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Pagina 1 di 12 L’educazione: verità della persona S. Ecc. Mons. Luigi Negri Perugia, 19 dicembre 2007 Ringrazio moltissimo Sua Eccellenza monsi- gnor Chiaretti, arcivescovo di Perugia, vicepre- sidente della Cei, grande amico da tanti anni. L’educazione non è un problema di competen- ze psicopedagogiche o di tecnologia, ma è un problema della verità della persona, perché si educa se si è. Nemo dat quod non habet, dicevano i latini, che in questo erano fortemente realisti. Come introduzione vorrei condividere con voi una sensazione che è per certi aspetti sgomen- tante e per certi altri aspetti si è rivelata in que- sti ultimi anni stimolante. Quando io studiavo filosofia all’Università Cattolica una frase, attri- buita a Platone anche se non si è certi che sia stata scritta da lui, mi colpì: diceva che la filoso- fia, cioè la ricerca del senso, impegnava in una grande battaglia di giganti attorno al senso delle cose, fra l’essere e il nulla. Noi stiamo parlando dell’educazione. L’educazione c’è o non c’è. Siamo stati costretti dall’incalzare degli avveni- menti culturali degli ultimi vent’anni a renderci conto che il problema è l’esistenza o la non esi- stenza di quello di cui parliamo. Se noi discutes- simo della famiglia, della paternità, della mater- nità, dei grandi impegni e delle grandi respon- sabilità etiche che seguono una concezione del- la vita, ci sarebbe questa analogia: non ci trove- remmo di fronte a due concezioni dell’educazione, ci troveremmo di fronte a chi dice l’educazione è impossibile o è inutile o, come ha detto il laicismo moderno fin quasi ad oggi, l’educazione è dannosa e consiste nell’emancipazione e nel liberarsi dall’educazione. Questo da Rousseau in poi è stato il grande principio che ha retto tutta la pedagogia illuministica e idealista, centrata sul concetto di autoeducazione, che, propriamente parlando, concettualmente è una contraddizio- ne. Siamo all’aut aut fra l’uomo e la scomparsa dell’uomo. Quando Giovanni Paolo II con una intuizione culturalmente formidabile nell’Evangelium Vitae, ha parlato di una cultura della vita e di una cultura della morte che si contrappongono, ha indicato il livello a cui oggi le questioni devono essere comprese e ci impe- gnano. C’è l’esigenza di educazione laica, di vita familiare, di responsabilità morale, di oblazione che si compie come paternità e come maternità. Allora l’esperienza cristiana non è una possibili- tà, ma è la via lungo la quale ritrovare nella sua pienezza l’umano. Quindi non discutiamo di particolari e non discutiamo a livello di compe- tenze, ma discutiamo a livello dell’esserci o del non esserci di questa esperienza sostan- ziale dalla quale dipende la maturità della persona. Se un ragazzo ha ricevuto un’educazione è, esiste, se non ha ricevuto un’educazione, non ha fatto neanche i primi passi verso la maturazione della propria perso- nalità, è come se non esistesse, cioè ha una so- stanziale inconsistenza, che poi si esprime come irresponsabilità. Bernanos, un autore da me non molto frequen- tato, ma certamente un uomo di grande vitalità umana e cristiana, in uno dei suoi scritti politici pubblicato in Italia dalla casa editrice Borla scrisse questa frase: “La nostra generazione ha chiesto alla generazione precedente una ragione per vivere come tutta risposta ci hanno manda- to a morire a centinaia di migliaia sulla Marna”. La Marna è stata la terribile battaglia franco- tedesca dei primi sei mesi della prima, cosiddet- ta, guerra mondiale, che è stata una guerra arti- ficiosamente imposta all’Europa per dare un colpo di grazia alla tradizione cristiana della polis e sostituirla con una visione tecnologica- procedurale. La Marna ha ingurgitato nel corso di tre giorni mezzo milione di giovani francesi e tedeschi azzerando di colpo due generazioni. La migliore intellighenzia laica e cattolica della Fran- cia e della Germania è morta in quella battaglia. Penso di rievocare per i sacerdoti che hanno fatto studi teologici il gesuita Pierre Rousselot che morì nella battaglia della Marna a ventiquat- tro anni e aveva scritto un volume di cento pa- gine Sotto gli occhi degli increduli, che rappresenta

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L’educazione: verità della persona S. Ecc. Mons. Luigi Negri Perugia, 19 dicembre 2007

Ringrazio moltissimo Sua Eccellenza monsi-gnor Chiaretti, arcivescovo di Perugia, vicepre-sidente della Cei, grande amico da tanti anni. L’educazione non è un problema di competen-ze psicopedagogiche o di tecnologia, ma è un problema della verità della persona, perché si educa se si è. Nemo dat quod non habet, dicevano i latini, che in questo erano fortemente realisti. Come introduzione vorrei condividere con voi una sensazione che è per certi aspetti sgomen-tante e per certi altri aspetti si è rivelata in que-sti ultimi anni stimolante. Quando io studiavo filosofia all’Università Cattolica una frase, attri-buita a Platone anche se non si è certi che sia stata scritta da lui, mi colpì: diceva che la filoso-fia, cioè la ricerca del senso, impegnava in una grande battaglia di giganti attorno al senso delle cose, fra l’essere e il nulla. Noi stiamo parlando dell’educazione. L’educazione c’è o non c’è. Siamo stati costretti dall’incalzare degli avveni-menti culturali degli ultimi vent’anni a renderci conto che il problema è l’esistenza o la non esi-stenza di quello di cui parliamo. Se noi discutes-simo della famiglia, della paternità, della mater-nità, dei grandi impegni e delle grandi respon-sabilità etiche che seguono una concezione del-la vita, ci sarebbe questa analogia: non ci trove-remmo di fronte a due concezioni dell’educazione, ci troveremmo di fronte a chi dice l’educazione è impossibile o è inutile o, come ha detto il laicismo moderno fin quasi ad oggi, l’educazione è dannosa e consiste nell’emancipazione e nel liberarsi dall’educazione. Questo da Rousseau in poi è stato il grande principio che ha retto tutta la pedagogia illuministica e idealista, centrata sul concetto di autoeducazione, che, propriamente parlando, concettualmente è una contraddizio-ne. Siamo all’aut aut fra l’uomo e la scomparsa dell’uomo. Quando Giovanni Paolo II con una intuizione culturalmente formidabile nell’Evangelium Vitae, ha parlato di una cultura della vita e di una cultura della morte che si

contrappongono, ha indicato il livello a cui oggi le questioni devono essere comprese e ci impe-gnano. C’è l’esigenza di educazione laica, di vita familiare, di responsabilità morale, di oblazione che si compie come paternità e come maternità. Allora l’esperienza cristiana non è una possibili-tà, ma è la via lungo la quale ritrovare nella sua pienezza l’umano. Quindi non discutiamo di particolari e non discutiamo a livello di compe-tenze, ma discutiamo a livello dell’esserci o del non esserci di questa esperienza sostan-ziale dalla quale dipende la maturità della persona. Se un ragazzo ha ricevuto un’educazione è, esiste, se non ha ricevuto un’educazione, non ha fatto neanche i primi passi verso la maturazione della propria perso-nalità, è come se non esistesse, cioè ha una so-stanziale inconsistenza, che poi si esprime come irresponsabilità. Bernanos, un autore da me non molto frequen-tato, ma certamente un uomo di grande vitalità umana e cristiana, in uno dei suoi scritti politici pubblicato in Italia dalla casa editrice Borla scrisse questa frase: “La nostra generazione ha chiesto alla generazione precedente una ragione per vivere come tutta risposta ci hanno manda-to a morire a centinaia di migliaia sulla Marna”. La Marna è stata la terribile battaglia franco-tedesca dei primi sei mesi della prima, cosiddet-ta, guerra mondiale, che è stata una guerra arti-ficiosamente imposta all’Europa per dare un colpo di grazia alla tradizione cristiana della polis e sostituirla con una visione tecnologica-procedurale. La Marna ha ingurgitato nel corso di tre giorni mezzo milione di giovani francesi e tedeschi azzerando di colpo due generazioni. La migliore intellighenzia laica e cattolica della Fran-cia e della Germania è morta in quella battaglia. Penso di rievocare per i sacerdoti che hanno fatto studi teologici il gesuita Pierre Rousselot che morì nella battaglia della Marna a ventiquat-tro anni e aveva scritto un volume di cento pa-gine Sotto gli occhi degli increduli, che rappresenta

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una svolta per la teologia fondamentale. Se non fosse morto sulla Marna la svolta della teologia cattolica dell’ultimo secolo sarebbe stata diversa e forse non ci sarebbero state tutte le tensioni e le contestazioni postconciliari. Oggi per chi chiede ragioni per vivere non c’è la Marna, ma ci sono le stragi del venerdì e del sabato sera. C’è quello spazio libero, accanto alla società, to-talmente ludico, in cui si cerca di divertirsi il più possibile. In Iraq fino ad ora sono morti quat-tromila soldati americani, in un anno muoiono quattromila giovani italiani nelle stragi del saba-to. In dieci anni si raggiungeranno i quarantami-la morti nelle stragi, quarantamila sono i morti della grande disfatta di Caporetto che ha segna-to le sorti della prima guerra mondiale. Sto di-cendo che anche oggi la generazione giovane chiede delle ragioni per vivere. Purtroppo c’è un vuoto, c’è una impossibilità alla comunica-zione. Galli Della Loggia in uno straordinario editoriale pubblicato sul Corriere della Sera diede alla crisi dell’educazione e all’emergenza nazio-nale educativa questo titolo significativo: “L’addio dei padri”i, riferendo eventi della no-stra scuola statale italiana che sono stati per me faticosi da leggere e da riferire e succedono nei dieci minuti di intervallo, mentre i professori si serrano nelle sale insegnanti. Nella scuola italia-na, in un piccolo centro vicino a Milano, un ra-gazzo è morto per uno spinello durante l’intervallo. Siamo impegnati in un confronto tra l’essere e il nulla, siamo impegnati in una si-tuazione in cui le generazioni non s’incontrano. In questo modo si smaglia la società nel punto più radicale: il momento in cui alla nascita fisica segue l’impegno educativo. Per questo la Dot-trina Sociale della Chiesa ha sempre coerente-mente affermato che il vertice dell’umanità, del-la femminilità e della mascolinità, è la paternità e la maternità, ma il vertice della paternità e del-la maternità è la paternità e la maternità educa-tiva. L’educazione non è un problema di aggiornamento culturale e didattico. Il pro-blema è che un settore della nostra società vive una posizione antropologica e culturale che ne-ga l’educazione. Un altro punto statisticamente minoritario dal punto di vista culturale, ma mol-to più ampio dal punto di vista sostanziale, è

quello che Benedetto XVI a Verona ha chiama-to la cultura del popolo italiano fortemente ra-dicata nella fede. Quindi si tratta di un fatto an-cora presente, anche se deve essere portato alla dignità della cultura, perché solo così diventa un elemento di comunicazione intraecclesiale, intrafamiliare, e soprattutto di comunicazione fra la famiglia, la Chiesa, e l’intera società. Ho detto questo perché non avrei mai creduto che Platone descrivesse la situazione dei nostri tempi, ma il genio filosofico ha un enorme ca-pacità profetica. Infatti Benedetto XVI a Re-gensburg ha indicato nel domandare greco, nel profetismo biblico e nella rivelazione cristiana, i tre fattori che hanno fatto nascere la cultura oc-cidentale come la più alta cultura, la cultura più umana. L’educazione è scomparsa, non è più un fatto interessante, se mai è un fatto di competenze, di tecniche, di strumenti. Quindi il problema dell’educazione è un aspetto aggiunto, quando non è totalmente occupato dal tema istruttivo. L’educazione è resistita al massimo in questi decenni come istruzione, ed è stata ampiamente delegata dalla famiglia, dalla società e forse qualche volta anche dalla Chiesa alla struttura scolastica. Perché l’educazione finisce? L’educazione finisce se l’elemento deter-minante è l’elemento del potere. La cultura moderna e contemporanea è la cultura del pote-re, non del potere politico, ma del potere come caratteristica fondamentale dell’individuo. L’individuo ha un solo problema: realizzare pienamente il suo potere, cioè l’insieme delle capacità intellettuali, conoscitive, tecno-scientifiche, socio-politiche. L’individuo non ha il problema di sapere chi è, ma di realizzare in pieno il suo potere sulla realtà. Quindi la perso-nalità è tale se la soggettività è capace di ridurre a sé tutta la oggettività. Questo grande dogma idealista è diventato il sentimento comune degli ultimi cento anni della cultura ufficiale nell’Europa occidentale ed orientale con colo-razioni ideologiche diverse. L’uomo è potere. Il problema dell’uomo è che sia messo il più rapi-damente in grado di realizzare la propria vita come potere, come capacità di conoscenza, di

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organizzazione scientifica della conoscenza, di manipolazione tecnologica di ciò che conosce secondo tutti gli aspetti della sua vita da quelli fisico-materiali, a quelli psicologici, a quelli af-fettivi, a quelli etici, a quelli socio-politici. La società si realizza perché l’uomo realizza in essa il suo potere come capacità di conoscenza e di manipolazione. La scienza moderna dà in mano all’uomo mo-derno uno strumento conoscitivo assolutamen-te indiscutibile. Ciò che la scienza ha dimostrato come assolutamente valido non può soffrire nessuna obiezione. Questo è un impoverimento della ragione, come dice Benedetto XVI, è un impoverimento della scienza, ma è così. La scienza, così come se ne parla ancor oggi nei mezzi della comunicazione sociale, scuola com-presa, è la conoscenza tout court. Ciò che ha det-to lo scienziato alla televisione è vero, ancora più vero di un dogma della Chiesa Cattolica. Quindi educazione significa che questo indivi-duo si mette rapidamente in grado di esercitare il suo potere. Nessuno può sostituirsi a lui. Anzi semmai occorrerà renderlo critico che ci sono delle forze che minano e sono ostili a questa au-toemancipazione, autoeducazione. L’illuminismo, come dice Spe Salvi, ha indicato bene quali sono le forze che ostacolano l’emancipazione dell’individuo: la religione, la famiglia, la società. Allora demoliamo la religio-ne, riduciamo il peso della famiglia, che esiste, ma deve essere ridotta nelle sue pretese. La po-litica familiare nell’Ottocento e nel Novecento degli stati totalitari e democratici è rivolta a co-stringere la famiglia a stare dentro i suoi ambiti, cioè la nascita dei figli, anche se oggi l’inseminazione artificiale è un tentativo di mo-dificare la procedura della vita a vantaggio di chi detiene un certo potere. Il fascismo non po-teva far nascere i fascisti, ma poteva rendere fa-scisti i bambini. Io sono stato figlio della lupa senza nessuna scelta mia, né dei miei genitori. Per fortuna il fascismo è caduto prima che rag-giungessi i cinque anni. Il cardinale Biffi scrive nel suo straordinario libro Memorie e digressioni di un italiano cardinale che lui non solo è stato figlio della lupa, ma anche balilla, quindi è dovuto andare alle manifestazioni paramilitari, a cui si

sottraeva spesso perché la mamma gli firmava la giustificazione. L’aggregazione era statuale, non era libera. Biffi non andava alle adunate dei balilla per andare all’oratorio. Nelle adunate pa-ramilitari il piccolo Giacomo Biffi ha dovuto fare il giuramento che diceva: “Giuro una fedel-tà assoluta al duce del fascismo e di mettere in-teramente la mia persona e financo la mia vita per la difesa della rivoluzione fascista”. Con il suo solito humour Biffi commenta dicendo che l’oscuro burocrate fascista che costringeva dei ragazzi di cinque, sei anni a fare questo giura-mento merita il premio di cretino cosmico. La famiglia deve essere contenuta, perché è lo sta-to che mette in grado l’individuo di esercitare il suo potere senza pressioni religiose e familiari, ma non senza pressioni della società. La menta-lità moderna non nega la società, la ripensa, perché ideologicamente abbatte Dio, abbatte la famiglia, ma non abbatte lo stato. Anzi lo stato assume un valore e un peso che non aveva mai avuto prima: il valore di essere l’unica realtà o-biettivamente presente nella storia e capace di realizzare pienamente il potere dell’individuo e il potere dell’intera società. In un contesto così l’educazione è mettere in grado l’individuo di avere una certa conoscenza storica, letteraria, scientifica, di impadronirsi delle metodologie conoscitive quanto più sono sofisticate tanto più dando in mano ai ragazzi queste tecnologie cominciando dall’età più basse. L’educazione non è un fatto morale, è un fatto istruttivo che al limite potrebbe essere realizzato anche in senso puramente tecnologico. Vent’anni fa di-cevo ai convegni che spingendo il piede sull’acceleratore della competenza scientifico-tecnologica, la scuola sarebbe finita, perché la scuola come convivenza sta in piedi se è una convivenza morale e umana, se invece la scuola è un problema di competenze tecnologico-scientifiche nel giro di qualche anno tutta la grande strumentazione di carattere tecnologico sostituirà il rapporto fra insegnante e giovane. Il potere, inteso come caratteristica fondamentale dell’uomo e della società, fa sparire il termine educazione e nella migliore delle ipotesi lo con-sidera un aspetto della istruzione, che è la più oggettiva possibile, la più scientifica possibile

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nella quale non dovrebbero entrare opzioni di carattere ideologico, religioso e morale: la co-siddetta neutralità della scuola. Negli anni Ses-santa in Italia non per opera dei marxisti, ma a partire da una certa presenza laico-cristiana, si combatteva per rispettare la neutralità della scuola. La neutralità della scuola è un assurdo, perché in ogni tipo di rapporto umano l’uomo mette in gioco quello che è. Se non si accende un rapporto fra persone sui valori, non esiste possibilità di incontro. Noi portiamo sulle spal-le questo peso. La Bibbia dice: “I padri hanno mangiato l’uva acerba, i figli sono nati con i denti legati”. L’assenza di comunicazione av-viene perché ciò che accomuna i padri e i figli è il concetto di potere, è questo individualismo esasperato teso a raggiungere il massimo di be-nessere possibile. Oggi nel quarantennale della contestazione del Sessantotto i giovani, che non hanno alcun rapporto con gli adulti, cammina-no per imitarli il più rapidamente possibile nel parlare, nel vestirsi, nel divertirsi, nel concepire il lavoro, nel mettere il benessere come unico bene supremo. Il benessere posto come bene supremo impedisce il rapporto. La famiglia muore perché l’altro non è un altro come te. Dice Levinas: “Uno come me nel grande miste-ro delle cose”. L’altro è considerato un oggetto che dà benessere. Non è un oggetto fisico o materiale, ma umano. Fra i due non si stabilisce alcun rapporto di gratuità e di responsabilità. Quando l’altro ha finito la funzione di fornire un certo tipo di benessere, ci si lascia da buoni amici in questo modo americano di vivere che è la cifra dell’Occidente, dell’Oriente, dell’Europa, dell’America, dell’Asia. Negli ulti-mi interventi, dal 1946 alla sua morte, Pio XII, che aveva combattuto tutti i totalitarismi, parla durissimamente del modo americano di vivere. Pio XII ha indicato nel modo americano di vi-vere, cioè in questo edonismo tecnicistico e in questo benessere ad oltranza, la forma più per-vasiva, perché sembrava più pacifica, delle grandi ideologie che avevano già segnato la fine della civiltà occidentale. Noi dobbiamo uscire da questa situazione non attraverso la strada di un aggiornamento, non attraverso una strada

buonistica. Occorre un altro modo di concepire la vita. Siamo dentro una crisi epocale, perché è la crisi dell’uomo e della sua identità che va verso il nulla. C’è stata tutta una grande antici-pazione di questo disagio nichilistico, direbbe Benedetto XVI. Sarebbe bastato leggere certe profetiche pagine della letteratura dal Sessanta quasi ad oggi. Una delle più acute intelligenze cattoliche, monsignor Charles Moeller, pubbli-cò dei volumi sugli aspetti religiosi della lettera-tura contemporanea, affrontando dal punto di vista della fede tutta la letteratura, soprattutto la letteratura francese. Ricordo alcune pagine spet-tacolose su Camus. C’era già una profezia che si andava verso il nulla. C’è stato un segno che qualcosa dentro questa deriva nichilistica si op-poneva. La genialità culturale, umana e cristiana di Giovanni Paolo II è stata nell’aver individua-to nella crisi dell’antropologia moderna e con-temporanea che andava verso il nichilismo esi-stenziale un fattore di ripresa interno all’uomo. Non è vero che questa deriva dell’uomo, che dal potere va verso il suo annullamento, è inevi-tabile. I Padri del Concilio Ecumenico Vaticano II in una frase straordinaria della Gaudium et Spes ai numeri 22 e 23 avevano già insegnato a che cosa si sarebbe arrivati: “In una società senza Dio l’uomo diventa inevitabilmente parti-cella di materia, cittadino anonimo della città umana”. Voglio leggervi nel Magistero del Papa Giovanni Paolo II la frase in cui si avvertì qual era il punto da cui ripartire, non la discussione delle ideologie che erano già state bruciate nel formidabile discorso del 22 ottobre 1978, quando disse: “Io voglio parlare con l’uomo, non con le ideologie”. Infatti le ideologie non avendo un aggancio reale con l’uomo erano de-stinate a finire. La consapevolezza chiara, che le ideologie sarebbero finite, si legge ad apertura di libro nei suoi scritti anche quando era sem-plicemente il filosofo morale dell’università di Lublino o quando predicò gli esercizi a Paolo VI e alla curia romana pubblicati poi nello stra-ordinario volume Segno di contraddizione. In un discorso del 1980 ad un convegno intitolato Il dramma spirituale della nostra epoca, a cui ebbi l’onore di partecipare, il Papa, dopo aver fatto

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una disanima molto pertinente sulla crisi delle ideologie, dei sistemi conoscitivi e degli aspetti tecnoscientifici della società occidentale, disse: “E nonostante ciò, come non riconoscerlo con ammirazione, l’uomo resiste davanti a questi as-salti ripetuti, a questi fuochi incrociati dell’ateismo pragmatico, neopositivista, esisten-zialista, psicoanalitico, marxista, strutturalista, nietzscheano, l’invasione delle pratiche e la de-strutturazione delle dottrine non impediscono, ma al contrario fanno perfino sorgere al cuore stesso dei regimi ufficialmente atei, come in se-no alle società chiamate consumistiche, un in-negabile risveglio religioso”. Ecco la questione: l’uomo non può morire in qualsiasi condizione viva e a qualsiasi pressione sia sottoposto sul piano fisico, psicologico, politico, sociale. C’è in lui un aspetto di divinità, di eternità, di irriduci-bilità che è la domanda di senso. Allora indub-biamente l’educazione torna ad essere un pro-blema se l’uomo torna ad essere un problema per se stesso. L’educazione non è un problema per chi si concepisce come potere e concepisce gli altri come detentori dello stesso potere che ha lui e dentro quella contraddizione sociopoli-tica che Tommaso Hobbes aveva identificato in maniera impietosa nelle formule, poi diventate famose per la loro rozzezza e per la loro sem-plificazione, homo homini lupus e quant’altro. L’educazione torna ad essere un problema se io mi pongo il problema della verità, non del pote-re, se io vivo questa straordinaria capacità che l’uomo ha di entrare in rapporto con se stesso e contestualmente con il reale chiedendo il senso della propria vita e il senso della realtà. Solo l’uomo, chiedendo il senso della propria esi-stenza, chiede anche il senso della realtà e vice-versa, in quella circolarità persona-cosmo che costituisce la grandezza di ogni riflessione filo-sofica. Bisogna incominciare a vivere da uomi-ni. Bisogna sentire che la vita umana è ca-ratterizzata da una domanda di senso, che rimane al di sopra di tutte le illusioni e di tutte le delusioni. Nonostante tutto l’uomo di questo inizio del terzo millennio è un uomo che sente di nuovo quella inquietudine creativa, di cui ha parlato da par suo solo Agostino. L’uomo sente quella apertura al mistero, al sen-

so delle cose, quella nostalgia del vero, del bene, del bello, del giusto, per cui un uomo non è mai tranquillo, ma è sempre alle prese con qualcosa di più grande di sé, da cui misteriosamente si sente influito, anche se non riesce a dare una formulazione chiara di questo mistero. Quest’uomo che, quando è se stesso, è imme-diatamente oltre sé, come diceva Pascal, il più acuto apologeta del cattolicesimo di fronte all’inizio della deriva tecnoscientifica. Pascal che era un grande scienziato potè fare una vera apo-logetica del cristianesimo contro la deriva della scienza. Noi dobbiamo ripartire di qui. Un pa-dre quando parla a suo figlio deve chiedersi: “ Io chi sono?” Non “Cosa posso fare per lui?” Questa è una forma del modo americano di parlare. Magari non puoi fare niente per un al-tro, ma puoi comunicare che cosa rende vera la tua vita, se nella tua vita c’è una speranza di ve-rità, se c’è un briciolo di profetismo, che arriva a te attraverso la tradizione biblica, per cui non ti potrai mai piegare a nessun idolo, se in te par-la la certezza della fede che il mistero si è fatto carne ed abita in mezzo a noi. Bisogna avere a cuore il Mestiere di vivere. Solo noi citiamo Pavese a cinquant’anni dal suo trionfo che è stato an-che la sua fine. Vivere è un mestiere, non è un meccanismo. Vivere è un dramma, è il dramma della domanda di senso, della verità, dell’impegno gratuito con le persone che ti stanno accanto, è il superamento di quel razio-nalismo che, come ci ha insegnato Giovanni Paolo II, è nemico del mistero e intorbida tutto, dissacra il rapporto uomo-donna, rende con-sumistico il dono della vita, rende impossibile la dedizione all’altro nelle sue situazioni precarie come la malattia o l’handicap. “È un costo che la nostra società non può permettersi” disse Giorgio Bocca, il vate del laicismo italiano, do-po aver visitato quella straordinaria cattedrale della carità cristiana che è il Cottolengo di Tori-no, dove da secoli la carità cristiana è riuscita a dare senso anche alle esperienze più tragiche e più abbandonate dell’umanità. Certo una socie-tà razionalistica e consumistica non può pagare il costo di una dedizione che non ha nessun rientro di carattere economico o affettivo.

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L’inevitabile punto di partenza è l’uomo nel suo essere soggetto di cultura. Noi ringrazie-remo per secoli Giovanni Paolo II per quella definizione di cultura, che ha reso accessibile ad ogni uomo, quando all’Unesco il 1 luglio 1980 ha detto: “La cultura è il modo specifico di es-sere e di esistere dell’uomo”. L’uomo fa cultura perché è uomo. La cultura è cultura dell’essere non dell’avere. Poi la cultura diventerà anche una serie di contenuti che si possiedono, di strumenti che si adoperano, di conoscenze che si realizzano, di procedimenti che si attuano, ma nel suo aspetto fondamentale la cultura riguarda l’essere dell’uomo, il suo stare di fronte a se stesso, alla realtà e agli altri, che non costitui-scono degli oggetti, ma misteriosamente, citan-do Levinas: “Gente diversa da me ma come me nel grande mistero dell’essere”. Riecheggiamo anche quella intelligentissima definizione antro-pologica, che è fiorita nella coscienza di una personalità filosofica, peraltro gravemente compromessa nella deriva tecnoscientifica, Immanuel Kant che nella Critica della ragion prati-ca ha scritto: “Tratta sempre il mistero che è in te e nell’altro sempre come fine e mai come mezzo”, fornendo la ragione umana come fon-damento del rispetto. La crisi dell’educazione non è una crisi di fede, ma di ragione. La crisi della famiglia non è una crisi di fede. La crisi di fede aggraverà la crisi della ragione. L’uomo non educa, perché non è, cioè non usa adeguatamente la ragione, perché se la usasse adeguatamente si rendereb-be conto che la vita è una sfida dell’essere a me. Soltanto nella misura in cui vinco questa sfida per me posso coinvolgere in questo cammino verso la vittoria quelli che ho vicino, comin-ciando dai più vicini per arrivare senza soluzio-ne di continuità “fino agli estremi confini del mondo”. Se la verità è per me, è anche per tutti gli uomini. Credo che questa sia un’osservazione di enorme importanza, anche se può sembrare semplice fino alla banalità. Al-cuni anni fa ho tentato inutilmente in un dialo-go di più di un ora con l’allora Ministro della Pubblica Istruzione di far capire che prima di tutte le riforme bisognava attuare la riforma del costume degli italiani citando un autore cattoli-

co da sempre molto sentito anche dai laici, Gioberti. Prima di pensare una riforma di carat-tere tecnoscientifico, metodologico, contenuti-stico, bisognava riprendere in mano la questio-ne umana dell’italiano, perché il popolo italiano si forma sulla concezione ultima della vita, non sulle tecnologie. Il popolo italiano forse è stato più popolo quando era una serie di popoli che non quando è diventato un popolo o si è prete-so che diventasse un popolo, perché era diven-tato una nazione, che nasceva più da procedure tecnoscientifiche, economiche ed ideologiche che non da un’autentica esperienza di cultura popolare. Non sono riuscito a far capire che c’è un problema culturale ed etico alla radice dell’educazione, cioè il fare esperienza della umanità, della cura di se stesso, che non potrà essere contrabbandata da niente altro che giova all’uomo. “Che giova infatti all’uomo guadagna-re il mondo intero, se poi perde la propria ani-ma?” È la frase più cristiana e insieme più laica di tutto il Vangelo. Noi siamo la generazione che ha conquistato non il mondo, il cosmo. Noi abbiamo visto i nostri fratelli camminare per gli spazi infiniti dell’universo. Ricordo ancora la terribile impressione che mi fece, il giorno dopo l’allunaggio, ciò che scrisse in un editoriale su Le Figaro André Malroux, che non era della no-stra parrocchia, ministro dell’Educazione Na-zionale in uno dei governi di De Grulle, utiliz-zando di proposito una definizione dostoevski-jana: “Che vale andare sulla luna se poi non si sanno risolvere i maledetti problemi di tutti i giorni?” Malroux fu coerente e andò a sbattere a duecento all’ora con una macchina blindata contro un camion che veniva di fronte, perché non aveva più ragioni per vivere e quindi nean-che ragioni per fare il ministro dell’Educazione Nazionale. Un padre che ha fatto la quinta ele-mentare, come il mio, può avere il senso della sua persona più che un professore universitario. L’educazione non comincia dal sapere, ma dall’essere. Mio padre aveva capito benissimo che il flusso di cultura nasceva dalla testimo-nianza che mi dava, dal modo con cui lavorava, dal modo con cui affrontava i problemi, ma sa-peva benissimo che era necessaria a me tutta una strumentazione di carattere scientifico, cul-

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turale, tecnologico, per questo mi ha affidato, forse con un po’ di ottimismo, alla scuola. La generazione che ci ha preceduto non ha mai pensato che l’educazione fosse un problema dello stato, ma un problema della realtà familia-re. È nella realtà della famiglia che la concezio-ne ultima delle cose viene a galla. È nella con-cezione ultima delle cose che un uomo viene concepito oppure no. Se c’è una concezione ni-chilista e meccanica della vita, il concepimento non viene desiderato o se ne dà una versione del tutto tecnologica e consumistica, come quella che domina oggi. Fino ad una certa età i figli non devono esserci perché disturbano, da una certa età viene la voglia di avere i figli come i cagnolini. Siccome a quarant’anni è più diffici-le avere figli, si chiede allo stato di entrare in aiuto a sostenere questa maternità, che se fosse stata svolta con i ritmi che la natura ha pensato non porrebbe problemi di supporto. Vorrei chiedervi, amici miei, di riprendere il cammino della vostra vita. Educherete se riprenderete il problema del cammino della vostra vita, se direte a voi stessi, ancor prima che all’altro chi siete, su che cosa fondate la vostra certezza o che cosa state cercando. Il problema della domanda di senso è un problema di ratio e di fides. Ha ragione la dottrina della Chiesa così come è stata rievocata e riformulata magistral-mente nell’ultima grande enciclica di Giovanni Paolo II, la Fides et Ratio. Bisogna correre il rischio della ragione. Bisogna cercare il senso, la verità, non accontentarsi delle formule, degli stereotipi. Non bisogna delegare a nessun altro la responsabilità che coincide con il mio io pro-fondo, che è la mia libertà, cioè la mia possibili-tà di determinarmi in un modo o in un altro di fronte al mistero della vita. Si tratta anche di fi-des. Nella storia del mondo è registrato il mo-mento in cui un uomo si è detto Figlio di Dio e ha dato perciò volto definitivo a quella realtà misteriosa che fino ad allora era stata indicata come certamente presente ma inesorabilmente lontana. “Io vorrei vedere Dio ma non è possi-bile” diceva il mio grande amico cantautore Claudio Chieffo. Questo scatto non dipende dalle istituzioni, è fondamentalmente personale, avviene nel momento in cui l’uomo prende co-

scienza della sua umanità e la gioca fino in fon-do. Dicono che Horkheimer, uno dei padri fondatori e affondatori della nostra società, cul-tore dell’Illuminismo e poi nella sua ultima fase terribile critico dell’Illuminismo, maestro con Adorno della scuola filosofica di Francoforte, che è stata l’ispiratrice del Sessantotto in tutto il mondo, nell’ultima sua intervista a Der Spiegel, grande rivista tedesca, fece una impietosa disa-nima sulla fine della cultura moderna e all’intervistatore, che gli chiese a quel punto che cosa si sarebbe dovuto fare, rispose: “Ricomin-ciare a dire la verità”. Siccome non sarebbe sta-to politicamente corretto, non sapeva quando sarebbe morto e aveva un ruolo nella cultura ufficiale del mondo, chiese soltanto che questa intervista fosse pubblicata venticinque anni do-po la sua morte. È accaduto così. Credo che tutti noi, amici miei, abbiamo vissuto in un’età in cui si capiva che questa era la sostanza della vita familiare, dei rapporti nella parrocchia, fra le famiglie in un paese o in un quartiere di una città. Ciò che legava non era immediatamente la stessa risposta ai problemi, ma la comunanza sul problema della vita. I giovani hanno biso-gno di sapere perché vivono. Occorre che nello spazio della loro umanità qualcuno dica: “Ciò in cui ti coinvolgo per un cammino di maturazio-ne è questo”. L’educazione esige l’esistenza di un adulto capace di educare, non perché ha particolari competenze, perché è un uomo che mangia e beve, veglia e dorme sapendo il motivo. Educa un uomo che dal profondo della sua esperienza di umanità in ricerca, in attesa oppure come certezza è capace di comunicare, perché consiste nell’impegno della sua vita che diventa la sua grande comunicazione. Questa è la fonte dell’amicizia vera. L’amicizia è sull’ideale, non sull’istinto. L’amicizia, anche quella fra uomo e donna, non è sulla corrispon-denza affettiva, psicologica, meno che mai ses-suale, nasce dalla consapevolezza di avere in comune una domanda e dal fatto di potersi aiu-tare nel vivere questa avventura. Noi abbiamo avuto un uomo dalla straordinaria capacità u-mana e cristiana, Giovanni Paolo II, che ha perso la mamma da bambino, ed è stato affida-to alle cure del padre che essendo militare non

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poteva passare molto tempo con lui. Perciò è cresciuto, insieme ad altri bambini, nella casa di un sarto, che, terziario domenicano o france-scano, non ricordo, raccoglieva i bambini orfani del suo quartiere e mentre lavorava nella sua ca-sa, che era un laboratorio, raccontava le storie della Bibbia. Giovanni Paolo II, molto compe-tente in teologia e in filosofia, è nato non da un competente in teologia e in filosofia, ma dall’esperienza di un’amicizia ideale con un uomo che ha saputo coinvolgersi con l’umanità di questi ragazzini e affidare a questi la propria eredità. L’eredità di un adulto è quello che vive, non quello che lascia come soldi. Spero di aver-vi evocato quel punto di fronte al quale uno non può dire io non sono capace. Se tu rispon-dessi non sono capace di vivere perché tutto il tuo passato ti manifesta che hai fallito dovresti fare come l’Innominato, di cui Manzoni disse in un suo scritto di non avergli dato il nome, per-ché è il nome di ogni uomo che vive accanto a noi. L’Innominato, che sarebbe tentato di dire non ce la faccio a vivere, alla fine di quella ter-ribile notte, nella pagina più acuta della lettera-tura italiana, sa dire una frase che apre l’inizio della vita nuova: “Dio, se ci sei, rivelati a me”. Il vertice della ragione, come ci ha insegnato don Giussani, è la domanda. L’educazione s’incomincia in famiglia e si deve fare nella scuola. Questo apre una dialettica. L’educazione si fa nella scuola, se essa ha come preoccupazione fondamentale l’educazione. Se la scuola ha come preoccupazione fondamenta-le l’istruzione, si apre una dialettica, una lotta. I genitori devono fare una lotta. Purtroppo i ge-nitori hanno rischiato di accettare che educa-zione significhi istruzione. I professori, che ne-gli anni Sessanta avevano difeso la neutralità della scuola accusando di integralismo le posi-zioni di chi diceva, come me, che nella scuola bisogna essere cristiani, si sono sentiti dire da Giovanni Paolo II che in una scuola soltanto istruttiva avviene un degrado educativo. Uno sa, ma non è. Dopo dodici anni di scuola uno sa tutto, più o meno, ma non è. Ho voluto edu-care il soggetto educatore, che è l’uomo nella sua umanità. Nessuno può dire io non sono un uomo, perché se non è esperienza compiuta, è

esperienza di una domanda. Per questo non c’è niente di più grande culturalmente del senso del proprio limite. Allora accade una reale capacità di convivenza. Un uomo comunica all’altro il suo io più profondo come contenuto di una te-stimonianza. L’educazione è sempre origina-ta da una testimonianza. La testimonianza precede ed eccede il contenuto del dire. Quante volte ho cercato di chiarire agli insegnanti che l’insegnante è anche educatore, non è soltanto educatore, perché egli non è il primo deposita-rio dell’educazione. Il primo depositario dell’educazione è la famiglia. La Chiesa stessa si è sempre presentata nel Magistero, dalla Divini Illius Magistris di Pio XI alla Gravissimum Educa-tionis del Concilio fino al Magistero Sociale di Pio XII, di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, come forma di sussidio alla famiglia. L’insegnante è educatore non per quello che in-segna, ma per come insegna, per la particolare vibrazione di umanità che il suo insegnare ha dentro. Si stabilisce un rapporto che va al di là di quello che si insegna e va al di là della corri-spondenza effettiva che si ha con il contenuto dell’insegnamento. Un insegnante che insegna e basta stabilisce un rapporto con i propri ragazzi in base all’esito, alla corrispondenza con quello che insegna. Così l’insegnamento non apre ad un rapporto con l’umanità, riduce l’altro ad es-sere utente delle capacità. In genere il professo-re che insegna semplicemente per il gusto d’insegnare la sua materia non aiuta il formarsi di una personalità ma crea dei ripetitori. Deve invece avvenire un passaggio ideale, la comuni-cazione di una concezione globale della vita. È evidente nel padre e nella madre. È evidente in una realtà ecclesiale che ha al centro la certezza della fede, l’esperienza della fede e quindi un’educazione a fare della fede principio di co-noscenza, di eticità e cammino verso la voca-zione. È evidente a tutti i livelli che se l’adulto è tale il suo modo di essere e di fare comunica all’altro un’ipotesi di vita. L’educazione è la comunicazione che l’adulto fa al giovane di un’ipotesi di vita. Qui il vuoto viene riempito. Qui il padre non se ne va. Qui non c’è nessuna sfasatura. Qui non si rompe il nesso, perché una generazione dice all’altra noi abbiamo vis-

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suto e patito per questo, abbiamo sbagliato cre-dendo questo, abbiamo difeso la verità della nostra vita fino a morire a migliaia nei campi di concentramento, come è successo nel solo arco del ventesimo secolo, per quarantacinque mi-lioni di cristiani. Costoro sono morti martiri sotto diverse dittature per difendere i diritti di Dio e di Cristo nella loro vita. L’altro non rice-ve un diktat ideologico, né una serie di imposi-zioni di carattere etico, ma riceve un’ipotesi di vita. “Verificare” è la parola che ho impara-to da don Giussani tanti anni fa, di cui sco-pro l’attualità e la pertinenza oggi più che mai, in questo faticoso lavoro di educazione di un popolo, non di una realtà o di un’altra, per-ché il vescovo è educatore di tutto il suo popo-lo dai più piccoli ai più grandi, dagli intelligenti ai meno intelligenti, dai malati ai sani, dai vecchi ai giovani, secondo il susseguirsi misterioso e meraviglioso di quello che Guardini chiamava “stagioni della vita”. Bisogna che l’altro sia in-dotto a verificare, cioè a vedere se è vera anche per lui questa ipotesi che gli ho dato con la pa-rola e con le opere, come il Signore, aprendo la nostra amicizia a un’amicizia più larga. Guai al padre e alla madre che chiudono il rapporto con i loro figli dentro il perimetro stretto della famiglia e non si preoccupano di aprire questo loro embrione di compagnia a realtà più vaste! Il ragazzo deve essere aiutato a verificare per sé. Quindi è fondamentale che il giovane sia rispet-tato nella sua libertà. La sua libertà non è: “Fai quello che vuoi”. La sua libertà è provocarlo con una proposta e aiutarlo con una verifica, stargli accanto in modo discreto e vigilante, perché il giovane possa, nelle varie stagioni del-la sua vita, vedere se quello che gli ho comuni-cato è vero, cioè, come diceva Tommaso D’Aquino, corrisponde a lui. La verità è: “Ada-equatio rei et intellectus”. L’educazione così può accadere in qualsiasi momento e situazione, ha solo bisogno di un uomo che s’impegni con la sua umanità e in forza di questa si apra e ami l’umanità dell’altro. Poi può esserci bisogno di tutte le strumentazioni, di tutte le strutture, di tutte le metodologie, di tutto perché questa ve-rifica sia fatto il più intelligentemente e il più efficacemente possibile.

Concludo dicendo che c’è anche una con-dizione sociale, perché questo possa avvenire. La condizione sociale si chiama libertà di cul-tura e libertà di educazione. Occorre che le istituzioni, a qualsiasi livello, non si presentino, neanche implicitamente, come detentrici di un diritto all’educazione, come portatrici di un ide-ologia che deve essere imposta bon gré o mal gré alla società, ma servano la libertà, che è il gran-de vero bene comune della società. Non si ser-ve la libertà se si concede solo la libertà fisica. Ci sono stati tempi della storia in cui non si è concesso neanche questo, in cui lo stato ha pre-teso di avere il diritto di stabilire chi doveva vi-vere e chi doveva essere soppresso perché non corrispondeva all’ideologia dominante. Non si può realizzare questo spazio educativo se non c’è un’effettiva libertà, in cui ogni persona, la famiglia, i gruppi, le realtà in cui si coagula l’esperienza del popolo umano e cristiano pos-sano andare fino in fondo alla loro identità e diventarne critici. L’educazione è una presa di coscienza critica di una tradizione che si intende per la prima volta abbracciare. Non è possibile che esista un’autentica educazione, se non c’è un’ipotesi di vita da verificare. Questa ipotesi può essere verificata soltanto se io posso essere libero di comunicarla, e l’altro può essere messo in condizioni di libertà, anche pratica, per po-terla verificare adeguatamente. La democrazia è questo: un dialogo fra le varie posizioni, che in quanto diventano consapevoli di sé attraverso un’autentica libertà di educazione, dialogano fra di loro con profondità di coscienza e con gran-de capacità di rispetto per un reciproco arric-chimento. Il rispetto non nasce dall’incertezza, dall’insicurezza e dall’equivalenza delle posizio-ni, ma dalla consapevolezza delle convinzioni. La strada del nulla è quella che è fissata davanti a noi tutti i giorni. Certamente l’impero mas-smediatico è il luogo dove si contempla con maggior forza e addirittura con sgomento que-sto cammino della società verso il nulla. Il cammino della cultura della vita è quello che comincia nel profondo della coscienza di cia-scuno di noi e diventa oblazione di me all’altro. La vera oblazione è l’offerta di quello che ho più caro in me, non della vita, ma del senso del-

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la vita, perché diceva il salmista: “La tua parola, Signore, vale più della vita”. In questo modo può incominciare un cammino che è allo stesso modo dell’adulto e del giovane, perché diceva san Paolo: “Sarà catechizzato da colui che ha catechizzato”, in questa circolarità magnifica che, almeno nella Chiesa, c’è fra adulti e giova-ni, per cui ci si educa tutti e si cammina tutti. Il

vecchio non diventa vecchio, perché le sue ali rifioriscono come quelle dell’aquila, e cammina senza stancarsi. Il giovane entra in un cammino che lo matura in una circolarità in cui chi ha, avrà sempre di più, e chi non ha, avrà sempre di meno, perché la logica della vita è la logica della verità e dell’oblazione.

i Addio ai padri di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 02 aprile 2007) Il colloquio che segue è tratto da un filmato su YouTube, registrato con un cellulare nella classe di una scuola ita-liana la settimana scorsa. Un alunno di una quindicina d’anni, è vicino alla cattedra con un microfono in mano e finge un’intervista alla professoressa: Alunno: Ma lei, professoressa, ha mai provato a mettersi ***? Professoressa (imbarazzata e sussurrando): Ma che dici, via... Alunno: Ma lei quanto guadagna? Professoressa (come sopra): Non molto di certo... Alunno: Pensa che guadagnerebbe di più facendo la p***a? Questo il brutale, e testuale, re-ferto delle parole. Le quali obbligano a infischiarsene del moralismo e a porsi una domanda: che cosa è, che cosa bisogna pensare di un Paese dove in un’aula scolastica è possibile un simile scambio di battute? E dove è possibile che ciò accada senza che nelle 24 ore successive (almeno a quel che si sa) vi sia alcuna reazio-ne significativa? A proposito di episodi di brutalità, di violenza o di rifiuto delle regole più elementari del vivere civile come questo, che si susseguono nelle nostre scuole, non è più possibile evocare la categoria onnicompren-siva di «bullismo». Non è più possibile, cioè, rifugiarsi nella dimensione del patologico e magari pensare che l’azione di un ministro (che pure è necessaria e urgentissima: si svegli onorevole Fioroni, si svegli!) possa essere il rimedio. Certo: la scuola e l’istruzione sono coinvolte, eccome!, ma si tratta di ben altro. Si tratta nella sostanza di una frattura immensa che nella nostra società si è aperta tra le generazioni. Una frattura che comporta spesso l’impossibilità di trasmettere dai padri ai figli i modelli comportamentali, le ge-rarchie dei valori accreditati, perfino le regole della quotidianità, che i primi bene o male si credevano tenuti a os-servare e che i secondi oggi, invece, neppure quasi conoscono o trattano con assoluta noncuranza. Beninteso, nell’epoca della modernità tutti i passaggi generazionali hanno registrato un problema del genere, che però oggi si presenta in modo radicale per la presenza combinata di due fenomeni inediti e dirompenti. Da un lato l’enorme innalzamento del reddito che da mezzo secolo caratterizza tutte le nostre società, e che consente oggi anche ai giovanissimi, per non dire agli adolescenti, di avere in tasca (o di poter ragionevolmente aspirare ad averlo) dena-ro da spendere per un ammontare finora impensabile (quanti quindicenni nel 1960 potevano avere un mezzo di locomozione proprio?). Dall’altro, più o meno nello stesso periodo, ha preso forma una gigantesca rivoluzione scientifico-tecnica di por-tata generale, sì, ma capace di irrompere in modo pervasivo nella quotidianità del privato (si pensi alla pillola, alla tv, a Internet, all’ingegneria genetica), ed è in questa nuova quotidianità—distruttiva degli antichi universi valoriali e stilistici rappresentati esemplarmente dalla scuola—che si forma la nuova soggettività giovanile, forte del suo potere d’acquisto e non più orientata a un rapporto di imitazione con il mondo adulto ma piuttosto in arrogante, spesso aggressiva e violenta, contrapposizione a esso. Il cui simbolo è non a caso il cellulare. E’ accaduto, insomma, che nel tardo XX secolo i giovani siano divenuti i fruitori/apostoli di tutte le maggiori novità tecnico- scientifiche e in genere della massiccia innovazione sociale, acquisendone per riverbero il presti-gio e un profondo sentimento di autonomia. I padri, invece, sono andati inevitabilmente perdendo, di pari pari passo, il senso culturale del proprio ruolo e dei valori ricevuti e la sicurezza in se stessi. Tutto ciò è specialmente vero per l’Italia perché in Italia la cultura dei padri era particolarmente fragile. Priva di forti modelli tradizional-borghesi, influenzata profondamente dall’incerto permissivismo sessantottesco e dai luoghi comuni culturali del politicamente corretto, essa si è trovata in una situazione di totale debolezza davanti all’irruzione dei processi di autonomizzazione della soggettività giovanile.

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Non solo. Da noi era specialmente debole proprio l’istituzione deputata in primis a fare i conti con quella sogget-tività: la scuola. Cosa poteva mai opporre alla straordinaria sfida dell’epoca la povera scuola italiana, che arrivava all’appuntamento dominata dai sindacati, gestita da una lobby di pedagogisti di regime e guidata da politici pauro-si, interessati solo alla carriera? La lettera-appello: Ecco il testo integrale del documento del Comitato studentesco, composto da due rappresentanti per classe più i rappresentanti d’istituto I fatti accaduti allo stadio lo scorso 2 febbraio ci hanno turbato profondamente. Siamo addolorati, perché un uomo, l’ispettore di polizia Filippo Raciti, ha perso la vita, vittima di inaudita violenza. Non ci sentiamo però di fermarci alla rabbia e alla vergogna, né vogliamo unirci al coro di tutti gli “indignati”. L’indignazione non serve a capire il motivo di tanta violenza a livello giovanile e soprattutto non ci esonera dal dare un contributo costrutti-vo. Questi fatti ci interpellano personalmente, ci pongono diversi interrogativi, ci chiamano in causa e ci invitano a una riflessione, riguardo alla coscienza che abbiamo della realtà, a un’identità vera con la quale ci impegniamo dentro le circostanze della vita e a una speranza fondata con cui possiamo guardare il nostro futuro. Se il cosid-detto “partito degli onesti” che si vergogna, la società perbene e moralista, dalla quale peraltro provengono tanti dei ragazzi teppisti e violenti, non ci offre se non regole e principi astratti da una parte, e dall’altra il cinismo di chi, avendo ormai rinunciato a cercare la verità e il bene, propone solo l’individualismo sfrenato e l’opportunismo in cerca del successo personale, noi ci sentiamo franare il terreno sotto i piedi e ci sentiamo sof-focati dal nulla che è attorno a noi. Siamo intrappolati nella rete del consumismo di una società che si sviluppa all’insegna dei rapporti usa e getta e che promuove shock a livello emotivo nell’immediato e dopo apatia. È vero quello che ha scritto il professor Pietro Barcellona sulle pagine de La Sicilia nei giorni scorsi: «Si gioca con la morte quando la vita non vale niente». Dove dovremmo impararlo noi il valore della vita? Chi ce lo dovrebbe comunicare? Certo in primis la famiglia e la scuola. E allora non basta la repressione o escogitare nuove regole per la sicurezza negli stadi. Occorre ripartire dall’educazione. Che non sono le buone maniere o i comportamenti civili. Consideriamo questa come la prima emergenza e la vera via d’uscita da quella che si presenta sempre più come una cultura di morte. Noi abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a trovare il senso del vivere e del morire, qualcuno che non censuri la nostra domanda di felicità e verità. Noi riteniamo che la scuola possa costituire uno spazio adatto per questa ricerca e che liberamente uno possa verificare tutta la positività e il bene che la realtà ci promette. Dentro le cose che studiamo, dentro il tempo scolastico, dentro il rapporto con i professori. Per que-sto chiediamo innanzitutto ai professori e alla scuola intera che ci prendano più sul serio, che prendano sul serio le nostre vere esigenze. Che non debba accadere che un ragazzo finisca male o che comunque perda il gusto del vivere perché a scuola s’è trovato attorno, soprattutto tra gli educatori, gente rassegnata, opportunista e vuota. Quanto a noi, bisogna smetterla di perseguire come unico ideale della vita il comodo e la facilità, il divertimento balordo a tutti i costi. Ci stiamo giocando la vita degna d’esser vissuta e nostro stesso futuro. Comitato studentesco Liceo Spedalieri, Catania (La Sicilia, 15 febbraio 2007) La risposta del preside e di 28 professori del liceo Il preside e 28 docenti del liceo Nicola Spedalieri di Catania rispondono all’appello degli studenti Cari ragazzi, avremmo preferito incontrarvi nel luogo che voi definite spazio dove trovare risposte alla vostra ri-cerca del senso del vivere, del morire, alla vostra domanda di felicità e verità: la scuola. Ma avete preferito - così va oggi il mondo - esprimervi attraverso un giornale e una rete televisiva locali, motivo per cui riteniamo in sintonia con la vostra scelta rispondervi a mezzo stampa. Ci siamo interrogati sulle vostre domande, noi a quanto sembra «gente rassegnata, opportunista e vuota», che vi appare incapace di prendere sul serio le vostre esigenze e vogliamo proporvi e rendere pubbliche le nostre riflessioni. Noi, docenti del liceo Nico-la Spedalieri, la vostra scuola, noi, ai quali non potete non riferirvi, non ci riconosciamo negli adulti apatici e so-cialmente cinici che potrebbero entrare in contatto con voi solo a patto di migliorarsi attraverso l’individuazione di certezze indiscutibili da trasmettervi. Il nostro impegno di educatori e di cittadini è diretto a stimolare doman-de e curiosità intellettuali, pensiero critico, a favorire la libera espressione e circolazione delle idee, il confronto e la ricerca nel rispetto dei diritti di tutti sanciti dalla nostra Costituzione. Non possiamo, né vogliamo, darvi delle risposte, ma prepararvi affinché siate voi non solo a chiedervi quale sia il senso della vita ma anche a riuscire a

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individuare, tramite lo studio del cammino culturale dell’uomo sociale, le risposte adeguate al vostro percorso. Proporvi, o imporvi, delle verità è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica. Vi rispettiamo troppo per sventolarvi Verità rivelate: ab-biamo molto a cuore il vostro futuro di protagonisti della società globale e non vogliamo certo che diveniate i “soldatini di piombo” di una società assolutista e intollerante, consumistica e omologante. Amiamo ricordarvi e ricordarci a tal proposito le parole di Primo Levi: «Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene ave-re in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione, il ragionamento, e che possono essere verificate e provate». Se ci chiedete di affrontare insieme una fase della nostra comune crescita culturale verso obiettivi condivisibili al di là delle tante chiese di moda oggi, obiettivi come il rispetto per l’altro e per le differenze, la solidarietà e il riget-to di ogni forma di prevaricazione, siamo qua, nel luogo in cui lavoriamo da sempre con impegno e passione. Pensiamo possa essere questo uno dei modi per non fermarsi alla rabbia e aprirsi alla comune costruzione di un mondo in cui la vita sia degna di essere vissuta». (La Sicilia, 4 marzo 2007)