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LE POLITICHE EUROPEE PER LA COESIONE SOCIALE GIANNI GEROLDI Università di Parma - Dipartimento di Economia Giugno 2003

Le politiche europee per la coesione sociale · L'isolamento avviene per ragioni che vanno oltre il controllo del soggetto stesso e può essere sia ... 1.3. Che cos’è l’esclusione

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GIANNI GEROLDI

Università di Parma - Dipartimento di Economia

Giugno 2003

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1. POVERTA’, ESCLUSIONE SOCIALE E DISOCCUPAZIONE

1.1 Premessa

Da alcuni anni, nelle ricerche e nel dibattito politico, il concetto tradizionale di “povertà” è stato rimpiazzato progressivamente da quello di “esclusione sociale”. Per quanto i termini possano essere considerati sinonimi, la definizione di esclusione sociale comporta invece un modo diverso di analizzare il fenomeno, con il passaggio da una dimensione strettamente economica e da un approccio statico a una visone multidimensionale e dinamica del problema, in cui il campo di indagine supera gli aspetti distributivi per allargarsi al complesso delle problematiche relazionali1. Questa formulazione implica anche una diversa metodologia nell’analisi dei problemi della povertà, in base alla quale la misura del benessere degli individui non è più collegata solo alla disponibilità di beni essenziali, ma a una valutazione più complessiva dell’agire dei fattori determinanti nei processi di partecipazione e di integrazione di una società.

L’articolazione del concetto di esclusione trae le sue origini da almeno due fonti principali. La prima riguarda gli studi sulla povertà e, più in particolare, la loro rivisitazione basata sulle riflessioni in tema di diritti sociali e di cittadinanza. La seconda è invece ricollegabile a un corpo ormai piuttosto consolidato di analisi sociologiche sui processi di marginalità e sullo sradicamento sociale. La scelta di adottare una definizione più complessa del concetto di povertà, seguita anche nel percorso di costruzione del modello sociale di riferimento per l’Unione europea, si deve tuttavia soprattutto all’impatto politico dei cambiamenti economici e sociali avvenuti nei decenni conclusivi del secolo appena terminato. In particolare, la disoccupazione di massa sperimentata in Europa e l’inadeguatezza delle politiche per l’unificazione monetaria ad affrontare il problema, ha spinto l’attenzione di molti governi non solo verso i fenomeni di disgregazione sociale indotti dalla crisi occupazionale, ma anche verso le dimensioni individuali e familiari dei problemi derivanti da un difficile rapporto con il lavoro. Sotto questo profilo, anche le fasi di ripresa della crescita economica e dell’occupazione degli scorsi anni non hanno complessivamente ridimensionato il fenomeno, che si è anzi manifestato in forme nuove, rintracciabili ad esempio nel diffondersi di figure professionali precarie, di lavori scadenti e a basso salario, di adulti in età matura a rischio di disoccupazione di lunga durata: fattori critici che si sono intrecciati con altri fenomeni di frammentazione sociale, come l’indebolimento della struttura familiare tradizionale, basata sul maschio capofamiglia unico o principale procacciatore di reddito (male breadwinner).

Il presente lavoro si pone dunque un duplice obiettivo. In primo luogo tutto, delimitare i confini dell’esclusione sociale rispetto ad altri fenomeni apparentemente analoghi, ma diversi nelle motivazioni, nei meccanismi di funzionamento e nelle conseguenze; in secondo luogo, studiare le dinamiche del fenomeno in connessione con alcune variabili rilevanti della vita sociale delle persone, come il lavoro, i consumi, la protezione sociale.

1.2. Esclusione sociale e isolamento sociale

Per abbozzare una definizione preliminare di esclusione sociale, è necessario delineare il concetto di isolamento nella società. Esso è un fenomeno, individuale o di gruppo, di non partecipazione alla vita di relazioni, ai modelli culturali e di comportamento dominanti in una società e alle istituzioni della stessa.

L'isolamento avviene per ragioni che vanno oltre il controllo del soggetto stesso e può essere sia volontario che involontario, cioè indipendente dalla volontà del soggetto o del gruppo.

L’esclusione sociale si inserisce in questo contesto come forma di isolamento involontario dal resto della società. Quindi, isolamento ed esclusione, nonostante siano spesso usati per richiamare fenomeni simili, si differenziano principalmente per il ruolo del soggetto nei due processi: ruolo attivo (la decisione di non aderire ai modelli di vita dominanti nella società) nel caso dell’isolamento; ruolo passivo (subire scelte non personalmente influenzabili) nel caso dell’esclusione.

L’espulsione dal sistema produttivo, ad esempio, e il non reinserimento del disoccupato o la non riqualificazione delle sue capacità professionali, in un modello sociale fondato sullo status lavorativo, è fonte di esclusione. L’autonoma scelta di non coltivare rapporti sociali nel contesto di appartenenza rientra invece nel campo dell’isolamento. L’esclusione ha, inoltre, cause diverse a seconda che sia collettiva o individuale. In ultima istanza, l’isolamento si riferisce alla mancanza di coesione all’interno di una società, mentre l’esclusione sociale costituisce un sottoinsieme dell’isolamento.

La componente dell’involontarietà dell’esclusione permette di caratterizzare la stessa come l’impossibilità 1 Negri e Saraceno, 2000

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per un cittadino di partecipare alla vita sociale del proprio paese, pur volendo farlo. Ma quando l’isolamento è volontario e quando è involontario? La distinzione è chiara solo in apparenza, in quanto il confine tra autoisolamento e involontarietà della scelta è molto labile. Occorre osservare in profondità i fenomeni di apparente isolamento volontario, poiché molto spesso essi dissimulano un’esclusione involontaria dovuta al fatto che le possibili scelte offerte dalla società sono di fatto impercorribili per il soggetto o il gruppo. Spesso l’autoesclusione apparente nasconde forti discriminazioni di tipo etnico, religioso o culturale che costringono persone o gruppi a creare comunità autonome2.

I meccanismi di divisione nella società possono assumere anche forme particolari, come nel caso in cui l’isolamento volontario di pochi produce l’esclusione della maggioranza della popolazione. Ciò si verifica quando un gruppo ristretto di popolazione riesce ad ottenere il controllo pressoché totale delle istituzioni, al punto dall’asservirle ai propri scopi, ignorando totalmente i bisogni espressi dalla fascia esclusa. Perché ciò accada, devono esistere almeno due condizioni. La prima è una elevata disuguaglianza in termini di distribuzione del reddito e di accesso alle prestazioni statali; la seconda è l’esistenza di una fascia di popolazione omogenea e fisicamente vicina.

Riassumendo, in una società ad economia di mercato e retta da istituzioni democratiche, si osservano due linee di delimitazione dell’esclusione: una, che divide i cittadini tra chi partecipa alla vita sociale del paese e chi involontariamente non lo fa in quanto escluso ed incapace di essere influente; l’altra, che divide i cittadini tra chi partecipa alla vita sociale del paese e chi decide, autonomamente di non farvi parte. Una volta definiti i “confini” dell’esclusione sociale, si può dare della stessa una definizione più precisa.

1.3. Che cos’è l’esclusione sociale?

Il concetto di esclusione può essere inteso in molti modi diversi e poggiare su sistemi di valori radicalmente differenti; la maggioranza degli autori - come già accennato - ha comunque cercato di distinguerlo da quello di povertà, sottolineandone il suo più ampio significato. Dare una definizione univoca di esclusione sociale in grado di mettere d'accordo unanimemente tutti gli studiosi è impresa ardua, poiché il fenomeno presenta molteplici sfaccettature difficilmente riconducibili a un unico modello. L'esclusione ha, inoltre, cause ed effetti differenti in ogni tipo di società, in quanto sul suo manifestarsi influiscono fattori diversi, di tipo culturale, religioso, politico, ecc.

Il termine esclusione sociale non può essere visto come sinonimo di povertà. E' però sicuro che tra i due fenomeni esista un'alta correlazione ed è altrettanto vero che l'evidenza empirica ha dimostrato che una diminuzione delle disuguaglianze in termini di reddito tende a ridurre l'area dell'esclusione. Questi fenomeni rimangono però distinti, anche se alle volte la distinzione è molto sfuocata. In generale, si può affermare che l'esclusione colpisce certi poveri (o certi gruppi di poveri) e non altri. Quindi non si mette l'accento sulle sole distinzioni di tipo economico, ma anche su fattori di altro tipo. In sostanza, si mettono in risalto tre fattori costitutivi dell'esclusione sociale: la polarizzazione (nel senso che essa colpisce gruppi omogenei di persone), la differenziazione sociale e la disuguaglianza in termini economici.

Nell’impossibilità di definire in maniera universale il concetto di esclusione, alcuni autori hanno rilevato alcuni elementi ricorrenti nell’analisi dell’esclusione3. Questi sono:

- la relatività del fenomeno: un soggetto o un gruppo sono socialmente esclusi relativamente ai parametri di un luogo in una data epoca; - il dinamismo: analizzare l’esclusione sociale significa comprendere un processo e identificare i fattori che innescano l’entrata e l’uscita da tale condizione; - lo sviluppo temporale: le persone vengono escluse non solo a causa della loro attuale situazione ma anche per le loro scarse prospettive future. - la relazione causa - effetto: ogni tipo di esclusione sociale deriva da precise cause sociali; - la multidimensionalità: non è possibile misurare l’esclusione considerando una sola variabile (il reddito, ad esempio), ma vanno utilizzate le molte dimensioni che definiscono il livello di benessere e il tenore di vita; - la territorialità: la deprivazione non è causata unicamente dall’insufficienza delle risorse personali, ma anche dalla mancanza o insoddisfacente qualità dei servizi di comunità. - la relazionalità: mentre la povertà mette a fuoco soprattutto i problemi distributivi, quello di esclusione si concentra sui problemi di relazione: in altre parole, l’inadeguata partecipazione alla vita comunitaria, l’insufficiente integrazione sociale e la mancanza di potere.

2 Le Grand, 1998. 3 Atkinson, 1998; Room, 1999

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1.4 Mercato del lavoro, occupazione ed esclusione

All’interno dei processi di esclusione, gioca un ruolo importantissimo lo status lavorativo delle persone. L’analisi del mercato del lavoro aiuta quindi a capire come l’esclusione si manifesti e, a seconda della presenza o meno di un valido sistema di servizi per l’impiego e di ammortizzatori sociali, come lo stato di inattività possa spingere i soggetti coinvolti a una condizione di marginalità e di indigenza, oppure alla riqualificazione professionale e alla completa reintegrazione sociale.

Analisi dei tassi di rotazione nel mercato del lavoro hanno dimostrato, ad esempio, come il passaggio dalla disoccupazione all’impiego porti di norma il soggetto coinvolto e il proprio nucleo familiare fuori dall’area della povertà4. In questi casi, la povertà – ammesso che il fenomeno si manifesti - si segnala solo come stato di temporaneo disagio economico. L’esclusione entra invece in gioco quando il tempo in cui il soggetto rimane povero tende ad allungarsi.

In prima battuta, ciò sembra essere soprattutto legato a un mercato del lavoro rigido, in cui, essendo il ricambio tra disoccupati e occupati molto lento, è più probabile che possa crearsi uno “zoccolo duro” di individui e famiglie povere. E’ in questi casi di povertà permanente che, anche in presenza di politiche assistenziali efficienti, il rischio di esclusione è massimo, soprattutto a causa della diminuzione dell’autostima e dell’allontanamento dai luoghi di socializzazione. Conseguenze non dissimili si possono però avere anche quando la durata della disoccupazione non dipende dalla rigidità del mercato del lavoro ma è invece connessa a fattori esogeni, come recessioni economiche prolungate o il rapido declino di un settore. Un veloce ricambio tra occupati e disoccupati (mercati del lavoro molto flessibili) può anche far lievitare un’offerta di lavoro più orientata all’occupazione a bassa remunerazione e a lavori contrassegnati da scarsa tutela e alta precarizzazione. La sicurezza lavorativa è in sé un importante fattore per prevenire l’esclusione e le sue conseguenze che, nelle forme più eclatanti (tossicodipendenze, delinquenza, etc.), appaiono ben più consistenti nelle fasi e nelle aree in cui le crisi economiche sono più profonde, o dove il mercato del lavoro assume un grado estremo di flessibilità.

Il rapporto tra esclusione e mercato del lavoro è inoltre influenzato da altri due fattori, a volte non sufficientemente considerati; essi sono la dinamica salariale e il titolo di studio. La dinamica salariale è importante, nell’arco del ciclo vitale, in quanto il reddito del soggetto non è costante nel corso della vita attiva ma, come mostrano le analisi empiriche, tocca i livelli massimi nella fase centrale della carriera lavorativa. Perciò, se il reddito percepito nelle fasi di più alta retribuzione, non consente la formazione di adeguati livelli di risparmio (compreso il risparmio previdenziale obbligatorio), possono verificarsi fasi temporali in cui il reddito ottenibile in via diretta non è sufficiente per mantenere livelli di vita dignitosi. Il titolo di studio invece influisce in quanto mostra una forte correlazione positiva con la durata della disoccupazione. In genere, le persone dotate di livelli di studio più elevati hanno minore probabilità di essere disoccupate ma, soprattutto, quando lo diventano, hanno una permanenza media in questo stato assai minore.

Tra esclusione sociale e mercato del lavoro intercorrono, quindi, rapporti complessi. Sicuramente, accelerare la creazione di posti di lavoro può contrastare l’aumento dell’esclusione, ma il successo di questa azione dipende anche dal senso di tranquillità e stabilità che il lavoro può dare, dallo status che fornisce al nuovo occupato e dall’influenza che essa esercita sulla formazione delle aspettative per il futuro.

1.5 Politiche sociali ed impatto sulla marginalizzazione

Anche la struttura dei programmi di protezione sociale può essere fonte di esclusione sociale, soprattutto quando viene fatto largo uso dei means test e quando le politiche di protezione sono volte a incentivare la ricerca di occupazione in maniera troppo vincolante. Il means test, o prova dei mezzi, è lo strumento utilizzato dall’ente erogatore, per valutare la capacità economica del soggetto o del nucleo familiare richiedente, e quindi stabilire se questi ha diritto o meno alla prestazione richiesta. La “certificazione” dello stato di indigenza comporta però il rischio di stigmatizzazione dei bisogni dell’assistito, che molto spesso, pur di non subirla, evita di dimostrare la propria condizione di bisogno. Inoltre, sono molte le persone che non richiedono la prestazione (falsi negativi), pur avendone diritto, per ignoranza circa l’esistenza del programma o perché gli adempimenti burocratici sono troppo impegnativi per essere espletati. Questa serie di circostanze fa sì che la perdurante condizione di indigenza, unita all’isolamento, porti verso l’esclusione del soggetto e della sua famiglia.

Tra i limiti delle politiche selettive vi è anche la netta separazione tra i soggetti che usufruiscono dei programmi di assistenza sociale, per i quali viene spesa una quota spesso consistente di risorse pubbliche, e quelli che non hanno bisogno di alcun trasferimento. Poiché, tramite l’imposizione fiscale, i secondi sono di fatto i finanziatori dei programmi di protezione, si crea una situazione di potenziale conflitto che, in situazioni di marcata lacerazione politica, può diventare un fattore critico per la coesione sociale. 4 Heady, 1997

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Gli incentivi al reinserimento lavorativo del soggetto assistito, quando sono troppo severi, possono invece creare problemi di marginalizzazione, in conseguenza del rischio di dovere accettare lavori non consoni alle proprie attitudini o qualitativamente inadeguati. Accettare occupazione di basso profilo o rifiutarla pena la cessazione dell’intervento assistenziale, può comunque portare i soggetti coinvolti sui percorsi dell’esclusione. Problemi opposti si possono presentare quando le prestazioni a favore dei disoccupati sono pari ad una troppo alta percentuale del salario perso; in questo caso il lavoratore, venendo meno l’incentivo a riprendere la via lavorativa, e mancando meccanismi di eliminazione del beneficio, può cadere nella c.d. trappola della disoccupazione, scegliendo di restare disoccupato, con uno spreco di risorse e una perdita di capitale umano, che spesso rappresentano l’inizio di un processo di esclusione.

1.6 Esclusione, credito e consumi.

Oltre che da alcuni meccanismi selettivi, l’esclusione delle persone può derivare anche dal modello di consumi dei singoli. Alcuni beni, anche di primaria importanza per la conduzione di una vita dignitosa e per la completa integrazione nella società, risultano talvolta di difficile fruizione. Le difficoltà di accesso al credito, spesso limitano l’acquisto di beni o servizi costosi, come i mezzi di trasporto privati o un’abitazione salubre.

Difficoltà analoghe presenta l’accesso a servizi privati con prezzi di mercato particolarmente elevati che escludono una quota consistente di famiglie a basso reddito. Si pensi ad esempio ai canoni di locazione delle abitazioni, che, in assenza di forme di calmierazione da parte dell’autorità pubblica, possono diventare, specie nelle aree metropolitane, inaccessibili per molte famiglie, privandole di un bene essenziale.

Talvolta, il meccanismo esclusivo parte dal mutamento degli assetti proprietari delle aziende. Il passaggio dalla proprietà pubblica a quella privata, verificatosi negli ultimi anni in molti paesi, può ad esempio produrre, nelle situazioni più deregolamentate, una ricerca da parte delle aziende di più elevati livelli di remuneratività, che porta a privare in modo assoluto dall’uso del servizio gli utenti morosi e ad aumentare le tariffe a livelli troppo onerosi per la fascia più povera della popolazione.

L’evidenza empirica conferma che l’utilizzo dei servizi pubblici è molto più elevato quando l’accesso è gratuito o fortemente sovvenzionato. Diventa perciò rilevante il rapporto tra costo e qualità dei servizi pubblici. Sapendo che una richiesta di maggior qualità del servizio implica un costo di erogazione più alto, si pone l’alternativa tra un prelievo fiscale maggiore, cioè più ridistribuzione, oppure il fatto che molte persone dispongano di redditi insufficienti per potersi permettere servizi di alta qualità.

2. I SISTEMI DI WELFARE IN EUROPA

2.1 I modelli di welfare state europei

Per inquadrare gli interventi a favore dell’inclusione sociale in atto nei Paesi dell’Unione europea (EU), è utile iniziare con una catalogazione degli impianti di base delle singole legislazioni nazionali, osservando gli andamenti della spesa nelle principali funzioni. Questa panoramica aiuta a individuare il disegno strategico - ammesso che vi sia – e mette in luce aspetti importanti dell’organizzazione delle politiche di inclusione nei diversi paesi, senza perdersi nelle innumerevoli particolarità che contraddistinguono i singoli schemi. Gli anni ’90, infatti, hanno visto una lunga serie di interventi di riforma dei sistemi di social protection in tutti i paesi UE e i cambiamenti sono stati tali da rendere difficile una definizione precisa degli indirizzi perseguiti e degli assetti che i vari ordinamenti sono andati assumendo.

La costruzione del quadro tassonomico, accettando l’inevitabile approssimazione dovuta alle forti differenze cui si è accennato, può prendere a riferimento cinque aspetti fondamentali di un sistema di protezione sociale, ossia:

- l’area dei rischi sociali coperti da ogni legislazione nazionale. - i requisiti di accesso alle prestazioni. - la struttura delle prestazioni. - i metodi con i quali sono finanziati i programmi. - gli assetti organizzativi.

Nella letteratura sui sistemi di protezione sociale, facendo leva su questi cinque aspetti, i quindici paesi dell’UE sono stati raggruppati in quattro modelli di welfare, che corrispondono in linea di massima ad

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altrettante aree geografiche. La prima area raggruppa i paesi scandinavi (Danimarca, Finlandia e Svezia), che presentano un modello

più vicino a quello universalistico “puro”, ossia un sistema che fa leva sulle imposte generali per il finanziamento e il cui accesso è basato sulla cittadinanza5. Le prestazioni coprono un’ampia gamma di rischi sociali e di altre funzioni relative al benessere (ad esempio la gratuità della casa, delle cure parentali e dell’istruzione per i meno abbienti). Per la parte basic, esse consistono in somme fisse che, in origine, erano erogate automaticamente all’occorrenza dei vari rischi ed erano di importo relativamente generoso. Negli ultimi anni, con successive revisioni, le somme dei trattamenti di base sono state ridimensionate in varia misura, lasciando un progressivo spazio per le forme complementari, più collettive che individuali, di natura sia obbligatoria che facoltativa. La massima parte del finanziamento della protezione sociale avviene tramite il gettito fiscale e, di conseguenza, le prestazioni di base tendono a essere molto omogenee, senza riferimento al principio della corrispettività, che è più legato al finanziamento con contribuzione. Sotto il profilo organizzativo, il welfare scandinavo presenta un’accentuata integrazione tra i vari comparti e l’erogazione delle prestazioni è in larga parte sotto la diretta responsabilità dell’autorità pubblica, con la partecipazione delle parti sociali in funzioni specifiche (es. sostegni contro la disoccupazione).

I paesi anglosassoni (Gran Bretagna e Irlanda), presentano anch’essi un sistema di natura universalistica, che però si differenzia dal modello scandinavo per una presenza molto più ampia di programmi di tipo assicurativo - specie nella previdenza sociale - individualizzati e finanziati da contributi direttamente versati dai lavoratori. La tutela di cittadinanza è tuttora largamente applicata in campo sanitario e nei sostegni assistenziali ai meno abbienti. Tuttavia, in quest’ultima funzione, la verifica dei mezzi per l’erogazione delle prestazioni monetarie è molto intensa. Il sistema di finanziamento è misto: mentre la sanità e l’assistenza ai poveri sono finanziate dalla fiscalità generale, le prestazioni in denaro di natura assicurativa sono coperte da specifici contributi. Come nel modello scandinavo, il quadro organizzativo è fortemente integrato, mentre le parti sociali non occupano ruoli di primissimo piano.

Il terzo modello, che caratterizza i paesi dell’Europa Centrale (Germania, Austria, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo), ha una tradizione welfaristica basata sull’accesso di tipo assicurativo integrato da interventi assistenziali, con prestazioni legate al livello contributivo e un finanziamento misto con prevalenza dei contributi sulle imposte. Le formule per le prestazioni (proporzionali ai redditi di riferimento) e di finanziamento (tramite contributi sociali) rispecchiano in larga misura logiche di natura assicurativa, con discipline spesso diverse a seconda dei gruppi professionali (categorialità). L’approccio di impronta prevalentemente occupazionale si riflette anche nello stampo organizzativo e nelle procedure di gestione, in cui le parti sociali partecipano attivamente alla regolamentazione e alla verifica degli schemi. All’inizio di un rapporto di lavoro l’obbligo assicurativo scatta automaticamente. Chi non è protetto da una copertura assicurativa può ricorrere alla protezione assistenziale, che in questi paesi è comunque molto robusta.

Il quarto gruppo, che contiene i paesi dell’Europa Mediterranea (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia), presenta un modello di welfare definibile come “misto”, ossia un ibrido tra i tre modelli sopradescritti. La causa di una mancanza d’identità propria dei modelli di quest’area è da ricercarsi nel ritardato sviluppo industriale di questi paesi rispetto al resto d’Europa e ad altri elementi di natura politica. Il welfare di questi paesi è dotato di un elevato grado di particolarismo, evidenziato da un alto tasso di categorialità delle prestazioni, sia da un punto di vista territoriale che sociale o anagrafico. È da segnalare anche come il welfare di questi paesi non sia stato immune da pratiche spesso discutibili, sia per quanto riguarda le erogazioni (frodi e manipolazioni clientelari), sia per quanto riguarda il finanziamento (evasioni contributive su larga scala e ampiamente tollerate dall’amministrazione). Ciò è dovuto anche alle caratteristiche di questi stati, caratterizzati da un alto gradi di interferenza da parte di partiti politici e di altri poteri organizzati, che sono riusciti spesso a influenzare le scelte legislative dei policy maker e il funzionamento degli enti di gestione.

2.2 La spesa di welfare in Europa e in Italia

Il profilo quantitativo della spesa sociale, per quanto poco indicativo dell’efficacia e della qualità degli interventi, offre comunque importanti indicazioni sulle politiche perseguite in ogni paese, sia in termini di allocazione di risorse che di impatto sulla finanza pubblica. Nella Tabella 1 è riportato per il 1998 (ultimo anno di cui sono disponibili statistiche comunitarie armonizzate) l’ammontare totale delle spese per la protezione sociale in percentuale del Prodotto Interno Lordo nei paesi dell'Unione Europea. Da essa si ricava che, in presenza di una spesa sociale media pari al 26,6% del PIL, i sei paesi che registrano valori superiori a tale media. appartengono all’area scandinava (Danimarca e Svezia) e centro europea (Francia, Olanda, Germania e Austria), mentre i paesi anglosassoni e quelli dell’area mediterranea mostrano livelli di

5 Solo per fare un esempio, si può ricordare che in Svezia e Finlandia le indennità di malattia e di maternità sono concesse anche ai soggetti che non partecipano al mercato del lavoro.

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spesa sociale sotto la media.

Tab.1 - Spesa per la protezione sociale in Europa in % del PIL, anno 1998. PAESE TOTALE PAESE TOTALE Svezia 32,8 Belgio * 25,9

Danimarca 29,2 Italia ° 24,4 Francia ° 29,0 Grecia ° 23,7

Germania ° 28,1 Lussemburgo 23,2 Austria 27,5 Spagna ° 21,0

Olanda ° 26,7 Portogallo ° 20,5 EU- 15 * 26,6 Irlanda 15,2

EU- 11 (paesi €uro) * 26,6 Norvegia ° 27,3 Finlandia ° 26,4 Svizzera 25,3

Regno Unito ° 26,0 Islanda 18,0 Fonte: Eurtostat, 2001. * dati stimati; ° dati previsionali Sempre in base ai dati della Tabella 1, per ciò che riguarda la situazione italiana si registra un divario

negativo rispetto alla media europea pari al 2,2%. Da ciò si deduce che, sebbene l’Italia si collochi al livello più alto tra i Paesi dell’area mediterranea, il peso complessivo della sua spesa non appare fuori misura. Anzi, ipotizzando un riallineamento con il dato comunitario, l’aumento di risorse che dovrebbero essere destinate a favore della protezione sociale, in termini di PIL corrente, corrisponderebbe a poco meno di 50 mila miliardi di lire.

Per avere un riferimento relativo a quanto avviene in altre aree del mondo, è però anche interessante notare come i paesi europei indirizzino mediamente alle politiche di protezione sociale quote di reddito assai superiori alle altre economie avanzate (Tabella 2).

Tab.2 - Spesa sociale in percentuale del Pil nei principali paesi industrializzati PAESE UE-15 Nuova

Zelanda Canada USA Australia Giappone

SPESA 26,6 19,2 17,6 16,5 15,7 14,1 ANNO 1998 1996 1995 1996 1995 1995

Fonte: Eurostat, 2001; International Labour Office, 2001. Al di là della diversità dell’anno di riferimento, che comunque non è determinante nella misura di un

fenomeno di carattere sostanzialmente strutturale, nei Paesi UE l’assorbimento di risorse della protezione sociale è in un ordine di grandezza compreso tra i 7 e i 12 punti percentuali di PIL sopra i paesi extraeuropei economicamente più avanzati. Ciò indica che il welfare è tuttora in Europa un’istituzione verso cui i cittadini sembrano propensi a orientare ingenti risorse, ma sottolinea anche come non sia casuale che, nel corso degli anni ’90, di fronte ai fenomeni della globalizzazione, la riforma del welfare sia diventata un punto centrale nel dibattito politico sviluppatosi sui temi dell’unificazione.

2.3 Le prestazioni sociali erogate

Un altro aspetto importante per distinguere la struttura dei sistemi di welfare è rappresentato dal diverso sviluppo delle singole funzioni. E’ noto che a seconda del rischio coperto la spesa viene di solito suddivisa nelle seguenti principali funzioni:

- la previdenza, finalizzata ad assicurare un reddito ai lavoratori, sia dipendenti che autonomi, oppure ai loro familiari in caso di decesso, nel periodo in cui vengono a cessare le entrate dell’attività lavorativa. Storicamente, tutti i sistemi pensionistici hanno sviluppato al proprio interno, in misura diversa, meccanismi ridistributivi di natura solidaristica. Tuttavia, i recenti interventi sui meccanismi di calcolo delle pensioni hanno puntato a individualizzare maggiormente il rapporto tra prestazioni e contributi, trasferendo la componente solidaristica del sistema previdenziale all’area dell’assistenza; - la sanità, include le prestazioni che offrono a tutti i soggetti della collettività prevenzione e cura dei rischi di salute. È il settore in cui tuttora trova maggiormente applicazione il criterio dell’universalismo (nella sua accezione più stretta) nell’erogazione delle prestazioni; - gli ammortizzatori sociali, forniscono un’assicurazione nei confronti di rischi che nascono in relazione al rapporto di lavoro. I più rilevanti sono quelli che riguardano il rischio di sospensione o perdita del posto di lavoro dipendente per cause economiche. Tra i sostegni al reddito in caso di temporanea

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interruzione dell’attività di lavoro, anche se le motivazioni sono di altro genere, possono essere incluse le indennità per malattia e infortunio. Pure i lavoratori autonomi godono di alcune garanzie, anche se, in considerazione della diversa fonte di reddito, le prestazioni hanno di solito una disciplina specifica, generalmente più restrittiva; - l’assistenza. Sono prestazioni che hanno il principale scopo di coprire il rischio della povertà, della non autosufficienza e dell’handicap; in senso più ampio, nella voce assistenza sociale può essere compreso l’insieme abbastanza eterogeneo degli strumenti che operano contro l’esclusione sociale e a favore delle pari opportunità.

Tab. 3 - Le prestazioni del welfare state Sistema

previdenziale Sanità Ammortizzatori Sociali Assistenza Istruzione

Reddito minimo d’inserimento

Assegni per i figli

Pensione sociale

Pensioni e rendite per

portatori di han-dicap.

Pensioni agli invalidi civili.

Servizi per non autosufficienti.

Istruzione obbligatoria

Istruzione secondaria

Istruzione

universitaria

Scuola materna

Pensioni di vecchiaia

Pensioni di anzianità

Pensioni per i

superstiti

Assistenza di base

Spesa

farmaceutica

Assistenza specialistica e ospedaliera

Cassa integrazione

Indennità di

disoccupazione

Assicurazioni: - infortuni sul

lavoro - malattia.

- maternità.

Scuole e servizi per l’infanzia Fonte: Bosi, P., (2000).

Nella Tabella 3, tratta da un testo di Bosi, sono elencate per funzione le principali prestazioni che

vengono erogate dal sistema di protezione sociale italiano. La natura e gli obiettivi di queste funzioni non differiscono in modo sostanziale dalle misure presenti nella maggior parte dei sistemi di welfare europei, anche se nei vari Paesi può essere molto differenziato il peso relativo di ciascun istituto e le modalità con cui esso è organizzato.

La ripartizione presente nella tabella coglie con efficacia i principali elementi distintivi per una complessiva classificazione delle prestazioni. Tuttavia, i criteri di erogazione e di finanziamento delle prestazioni possono influenzare l’attribuzione alle differenti categorie dei singoli strumenti. In questo senso, la classificazione risente anche delle modifiche legislative. Nel caso italiano, ad esempio, la recente decisione di estendere il trattamento di maternità fuori dall’ambito occupazionale e a beneficio della cittadinanza fa sì che la collocazione di questa assicurazione tra gli ammortizzatori sociali sia in una certa misura superata.

Quando si considerano aspetti specifici di funzionamento dei vari strumenti, diventa perciò molto difficile pervenire ad un metodo univoco di classificazione per l’insieme dei Paesi EU, a scapito purtroppo dell’effettivo valore analitico che può essere attribuito alla composizione percentuale della spesa. A queste difficoltà oggettive, vanno anche aggiunti i problemi derivanti dai criteri soggettivi - a volte opinabili - con cui alcune spese vengono classificate all’interno di ogni funzione, seguendo la procedura di armonizzazione delle statistiche su base comunitaria.

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Tab. 4 - Spesa sociale per funzione in % della spesa totale (1998).

PAESE Sanità Invalidità Vecchiaia Superstiti Famiglia Disoccup. Abitaz. Altre politiche

BELGIO* 24,5 8,8 31,6 11,2 8,5 12,7 2,7 DANIMARCA 19,3 11,6 38,3 0,1 13,0 11,7 2,5 3,7 GERMANIA° 28,1 7,9 40,4 1,9 10,1 8,7 0,7 2,2

GRECIA° 24,1 6,2 43,9 8,7 8,1 4,8 3,1 1,1 SPAGNA° 29,2 8,1 41,9 4,3 2,1 13,5 0,3 0,7 FRANCIA° 29,2 4,9 37,9 6,1 9,8 7,6 3,2 1,4 IRLANDA 36,6 4,8 19,0 6,0 12,7 15,5 3,4 2,1 ITALIA° 23,4 6,2 53,3 10,7 3,6 2,7 0 0,1

LUSSEMBURGO 24,6 12,1 39,9 4,3 14,1 3,5 0,3 1,1 OLANDA° 28,5 11,8 35,8 5,3 4,5 7,3 1,6 5,2 AUSTRIA 26,2 8,6 37,9 10,3 10,0 5,5 0,3 1,1

PORTOGALLO° 33,2 12,6 35,5 7,2 5,3 4,7 0 1,5 FINLANDIA° 22,7 14,4 30,5 4,0 12,8 12 1,4 2,2

SVEZIA 23,4 11,6 37,2 2,3 10,8 9,3 2,5 3 REGNO UNITO° 25,2 11,6 39,9 3,9 8,6 3,6 6,2 0,8

EU 15* 26,8 8,3 40,6 5,1 8,3 7,2 2,1 1,6 EU 11* 27,5 7,4 40,9 5,5 8,0 7,8 1,2 1,7

ISLANDA 38,0 12,0 28,7 3,0 12,6 2,6 0,6 2,3 NORVEGIA° 32,4 15,5 31,2 1,4 13,3 2,9 0,7 2,5

Fonte: Eurtostat, 2001. *: dati stimati; °: dati previsionali Nonostante questi aspetti controversi del quadro di confronto, gli elementi che emergono dalla

composizione percentuale della spesa per funzioni sono comunque utili a capire alcune problematiche di fondo dei sistemi di welfare. Come si può vedere dalla tabella 4, le funzioni vecchiaia e superstiti, sommate tra loro, sono in tutti i paesi (ad eccezione dell'Irlanda che presenta caratteristiche demografiche uniche) quelle che nel 1998 hanno assorbito la quota maggiore di spesa. Da qui la preminente importanza dello studio sulla previdenza in tutta Europa e la centralità dei problemi relativi alla sostenibilità di questo tipo di spesa. Per quanto riguarda l’Italia, si rileva che la quota per la spesa previdenziale appare più alta di tutti i Paesi UE, con un divario molto accentuato, 64% nella somma di vecchiaia e superstiti, contro una media per i quindici Paesi membri del 45,7%. Questo dato che mostra il notevole assorbimento di risorse per la spesa pensionistica può essere messo in discussione, sia per quanto attiene il modo con cui è calcolato6, sia per ciò che esso rappresenta in termini prospettici dopo gli interventi di riforma attuati nel corso degli anni novanta7.

Anche effettuando le dovute correzioni8, il peso delle pensioni sulle prestazioni di welfare in Italia è comunque messo in risalto dalle basse percentuali di spesa negli altri comparti, come quello dei sostegni alla disoccupazione e delle politiche attive del lavoro, oppure quello delle politiche familiari e per l'abitazione. A tale riguardo, va osservato che una conseguenza dello sbilanciamento verso la spesa pensionistica, sottolineato dal confronto con gli altri Paesi UE, è di rendere più delicato il problema della sostenibilità finanziaria dell’intero sistema di protezione sociale. Tra previdenza e invecchiamento della popolazione esiste, infatti, una stretta correlazione che tende ad aumentare l’onerosità del sistema, per cui il rischio dell’insorgere di conflitti tra categorie e tra generazioni può essere contrastato solo con radicali modifiche del quadro legislativo come quelle introdotte dalla riforma del 1995.

6 Le critiche sul modo con cui questo tipo di spesa è riportato nella classificazione europea si basano su due punti. In primo luogo, perché vengono considerate alcune spese, come i trattamenti di fine rapporto del settore privato, che non sono destinate alla copertura del rischio di vecchiaia (Cfr. G.Geroldi, 1998). Secondariamente, perché il loro ammontare è ottenuto in modo disomogeneo, per la presenza di alcuni elementi distorsivi di rilievo come la rilevazione al lordo (nel caso italiano) o al netto (ad esempio nel caso tedesco) delle imposte sui redditi da pensione.

7 In uno studio comparativo effettuato dall’Ageing Working Group (Economic Policy Committee, 2000), sono riportate le proiezioni al 2050 del rapporto tra spesa pensionistica e PIL di tutti i Paesi UE. Dal documento si ricava che l’Italia, partendo da un valore relativamente più sfavorevole del rapporto (14,2% nel 2000) ottiene, insieme alla Svezia la performance più ragguardevole in termini stabilizzazione del rapporto stesso, che cresce nel momento di massimo picco di un valore pari all’1,7% per poi ritornare a fine periodo al livello di partenza.

8 Si veda a tal e proposito Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, Ispettorato Generale della Spesa Sociale, 2000.

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2.4 I fattori di crisi della protezione sociale in Europa.

A partire dalla metà degli anni settanta i sistemi di welfare state occidentali sono entrati in una lunga e travagliata crisi, originata dalla progressiva inadeguatezza della loro impostazione rispetto ai mutamenti economici e ai nuovi bisogni emergenti nella società. Per trovare le cause di queste difficoltà, occorre ritornare con la memoria ai caratteri essenziali dello scenario socioeconomico in cui gli stessi sistemi di welfare europei si sono originariamente inseriti, a prescindere dalle loro differenti impostazione ricordate in precedenza, e individuare i principali fattori di cambiamento.

Tab. 5 - I cambiamenti intercorsi nella demografia, struttura delle famiglie e mercato del lavoro dell’UE Variabile 1969 1997-98

Speranza di vita (numero di anni) alla nascita: Maschi 67.4 74.6

Femmine 72.9 80.9 Speranza di vita a 65 anni (numero di anni):

Maschi 12.7 15.6 Femmine 15.1 19.4

Tasso di fertilità complessivo (n. di bambini per ogni fam.) 2.6 1.5 Incidenza delle famiglie monoparentali (%) 7 16b

Incidenza delle famiglie monocomponente (%) 14 27 b Numero di divorzi (in % dei matrimoni) 6.8 36.1

Tasso di disoccupazione (%) 2.5 10.0 Lavoro a tempo determinato (%):

Maschi 4 12 Femmine 6 14

Lavoro a tempo parziale (%): Maschi 1 6

Femmine 22 33 Spesa sociale/PIL (%) 19.0a 28.7

Note: (a) Il dato si riferisce al 1970; (b) I dati si riferiscono al 1990 Fonte: Eurostat (i dati si riferiscono all’UE15) in Buti M., Franco D., R. Pench, L., (1999).

Innanzi tutto, la maggiore difficoltà a trovare risorse disponibili per il finanziamento. Lo sviluppo della

protezione sociale, soprattutto nel secondo dopoguerra, è andato di pari passo con una crescita economica sostenuta e con un conseguente allargamento della base occupazionale: due fattori in grado di assicurare, attraverso l’aumento del gettito fiscale, una politica ridistributiva volta a coprire tutti principali rischi sociali, con il sostanziale consenso della maggioranza dei cittadini. Il rallentamento della crescita e, soprattutto, la contrazione dei tassi di occupazione ha reso negli ultimi decenni più complicato per quasi tutti i governi trovare risorse aggiuntive per finanziare l’attività del welfare, senza incontrare gli ostacoli della protesta fiscale e della perdita di consenso.

La fase di maggiore sviluppo dei sistemi di protezione sociale, inoltre, si è innestata su un modello di società industriale, regolato dai canoni della produzione fordista, che prevedeva produzione di massa e consumi relativamente indifferenziati, oltre a una forza lavoro occupata tutelata dal sindacato, specie nelle grandi fabbriche. La tipologia dei rischi sociali in questo modello di sviluppo era anch’essa poco differenziata e i grandi sistemi pubblici di assicurazione sociale svolgevano adeguatamente il loro compito. Dalla metà degli anni settanta in poi, le economie avanzate hanno invece iniziato una transizione verso la cosiddetta società postindustriale (o post-fordista), altamente terziarizzata, fondata sui paradigmi produttivi della delocalizzazione, della ridotta dimensione delle imprese e della flessibilità del fattore lavoro. Questi fenomeni, che hanno contribuito alla frammentazione categoriale dei rischi, si sono ancor più evidenziati negli anni ottanta, accelerati dalle crisi economiche, dalla rivoluzione tecnologica, dall’ulteriore integrazione dei mercati e dall’emergere di modelli più individualizzati di carriera e di consumo.

In anni recenti, si sono poi manifestate crescenti difficoltà nel tradizionale sistema familiare basato sulla divisione del lavoro fra i sessi, che determinava l’internalizzazione (nel nucleo familiare) di una quota rilevante dei costi della riproduzione sociale. Il superamento di tale modello, pur ottenendo risultati positivi sul piano della partecipazione femminile alle forze lavoro e della più equa distribuzione delle opportunità, ha avuto ripercussioni sul fronte della spesa sociale, chiamata ad assorbire gli oneri che in precedenza erano implicitamente accollati alle famiglie.

Ulteriore fattore di stabilità del welfare è stato per lungo tempo una struttura demografica equilibrata, tanto nelle fasce di età, quanto nei flussi migratori. Dalla metà degli anni settanta, il profilo finanziario della protezione sociale è andato progressivamente alterandosi, a causa del calo dei tassi di fertilità, diventato strutturale, dell'invecchiamento della popolazione e delle tensioni di natura esogena connesse alla forte immigrazione dai paesi meno sviluppati.

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Va poi considerato che i modelli di welfare perfezionati dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale presumevano aspettative stabili da parte dei beneficiari, ossia congrue rispetto ai profili attuariali delle categorie di appartenenza (nei sistemi occupazionali) o a esigenze minime (nei sistemi universalistici). Con l’inizio dei processi di ristrutturazione, dopo la metà degli anni settanta, i cittadini hanno invece manifestato richieste crescenti nei confronti delle provvidenze pubbliche, a prescindere dal contributo finanziario direttamente sostenuto, nonostante che il forte rallentamento della crescita economica imponesse maggiori vincoli alla gestione dei trasferimenti pubblici.

Da ultimo, tra i fattori di stabilità del welfare, vanno anche ricordati l’autonomia e la centralità degli stati nazionali nel formulare i contenuti delle politiche ridistributive e nel definirne gli assetti legislativi. Tale prerogativa consentiva, soprattutto in specifiche situazioni di difficoltà, di adottare misure che, almeno temporaneamente, potevano prescindere dal peso finanziario degli schemi vigenti in altri paesi e fare leva anche su impliciti meccanismi di solidarietà territoriale interna a ogni paese. L’integrazione politica ed economica europea, assieme alle dinamiche di interdipendenza economica conseguenti ai processi di mondializzazione, da un lato, e le spinte autonomistiche ai vari livelli territoriali, dall’altro, hanno però indebolito anche questa prerogativa.

2.5 La dinamica demografica alla fine degli anni ’90

L’insieme delle trasformazioni appena ricordate ha creato una serie di vincoli e fatto emergere nuovi bisogni, determinando l’esigenza di un complessivo riadattamento dei sistemi di welfare. Il rallentamento della crescita economica e le condizioni di vita desiderate dai cittadini, aumentando il peso della spesa sociale, impongono forme di controllo dei costi e modifiche in senso restrittivo di molti tradizionali schemi di protezione. Tecnologie e nuovi mercati, infine, ridistribuendo le opportunità occupazionali tra settori produttivi e aree geografiche, sconvolgono i tradizionali percorsi di carriera e creano nuovi dualismi all’interno del mercato occupazionale che impongono un diverso indirizzo della protezione sociale per una domanda più differenziata di tutela.

In questo contesto, in cui le politiche pubbliche cercano di riadattare i sistemi di welfare per renderli più rispondenti alle trasformazioni della società, l’elemento di maggiore evidenza tra i fattori di mutamento osservabili nel panorama europeo è dato dalla dinamica demografica. Essa si manifesta in diverse forme.

2.5.1 L’invecchiamento della popolazione L’impatto economico e sociale dell’invecchiamento è stato particolarmente pronunciato nell’ultimo

decennio, a causa di tassi di fertilità più bassi associati al contemporaneo invecchiamento della generazione dei baby boomers. L’invecchiamento ha intensità diversa da paese a paese, ma è specialmente pronunciato nei paesi meridionali. Le conseguenze di queste tendenze sono facilmente immaginabili: minor numero di giovani che entreranno a far parte delle forze lavoro, a fronte di una massiccia uscita degli anziani e un progressivo innalzamento dell’età delle forze lavoro. Ciò richiede una maggiore partecipazione alle forze di lavoro e la crescita della quota di occupati sulla popolazione in età di lavoro. L’innalzamento della speranza di vita e una maggiore qualità della stessa durante la vecchiaia, grazie ai progressi medici, impone a tutti i paesi uno sforzo per far sì che anche nelle età più avanzate – oltre i cinquant’anni – aumenti la quota di popolazione in attività. Gli obiettivi fissati al Consiglio di Lisbona, nel marzo 2000, di un tasso di occupazione pari al 70% entro il 2010 e, più recentemente al Consiglio straordinario di Stoccolma, di un tasso di occupazione pari al 50% per le persone tra i 55 e i 64 anni, sempre entro il 2010, implicano un processo di radicale trasformazione delle politiche per il lavoro e dell’istruzione, unitamente a provvedimenti fiscali e ad altre misure per adeguare l’organizzazione del lavoro in modo che l’impegno lavorativo degli anziani si possa svolgere in un ambiente più employment friendly.

Tab. 6 - Tassi percentuali di partecipazione alle forze di lavoro, dati 1999. EU

15 B DK D EL E F IRL I L NL A P FIN S UK

15/64 62 59 76 65 55 52 60 63 53 62 71 68 67 67 71 71 55/64 37 25 54 38 38 35 28 44 27 26 35 29 51 39 65 49

Fonte: Eurostat – European Community Household Panel (ECHP), pubblicate in Eurostat (2001). La tabella 6 mostra come molti Paesi europei siano piuttosto indietro rispetto a questi obiettivi. Il ritiro

dall’attività lavorativa dei baby boomers esporrà il sistema pensionistico a potenziali forti squilibri. Alti tassi di occupazione possono però evitare questi rischi, già in parte affrontati con le numerose riforme previdenziali dei primi anni ’90. Lo sviluppo di strategie atte a prevenire i rischi di solidità dei sistemi previdenziali nei

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prossimi cinquant’anni è uno degli aspetti cruciali del modello sociale europeo. L’invecchiamento della popolazione porterà con se anche una maggiore domanda di prestazioni

sanitarie, altamente correlata all’allungamento dell’età dei cittadini. Sebbene l’accessibilità alle cure sanitarie sia uno dei capisaldi delle politiche sociali di tutti i paesi, negli ultimi anni si sono moltiplicati gli interventi di controllo dei costi che, per evitare effetti discriminativi, non possono fare a meno di potenziare le misure di prevenzione e di miglioramento degli stili di vita delle persone, allo scopo di contrastare l’insorgere delle patologie.

2.5.2. I cambiamenti nella composizione familiare Il numero dei nuclei familiari sta via via aumentando ma la loro ampiezza diminuisce. Al contempo, la

struttura delle famiglie muta molto più velocemente che un tempo e, anche a causa dell’aumento delle separazioni e dei single, si assiste a una deistituzionalizzazione del ruolo della famiglia. Il numero di bambini, all’interno dell’UE, che vivono in una famiglia monoparentale è aumentato del 50% dal 1983 e attualmente il 13% dei bambini dell’Unione vive in una famiglia con un solo genitore (con una punta del 25% in Gran Bretagna).

I problemi dell’infanzia sono però solo una parte, sebbene importante, dei problemi che interessano i nuclei familiari più piccoli e con meno legami sociali. L’adeguamento delle politiche per la famiglia rappresenta, infatti, una delle importanti conseguenze del cambiamento demografico. Rientra in tale ambito anche la promozione di modelli di vita familiare e sociale adatti a evitare di scaricare solo sulla collettività il peso dell’invecchiamento della popolazione. A tale scopo, stanno aumentando le misure fiscali per agevolare le cure parentali nell’ambito familiare e la rimodulazione degli orari di lavoro per chi accudisce persone anziane.

2.5.3 La localizzazione delle famiglie Il numero di persone che abita nelle grandi città sta diminuendo, a favore di coloro che vanno ad abitare

nelle aree periferiche. Questo modello nasconde però forti differenziazioni per fascia di età: i giovani e le persone molto anziane sono più legati alla residenza nelle grandi città, mentre le famiglie con figli e le persone in età di ritiro dal lavoro tendono a spostarsi verso piccoli centri in cerca di una maggiore qualità della vita. La diversa localizzazione per fasce di età tende a generare nuovi problemi in termini di gestione dei servizi e di coesione sociale nelle grandi aree metropolitane, fenomeno accentuato anche dai movimenti migratori, mediamente più sostenuti nelle città in cui è richiesta una maggiore quantità di forza lavoro. Molte regioni europee, al contrario, devono affrontare i problemi degli alti livelli di invecchiamento insieme all’emigrazione dovuta alla fuga della forza lavoro giovane in cerca di opportunità occupazionali più appetibili. La contemporaneità di questi fenomeni incide sul progresso sociale e la crescita economica omogenea in tutte le aree.

3. LE POLITICHE EUROPEE PER L’INCLUSIONE SOCIALE

3.1 Premessa

Durante gli anni ’90, nel contesto degli interventi correttivi sulla spesa per la protezione sociale, una particolare attenzione è stata dedicata in tutti i Paesi al comparto assistenziale. Come si è gia accennato, diverse sono state le motivazioni che hanno spinto i governi all’azione riformatrice. Tra esse hanno soprattutto pesato la necessità di risanare i bilanci pubblici in vista dell’unione monetaria, con misure di contenimento della spesa che hanno interessato anche la spesa sociale9, e l’incalzare delle trasformazioni strutturali (invecchiamento della popolazione, integrazione economica internazionale, progresso tecnico) che si riflettono sugli strumenti della protezione sociale.

Gli indirizzi di riforma perseguiti pressoché in tutti i paesi hanno soprattutto puntato ad aumentare la selettività nell'accertamento dei beneficiari e a privilegiare le misure di welfare to work, ovvero la ricerca di percorsi di inclusione tramite servizi e incentivi volti a migliorare l’occupabilità delle persone, in alternativa o come integrazione dei sostegni monetari passivi.

9 Per una descrizione del modo con cui è stato trattato in Italia il problema della spesa per la protezione sociale nella prospettiva del risanamento dei conti pubblici, anche a seguito dei lavori della "Commissione Onofri", si veda G.Geroldi, 1999

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Il cammino di riforma è stato condizionato anche dai cambiamenti intercorsi nel mercato del lavoro che, con il progressivo superamento del sistema di produzione fordista, ha esteso le forme di impiego flessibili e aumentato i rischi di interruzione del rapporto di lavoro, determinando nuove forme di esclusione e un maggiore ricorso alle reti di protezione dell’assistenza pubblica. Questo collegamento stretto con un mondo del lavoro in continua trasformazione fa sì che le riforme del welfare siano tutt’altro che terminate e, anzi, si registra una pressione verso l’innovazione degli schemi, nel tentativo di garantire anche ai lavori meno tradizionali un più adeguato grado di protezione.

A tale riguardo, va sottolineato che, nel ramo assistenziale, non si è assistito ad una drastica diminuzione delle risorse a disposizione. L’orientamento prevalente è stato piuttosto quello di utilizzare le stesse risorse in modo diverso, per fornire prestazioni più efficaci e favorire l’integrazione sociale dell’assistito. Lungo questa linea di condotta si collocano anche il tendenziale passaggio dai sostegni monetari all’erogazione di servizi e la ricerca di un maggiore coordinamento tra politiche per l’assistenza e politiche per il lavoro.

Nelle pagine che seguono, sono riportate le principali caratteristiche e le più significative riforme, a livello europeo, che dimostrano lo sforzo riformatore compiuto nei diversi settori della politica assistenziale.

3.2 Assegni familiari, maternità e politiche per conciliare tempo di lavoro e famiglia

La protezione sociale per le famiglie con figli agisce in funzione di tre obiettivi principali: a) aiutare i genitori a sopportare l'onere aggiuntivo del mantenimento dei figli, attraverso la corresponsione di assegni miliari di varia natura; b) aiutare le madri attraverso le indennità di maternità e il diritto al congedo, attualmente sempre più riconosciuto a entrambi i genitori; c) fornire aiuto per l'assistenza ai figli e ai familiari disabili, o anziani e in cattive condizioni di salute.

A livello europeo, nel 1998, la spesa per le politiche familiari era pari al 2,3 % del PIL e all’8,3% della spesa sociale totale. In tutti i paesi sono presenti dispositivi per il sostegno delle famiglie a basso reddito o in condizioni particolari (famiglie monoparentali, famiglie numerose, o con membri portatori di handicap).

Gli obiettivi sopraindicati sono importanti ai fini del miglioramento della sicurezza del reddito delle persone che hanno famiglia, in particolare delle donne, nel contesto generale di una riconciliazione del lavoro con le altre responsabilità domestiche. I provvedimenti di aiuto all'assistenza dei figli e il diritto al congedo per occuparsi degli stessi o di altri membri della famiglia che possono richiedere un'assistenza a lungo termine, sono fondamentali per molte donne che intendono proseguire una carriera professionale, nonché per sollecitare una maggiore partecipazione alle forze lavoro da parte di tutti i cittadini.

In Germania, gli assegni a favore dei figli sono aumentati significativamente tra il 1999 e il 2000, assieme alle agevolazioni fiscali per chi ha figli, in modo da aumentare il reddito netto delle famiglie. In Lussemburgo, le misure di sostegno sono mirate maggiormente alle famiglie a basso reddito, attraverso una diminuzione delle agevolazioni fiscali per ciascun figlio (che tendono a favorire i redditi più elevati) e il contemporaneo aumento degli assegni di pari importo per ciascun figlio. Analogamente, in Italia è stato introdotto nel 1999 un sistema di assegni familiari per le famiglie che hanno più di tre figli al di sotto dei 18 anni, accompagnato da una verifica del reddito effettivo, utilizzata anche per l’erogazione dell’assegno di maternità.

Gli sviluppi fondamentali in questo settore sono stati comunque diretti ad aumentare le possibilità di congedo parentale. Il diritto delle persone con figli a prendere congedo è stato ampliato, o è in corso di esserlo, in molti paesi dell'UE, fra cui Austria, Lussemburgo, Danimarca, Belgio, Irlanda, Paesi Bassi, Italia, Spagna e Regno Unito.

Contemporaneamente, la disponibilità di aiuti all'assistenza dei figli è aumentata negli ultimi anni in vari paesi, in particolare in quelli in cui nel passato vi erano poche previdenze in questo campo. Le strutture di sostegno, risultano essere spesso una componente complementare dei provvedimenti attivi a favore del mercato del lavoro per consentire a molte persone, in particolare alle donne, di proseguire la carriera professionale e di integrarsi adeguatamente nella società.

In Spagna, le agevolazioni fiscali che possono essere accordate per far fronte all'onere dei figli al di sotto dei 3 anni di età, sono state aumentate significativamente nel 1998. In Grecia, è stato varato un progetto pilota destinato ad aumentare il tempo che i bambini possono passare presso i giardini d'infanzia e le scuole elementari, nonché i centri di assistenza diurna dello stato. In Portogallo, si è provveduto ad ampliare la rete degli asili infantili. Dal 1999, i genitori soli dei Paesi Bassi che sono alla ricerca di un posto di lavoro o partecipano a programmi di formazione professionale hanno il diritto al rimborso delle spese scolastiche per il ciclo elementare o secondario dei figli, qualora il loro reddito non superi un determinato livello. Nel Regno Unito, è stato introdotto nell'ottobre 1999, allo scopo di favorire le famiglie di basso reddito, un nuovo credito fiscale per ciascun figlio. Sono compresi in questo provvedimento i genitori soli, mentre vi è l’intenzione di aumentare il numero delle strutture di accoglienza dei bambini al di fuori dell'ambiente scolastico.

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3.3 Le prestazioni a favore dei disabili

In tutti i paesi sono presenti strumenti di assistenza alle persone che presentano un handicap tale da impedirne l’ingresso nel mondo del lavoro, ovvero di una grave inabilità che insorge nella carriera lavorativa e che ne impedisce la normale prosecuzione. Le prestazioni, spesso, contengono anche un’alta quota di servizi che sostituiscono talvolta le prestazioni monetarie; inoltre, esiste un raccordo molto forte tra il sistema di sostegno agli invalidi e il sistema previdenziale.

La spesa per invalidità, secondo le statistiche di Eurostat, nel 1998 assorbiva l’8,3% delle prestazioni di spesa sociale e il 2,2% del PIL.

In tempi recenti, le indennità di disabilità sono state impiegate come sostituti più "accettabili" per le indennità di disoccupazione in vari Paesi, in particolare in rapporto ai disoccupati di lunga durata. Dato che le spese e il numero di candidati sono aumentate, si è cercato di restringere le condizioni di corresponsione degli aiuti alle persone che sono di fatto incapaci di lavorare a causa della loro disabilità. Nei Paesi Bassi e nel Regno Unito, dove i disabili sono di più dei disoccupati, sono state introdotte riforme verso la metà degli anni '90 per rendere più severe le procedure di verifica medica e per ampliare la definizione delle attività professionali che gli interessati possono svolgere.

Inoltre, nei Paesi Bassi, una parte dell'onere di controllo di questo sistema è stata spostata sui datori di lavoro, dal 1998. Questi ultimi, infatti, sono stati chiamati a versare contributi differenziati a seconda dei rischi incorsi dai loro dipendenti, mentre sono stati offerti ai datori di lavoro incentivi per ridurre il numero di disabili, attraverso la dissuasione o facilitandone la continuazione del lavoro. Nel Regno Unito si prevedono ulteriori misure per rendere ancora più severe le condizioni di qualificazione, garantendo anche un reddito minimo a chi riprende un lavoro, attraverso un "credito fiscale”. Nel contempo, gli assegni a favore di chi è veramente incapace di lavorare sono stati aumentati.

Anche in altri paesi, come l'Austria, la Grecia e l'Italia, le condizioni per ottenere le indennità sono state rese più severe, mentre in Svezia, dove l'importo della spesa è relativamente elevato, è in corso un processo di riforma totale del sistema. In Irlanda, invece, paese in cui la spesa per l'indennità di disabilità è relativamente bassa, nel 1997 si è estesa l'indennità di disabilità nell'ambito dell'assistenza sociale alle persone che svolgono a tempo parziale un lavoro di assistenza in casa alle persone disabili e sono stati aumentati gli importi degli assegni alle coppie in cui entrambi i coniugi risultano disabili.

3.4 Le indennità di disoccupazione

Ai sostegni monetari passivi previsti per sostenere il reddito dei disoccupati, all’interno del sistema europeo di protezione si è affiancato negli ultimi anni un insieme di strumenti "attivi" orientati alla creazione di opportunità occupazionali, basati essenzialmente su servizi per l'impiego e incentivi.

Prendendo sempre a riferimento il 1998, nell’Unione Europea questo settore assorbe il 7,2% delle risorse del welfare e l’1,9% del PIL comunitario.

Il finanziamento di queste prestazioni è rimasto tipicamente contributivo, configurandosi le indennità di disoccupazione come schemi di tipo assicurativo. Non mancano però forme di finanziamento con imposte, soprattutto per quanto riguarda il lato delle politiche attive, anche se soltanto in Lussemburgo il finanziamento avviene solo tramite questo canale.

In tutta l'Unione Europea si è registrato un ampio consenso sul fatto che i sistemi di garanzia del reddito devono contenere una duplice garanzia, ossia:

- che le persone siano incentivate finanziariamente a cercarsi un’occupazione, in modo tale che non

passino al di fuori del mondo del lavoro un tempo tanto lungo da porre a repentaglio le loro conoscenze professionali e quindi la possibilità di reinserirsi nei circuiti occupazionali;

- che non si venga a creare un atteggiamento di dipendenza dalle prestazioni sociali: l’occupabilità delle persone assistite deve migliorare piuttosto che diminuire durante il periodo di disoccupazione.

Tutto questo ha comportato sforzi per garantire che il tasso di sostituzione delle prestazioni sociali in

rapporto al reddito da lavoro, non rappresenti un disincentivo finanziario a cercare occupazione e che le persone siano aiutate a raggiungere questo obiettivo attraverso adeguate misure attive. Allo stesso tempo, le prestazioni sociali devono fornire un livello accettabile di reddito nel periodo in cui gli interessati sono alla ricerca di un posto di lavoro, onde non incidere negativamente sulla disponibilità effettiva di tempo da dedicare alla ricerca.

In pratica, sia l'accesso dei disoccupati alle prestazioni sociali, che l'importo degli aiuti di cui fruiscono variano in modo significativo tra i paesi con una differenza generale tra i paesi del nord e quelli del sud dell'UE. Il dato trova conferma in un recente studio empirico del Comitato europeo dei nuclei familiari della

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Comunità (ECHP) sui tassi di sostituzione, basato su quanto ricevono di fatto i disoccupati, a fronte di quanto guadagnavano mentre erano in attività. Da tale indagine emerge che, nella maggior parte dei paesi, solo una piccola percentuale di uomini e di donne disoccupati hanno ricevuto assegni di disoccupazione nella misura dell'80% o più della retribuzione precedente. Ad eccezione della Danimarca (27%),della Germania (25%) e della Francia (24%) per gli uomini, nonché della Danimarca (49%), della Germania (21%), della Francia (30%), del Belgio (23%) e dell'Irlanda (21%) per le donne, meno del 20% dei disoccupati hanno ricevuto indennità in questa misura in tutti gli Paesi. Questa percentuale era pari al 10% in Spagna e di gran lunga inferiore al 10% in Italia, Regno Unito e Grecia, sia per gli uomini che per le donne. Ad eccezione della Danimarca, oltre il 60% degli uomini e delle donne percepivano assegni di disoccupazione inferiori al 65% del reddito precedente o non ne percepivano alcuno10.

Come già detto, una caratteristica evidente delle politiche poste in atto nell'UE negli ultimi anni è stata quella del riesame delle indennità di disoccupazione e dei requisiti di accesso. Di conseguenza, in molti paesi sono stati presi provvedimenti per rendere più difficili le condizioni di ottenimento degli assegni e per aumentare l’attivazione dei disoccupati verso la ricerca del posto di lavoro. Questi provvedimenti non sono stati limitati unicamente agli assegni di disoccupazione, ma hanno interessato anche le prestazioni di disabilità e i programmi di prepensionamento, che avevano cominciato ad essere impiegati come sostituti effettivi degli assegni di disoccupazione in vari paesi.

I cambiamenti si sono concentrati sui criteri di erogazione dei benefici e hanno riguardato anche la previdenza sociale in modo da rendere più attraente da un punto di vista finanziario il prolungamento dell'attività lavorativa.

3.4.1 Le indennità durante l'attività lavorativa Questo orientamento ha trovato la più ampia applicazione pratica nel Regno Unito, dove il sistema del

"credito alle famiglie" destinato ad integrare il reddito netto delle persone che hanno posti di lavoro a bassa retribuzione e hanno bambini, è stato sostituito nel 1999 dal "credito fiscale per le famiglie di lavoratori", con cui viene garantito a tutti gli occupati con famiglia a carico, compresi tra questi i genitori soli, un maggiore livello minimo di reddito rispetto a quanto avveniva in precedenza. Con questa norma si corrisponde anche un'indennità per far fronte alle spese dell'assistenza ai figli. Un provvedimento analogo è stato introdotto a favore dei disabili, mentre si è avviato un programma pilota dello stesso tipo per i disoccupati sopra i 50 anni, in modo da spingerli a cercare lavoro.

L'unico altro paese dell'UE in cui le indennità durante l'attività lavorativa sono importanti è l'Irlanda, dove esiste da un certo tempo un "supplemento al reddito delle famiglie" che negli ultimi anni è stato riconosciuto a un numero crescente di persone, dato che è stata modificata la soglia economica per averne accesso e le condizioni di concessione sono state rese più elastiche. Inoltre, i beneficiari dell'indennità di disoccupazione hanno acquisito il diritto a mantenere l'indennità per i figli a carico per un periodo di tredici settimane dopo aver iniziato un'attività professionale, in modo da dare un ulteriore incentivo all'inserimento lavorativo. Le indennità durante l'attività professionale sono state introdotte anche in vari altri paesi, in modo da accelerare la fase di transizione dalla disoccupazione all'occupazione e da incoraggiare i disoccupati ad accettare lavori a tempo parziale o temporanei, come è il caso dell'Austria, della Germania e del Portogallo, dove l'obiettivo dichiarato è quello di migliorare l'esperienza di lavoro dei disoccupati e di facilitarne l'occupabilità futura.

3.4.2 Cambiamenti nei regimi di indennità di disoccupazione. Se per tutti gli anni '90 le modifiche apportate alle indennità di disoccupazione si sono preoccupate

soprattutto di contenere l'onere ricadente sui bilanci pubblici, negli ultimi anni è emersa maggiormente la preoccupazione di come integrare i sostegni al reddito con misure attive di politica del lavoro per incoraggiare i beneficiari delle indennità a trovare occupazione prima possibile.

In ossequio a questa strategia molto più orientata al reinserimento sono state modificate anche diverse regole. In vari Paesi, ad esempio, fra cui Danimarca, Germania, Paesi Bassi e Regno Unito, la definizione di ciò che costituisce un "lavoro adeguato" per un disoccupato è stata ampliata in modo da comprendere posti di lavoro in cui i disoccupati sono in grado di svolgere un'attività con un minimo di riqualificazione professionale, senza più un legame rigido quindi con la posizione precedentemente ricoperta. Nello stesso tempo, il rifiuto di accettare un "lavoro adeguato" dopo aver trascorso un certo periodo di disoccupazione, o la mancata disponibilità a partecipare a programmi di reinserimento, possono portare alla perdita delle indennità.

Contestualmente all'affermarsi di una linea di maggiore rigore nella concessione dei sostegni monetari e di flessibilizzazione delle preferenze imposta alle persone in cerca di occupazione, è però emersa anche l'esigenza di apportare modifiche al sistema delle indennità di disoccupazione per migliorare la rete di sicurezza fornita dai programmi pubblici. Ancor più di recente, l'attenzione politica in tutta Europa si è anche

10 Vedi Commissione delle Comunità Europee, 2000

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concentrata sul principio che il lavoro deve assicurare un reddito adeguato. In questa logica si colloca, ad esempio, l'adozione del minimum wage in Inghilterra, cioè in un paese dove l'autonomia contrattuale delle parti è stata a lungo considerata lo strumento più efficace per l'inserimento dei soggetti più deboli.

La combinazione salario/sussidio o salario/credito d'imposta sembrano essere dunque le due strade maggiormente percorse negli ultimi anni in Europa per trovare una soluzione al delicato trade-off tra giuste esigenze di protezione e contenimento dei comportamenti opportunistici. Ciò nonostante, in alcuni paesi permangono ancora oggi situazioni di unemployment trap, in cui le persone sono scarsamente incentivate ad intraprendere l'attività lavorativa. Ciò vale in particolare per le persone il cui coniuge (di norma sono le donne) è disoccupato e fruisce d'indennità di disoccupazione con verifica del reddito riferita al nucleo familiare, come è il caso del Regno Unito e del Belgio. In questi casi, un nuovo introito, anche basso, può comportare la perdita dell'indennità o del vantaggio fiscale. Per rimediare a queste incoerenze nel Regno Unito e in Belgio sono già state prese misure che cercano di limitare l'effetto deterrente per l'occupazione di aliquote marginali effettive d'imposta eccessivamente elevate.

3.5 Le politiche per la coesione sociale

La propensione per le misure attive di inserimento nel mercato del lavoro, sempre più evidente nelle strategie politiche dei paesi europei, trova forte motivazione anche nel desiderio di ridurre la dipendenza e l'esclusione sociale. E' infatti unanimemente riconosciuto che disporre di un lavoro stabile, o almeno dell'opportunità di poter lavorare, rappresenti un requisito fondamentale per l'inserimento sociale. Per aumentare l'efficacia di questa strategia viene però riconosciuta la necessità di potenziare un gamma piuttosto ampia di funzioni, come l'accesso all'istruzione e alla formazione professionale, il diritto a un alloggio decente, a livelli ragionevoli di assistenza sanitaria e ai principali servizi sociali.

In tutti gli stati, i governi si sono impegnati a lottare contro l'esclusione e ad aumentare gli sforzi per agevolare la ricerca di un posto di lavoro, migliorando l'occupabilità e le opportunità di autoimpiego. Questi provvedimenti sono stati diretti ai disoccupati, specialmente a quelli di lunga durata, e ai giovani, ma anche a favore di altri gruppi svantaggiati, come le donne che rientrano nel mercato del lavoro dopo interruzioni di carriera, principalmente causate da problemi di cura familiare. I provvedimenti in questione si sono anche diretti alle persone fuori dal mercato del lavoro, in particolare i disabili con capacità lavorative, i prepensionati e i genitori soli con bambini.

Per quanto riguarda i giovani in cerca di occupazione e i disoccupati di lunga durata, a seguito dell'adozione delle Linee-guida sull'occupazione a partire dal 1998, tutti i Paesi si sono adoperati perché le persone che si trovano in tale condizione da oltre sei mesi (se al di sotto dei 25 anni) e da oltre 12 mesi (sopra i 25 anni)11 abbiano accesso a una qualche misura di carattere attivo o a un lavoro sussidiato. Questi provvedimenti sono stati accompagnati da sforzi per organizzare in modo integrato i servizi di sostegno, adattandoli maggiormente alle esigenze individuali. In alcuni Paesi (Belgio, Francia, Irlanda, Finlandia e Regno Unito), lo stesso orientamento è stato applicato ai disabili, per i quali sono state intraprese azioni finalizzate ad integrarli nei programmi di inserimento nel mercato del lavoro. Nei Paesi Bassi e nel Regno Unito, lo stesso tipo di assistenza è stata introdotta di recente per i genitori soli, in particolare per quelli con i bambini al di sopra dei 5 anni di età.

In altri paesi, fra cui Belgio, Danimarca, Germania, Francia e Paesi Bassi, i provvedimenti riguardanti la ricerca di un lavoro, l'orientamento nello sviluppo della carriera, la fornitura di corsi di formazione professionale o di riqualificazione professionale, sono stati integrati con un aumento significativo del lavoro sussidiato o con l'istituzione diretta di programmi di creazione di posti di lavoro. Questi programmi sono stati rivolti, in particolare, ai disoccupati di lunga durata e alle altre persone che trovano maggiori difficoltà per accedere al mercato del lavoro.

L'attivazione di provvedimenti è stata estesa alle persone che fruiscono di redditi minimi e che, in vari Paesi, sono incoraggiate a partecipare ai programmi destinati a migliorarne l'occupabilità. È questo il caso del Belgio, dove è disponibile una formazione professionale a favore dei meno abbienti, e della Danimarca, dove dal 1998 la corresponsione di assegni di disoccupazione è stata posta collegata alla partecipazione a programmi di riqualificazione dei disoccupati.

Gli sforzi in questa direzione sono cresciuti con il passaggio dai programmi di indennità di disoccupazione a quelli di reddito minimo in vari Paesi, in quanto il carattere universalistico di questi ultimi tende a estendere in misura considerevole la platea dei beneficiari. Va tuttavia sottolineato che l'emergere di questa strategia ha significato per il momento più una revisione concettuale dell'azione pubblica, che non una effettiva riallocazione delle risorse. Infatti, malgrado l'enfasi posta sui provvedimenti attivi, negli anni '90, vi è stato uno spostamento relativamente modesto della spesa dalle misure passive a quelle attive.

11 Svezia, Portogallo e Lussemburgo adottano limiti più bassi, rispettivamente di 3 e 6 mesi.

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3.6 L’ultima rete di sicurezza: i redditi minimi

All’interno dell’Unione Europea, eccezion fatta per Grecia e parzialmente Italia, ogni paese prevede uno schema di reddito minimo che interviene come ultima rete di sicurezza per coloro che non possono provvedere altrimenti alla loro sussistenza. Tali dispositivi operano in modo differenziale, colmando i divari tra risorse proprie e familiari - provengano esse dal lavoro o da altre prestazioni sociali - e minimi garantiti. Questo principio generale comprende modalità di attuazione nazionali complesse e variate.

I livelli dei redditi minimi sono in generale definiti a livello nazionale, ma possono tenere conto delle variazioni regionali del costo della vita, e sono indicizzati in base ai prezzi al consumo o in funzione di altre prestazioni sociali. I redditi minimi implicano un controllo preventivo delle risorse dei richiedenti, che si riferiscono non al richiedente ma al nucleo familiare nel quale vive; si tratta del criterio principale, che innesca il pagamento del sussidio. I livelli dei pagamenti dipendono poi dalla composizione della famiglia, per cui i redditi minimi risultano sussidiari rispetto alla solidarietà familiare ed i richiedenti devono pertanto, entro un certo limite che varia da uno stato all’altro, sforzarsi di recuperare i crediti alimentari a loro favore.

Il modo in cui si tiene conto del carattere ausiliario dei redditi minimi rispetto alle altre prestazioni sociali varia da uno Stato all’altro: in otto stati (Belgio, Austria, Germania, Spagna, Francia, Irlanda, Lussemburgo e Portogallo) si richiede che i richiedenti abbiano in precedenza fatto valere i loro diritti ad altre prestazioni sociali, anche se i redditi minimi possono essere temporaneamente attribuiti in attesa che sia decisa la concessione o meno di un’altra prestazione.

In diversi stati, come i Paesi Bassi, la Germania e il Lussemburgo, i redditi minimi possono integrare indennità di pensione o di disoccupazione. Solo alcune Comunità autonome spagnole li considerano incompatibili con queste prestazioni. Nel Regno Unito, in Danimarca, Svezia, Finlandia e nei Paesi Bassi, non è necessario avere in precedenza fatto valere i diritti alle altre prestazioni.

I redditi minimi sono inoltre non contributivi: non è richiesto alcun contributo precedente. Di conseguenza, il finanziamento dei dispositivi negli Paesi dipende in generale dalle entrate fiscali piuttosto che dai contributi sul reddito del lavoro. L’accesso ai redditi minimi è senza limiti di durata. Nonostante tale carattere illimitato, nella maggior parte dei paesi gli interventi di redditi minimi sono concepiti per essere soltanto temporanei, per alleviare situazioni straordinarie che i beneficiari diretti dovrebbero poter superare, con o senza ulteriore assistenza, segnatamente mediante un posto di lavoro.

In alcuni Paesi esistono minimi sociali non contributivi specifici ad uso di: - persone che hanno raggiunto l’età della pensione legale: sei Paesi hanno stabilito dispositivi siffatti (Belgio, Francia, Spagna, Irlanda, Portogallo e Regno Unito); - persone che soffrono per handicap: sette Paesi hanno sviluppato dispositivi per gli handicap più gravi (Belgio, Spagna, Francia, Irlanda, Paesi Bassi, Portogallo, e Regno Unito); - famiglie monogenitore: redditi minimi specifici esistono in diversa misura in Belgio, Francia, Irlanda e Regno Unito. Sette Paesi fissano limiti di età per l’applicazione dei dispositivi (18 anni in Belgio, Irlanda, Paesi Bassi,

Portogallo e Regno Unito; 25 anni in Francia e Spagna, 30 anni in Lussemburgo), fatto che esclude una parte della popolazione in età lavorativa. I limiti sono abbassati in caso di familiari a carico in Francia, Spagna e Portogallo. Infine, i regimi trattati in questa relazione coprono spesso anche persone immigrate, persone candidate all’asilo, persone che non sono cittadini dell’UE, nella misura in cui esse soddisfano le necessarie condizioni di residenza.

La valutazione dei sostegni effettivi ricevuti nei vari stati esorta alla massima prudenza, poiché i redditi minimi non agiscono da soli: non soltanto possono integrare alcune prestazioni fino ai massimali legalmente definiti, come spiegato sopra, ma i loro stessi effetti si trovano rafforzati da prestazioni addizionali, vantaggi in natura o servizi, che rispondono a necessità specifiche, assegnati come diritti oppure a titolo discrezionale per soddisfare bisogni relativi alla sanità, all’alloggio, all’istruzione, al trasporto, al riscaldamento, all’attrezzatura domestica, all’abbigliamento, all’alimentazione.

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Tab. 7 - Principali servizi e prestazioni associati ai dispositivi nazionali di reddito minimo. Dispositivo di

base Principali servizi e prestazioni associati

Austria Sozialhilfe Indennità alloggio (se un alloggio adatto non è coperto dai tassi standard, lo è tramite pagamenti addizionali o aiuto in natura).

Assicurazione malattia o sanità. Belgio Minimex (minimo

di mezzi di sussistenza)–

Minimum inkomen

Normalmente il minimex copre qualsiasi spesa necessaria. Pagamenti eccezionali possibili a discrezione dei Centri pubblici

di aiuto sociale, soprattutto per l’alloggio e spese associate, sanità, arretrati di gas/acqua/elettricità.

Danimarca Sociale Bistand Indennità alloggio. Indennità di studio per studenti che vivono presso la famiglia o al suo esterno.

Finlandia Toimeentnlotuki Indennità alloggio. Parte addizionale di “Toimeentnlotuki” che copre cure sanitarie costose, custodia dei bambini, costi elevati

legati all’esercizio di un lavoro. Francia Revenu Minimum

d’Insertion - RMI Indennità alloggio al tasso massimo per inquilini. Esenzione dalla

tassa di abitazione. Cure sanitarie gratuite. Mezzi messo a disposizione nel quadro dei contratti di inserimento.

Germania Sozialhilfe Indennità di istruzione. Aiuti per circostanze eccezionali. Indennità alloggio. Assicurazione sanità e spese legate alle

malattie. Irlanda Supplementary

Welfare Allowance –

Unemployment assistance

Indennità alloggio. Aiuti per abbigliamento e calzature dei bambini. Aiuti in natura per letti e corredi, riscaldamento e altre

attrezzature domestiche essenziali.

Lussemburgo Revenu Minimum Garanti – RMG

Indennità alloggio. Presa a carico dell’assicurazione medica .

Paesi Bassi Algemene Bijstand

Indennità alloggio. Presa a carico dell’assicurazione medica .

Portogallo RMG – Rendimento

minimo garantido

Indennità alloggio. Spese mediche (per alcune categorie), borse di studio. Sovvenzioni ai trasporti pubblici

Spagna Renta Minima Aiuto sociale di emergenza (alloggio, attrezzatura e apparecchi domestici).

Fonte: Pierre Guibentif, Denis Bouget, “le politiche del reddito minimo nell’Unione europea”, Lisbona, 1997; Risposte nazionali al questionario 1997 della Commissione sul reddito minimo garantito. Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, “ Report on GMI development in EU Member States in 1992-1997”, Dicembre 1997, Matti Heikkila, Darren McCausland. OCSE, “L’assistenza sociale nei paesi dell’OCSE, relazioni nazionali”, 1996.

3.6.1 La disponibilità al lavoro I dispositivi esistenti, eccetto in Francia, richiedono ai beneficiari diretti, fisicamente idonei, di essere

disponibili al lavoro, di cercare attivamente ed essere pronti ad accettare qualsiasi posto di lavoro adatto o appropriato.

In Irlanda e nel Regno Unito, questa condizione è applicata rispettivamente all’“Unemployment Assistance” e alla “Income-based Jobseeker’s Allowance”. In Francia questa condizione non è applicata e il lavoro è un’opzione fra le altre del processo globale di inserimento al quale s’impegnano i beneficiari diretti. Tuttavia i due terzi dei beneficiari diretti di RMI sono iscritti come richiedenti lavoro. Gli stati definiscono le eccezioni alla disponibilità al lavoro in modo simile: si tratta delle persone disabili, non aventi l’età per essere attive, responsabili di bambini in tenera età o di adulti disabili. Alcuni dati disponibili mostrano forti variazioni del numero di non-disponibili tra paesi (1/3 in Svezia, 87,6% in Lussemburgo), che potrebbero spiegarsi con l’esistenza o meno di dispositivi di aiuti specifici per queste varie categorie. Vi si devono aggiungere le persone che soffrono di una malattia di lunga durata che impedisce loro di esercitare un’attività (5% in Germania e Portogallo, 30% in Svezia). Le persone che abusano di sostanze nocive, alcool o droghe, spesso sovrarappresentate fra i beneficiari diretti di reddito minimo, oscillano tra l’idoneità e la mancata idoneità al lavoro.

In materia di responsabilità familiari, molti Paesi concedono un’esenzione temporanea dalla disponibilità al lavoro quando i bambini sono ancora in età extrascolastica. Alcuni sono più flessibili nei confronti delle famiglie monogenitore.

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Conciliare vita professionale e vita familiare si pone come un problema acuto, poiché l’approccio adottato può avere un impatto diretto sulla vita e l’istruzione dei bambini interessati. Organizzarne la custodia agevolerebbe l’accesso dei genitori al lavoro o alla formazione; tale servizio è gratuito in Svezia, associato alla concessione della Toimeentulotuki in Finlandia, previsto per le famiglie monogenitore nel Regno Unito.

3.7 Tendenze e cambiamenti nel ricorso ai redditi minimi

3.7.1 La riduzione della povertà I redditi minimi si rivolgono alle situazioni più gravi di mancanza di risorse, e non pretendono di risolvere

tutti i casi di povertà; l’approccio più globale spetta ai sistemi di protezione sociale e al loro complesso di trasferimenti sociali. In termini di spese di bilancio, i redditi minimi costano molto poco. In compenso, per la maggioranza dei beneficiari diretti il loro contributo si rivela essere la più importante o addirittura l’unica fonte di redditi.

Gli assegni familiari e per l’alloggio possono rappresentare complessivamente più della metà del sostegno apportato. Per le coppie con due figli, gli assegni familiari formano dal 7 al 28% del sostegno globale, proporzione che cresce nelle famiglie monogenitore, per le quali in Finlandia raggiunge il 42%. Le indennità per l’alloggio sono difficili da stimare, potendo variare secondo le regioni o addirittura i comuni di uno stesso Stato, o secondo la situazione personale del beneficiario diretto quando sono calcolate in funzione dei costi effettivi dell’alloggio. La loro quota nel sostegno apportato varia dal 7 a oltre il 50%.

L’interazione complessa di questi dispositivi sui redditi delle famiglie può costituire per molti un freno alla partecipazione alle misure attive di ritorno al lavoro. La questione è affrontata nei piani nazionali di attuazione degli orientamenti europei per l’occupazione (NAPs - employment).

3.7.2 Dall’indennità di disoccupazione al reddito minimo È ovvio il legame tra l’aumento della disoccupazione e l’aumento del numero di beneficiari diretti del

reddito minimo. Mentre la disoccupazione si accentuava, molti Paesi hanno accorciato i periodi di pagamento delle indennità di disoccupazione, abbassato i loro livelli o applicato condizioni di ammissibilità più restrittive. Circa un terzo dei beneficiari diretti di reddito minimo in Germania, Belgio e Svezia, due terzi in Francia, l’86% in Portogallo e il 90% in Irlanda sono persone in cerca di lavoro.

Il reddito minimo può completare l’indennità di disoccupazione quando il suo tasso individuale di copertura o il tasso applicato alla famiglia è più elevato di quello dell’indennità di disoccupazione, che si riferisce in realtà soltanto al disoccupato, senza tener conto dell’insieme della famiglia nella quale vive. In Germania, ad esempio, il 16% dei beneficiari diretti della Sozialhilfe con età tra i 21 e i 65 anni la ricevono come complemento dell’indennità di disoccupazione e fra loro il 33% è costituito da coppie con figli. Ciò contribuisce alla complessità amministrativa.

I redditi minimi intervengono anche come ultimo ricorso quando le indennità di disoccupazione sono cessate o quando le condizioni di accesso a tali indennità non sono soddisfatte. Avere accesso alle indennità di disoccupazione (fondate sull’assicurazione) esige un’attività professionale precedente soggetta agli oneri sociali per un periodo minimo, e tale condizione esclude:

- i giovani che escono dalla scolarità, - le persone che hanno interrotto l’attività professionale per molto tempo o che non hanno mai lavorato; - le persone che hanno avuto posti a tempo parziale o a durata determinata che non soddisfacevano le condizioni minime. Queste persone possono, a seconda della loro situazione familiare, ritrovarsi fra i beneficiari diretti dei

redditi minimi. Inoltre, quando è necessaria un’età minima una parte dei giovani si ritrovano esclusi da qualsiasi dispositivo di sostegno economico. Alcuni Paesi, come l’Austria, la Germania, la Spagna, la Finlandia, la Francia, il Portogallo, la Svezia hanno istituito un’indennità di disoccupazione assistenziale che prolunga l’assicurazione-disoccupazione ad un livello in generale inferiore e a condizioni variabili secondo gli stati. Tuttavia, quando per riceverla è necessario avere ricevuto l’indennità precedente, le categorie suddette restano ancora escluse, e ciò può contribuire a distogliere le persone dalla ricerca di un lavoro, nella misura in cui i beneficiari diretti di reddito minimo non hanno lo stesso accesso alle misure generali per l’occupazione riservato ai beneficiari delle indennità di disoccupazione.

Irlanda, Regno Unito, Danimarca e Lussemburgo hanno soltanto due tipi di prestazioni per i richiedenti lavoro, una contributiva e l’altra non contributiva, e danno ai beneficiari eguale accesso alle misure generali per il lavoro. Il passaggio dalle indennità di disoccupazione ai redditi minimi ha spesso per effetto lo spostamento delle responsabilità dai bilanci nazionali ai bilanci regionali e/o locali. Da ciò può risultare una

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maggiore pressione sulle economie locali interessate dai tassi di disoccupazione più elevati.

3.7.3 Gli ostacoli all’uscita Per uscire dai dispositivi occorre che altre prestazioni percepite, l’attività svolta o un cambiamento di

situazione familiare procurino redditi superiori ai massimali dei redditi minimi. Gli ostacoli possono essere personali, ma anche dipendere dal funzionamento stesso dei dispositivi.

I redditi minimi possono intervenire come complemento di altre indennità quando gli importi versati non permettono di raggiungere i livelli di reddito garantito. A parte le indennità di disoccupazione trattate sopra, possono essere interessate anche le indennità di invalidità e di malattia o le pensioni. L’uscita dai dispositivi dipenderà allora dalle decisioni prese nell’attuazione delle altre indennità.

I redditi minimi intervengono anche in combinazione con altre prestazioni e servizi, fatto che tende a moltiplicare le procedure e le condizioni di attribuzione. I richiedenti, che a causa della loro situazione hanno maggiori difficoltà di adattamento, affrontano meno facilmente questa complessità amministrativa, e quando persistono nella domanda lo fanno con la speranza di trovare maggiore sicurezza. Non deve sorprendere che essi abbiano riserve rispetto all’uscita, quando i posti di lavoro proposti sono precari e il ritorno al reddito minimo scoraggiante. Inoltre, queste persone non sempre ricevono un sostegno attivo alla ricerca di un lavoro o di una formazione, e ciò può contribuire a un atteggiamento di sfiducia.

In tutti i Paesi una certa proporzione di beneficiari diretti esercita un’attività remunerata. È il caso della metà dei beneficiari diretti della Social Bidrag in Svezia, di cui 20% a tempo pieno, nonché del 13% in Francia, Finlandia e Paesi Bassi, dell’8% in Lussemburgo, del 7,4% in Germania, del 5,3% in Portogallo. In precedenza, gli stati non rilevavano in altrettanta misura questo fenomeno, che tende ora ad accentuarsi con lo sviluppo di forme di lavoro atipiche e a tempo parziale. In reazione a queste nuove situazioni e per facilitare il passaggio al lavoro senza perdita di reddito i governi hanno sviluppato varie formule di mantenimento permanente o temporaneo del reddito minimo a complemento di un salario. Queste agevolazioni possono anche avere l’effetto di gonfiare il numero dei beneficiari.

3.7.4 La disponibilità al lavoro La condizione di disponibilità al lavoro, applicata inizialmente in modo rigido per le difficoltà dei bilanci

pubblici che i paesi hanno dovuto affrontare negli anni novanta, sembra ultimamente adattarsi a una condotta più attiva dei beneficiari. La definizione di appropriato o adatto che qualifica il lavoro che deve essere accettato per non essere esclusi dai sostegni è stata perciò resa più elastica. Tuttavia, pochi trovano un posto di lavoro di propria iniziativa o ricorrendo alle misure generali per la formazione e l’occupazione. I governi cercano dunque di migliorare questi risultati e indirizzare meglio le risorse limitate su coloro che hanno maggiore bisogno.

La via principale di accesso al mercato del lavoro per i beneficiari diretti di reddito minimo disponibili al lavoro è costituita dall’iscrizione presso le agenzie del lavoro. In linea di principio, essi sono considerati allo stesso titolo degli altri iscritti. In realtà, il passaggio dalle indennità di disoccupazione ai redditi minimi si accompagna nella maggior parte dei paesi ad un cambiamento nella gestione e nel pagamento delle prestazioni. Sono i servizi sociali, piuttosto che quelli del lavoro, ad occuparsi dei beneficiari di reddito minimo. Ma questi servizi funzionano spesso in modo indipendente gli uni dagli altri; di norma i servizi sociali non danno la priorità nei loro interventi alla lotta contro la disoccupazione, considerata come uno fra i diversi problemi che ricadono sui loro assistiti. Tuttavia, in alcuni Paesi, a questi servizi è richiesto di svolgere un ruolo più attivo in materia di occupazione, incaricandosi, senza sostituirsi alle agenzie del lavoro, di sviluppare azioni specifiche in raporto con il mercato del lavoro.

Alcuni stati, coscienti di questa compartimentalizzazione dei servizi, pregiudizievole allo sviluppo professionale dei beneficiari diretti di redditi minimi, stanno operando per un riavvicinamento. Una prima tappa, seguita ad esempio Belgio, Francia, Germania e Portogallo, consiste nel porre i beneficiari diretti fra i destinatari prioritari delle misure per il lavoro, alla stregua dei disoccupati di lunga durata. Irlanda e Regno Unito la praticano di fatto, non differenziando le indennità per queste due categorie di richiedenti lavoro. In Germania, i beneficiari del Sozialhilfe possono partecipare al programma di aiuto all’occupazione per i disoccupati di lunga durata nel limite del 20% dei partecipanti. In Portogallo, i beneficiari diretti del “Rendimento minimo garantido” sono inoltre destinatari prioritari delle misure finanziate congiuntamente dal Fondo sociale europeo.

Un altro passo consiste nel motivare meglio i servizi per l’impiego a favore di coloro che incontrano maggiori difficoltà e nello sviluppare un partenariato con i servizi che gestiscono i redditi minimi. In Belgio, i Centri pubblici di aiuto sociale lavorano spesso in partenariato con i servizi per la formazione e l’occupazione. In Francia, le Agenzie nazionali per l’occupazione devono concentrarsi sulle persone in maggiore difficoltà. In Germania si mira ad incoraggiare la cooperazione tra i servizi del lavoro e i servizi sociali per favorire l'inserimento professionale dei beneficiari del Sozialhilfe. Nei Paesi Bassi, i servizi per il

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lavoro concentrano i loro sforzi sulle persone di difficile collocamento, che vengono individuate in cooperazione con gli enti locali incaricati dei servizi sociali. Entro il 2001, è previsto che i servizi pubblici per il lavoro, gli uffici di assistenza sociale e i servizi sociali debbano essere raccolti in “Centri di lavoro e reddito” che funzioneranno come sportello unico per tutti i richiedenti di lavoro e di prestazioni sociali. Nel Regno Unito, il personale delle agenzie di prestazioni sociali condivide i locali dei servizi per il lavoro, incaricati di tutti i beneficiari di JSA.

Una maggiore cooperazione tra i servizi sociali e quelli dell’occupazione porta ad avvicinare i rispettivi metodi di azione e ad allinearli meglio sugli obiettivi, e tende a combinare il trattamento amministrativo standardizzato con un sostegno più personalizzato, come testimoniano i percorsi individuali di integrazione predisposti in diverse legislazioni.

4. IL DIBATTITO SUL MODELLO SOCIALE EUROPEO

4.1 L’obiettivo della coesione sociale nell’economia dell’informazione

Verso la fine degli anni ’90, il clima di relativa stabilità favorito dall'unificazione monetaria e la migliorata situazione dei bilanci pubblici hanno creato i presupposti perché le problematiche occupazionali e sociali diventassero un argomento prioritario nel dibattito politico economico europeo. Dopo le sollecitazioni che quasi un decennio prima erano venute dal Libro bianco di Delors, che invitava in modo esplicito i partner europei a considerare una possibile via per raggiungere l’equilibrio tra lo sviluppo innovativo dell’economia e il valore di una società coesa e meno diseguale, i temi sociali e dell’occupazione hanno avuto per molto tempo un ruolo secondario nelle questioni aperte dall’integrazione europea, malgrado la loro importanza, soprattutto nelle fasi di recessione, si sia manifestata in modo evidente.

La recente ripresa d’attenzione per ciò che comunemente viene definita l’Europa sociale ha avuto innanzi tutto il merito di riproporre la questione del welfare state in tutta la sua ampiezza. Tuttavia, di fronte ai grandi cambiamenti strutturali che caratterizzano l’inizio del nuovo millennio, il dibattito ha dovuto considerare nuove problematiche, che riguardano l’adeguamento dei sistemi di protezione rispetto alle trasformazioni della società e del mercato del lavoro, e i meccanismi adatti a rendere gli stessi sistemi finanziariamente sostenibili.

Lo sviluppo di questo approccio ha le sue radici nella strategia europea per l’occupazione. Gli accordi presi al Consiglio europeo di Amsterdam e al successivo Consiglio europeo straordinario di Lussemburgo, nel 1997, per mettere a punto e attuare la politica occupazionale dell’UE hanno infatti avuto sostanziali implicazioni per la protezione sociale. Aumentare il numero degli occupati ampliare le loro prospettive professionali e, più di recente, migliorare la qualità del lavoro sono tutte azioni che contribuiscono ad accrescere il benessere e a combattere l'emarginazione sociale, creando un ponte stabile con gli obiettivi fondamentali della politica sociale.

Aumentare il numero degli occupati è anche indispensabile per garantire la sostenibilità futura dei sistemi di protezione sociale, soprattutto dal momento che essi devono far fronte a una crescente domanda dovuta all'invecchiamento della popolazione. Con la definizione della strategia europea per l'occupazione si è dunque riconosciuta la presenza di un forte legame tra le politiche in materia di occupazione e quelle per la protezione sociale. In questa nuova e più organica concezione, anche gli orientamenti per l'occupazione, alla base dei Piani nazionali operativi dal 1998, tendono sempre più a includere misure i cui effetti si integrano con l’azione delle politiche per la protezione sociale, soprattutto nello sforzo di rendere lo sviluppo più favorevole all'occupazione. Ne sono un esempio linee-guida come:

- incrementare il numero delle persone che beneficiano di misure di sostegno attivo volte a migliorarne l'idoneità al lavoro; - ridefinire i rispettivi sistemi fiscali e previdenziali in modo tale che possano incentivare i disoccupati a cercare ed accettare un lavoro e le imprese a creare nuovi posti: tutte le politiche riguardanti il mercato del lavoro, inclusa la protezione sociale, devono incoraggiare i lavoratori più anziani a restare attivi dal punto di vista professionale; - promuovere politiche che rispettino la vita famigliare, predisponendo tra l'altro servizi di assistenza economici, accessibili e di elevata qualità, sia per i figli che per altre persone a carico; - aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

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Per rafforzare l’efficacia di queste linee d’azione, a livello comunitario si è ritenuto indispensabile abbinare alla strategia europea per l'occupazione un processo parallelo e complementare, su scala nazionale ed europea, di modernizzazione della protezione sociale12.

A tal fine, nel marzo 1999, il Parlamento europeo ha invitato la Commissione a "dare avvio a un processo di armonizzazione volontaria degli obiettivi e delle politiche nel settore della protezione sociale secondo il modello della strategia occupazionale europea".

In una prima fase ricognitiva, è emerso che in tutti gli Stati membri i principali problemi da affrontare consistono nel:

a) rendere i sistemi di protezione sociale più orientati all'occupazione; b) affrontare l'incombente fenomeno dell'invecchiamento della popolazione; c) lottare contro l'emarginazione sociale; d) fornire un'assistenza sanitaria di elevata qualità contenendo nel contempo i costi generali.

L’importanza di rafforzare il ruolo della protezione sociale, come elemento distintivo del modello sociale europeo, è stata ribadita nel corso del 2000 dalle conclusioni dei Consigli europei di Lisbona, Feira e Nizza. In questi documenti, che hanno registrato l’esito del lungo dibattito politico e culturale che ha caratterizzato l’ultima fase della costruzione europea, trovano definitiva conferma punti molto qualificanti del modello sociale, come la necessità di adattare i sistemi economici europei al contesto dell’economia della conoscenza, il rilancio dell’obiettivo della piena occupazione, l’importanza dei sistemi di protezione sociale e del loro adattamento ai cambiamenti strutturali come strumento che favorisce lo sviluppo.

In sostanza, l’orientamento più recente del dibattito istituzionale in Europa, guarda da una diversa angolatura il ruolo della protezione sociale. Infatti, contrariamente alle tesi neo-liberiste che indicano nei sistemi europei di welfare un vincolo (la “zavorra”) per lo sviluppo economico e un disincentivo all’occupabilità delle persone, il punto di vista comunitario vede nella sicurezza sociale, opportunamente ammodernata, uno strumento per favorire lo sviluppo e l’adattabilità rispetto ai cambiamenti indotti dall’economia della conoscenza, oltre che uno strumento essenziale per garantire la coesione sociale.

Questo passaggio ha notevole importanza, perché, dopo anni in cui l’azione comune dei governi europei si è indirizzata quasi esclusivamente al raggiungimento dei criteri di convergenza per l’UME, segna un momento di riflessione politica di ampio respiro sugli obiettivi della crescita economica e sui contenuti della giustizia sociale. Concettualmente, in un quadro macroeconomico, questa impostazione ha trovato una rappresentazione in cui le politiche sociali sono inserite in un policy mix in combinazione con le politiche economiche e per l’occupazione. I tre assi agiscono congiuntamente per creare un circolo virtuoso, che sottolinea l’interdipendenza e il mutuo rinforzo di queste aree dell’azione collettiva.

I Consigli europei di Lisbona (marzo 2000) e di Feira (giugno 2000), hanno rappresentato i momenti di

svolta più evidenti negli orientamenti di politica economica e sociale dell’Unione Europea, imperniando la modernizzazione del modello sociale europeo sulla lotta contro l'esclusione sociale e la povertà. Nei documenti conclusivi dei due Consigli la promozione dell'integrazione sociale appare una condizione di base nella strategia globale dell'UE per raggiungere l'obiettivo generale del nuovo decennio, ossia “diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale, coniugando questo progetto con l’obiettivo della piena occupazione”. Tale iniziativa si iscrive nel seguito da dare alle disposizioni relative alla politica sociale dell'Unione introdotte dal trattato di Amsterdam in materia di lotta contro le esclusioni (articoli 136 e 137 del trattato). 12 Il filo conduttore dell’azione in campo occupazionale e sociale della Commissione Europea è rintracciabile nella “Agenda per la politica sociale” (2000).

POLITICHE SOCIALI

Coesione sociale / qualità sociale

Competitività / dinamismo

POLITICHE ECONOMICHE

Piena occupazione / qualità

POLITICHE PER L’OCCUPAZIONE

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4.2 Società della conoscenza, lotta all’esclusione e strumenti di contrasto della povertà

Nel nuovo paradigma delle politiche di welfare elaborato a livello comunitario, la povertà e l'esclusione sociale assumono forme complesse e pluridimensionali che obbligano a ricorrere a una vasta gamma di strumenti nel quadro di una “strategia globale”. Parallelamente alla politica occupazionale, la protezione sociale, ossia gli istituti tipici delle welfare policy, svolgono un ruolo di primo piano, ma nel paradigma complessivo viene riconosciuta anche l'importanza di altri fattori quali l'edilizia abitativa, l'istruzione, l’accesso alle cure sanitarie, l'informazione e la comunicazione, la mobilità, la sicurezza e la giustizia, il tempo libero e la cultura.

Nel perseguire obiettivi di lotta all’esclusione sociale, nella fase più recente del dibattito europeo sono emersi due orientamenti di fondo, ossia:

a) l'occupazione è la migliore tutela contro l'esclusione sociale. Per pervenire a un'occupazione di qualità, bisogna sviluppare la capacità di inserimento professionale, favorendo l'acquisizione delle competenze e l'apprendimento lungo tutto l'arco della vita. L'attuazione degli obiettivi comunitari nell'ambito della strategia europea per l'occupazione è un contributo essenziale per la lotta contro l'esclusione;

b) i sistemi di protezione, orientati all’occupazione in attività sociali svolgono altresì un ruolo strategico, così come gli schemi di pensionamento che, oltre a a garantire trattamenti adeguati, incentivino le persone a prolungare la vita attiva.

Nella strategia prospettata a livello europeo, la società basata sulla conoscenza non deve essere fattore di divisone e di nuove forme di marginalità, ma uno strumento potenziale per ridurre l'esclusione sociale, grazie a condizioni economiche più prospere e con l'apertura di nuovi canali di inserimento e di partecipazione. Le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione possono costituire un’opportunità nella realizzazione di questa finalità, a condizione che si eviti il rischio di “digital divide”, ossia un divario sempre più ampio tra coloro che hanno accesso alle nuove conoscenze e quanti ne sono esclusi.

Il piano d'azione della Commissione "Europe 2002 - Una società dell'informazione per tutti" approvato dal Consiglio di Feira, contiene i passi per realizzare tale obiettivo. Inoltre, l’insieme delle politiche di coesione, nelle intenzioni del Consiglio, deve tendere a favorire una migliore comprensione dell'esclusione sociale, a integrare la promozione dell'inclusione nelle politiche degli Stati membri in materia di occupazione, istruzione e formazione, sanità ed edilizia abitativa, nonché a sviluppare azioni prioritarie indirizzate a particolari gruppi bersaglio (ad esempio gruppi minoritari, bambini, anziani e disabili).

Nell'attuare l’insieme di iniziative a favore della coesione sociale, a livello comunitario sono stati sottolineati due aspetti centrali. In primo luogo, il rispetto del principio di sussidiarietà: la lotta contro l'esclusione sociale dipende innanzi tutto dalla responsabilità degli Stati membri e delle loro autorità nazionali, regionali e locali, in contatto con l'insieme degli attori interessati, ossia le parti sociali e le organizzazioni non governative. In secondo luogo, è stato scelta l’applicazione del metodo di coordinamento aperto, che si concretizza in Piani nazionali di azione per l’inclusione sociale (il primo dei quali da presentarsi entro giugno 2001) e in un programma di sostegno alle iniziative messe in atto da soggetti pubblici e non nei vari Paesi.

Gli strumenti di lotta contro la povertà e l’esclusione sociale approvati dal Consiglio dei ministri (occupazione e affari sociali) nell’ottobre del 2000, durante la presidenza francese, sono riassunti nella tabella 8 riportata di seguito.

Tab. 8 - Obiettivi di lotta alla povertà e all’esclusione sociale definiti dal consiglio dei ministri (occupazione e politica sociale) il 17 ottobre 2000.

1. PROMUOVERE LA PARTECIPAZIONE ALL'OCCUPAZIONE E L'ACCESSO DI TUTTI ALLE RISORSE, AI DIRITTI, AI BENI E AI SERVIZI

1.1. Promuovere la partecipazione all'occupazione nel contesto della strategia europea per

l'occupazione e in particolare dell'attuazione delle linee direttrici: a) Favorire l'accesso a un'occupazione stabile e di qualità per tutte le donne e tutti gli uomini in grado

di lavorare, segnatamente: − realizzando, per le persone appartenenti alle fasce di popolazione più vulnerabili, percorsi guidati

verso l'occupazione e mobilitando a tale scopo le politiche di formazione; − definendo politiche che promuovano l'armonizzazione delle esigenze della vita professionale e

della vita familiare, compresa la custodia dei figli e delle persone a carico; − utilizzando le opportunità di inserimento e di occupazione dell'economia sociale.

b) Prevenire le rotture professionali sviluppando la capacità di inserimento professionale, grazie alla gestione delle risorse umane, l'organizzazione del lavoro e la formazione lungo tutto l'arco della vita.

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1.2. Promuovere l'accesso di tutti alle risorse, ai diritti, ai beni e ai servizi

a) Organizzare i sistemi di protezione sociale in maniera che segnatamente - questi contribuiscano a garantire a ogni persona le risorse necessarie per vivere

conformemente alla dignità umana; - aiutino a superare gli ostacoli connessi alla ricerca di un posto di lavoro, garantendo che

l'accesso all'occupazione si traduca in un reddito più elevato e favorendo la capacità di inserimento professionale. b) Attuare politiche il cui obiettivo sia l'accesso di ciascuno a un alloggio decente e salubre,

nonché ai servizi essenziali necessari, considerato il contesto locale, a un'esistenza normale in tale alloggio (elettricità, acqua, riscaldamento ...).

c) Attuare politiche il cui scopo sia l'accesso di ciascuno alle cure necessarie al proprio stato di salute, anche in caso di dipendenza.

d) Portare all'attenzione delle persone interessate prestazioni, servizi e azioni guidate che consentano un accesso effettivo all'istruzione, alla giustizia e agli altri servizi pubblici e privati, quali la cultura, lo sport, il tempo libero.

2. PREVENIRE I RISCHI DI ESCLUSIONE

a) Sfruttare pienamente il potenziale della società del sapere e delle nuove tecnologie

dell'informazione e della comunicazione, facendo in modo che nessuno ne sia escluso, prestando fra l'altro un'attenzione particolare alle esigenze dei disabili.

b) Attuare politiche intese a evitare le rotture in presenza di condizioni esistenziali che possano portare a situazioni di esclusione, segnatamente per quanto concerne i casi di indebitamento eccessivo, l'esclusione scolastica o la perdita dell'alloggio.

c) Attuare azioni intese a salvaguardare la solidarietà familiare in tutte le sue forme.

3. INTERVENIRE A FAVORE DELLE PERSONE PIÙ VULNERABILI

a) Favorire l'integrazione sociale delle donne e degli uomini i quali, segnatamente a causa del loro handicap o della loro appartenenza a un gruppo sociale con particolari difficoltà di inserimento, rischiano di dover affrontare situazioni di povertà persistente.

b) Eliminare situazioni di esclusione sociale che colpiscono i minori e offrire loro tutte le possibilità di un buon inserimento sociale.

c) Sviluppare azioni globali a favore delle regioni confrontate al problema dell'esclusione. Tali obiettivi potranno essere attuati mediante la loro integrazione in tutti gli altri obiettivi e/o mediante

politiche ed azioni specifiche. 4. MOBILITARE L'INSIEME DEGLI ATTORI

a) Promuovere, secondo le prassi nazionali, la partecipazione attiva delle persone in situazione

di esclusione, con particolare riguardo alla loro condizione, alle politiche e alle azioni avviate nei loro paesi.

b) Garantire l'integrazione della lotta contro le esclusioni nell'insieme delle politiche, segnatamente:

- Mobilitando congiuntamente le autorità a livello nazionale, regionale e locale, nel rispetto delle proprie competenze;

- Definendo opportune procedure e strutture di coordinamento; - Adeguando i servizi amministrativi e sociali alle esigenze delle persone in situazione di

esclusione e sensibilizzando a tali esigenze gli operatori locali. c) Promuovere il dialogo e il partenariato fra tutti gli attori pubblici e privati interessati, in

particolare: - Coinvolgendo le parti sociali, le organizzazioni non governative e le organizzazioni di

servizio sociale, nel rispetto delle relative competenze in materia di lotta contro le esclusioni; - Incoraggiando la responsabilità e l'azione di tutti i cittadini nella lotta contro la povertà e

l'esclusione sociale; - Favorendo la responsabilità sociale delle imprese.

Fonte: Consiglio dell’Unione Europea, doc. n. 14110/00, soc 470, Bruxelles, 30 novembre 2000.

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5. LE MISURE CONTRO L’ESCLUSIONE SOCIALE IN ITALIA

5.1 Gli interventi di riforma degli anni ‘90 in Italia.

Negli ultimi anni, come è avvenuto in quasi tutte le economie avanzate, lo stato sociale italiano è stato oggetto di un acceso dibattito circa le sue dimensioni e l'efficienza con cui sono impiegate le risorse. Una larga parte della discussione si è concentrata sulla previdenza sociale che, come si è detto in precedenza, costituisce una funzione che da sola assorbe una quota di risorse superiore all’insieme di tutte le altre funzioni presenti nel sistema di welfare. Questa peculiarità è ovviamente motivo di critica poiché, aldilà delle valutazioni sui singoli schemi, si ritiene che la dimensione della spesa pensionistica sia all’origine di un vero e proprio “spiazzamento” delle altre componenti, in particolare delle misure per il lavoro e per l’assistenza sociale13.

Dopo anni di sostanziale inerzia, o peggio di provvedimenti che hanno immotivatamente contribuito ad aumentare l’onere della spesa pensionistica14, a partire dal 1993, in materia di pensioni si sono succeduti diversi interventi15. Il primo è stato quello del governo Amato, la cui riforma è diventata solo parzialmente operativa, in quanto superata dagli interventi degli anni successivi. Dal 1994, infatti, sul terreno delle pensioni si sono nuovamente cimentati quasi tutti i nuovi governi, a cominciare da quello di Berlusconi che formulò una proposta in sede di legge finanziaria la quale, dopo aver incontrato una fortissima opposizione sindacale, fu tra le principali cause della brusca conclusione dello stesso governo.

Nel 1995, è toccato al governo Dini mettere sul tavolo una nuova ipotesi che prevedeva sostanziali modifiche del metodo di calcolo. Attraverso una complessa procedura di consultazione con le parti sociali, questo progetto di riforma è stato alla fine approvato, anche se la difficile mediazione ha comportato alcune modifiche delle ipotesi di partenza e ha imposto tempi piuttosto lunghi per la messa a regime del nuovo sistema. L’eccessiva gradualità della nuova normativa è stata una delle ragioni alla base di un terzo intervento operato dal governo Prodi nella legge finanziaria per il 1998, in cui, oltre ad accorciare le scadenze dei requisiti più ristretti di accesso al pensionamento, sono stati interamente estesi al settore pubblico gli effetti della nuova normativa.

Guardando all’insieme delle misure adottate, si può ricavare un elenco dei principali obiettivi perseguiti dalle riforme pensionistiche degli anni novanta. Tale elenco comprende:

- corrispondenza attuariale tra contributi e prestazioni, ciò e stato ottenuto con l’applicazione del cosiddetto metodo contributivo che ha natura prettamente assicurativa, salvo per la presenza di meccanismi di ridistribuzione solidaristica fissati esogenamente. Scopo principale dell’adozione di un principio “stretto” di controprestazione è stato quello di legittimare il pilastro pubblico della previdenza obbligatoria, limitando i comportamenti da free-rider; - armonizzazione, consiste nel rendere più omogenee le normative dei diversi fondi per eliminare il differente rendimento implicito dei contributi versati nel corso della carriera da lavoratori appartenenti a diverse categorie; - sostenibilità finanziaria, intende contrastare il tendenziale aumento dell’onere per le prestazioni, mantenendo stabile nel lungo periodo il rapporto tra spesa pensionistica e PIL; - aumento dell’età di pensionamento, ciò tocca vari punti, tra cui l’inasprimento dei requisiti per far valere la carriera assicurativa, l'abbandono graduale delle pensioni di anzianità, per le quali nella fase di transizione al nuovo sistema è previsto un vincolo di età anagrafica, l’elevazione dell’età pensionabile; - ritiro flessibile, il nuovo sistema prevede un ampio arco di anni all’interno dei quali ogni assicurato può scegliere in modo soggettivo l’età del ritiro, essendo l’onere della prestazione a carico del sistema reso pressoché indifferente da un principio di equivalenza attuariale; - sviluppo del “secondo pilastro”, l'incentivazione dei fondi della previdenza complementare, cioè appunto del secondo pilastro del sistema previdenziale, dovrebbe compensare l’eventuale riduzione del tasso di sostituzione tra pensione e salario ottenibile con il primo pilastro (obbligatorio pubblico), specie per chi si ritira a un età prossima alla soglia più bassa; - separazione tra spesa previdenziale e assistenziale, la nuova legislazione prevede una generale maggiore trasparenza dei flussi di spesa, in modo da evidenziare la componente non coperta da contribuzione. La limitazione di questa spesa comporta anche il potenziamento della funzione assistenziale vera e propria, esterna al sistema pensionistico.

13 Sull’argomento la letteratura è ormai piuttosto ampia. Per tutti si veda M.Ferrera (1998). 14 Ancora nel 1990, era stato introdotta una norma che allineava i trattamenti dei lavoratori autonomi a quelli dei dipendenti, senza peraltro modificare l’aliquota di contribuzione che al tempo era per i primi del 15% contro circa il 27% dei dipendenti.

15 Una breve cronistoria delle riforme del sistema pensionistico italiano fino al 1995 è rintracciabile in G.Geroldi (1996)

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In aggiunta agli interventi di riforma delle pensioni, gli anni novanta hanno rappresentato un momento di ripensamento anche per il secondo più importante settore della protezione sociale, ovvero la sanità. Come per le spesa pensionistica, uno dei principali motivi di attenzione per l’andamento di questa funzione è rappresentato dall’invecchiamento della popolazione che allarga la quota di coloro che hanno più bisogno di cure sanitarie. Le modifiche finora apportate hanno sostanzialmente confermato l’universalità del diritto alla salute e dell’accesso alle cure sanitarie. Per controllare la dinamica della spesa, il processo di riforma ha teso ad avvicinare maggiormente all’utenza le sedi di decisione della spesa stessa, attraverso un progressivo decentramento territoriale delle competenze in materia gestionale e di quelle relative a una quota rilevante del finanziamento. Le linee della riforma si sono poi concentrate sulla ricerca di gradi di efficienza più elevati nell’offerta delle prestazioni, sul contenimento dei prezzi dei farmaci e sull’individuazione di strumenti che sensibilizzino maggiormente i cittadini sul costo delle prestazioni richieste16.

Sotto la spinta dei processi di riforma in corso e della necessità di adeguare l’insieme delle strutture del welfare italiano alle mutate condizioni della società, in direzione di una maggiore comunanza con i principali paesi dell'UE, alla fine del 1996 è stata istituita presso la Presidenza del consiglio un’apposita Commissione per l'Analisi delle Compatibilità Macroeconomiche della Spesa Sociale (Commissione Onofri). Diverse proposte emerse dai lavori di questa Commissione sono diventate un punto di riferimento per il dibattito e per alcune importanti riforme che nell’ultimo triennio hanno interessato i segmenti meno sviluppati del welfare italiano, come l’assistenza e le politiche per l’inclusione sociale.

Da questo punto di vista, appaiono rilevanti alcune indicazioni contenute nel rapporto conclusivo della Commissione, che richiamano i punti chiave per innovare e rendere sostenibile il sistema di protezione sociale in Italia. Il primo di questi punti è l’invito a dirottare quote di spesa sociale dalle pensioni ai sostegni al reddito e alle politiche attive del lavoro, per tutelare maggiormente la popolazione dal rischio dell'indigenza e per facilitare la mobilità occupazionale. Sempre secondo la Commissione, se una maggiore mobilità del lavoro può dare impulso alla crescita economica, è auspicabile che il maggiore rischio ricadente sui singoli in termini di precarizzazione dei rapporti di lavoro sia supportato dalla collettività. Nello stesso tempo, è necessario modellare gli schemi del welfare in modo che essi stimolino gli individui a uscire dallo stato di dipendenza dalle prestazioni sociali, combinando adeguatamente diritti e responsabilità individuali.

Tra i temi approfonditi separatamente dalla Commissione Onofri, molto ampia è la parte dedicata all'assistenza. Le analisi e gli ambiti di riforma considerati partivano da due presupposti, ossia che:

- le risorse destinate a questo ramo del welfare erano al momento ancora insufficienti e mostravano un trend decrescente; - il sistema si basava su un insieme di istituti costituiti in prevalenza da erogazioni monetarie passive, che non raggiungevano soddisfacenti risultati sul piano ridistributivo, né tantomeno coglievano i bisogni dei beneficiari, offrendo concrete opportunità di recuperare autosufficienza. Perciò, secondo la Commissione, una riforma del sistema avrebbe dovuto ispirarsi a una scelta

universalistica rispetto ai beneficiari e a un metodo selettivo nell'erogazione delle prestazioni. Tali obiettivi comportavano una ridefinizione dei bisogni e dei destinatari, in modo da proteggere anche altre figure sociali, oltre a quelle tradizionali (come gli anziani), con strumenti mirati e non necessariamente con sussidi monetari. Per l'erogazione dei servizi, inoltre, sarebbe stato preferibile il livello locale, coordinato da linee di indirizzo nazionali. Sulla base di queste considerazioni, sono stati individuati dalla Commissione i seguenti quattro punti cardine per una possibile riforma:

a) realizzare la separazione tra assistenza e previdenza, fondando il finanziamento della prima sull'imposizione generale e della seconda sui contributi. Nel nuovo quadro occorreva rivedere il rapporto tra Stato e INPS e ridefinire le competenze degli enti gestori, anche in un'ottica federalistica;

b) razionalizzare e unificare gli istituiti di ridistribuzione monetaria esistenti, introducendo nuovi istituti, come il Minimo Vitale e il Fondo per i non autosufficienti; e rivedendo le detrazioni per i figli a carico nell'ambito dell'imposizione personale;

c) potenziare il ruolo degli enti decentrati, nell'offerta di servizi ai cittadini in stato di bisogno, definendo un meccanismo che conferisca allo Stato le funzioni di indirizzo e sostegno, alle regioni i compiti di programmazione e ai Comuni le funzioni di gestione ed orientamento;

d) costituire un istituto nazionale, con la partecipazione degli enti locali interessati (Regioni e Comuni), allo scopo di ridefinire e uniformare i criteri di misura e accertamento dei mezzi cui è subordinata l'erogazione delle prestazioni di welfare e dei servizi pubblici in generale. L'introduzione di questi nuovi istituti avrebbe dovuto segnare la fine di programmi come gli assegni per il

nucleo familiare, l'assegno sociale e la pensione sociale, di modo che le risorse rese disponibili in seguito all'interruzione dei vecchi istituti di ridistribuzione avrebbero gradualmente contribuito al finanziamento dei 16 Senza intaccare la riforma in senso universalistico del 1978, sono stati introdotti criteri di gestione simili a quelli delle aziende private, fino a trasformare nel 1997 le Unità Sanitarie Locali in aziende.

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nuovi istituti17. Secondo le valutazioni tecniche, l'assistenza avrebbe mantenuto nella fase iniziale della riforma un peso sul PIL del 3,5%, per salire al 4,2% nel 200118. La composizione della spesa sarebbe inoltre cambiata, passando dai trasferimenti monetari a misure miranti a soddisfare bisogni attraverso l’offerta di servizi, il cui peso dal 7-10% sarebbe salito a oltre un terzo della spesa complessiva.

5.2 Il quadro organizzativo delle politiche per l’assistenza sociale.

Come si è accennato, la situazione di partenza per la riforma delle politiche assistenziali nel nostro paese era caratterizzata da un variegato insieme di misure disorganiche e erogate - in modo talvolta sporadico e discontinuo - da una eterogeneità di soggetti pubblici e privati poco collegati tra loro. Per meglio chiarire il quadro in cui si è innestata la più recente evoluzione legislativa, è qundi opportuno fare un rapido cenno alle competenze e all'organizzazione, per passare poi alla descrizione degli interventi attuati.

La mancanza di standard nazionali omogenei, la frammentazione e le diversità territoriali rendono difficile compilare una mappa delle politiche assistenziali e di contrasto all’esclusione a cui possano accedere tutti i cittadini italiani. La gamma di interventi rintracciabile a livello territoriale è molto vasta e include:

- l'assistenza agli anziani (assistenza domiciliare, case di riposo, centri diurni, soggiorni climatici, orti sociali, etc.); - l'assistenza ai minori (asili nido, soggiorni climatici, ospitalità in istituto); -l'assistenza ai minori in difficoltà o soggetti a provvedimenti dell'autorità giudiziaria, minori in stato di abbandono materiale e morale; - i servizi per i disoccupati; - i servizi destinati ai tossicodipendenti e agli ex-alcolisti; - gli interventi a sostegno e di recupero degli ex-carcerati; - gli interventi a favore di immigrati e nomadi; - la riabilitazione dei malati di mente e dei minorati fisici e psichici; - i servizi sociosanitari per la tutela della salute materno-infantile, i consultori familiari e pediatrici; - gli interventi per il diritto allo studio nella scuola materna, dell'obbligo e della scuola media superiore (refezione scolastica, trasporti, attività integrative, sperimentazioni didattiche, etc); - l'erogazione di sussidi economici. A oggi, mentre alcuni decreti legislativi stanno dando attuazione alla legge quadro sull’assistenza

approvata dal Parlamento il 18 ottobre 2000 (L. 328/00 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”), non tutte le Regioni o Comuni garantiscono il medesimo standard di prestazioni e neppure garantiscono gli stessi diritti agli stessi gruppi, anche perché le garanzie sono molto condizionate dalle disponibilità dei rispettivi bilanci. La conseguenza di ciò è una forte differenziazione territoriale in termini di disponibilità di programmi e di impegno finanziario. A livello nazionale, gli strumenti si fondano sui programmi di integrazione al minimo delle prestazioni previdenziali e su altri istituti come la pensione sociale, l'indennità di accompagnamento e la pensione di invalidità. A questi vanno poi aggiunte le pensioni a ciechi, sordomuti e le pensioni di guerra. E’ da notare che, anche per ciò che riguarda le erogazioni di competenza del livello centrale, si riscontrano differenze sostanziali nelle garanzie offerte e, soprattutto, nei criteri di accertamento e di determinazione del diritto alle diverse prestazioni.

Queste differenziazioni territoriali hanno origine da interventi legislativi che sono stati oggetto di molte critiche. Sul finire degli anni '70, infatti, le politiche assistenziali sono state decentrate alle regioni (D.P.R. del 24 luglio 1977, n.616), sia per quanto riguarda i servizi che le prestazioni monetarie, mentre lo Stato ha mantenuto le competenze per gli interventi assistenziali di natura previdenziale. Il decreto non conteneva però norme guida, principi o parametri generali, e rinviava la definizione degli stessi ad una futura legge quadro che, come accennato, sta avendo piena attuazione solo in questi ultimi mesi. I sistemi locali di politica assistenziale attualmente esistenti hanno perciò preso corpo gradualmente nel corso dell'ultimo ventennio, seguendo un processo non caratterizzato da riforme innovative ma da stratificazioni che si sono autoriprodotte su un modello base rimasto in gran parte quello preesistente. L’esito di tale processo è un sistema che, secondo i giudizi espressi dalla Commissione Povertà, si caratterizza per la forte eterogeneità e gli squilibri, sia territoriali che nelle prestazioni, di cui fanno le spese gli individui tutelati e le loro famiglie19.

All’interno di questo sistema, inoltre, a fianco dell'operatore pubblico, secondo principi di welfare mix, operano le IPAB e numerose organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS). Questi organismi surrogano ma più spesso si sovrappongono all'intervento dello Stato, soprattutto dove l’organizzazione è

17 Si tratta di integrazioni al minimo, pensioni di guerra, indennità di accompagnamento e in genere pensioni e indennità per invalidità. 18 Questi calcoli presupponevano un immediato inizio del processo riformatorio; il ritardo con cui tale processo sta seguendo il suo iter rende gli obiettivi riportati ovviamente da dilazionare nel tempo.

19 Vedere Commissione di Indagine sulla Povertà e sull'Emarginazione (1997).

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debole e le forme di marginalità e povertà sono più evidenti, ma anche dove manca un adeguato coordinamento. Perciò, paradossalmente, mentre una causa di inefficienza delle politiche per l’assistenza deriva dalla carenza delle strutture d’offerta, un elemento altrettanto critico è individuabile nella diffusione delle competenze e nella molteplicità dei soggetti delegati a svolgere le stesse funzioni (tabella 9).

Da questo breve quadro, emergono quindi alcuni seri limiti delle politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale in Italia che riguardano la mancanza di una chiara definizione dei principi ispiratori degli interventi assistenziali, la frammentazione delle responsabilità, l’insufficiente coordinamento, specie a livello nazionale e, infine - elemento sul quale non ci si è soffermati in questa sede ma che non è meno importante - la propensione dei responsabili politici a utilizzare le misure di politica assistenziale e previdenziale a fini di consenso elettorale.

Tabella 9 - La "costellazione" dell'assistenza in Italia.

AMBITO

COMPETENZE SANITA' Ministero della Sanità, Regioni, ASL

LAVORO E FORMAZIONE PROFESSIONALE Ministero del Lavoro, Regioni SCUOLA E ISTRUZIONE Ministero della Pubblica Istruzione, regioni, Comuni

VOLONTARIATO E TERZO SETTORE IPAB, ONLUS GIUSTIZIA E ORDINE PUBBLICO Ministero degli Affari Interni, Ministero di Grazia e Giustizia

EROGAZIONI DI REDDITO Ministero del Tesoro, Ministero degli Affari Interni, INPS, Comuni

SERVIZI SOCIALI PERSONALI Regioni, Comuni, ASL. Fonte: Roberti, Martignetti, Calza (1998).

5.3 I programmi di sostegno al reddito

Come si è già ricordato, la preesistente normativa in materia di sostegni assistenziali (D.P.R. n.616 del 1977) lasciava allo Stato le competenze riguardanti le integrazioni al reddito e tutti i trattamenti di tipo previdenziale. L’elenco degli interventi monetari attualmente erogati a livello centrale comprende:

- gli assegni per il nucleo familiare (ANF), finanziati interamente dai datori di lavoro, dopo la riforma del 1988, sono di appannaggio esclusivo dei lavoratori dipendenti, dei pensionati e degli iscritti alle liste di collocamento. Dal 2000, la disciplina degli ANF è stata estesa agli iscritti alla gestione separata INPS dei lavoratori autonomi, mentre la Finanziaria per il 2001 ha esteso i benefici anche ai lavoratori parasubordinati Il loro importo è correlato al reddito e alla numerosità familiare; - l’assegno familiare, forma residuale degli ANF, è destinato a coltivatori diretti, mezzadri e coloni, piccoli coltivatori diretti, nonché ai pensionati delle Gestioni Speciali INPS per i lavoratori autonomi (artigiani, mezzadri, coltivatori diretti, coloni e mezzadri). Per i lavoratori dipendenti e i titolari di prestazioni previdenziali da lavoro dipendente, gli assegni familiari, a partire dal 1988, sono stati sostituiti dagli ANF; - le integrazioni al minimo delle pensioni di vecchiaia, sono un sostegno a favore dei lavoratori che, all’atto del pensionamento di vecchiaia, non raggiungono il livello minimo di pensione previsto dalla legge. La riforma previdenziale del 1995 ha sancito che, quando il metodo di calcolo contributivo sarà a regime, questo strumento si estingua e venga sostituito dall’assegno sociale; - le pensioni di invalidità dell’Inps, del Ministero degli Interni e altri trasferimenti a favore dei disabili. L’Inps eroga trattamenti a favore dei soggetti che hanno conseguito lo status di disabili dopo l’entrata nel mondo del lavoro, mentre il Ministero eroga prestazioni a soggetti (invalidi civili, sordomuti e non vedenti) che a causa dello stato di handicap non hanno accesso ad una occupazione. Va ricordato che le pensioni di invalidità sono state riformate nel 1984 (L 222/84), con una revisione in senso restrittivo dei requisiti di accesso che ha limitato in misura notevole il flusso annuo delle nuove accessioni; - le pensioni sociali, che si configurano come l’unica forma di reddito minimo garantito su scala nazionale, ma solo per persone oltre i 65 anni che non hanno maturato neppure il diritto ad una pensione di vecchiaia integrata al minimo. Anche per le pensioni sociali, la riforma pensionistica del 1995 ha stabilito la sostituzione con l’assegno sociale per il flusso dei nuovi beneficiari, mantenendo immutate le caratteristiche fondamentali.

Gli importi e i limiti di reddito vigenti nel 2001 per gli istituti ora elencati sono sintetizzati nella tabella 10.

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Tabella 10 - Importi e limiti di reddito dei principali istituti assistenziali italiani (2001).

ISTITUTO IMPORTO (migliaia di lire)

Limiti di reddito per il diritto al sussidio

(migliaia di lire) Assegno per il nucleo

familiare Da 25 a 1.727 Da 34.275 a 99.056 milioni annui di reddito familiare con maggiorazioni

Pensioni integrate al minimo 738,9 (13 mens.) 19.211 (indiv.) - 38.422 (coppia) Assegno sociale 498 (13 mens.) 6.477 (indiv) - 12.954 (coppia) Pensione sociale 543 (13 mens) 7.067 (indiv) - 24.353 (coppia)

Assegno familiare 19,7 (12 mens.) Da 22.788 a 85.531milioni annui di reddito familiare

Pensione ai superstiti Dal 60% al 100% della pensione dell’estinto -

Pensione di invalidità civile 411 (13 mens.) 17.150 (indiv.) – 25.726 (coppia) Indennità di accompagnamento

per gli invalidi civili totali 817 (12 mens.) -

Indennità di accompagnamento per i ciechi civili assoluti 1.179 (12 mens.) -

Assegno per invalidi civili parziali 411 (13 mens.) 7.067 (indiv.)

Pensione di guerra 4.500 (media annua 1994) - Fonte: Inps.

A livello locale, come accennato, sono poi erogate prestazioni assistenziali aggiuntive - soprattutto

servizi - destinate ad anziani, minori, studenti e disoccupati, oltre che a soggetti con problemi di inserimento (alcolisti, tossicodipendenti, ex carcerati, nomadi ed immigrati, malati di mente, minorati fisici e psichici). La competenza regionale circa questi interventi e la loro operatività a livello delle singole amministrazioni comunali porta a prestazioni molto eterogenee sul territorio nazionale e difficilmente quantificabili. Da segnalare che, sempre a livello regionale, è ancora operativa la norma riguardante il minimo vitale, che non viene però erogato in tutte le regioni e, comunque, presenta requisiti di accesso molto diversi da regione a regione.

Le legge finanziaria per il 1999 ha introdotto, in linea con gli obiettivi di riforma dello stato sociale, due nuovi istituti di sostegno; essi sono:

- l’assegno di maternità, ovvero un’indennità di maternità per le donne italiane residenti, pari a 300 mila lire mensili per cinque mensilità20. L’assegno è erogato dai Comuni con decorrenza dalla data del parto. Per avere diritto al sussidio gli interessati devono dimostrare una situazione economica equivalente inferiore alle soglie calcolate tramite l'indicatore della situazione economica (ISEE).

- l’assegno ai nuclei famigliari con almeno tre figli minori, in favore dei nuclei familiari composti da cittadini con tre o più figli di età inferiore ai 18 anni, con una situazione economica equivalente non superiore a 36 milioni annui. L’assegno è pari a 200 mila lire mensili per tredici mensilità. Anche in questo caso sono i Comuni ad erogare il beneficio su richiesta degli interessati.

L’insieme delle misure indicate tende ad assicurare, attraverso un approccio che integra assistenza e

previdenza sociale, risorse minime a soggetti specifici in particolari situazioni di rischio di esclusione. Tuttavia, in particolare per le misure assistenziali, il decentramento regionale può determinare diversi

gradi di copertura per fenomeni equivalenti.

5.4 La nuova legge quadro dell’assistenza sociale.

Nel 1997, sulla base di un accordo tra governo e parti sociali, è stato presentato un disegno di legge che ha recepito i contenuti dell'accordo stesso e le indicazioni emerse dai lavori della già ricordata Commissione per l'Analisi delle Compatibilità Macroeconomiche della Spesa Sociale, oltre che di vari studi sull'argomento. A distanza di tre anni, dopo un iter parlamentare non facile, questo progetto si è definitivamente tradotto nella nuova “legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” (Legge n.328 del 18.10.2000).

Seguendo alla lettera le intenzioni, questo provvedimento “..assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti

20 La legge 388/2000 art.80, c.11 ha portato il trattamento mensile a 500 mila lire.

29

di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza on gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione (art. 1)”.

Inoltre, in una ottica di passaggio dal welfare state alla welfare community, lo Stato, le Regioni e gli enti locali, con questa legge riconoscono e agevolano il ruolo delle ONLUS e del settore non-profit in generale.

Il sistema integrato ha carattere di universalità. I soggetti con priorità di accesso agli interventi sono quelli in condizione di povertà o con limitato reddito, incapacità totale o parziale di provvedere a sé stessi per inabilità, difficoltà di inserimento nella società e nel mercato del lavoro. La legge prevede inoltre coordinamento ed integrazione con gli ambiti delle politiche del lavoro, della sanità e dell’istruzione, nonché cooperazione e concertazione tra i diversi livelli istituzionali.

Come illustrato nel successivo riquadro, lo Stato mantiene di propria competenza la definizione del Fondo per le politiche sociali da trasferire alle Regioni, il reddito minimo di inserimento e i sussidi monetari previdenziali, che sono però contabilizzati tra l’assistenza. Le Regioni adottano leggi proprie per la regolamentazione dei rapporti con il terzo settore, che viene incentivato dallo Stato tramite opportune misure.

Sotto un profilo di assetto istituzionale, la legge ripartisce analiticamente le competenze di comuni,

province, regioni, stato e IPAB. In particolare, i comuni sono titolari delle funzioni amministrative concernenti gli interventi sociali, della realizzazione, dell’erogazione e della vigilanza dei servizi erogati sul proprio territorio. Le Province svolgono un ruolo di raccolta delle conoscenze sui bisogni e di analisi dell’offerta assistenziale e promuovono iniziative di formazione. Le Regioni esercitano una funzione di programmazione, coordinamento e indirizzo degli interventi sociali e di verifica dell’attuazione dei programmi a livello territoriale. Infine, lo Stato determina i principi e gli obiettivi base della politica sociale, tramite un Piano Nazionale, fissa i requisiti minimi di azione delle regioni e ripartisce le risorse finanziarie.

Il Piano Nazionale, che ha durata triennale, tiene conto delle risorse finanziarie disponibili e le mette a disposizione degli enti locali. Alla stesura del piano partecipano anche gli enti e le associazioni nazionali maggiormente rappresentativi che operano nel campo dei servizi sociali, i sindacati e le associazioni di tutela degli utenti. Sinteticamente, il piano deve indicare caratteristiche e requisiti essenziali delle prestazioni sociali, le priorità di intervento e le modalità di attuazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali e le azioni da integrare e coordinare con le politiche sanitarie, dell’istruzione, della formazione e del lavoro. Al contempo, il piano offre indicazioni per monitorare l’efficacia e l’efficienza del sistema e gli indirizzi per i particolari settori di intervento.

Nell’ambito della legge quadro per l’assistenza, il legislatore ha previsto anche particolari interventi di integrazione e sostegno sociale, tra i quali:

1. Progetti individuali per disabili. Allo scopo di sostenere la piena integrazione dei disabili, la legge prevede che comuni e ASL, predispongano progetti individuali che comprendano la valutazione diagnostica e le prestazioni di cura e di riabilitazione (a carico del SSN) e i servizi alla persona (a carico del comune degli enti accreditati).

2. Sostegni domiciliari agli anziani non autosufficienti. Fermo restando le competenze del SSN circa prevenzione, cura e riabilitazione, avverranno investimenti e progetti integrati tra assistenza e sanità, volti a favorire la permanenza dell’anziano nella famiglia.

3. Valorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari. Le priorità individuate dal provvedimento consistono:

- nella predisposizione di interventi a sostegno della maternità e della paternità responsabile.

FONDO NAZIONALE PER LE POLITICHE SOCIALI finanzia

REGIONI

ripartiscono cofinanziano

COMUNI

(operatività e oneri di attivazione)

30

- nell’incentivare la conciliazione tra tempo di lavoro e tempo di cura; - nella programmazione di servizi formativi e informativi di sostegno alla genitorialità; - nella predisposizione di aiuti domiciliari, anche con benefici di carattere economico.

Infine, è concesso ai comuni di concedere prestiti sull’onore a tasso zero a famiglie bisognose o

prevedere agevolazioni fiscali o tariffarie per famiglie con specifiche responsabilità di cura. Per finanziare la legge, la dotazione del Fondo per le politiche sociali, istituito con la legge finanziaria per il 1998 è stato incrementato di 761 miliardi per il 2001 e di 922,5 miliardi per l’anno 2002.

La legge ha poi stabilito, per tutto il territorio nazionale, il livello minimo di prestazioni che a livello locale dovranno essere garantite ai cittadini. Escludendo le competenze del SSN, il livello essenziale di prestazioni erogabili sotto forma di beni e servizi, è composto da:

- misure di contrasto alla povertà e di sostegno al reddito e servizi di accompagnamento, con particolare riferimento alle persone senza fissa dimora; - misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio di persone totalmente dipendenti o incapaci di compiere gli atti propri della vita quotidiana; - sostegno ai minori in situazioni di disagio tramite il sostegno al nucleo familiare di origine e l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare e per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza; - misure per il sostegno delle responsabilità familiari, per favorire l’armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare; - misure di sostegno alle donne in difficoltà; - interventi per la piena integrazione delle persone disabili, realizzazione dei centri socio-riabilitativi, delle comunità-alloggio e dei servizi di comunità e di accoglienza, erogazione delle prestazioni di sostituzione temporanea delle famiglie; - interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio, per l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, o per l’accoglienza e la socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali. - prestazioni integrate di tipo socio-educativo per contrastare dipendenze da droghe, alcol e farmaci, favorendo interventi di natura preventiva, di recupero e reinserimento sociale; - informazione e consulenza alle persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi e per promuovere iniziative di auto-aiuto.

5.5 L’accertamento della condizione economica del richiedente: l’ISEE

In precedenza, è stato sottolineato come un difetto grave delle politiche assistenziali in Italia fosse la presenza di diversi criteri di accesso alle prestazioni erogate. Oltre a ciò, il dibattito sulla riforma del welfare, in un contesto orientato al contenimento della spesa, ha posto la necessità di strutturare i meccanismi di accesso ai benefici dello stato sociale in chiave maggiormente selettiva.

Dopo un iter abbastanza travagliato, con il d.lgs n.130 del 2000, è stato approvato definitivamente un indicatore unico, denominato ISEE (indicatore della situazione economica equivalente), che pone barriere di accesso omogenee collegate alla situazione economica dei richiedenti a tutte le prestazioni assistenziali, fatta eccezione per le integrazioni al minimo, le pensioni sociali e di invalidità. La determinazione della ricchezza di un nucleo familiare, avviene sommando reddito e patrimonio del nucleo nel modo risultante dai due schemi di Tabella 1121.

21 Per una più estesa trattazione tecnica dell’ISEE, si veda P.Bosi e al. (2000)

31

Tabella 11 - Criteri unificati di valutazione della situazione reddituale.

Componente reddituale: Componente patrimoniale: Reddito complessivo ai fini IRPEF

+ 20% di:

r x attività finanziarie con r = rendimento teorico % delle att. Finanziarie

-

patrimonio mobiliare - franchigia di 30 milioni applicabile fino a concorrenza

+

Deduzione fino a concorrenza, di max10 milioni per affittuari

patrimonio immobiliare - detrazione del debito residuo per mutui per l’acquisto dell’immobile o, se abitazione, deduzione alternativa di 100 milioni

componente reddituale + componente patrimoniale INDICATORE DELLA SITUAZIONE ECONOMICA

Partendo dal valore ottenuto con lo schema della tabella, la valutazione della situazione economica del

richiedente è quindi determinata con riferimento al nucleo familiare e, per rendere comparabili i redditi di famiglie di numerosità diversa, sono state adottate opportune scale di equivalenza.

L’introduzione dell’ISEE rappresenta un punto d’approdo per molti problemi che la precedente disciplina di accesso alle prestazioni e le passate tendenze di fondo del welfare presentavano. In particolare le esigenze a cui tenta di porre rimedio questo strumento possono essere sintetizzate nei termini seguenti:

1. ovviare alle distorsioni derivanti dall’evasione fiscale. Infatti, il reddito dichiarato ai fini Irpef, oltre a non

essere in grado di identificare l’effettiva condizione economica delle famiglie, favorisce i nuclei familiari con propensione all’evasione;

2. integrare il reddito dichiarato con i proventi da attività finanziarie, che sono escluse dall’imponibile Irpef22;

3. accentuare il grado di selettività delle prestazioni sociali; 4. superare le differenziazioni dei sistemi di determinazione della condizione economica, ciascuno dei

quali basato su parametri specifici e differenziati (anche all’interno di un medesimo comparto).

5.6 Il reddito minimo di inserimento e il riordino degli strumenti di invalidità

La legge legge finanziaria per il 2001 ha ulteriormente ampliato l’applicazione del reddito minimo di inserimento (RMI), inizialmente previsto dal collegato alla finanziaria 1998, e attuato mediante il D.Lgs. 237/98. Esso rappresenta un istituto molto innovativo per il nostro sistema di welfare e prelude all’istituzione di una misura di contrasto della povertà universale, sullo stile delle safety net presenti in quasi tutti i paesi europei.

La sperimentazione di questo strumento, che doveva terminare nel 2000, è stata prorogata fino a tutto il 2002 ed estesa anche ai comuni dei territori dove sono stati approvati specifici patti territoriali. Il RMI, nella sua versione sperimentale, è destinato alle persone in situazione di difficoltà economica, ed esposte al rischio di marginalità sociale, che si trovino nell’impossibilità di provvedere al mantenimento proprio e dei figli per cause psichiche, fisiche o sociali. Destinatari dell’istituto sono i soggetti con reddito inferiore a 510 mila lire mensili nel 1999, nel caso di persona sola, o di reddito equivalente per nuclei con due o più membri. Possono fare domanda i soggetti legalmente residenti da almeno 12 mesi o, se cittadini di stati non UE, da almeno tre anni.

La percentuale dei redditi da lavoro (sia dipendente che autonomo) è considerata nella misura del 75%. In tal modo la soglia in corrispondenza della quale il sussidio si annulla viene elevata a L.680.000. Scopo di tale abbattimento è di evitare il disincentivo alla produzione di reddito da lavoro che un’integrazione pari alla differenza tra reddito proprio e la soglia di 510 mila lire determinerebbe (la c.d. “trappola della povertà). I beneficiari devono essere privi di patrimonio immobiliare, con l’unica eccezione per l’abitazione principale, il cui valore non deve comunque superare una determinata soglia stabilita dal comune di residenza.

I dati della sperimentazione permetteranno di dare all’istituto una forma definitiva a regime, anche se le caratteristiche base dell’istituto, in parte sono già chiare. Tra queste, l’uso dell’ISEE come prova dei mezzi e

22 L’esclusione deriva dall’esistenza di una diversa normativa fiscale basata su imposte sostitutive alla fonte.

32

l’associazione dell’istituto con una serie di politiche attive di recupero, sia sociale che occupazionale.

5.7 Una valutazione sintetica delle riforme delle politiche per la coesione sociale

La descrizione fin qui svolta degli strumenti di contrasto all’esclusione sociale in Italia e delle recenti riforme offre elementi per una rapida valutazione della situazione in corso. A questo proposito, dopo aver detto dei limiti e delle distorsioni del quadro iniziale, nonché dell’interesse dedicato al tema dagli ultimi governi, è giusto chiedersi quanta strada sia stata percorsa negli ultimi anni in direzione di un assetto più efficiente ed efficace dell’intero sistema di welfare che, vale la pena di ricordare, costituisce il comparto cui tocca la quota più rilevante della spesa pubblica.

Come sottolineato in precedenza, i nodi irrisolti del sistema di protezione italiano erano riconducibili a due principali questioni. La prima riguardava il modello di spesa storicamente affermatosi nella realtà istituzionale e politica italiana, in cui prevalevano i trasferimenti monetari, in particolare i trattamenti pensionistici, rispetto ad altre forme di sostegno, come gli aiuti alle persone e i servizi reali. Il secondo nodo problematico del sistema era invece ricollegabile all’eccessiva segmentazione, frutto anche di un modo obsoleto di concepire il disagio sociale, in cui l’aiuto economico tende a perseguire bisogni "categorializzati" e si fonda su criteri di assegnazione indiretti, come quelli socio-sanitari o anagrafici, spesso in contrasto con i più elementari criteri di equità orizzontale e verticale.

Questi elementi critici sono stati messi in evidenza nel rapporto conclusivo della Commissione Onofri che, come ricordato, ha anche fissato alcuni fondamentali obiettivi necessari al loro superamento e al raggiungimento di un sistema di protezione sociale finanziariamente sostenibile, meno “mediterraneo” e più adeguato a contrastare i meccanismi e a trattare i problemi delle nuove forme di esclusione sociale. Prendendo a riferimento gli orientamenti indicati nel rapporto finale e negli altri materiali prodotti dalla Commissione Onofri, si può quindi tentare un bilancio della più recente evoluzione legislativa. Distinguendo le singole funzioni, si osserva che:

- anche se dal 1997 il peso percentuale della spesa pensionistica sul totale della spesa sociale è

ulteriormente aumentato23, il rapporto tra spesa per pensioni e PIL nello stesso arco di tempo si è sostanzialmente stabilizzato, dimostrando che, dal punto di vista della limitazione del tasso di incremento della spesa, gli interventi di riforma hanno ottenuto risultati di un certo rilievo24. A differenza di altri paesi, la stabilizzazione del rapporto tra spesa per pensioni e PIL appare inoltre come un risultato acquisito anche nel lungo periodo25. La rilevanza del dato non annulla tuttavia i problemi che rimangono sul tappeto. In primo luogo, il tendenziale contenimento della quota di spesa per le pensioni è legato a un progressivo abbassamento del tasso di sostituzione medio (rapporto tra pensione e retribuzione pensionabile) che compensa l’aumento del numero dei pensionati rispetto agli attivi. Tale fatto, connesso alla graduale andata a regime del metodo contributivo, aumenta il rischio che i lavoratori con carriere discontinue e a bassa remunerazione abbiano da anziani un reddito inadeguato. In secondo luogo, a seconda delle previsioni che si formulano sull’andamento del tasso di occupazione, l’andata a regime graduale del nuovo sistema può produrre nei prossimi tre decenni un ulteriore aumento del rapporto tra spesa pensionistica e PIL, che rischia di riflettersi negativamente sulle altre funzioni della spesa sociale. Infine, il livello di contribuzione necessario a finanziare la spesa pensionistica resta indubbiamente alto e si riflette sul costo del lavoro, con possibili conseguenze sul piano occupazionale;

- l’intervento nel campo dei sostegni al reddito per i disoccupati e per le riduzioni temporanee d’orario,

che per la prima volta poteva contare su una delega molto ampia, prevista dal collegato alla finanziaria 1999, è purtroppo rimasto quasi al palo di partenza26. Infatti, per una serie di motivi anche di ordine finanziario, l’unico risultato è consistito in un parziale miglioramento dei trattamenti ordinari di disoccupazione27. La delega non ha invece avuto attuazione per quanto riguarda altri tipi di ammortizzatori sociali, il riordino degli incentivi all’impiego e dei contratti a contenuto formativo. Se a queste inadempienze si aggiunge il travaglio che sta tuttora attraversando il processo di decentramento dei servizi per l’impiego, si può concludere che i recenti incrementi di occupazione dipendono essenzialmente dalla ripresa economica e dalla maggiore

23 P.Bosi e L.Ricci (2000). 24 Nucleo di valutazione della spesa previdenziale (2000) 25 Si veda l’analisi comparativa sull’andamento tendenziale della spesa tra i Paesi EU in Economic Policy Committee (2000) 26 Si tratta dell’art.45 del collegato lavoro (legge n.144 del 17/5/1999, che prevedeva come termine di attuazione l’aprile 2000, successivamente prorogato dalla legge n. 263/1999, lasciato definitivamente scadere senza intervenire in modo significativo su nessuno dei numerosi punti previsti dalla delega.

27 La copertura è salita dal 30% al 40% e la durata del trattamento per i lavoratori oltre i 50 anni di età è passata da 6 a 9 mesi.

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flessibilità contrattuale28, poiché gli strumenti per l’inserimento lavorativo e la protezione del reddito, specie dei lavoratori con rapporti temporanei e con minore potere contrattuale, sono ancora a un livello assolutamente inadeguato per dare effettivi contributi all’occupabilità. Tale situazione è in evidente contrasto con gli ambiziosi obiettivi, in termini di tassi di occupazione e di qualità del lavoro, che la strategia europea per l’occupazione ha fissato prima a Lisbona e più di recente a Stoccolma. Come già ricordato, questo perdurante vuoto di strumenti, o la loro troppo scarsa efficacia, rischiano di avere riflessi negativi sulle fasce di cittadini con più problemi di inserimento lavorativo e, in particolare, di non ottenere gli aumenti programmati nei tassi di occupazione e nel prolungamento della carriera lavorativa29, con conseguenze negative anche sulla sostenibilità degli strumenti di welfare, a cominciare proprio dalle pensioni di cui si è appena detto;

- da ultimo, un giudizio ancora provvisorio può invece essere dato all’insieme degli strumenti di

assistenza sociale e di contrasto della povertà. Da un lato, infatti, stride la relativa lentezza con cui finora è stato avviato il programma nazionale di reddito minimo, ossia dello strumento in grado di sopperire alle situazioni di indigenza dei cittadini adulti, presente ormai nella legislazione sociale di tutti i paesi europei. Inoltre, sebbene nell'area dei servizi si siano registrati profondi cambiamenti e interessanti innovazioni, non solo in termini quantitativi e qualitativi, ma anche con riferimento ai criteri di accesso, dove si è sviluppato un complesso e variegato sistema di prezzi, le politiche assistenziali in senso stretto (assistenza agli individui e alle famiglie in condizioni economiche disagiate) sono rimaste ancora troppo simili a quelle degli scorsi decenni. Nel complesso, è mancata dunque una vera trasformazione del sistema assistenziale italiano in una safety net, ossia una rete di protezione in grado di assicurare forme integrate di sostegno a tutti i cittadini in stato di bisogno.

Il processo di transizione dallo stadio della beneficenza caritativa a quello di strumento di protezione sociale e di cittadinanza è però ancora in corso. Oltre alla sperimentazione del RMI, si è detto dell’importanza che potrà avere una rapida attuazione della legge quadro per l’assistenza sociale, che vede un coinvolgimento determinante delle istituzioni locali e degli organismi non governativi. Tuttavia, il sistema assistenziale non si è ancora sufficientemente adattato ai bisogni di una società più ricca e complessa, per cui, mentre le vecchie forme di povertà sono contrastate con diverso grado di efficacia dagli strumenti tradizionali, restano in larga parte escluse dall’azione di sostegno le nuove forme di povertà e di marginalizzazione.

Anche sotto il profilo della capacità della spesa a concentrarsi sulle fasce deboli della popolazione c’è molto da riflettere. Infatti, i benefici dei programmi monetari non sempre si distribuiscono in maniera decrescente all’aumentare del reddito ma vanno spesso a beneficiare redditi medio-alti, compromettendo l’efficienza degli schemi di assistenza che dovrebbero invece puntare ad alleviare le condizioni in modo correlato alla posizione di svantaggio relativo. Gli studi che hanno trattato il tema confermano questa distorsione e segnalano anche che le performance in termini di contrasto alla povertà sono ancora insufficienti mentre è tuttora alta la presenza di sprechi nella spesa.

Per i fini di una rete universale di sostegno alcune recenti misure, come l’assegno per i nuclei familiari con almeno tre figli minori e l'assegno di maternità, pur inserendosi in un disegno universalistico, mostrano una ridotta incisività30. La definitiva strutturazione di un safety net più efficace, quale sarebbe il RMI a regime su tutto il territorio, corredato da strumenti specifici per l’inserimento lavorativo dei soggetti a maggior rischio di esclusione e da altre misure di recupero sociale, come è negli obiettivi della nuova legge sull’assistenza, è un’esigenza che risponde non solo a considerazioni di efficacia del sistema assistenziale ma rappresenterebbe anche un elemento di completamento per un più razionale ridisegno degli ammortizzatori sociali31.

Infine, va registrato che, in attesa della definizione di standard assistenziali minimi e di diritti garantiti a livello nazionale, restano aperti problemi di pari opportunità e di equità territoriale. Anche la lenta messa a punto dei meccanismi di verifica dei mezzi, ancora da raffinare e collegare con altri strumenti di tipo fiscale (detrazioni o imposta negativa), nonché la perdurante eterogeneità dei limiti di reddito che determinano le soglie di accesso ai benefici, continuano ad alimentare inefficienze e iniquità nel sistema. Mentre l’ISEE dovrebbe finalmente contribuire a ridurre la selva di indicatori diversi e la molteplicità delle prove di mezzi usate nelle prestazioni di servizi erogate a livello comunale, permangono criteri e sistemi differenti per le integrazioni di reddito previdenziali erogate a livello nazionale, che tuttora rappresentano la quota più rilevante della spesa assistenziale.

28 L’impulso alle nuove tipologie contrattuali (part-time, lavoro temporaneo, contratti formativi) è derivato anch’esso da un intervento normativo dell’ultima legislatura, ovvero dalla legge n.196/1997 (“legge Treu”).

29 Le politiche miranti a prolungare le carriere lavorative sono considerate uno dei principali strumenti per assorbire gli effetti dell’invecchiamento della popolazione e sono state poste al centro dell’attenzione sia nell’ultimo G8-lavoro tenutosi a Torino nel novembre 2000 dove è stato redatto un Charter “Towards Active Ageing”, sia in recenti documenti della Commissione Europea.

30 Nel 1999 la spesa per i due istituti è ammontata a circa 430 miliardi. Cfr. P.Bosi e L.Ricci (2000). 31 Anche questa tesi è parte delle proposte della Commissione Onofri. Per una rielaborazione della proposta si veda G.Geroldi (1997)

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