storia e geografia. Quattro anni di fatiche e soddisfazioni. Tutte le pagine sono ordinate e precise, com’era ordinato e preciso lui. Ogni pagina con la sua firma. Gli chiedo se ricorda lo scherzetto della firma agli esami e lui non mi risponde ma sorride con quel sorriso furbo che non ho mai dimenticato. Da un astuccio, poi, tira fuori un mucchio di bigliettini e me li porge. «Sei ancora interista?» mi chiede e io scopro in quel momento che tutti i suoi messaggi di scherno per le sconfitte della mia squadra, alla fine, li aveva conservati lui. Gli dico che sì, lo sono ancora, nonostante tutto.

Mi dice di seguirlo in camera sua e mi mostra il maxi televisore superpiatto, il computer acceso sul suo profilo di Facebook, i libri su una mensola. Ci sono molti dei libri di testo che usavamo alla «Ovidio». Restiamo là più di un’ora e lui risponde alle mie domande. «Che fai?», «Come ti trovi a Bologna?», «Ce li hai gli amici?», «Ci vai allo stadio?». Ogni tanto guardo l’orologio e controllo quanto tempo ho prima di iniziare a preoccuparmi per l’orario di ritorno. Ho sempre paura di perdere un treno, per me è una delle sciagure massime. Anche se dopo ne partono altri, molti altri. Anche lui mi fa un sacco di domande. Prima mi chiede del terremoto e della mia casa. Vuole che gli racconti, per sapere se quello che è successo è stato veramente terribile come nelle immagini che ha visto alla televisione. Poi passa a domande legate alla sua scuola media. «Hai visto la Marchini?», cioè la sua prof di italiano, «Hai visto il professore Franchi?», l’insegnante di ginnastica, «E quella di inglese?», lei proprio non la sopportava e l’ha sempre chiamata «quella di inglese». No, non ho visto più da tanto nessuno di loro, non so dargli notizie. Mi guarda meravigliato, forse pensando a come sia strano il fatto che dei professori di una stessa classe, che lavorano insieme per quattro anni, possano perdersi di vista così, completamente. Oppure non pensa proprio nulla. È solo che i suoi prof erano per lui come un blocco unico, quasi un gigantesco monolito impossibile da separare. La sua delusione dura pochissimo, però. Si accontenta di avere me là nella sua stanza. Mi mostra l’elenco dei suoi amici su Facebook, poi la

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sua raccolta di canzoni MP3 al computer. Il suo cantante preferito è sempre Antonello Venditti.

Si è fatto tardi, almeno secondo il mio metro di giudizio. Devo andare e avvicinarmi alla stazione. Ci abbracciamo ancora, saluto sua madre. Come sempre si fa in questi casi, ci promettiamo che ci vedremo spesso. Verranno loro a trovarmi e tornerò io a trovarli. Prestissimo.

Mi sento contento, sollevato. Mario sta bene. In fondo è stato un altro dei suoi scherzetti, ma non mi sfiora il pensiero di aver sbagliato a fare questo viaggio.

Per strada guardo di nuovo l’orologio e mi rendo conto che ho tutto il tempo per andare a piedi alla stazione. C’è il sole e ho me-morizzato la strada venendo in taxi. È vicino e non posso sbagliare. Solo una controllatina al biglietto del treno nella tasca della giacca. C’è un foglio ripiegato che non è mio. Sorrido mentre lo apro perché sono sicuro che Mario me l’ha fatta ancora.

Non l’ha scritto lui, è di sua madre. Mi fermo al centro del marciapiede e lo leggo d’un fiato.

«Caro prof, il problema di Mario non è certo l’influenza. È la noia. Questa è la sua malattia ed è più grave di quanto si possa immaginare. È come se la sua vita si fosse fermata alla fine della sua esperienza scolastica. Finite le superiori non c’è stato più niente di significativo per lui. A scuola ha vissuto momenti buoni e altri meno buoni, ma ha sempre trovato la porta aperta la mattina e altri ragazzi con cui condividere le sue giornate. Dopo, di porte aperte non ne abbiamo più trovate. Abbiamo vissuto in diverse città ma è stata sempre la stessa cosa. Non c’era mai niente per lui. Mai un lavoro, mai un’attività integrata da poter svolgere con altri ragazzi. Adesso, a Bologna, la situazione è un po’ diversa. Ci sono centri diurni e cooperative, ma lui non vuole più andarci. Dopo anni passati in casa davanti al televisore e al computer si è abituato alla noia, alla solitudine. Mi domando se sia giusto che la scuola faccia tanti sforzi per risultare realmente inclusiva per i ragazzi disabili, se poi gli stessi ragazzi sono costretti a vivere in una società che inclusiva non lo è per niente. Dopo la scuola, caro professore, non c’è nulla per i ragazzi come Mario. E questo mi fa rabbia. E questo è veramente un motivo per cui varrebbe la pena di lottare. Non lo crede pure lei?»

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Riprendo a camminare con il biglietto in mano. Mi sento come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco e penso che sì, questo è veramente un motivo per cui vale la pena di lottare. E farlo sul serio.

Mi siedo a un tavolino del primo bar che incontro e ordino l’ennesimo caffè della giornata.

Sicuramente ci sarà un altro treno, più tardi.

Indice

Premessa 9Bella, professo’! 13Il sostegno è un caos calmo 15Paura di affogare in un bicchiere mezzo vuoto 21Imparare con lentezza 29Sbagliando s’insegna 35Aula di sostegno 51È facile facilitare 55Interviste immaginate (e, come se non bastasse, senza risposte) 59Forza di gravità 65Fuga per la materia 71Resistere e innovare 77Io co’ te ciò litigato! 83Fare sostegno: il rugby, la scuola, le formiche 91Il sostegno è un caos calmo. E io non cambio mestiere 101La scuola si fa da me – racconto 105

Il capitolo corrisponde alle pp. 83-90 del volume.

Per maggiori informazioni vai su

www.erickson.it

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