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Victor Oscar Freeburg L’arte di fare film A cura di Michele Guerra S I S A B A I D PANDORA COMUNICAZIONE

L'arte di fare film

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Il volume contiene i temi fondamentali che caratterizzavano le lezioni di cinema di Victor Oscar Freeburg alla Columbia University. L’opera si distingue soprattutto per le sue riflessioni sulla psicologia del pubblico, sulle emozioni e gli effetti che il cinema ha sulla mente e sul corpo dello spettatore. Freeburg non rinuncia a mettere in luce le esigenze commerciali dell’industria cinematografica, riuscendo nell’impresa di mediare le diverse posizioni delle figure che ruotano attorno all’industria cinematografica. Per la prima volta in traduzione italiana il primo corso americano di cinema, un grande classico.

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Negli anni della definitiva esplosione del fenomeno cinema-tografico negli Stati Uniti e del primo interessamento delle università americane verso questa nuova forma di espressio-ne, L’arte di fare film di Victor Oscar Freeburg appare come un’opera in grado di mediare le diverse posizioni teoriche e pragmatiche richieste dal cinema. Freeburg intende il film come una nuova forma d’arte che esercita uno straordinario potere sulla mente degli spettatori, una forma d’arte che è in grado di modellare e riconfigurare il concetto stesso di pub-blico. L’attenzione prestata alla “magia” del cinema e lo stu-dio dei processi immaginativi che è in grado di favorire, sono sostenuti dall’analisi dei procedimenti compositivi, della co-struzione drammatica e dei personaggi, nonché da un primo studio delle esigenze commerciali connaturate all’industria cinematografica. Tra teoria e didattica, tra indagini tecniche e psicologiche, L’arte di fare film si presenta come uno dei contributi più originali di inizio Novecento, ancora capace di offrire spunti di riflessione a studiosi e semplici appas-sionati.

Victor Oscar Freeburg, figlio di immigrati svedesi, nasce a Stanton, Iowa, nel 1882 e morirà a Rockport, Massachussets, nel 1953. Laureato a Yale e addottorato alla Columbia, nel 1915 sarà incaricato di insegnare il primo corso di cinema nella storia dell’Università americana e non solo. I temi portanti dei suoi corsi confluiranno nel 1918 nel volume L’arte di fare film, sa-lutato alla sua uscita come uno dei più significativi contributi sul cinema del suo tempo. Insieme a Vachel Lindsay e Hugo Münsterberg, Freeburg è ritenuto tra i maggiori teorici del film americano delle origini. Nel 1923 scriverà il suo secondo e ul-timo libro di cinema, Pictorial Beauty on the Screen.

Michele Guerra è ricercatore presso il Dipartimento di Lette-re, Arti, Storia e Società dell’Università di Parma, dove inse-gna Storia del cinema americano. Ha scritto libri e articoli sul cinema italiano, su quello americano e sulle teorie del film e da alcuni anni lavora sulle relazioni tra cinema e neuroscien-ze cognitive.

€ 26,00

Victor Oscar Freeburg

Questa reazione dei nostri sensi alla forma umana e al movimento fisico è primaria e fondamentale, e avviene prima che il nostro cervello abbia il tempo di interpretare il significato drammatico dello stimolo visivo.È questa illusione che dà al dramma un enorme potere, che rende il nostro mondo così grande e così vasta la cognizione umana.

Victor Oscar FreeburgL’arte di fare film

Victor Oscar FreeburgL’arte di fare filmA cura di Michele Guerra

ISBN 978-88-8103-806-0

PANDORACOMUNICAZIONECINEMA

SISABAID PANDORACOMUNICAZIONE

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PANDORA COMUNICAZIONECINEMA

1.

Direzione di Michele Guerra

Comitato di direzioneRoberto Campari, Hannah Chapelle Wojciehowski, Nicola Dusi,

Michele Fadda, Vittorio Gallese, Leonardo Gandini

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2 Victor Oscar Freeburg

Coordinamento editoriale

Fabio Di Benedetto

Redazione

Anna BartoliLeandro del Giudice

Traduzione

Anna BarozziMicol Beseghi

Progetto grafico e copertina

Bosio.Associati, Savigliano (cn)

In copertina

The film history: The man behind the camera-cinematographer and director, Kuco

ISBN 978-88-8103-806-0

© 1918 The MacMillan Company, NY (USA)© 2013 Diaroads srl - Edizioni Diabasis

vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italiatelefono 0039.0521.207547 – e-mail: [email protected]

www.diabasis.it

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Victor Oscar Freeburg

L’arte di fare film

A cura di Michele Guerra

Edizioni Diabasis

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Indice

p. 7 «A young and enthusiastic champion of the cinema»: Victor Oscar Freeburg e la natura del film di Michele Guerra

41 Premessa

L’arte di fare film45 La nuova arte49 La psicologia del pubblico cinematografico61 Composizione pittorica in forme statiche85 Composizione pittorica in forme fluide97 La magia del cinema

105 Il richiamo all’immaginazione119 Simbolismo e allegoria135 Drammatizzazione di un’ambientazione naturale155 Parole sullo schermo165 La commedia cinematografica175 La delineazione dei personaggi183 Il fascino drammatico203 La costruzione di un intreccio223 Esigenze di mercato

233 Indice dei nomi

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Premessa

Tu, lettore della divina medietà, e io, spesso disgustati dai film, abbiamo giurato che non andremo mai più a vederne. Ma non appena presa questa so-lenne decisione, ci siamo accorti che non riuscivamo a tenerne lontani i nostri nonni e bambini e dunque abbiamo dovuto rompere il giuramento e andare ancora a vedere ciò che i nostri cari volevano vedere.

Ora, dato che non possiamo fare a meno di andare al cinema, cerchiamo di capire il prima possibile quali film sono brutti e quali lo sono meno o, per dirla in altro modo, quali sono belli e quali ancora più belli. Ciò significa dare vita a un dibattito, che coinvolgerà i bambini, gli anziani, voi e me, e se le nostre voci si faranno sentire forte e sapremo decidere davvero cosa ci piace e cosa vogliamo, forse i proprietari delle sale, i produttori, i registi e gli sceneggiatori ci ascolteranno.

Al fine di rendere più efficace la discussione, ho pensato di scrivere questo libro. In realtà, ho già espresso pubblicamente alcune di queste idee in una serie di lezioni tenute alla Columbia University tra l’autunno del 1915 e la pri-mavera del 1917, e in alcuni articoli di giornale pubblicati nello stesso periodo sulle edizioni domenicali del «New York Times», «The New York Sun», e «The Morning Telegraph».

Ci sono almeno altri tre libri che bisognerebbe tenere presente e sempre a portata di mano. Il primo è Technique of the Photoplay di Epes Winthrop Sargent, che affronta le questioni pratiche relative alla costruzione della sto-ria, della sceneggiatura e alla tecnica delle riprese. Il secondo è Film di Hugo Münsterberg, che analizza i meccanismi della mente umana in relazione allo spettacolo cinematografico. Il terzo è L’arte del film di Vachel Lindsay, che spiega molto bene come un film, se pensato e costruito in modo corretto, possa contenere quel tipo di bellezza che cercavamo solo nella pittura e nella scultura.

I produttori hanno assunto dei pubblicitari che pubblicano brevi articoli sui film nei giornali, ma questi articoletti, seppur costruiti in modo da sembra-

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re critiche, non ingannano nessuno: perfino un bambino capirebbe che non sono altro che pubblicità. Non sono più veri delle strabilianti stupidità che leggiamo sui poster del circo Barnum.

Dopo tutto, perché questi pubblicitari dovrebbero dirci cosa vogliamo? Per-ché invece non possiamo essere noi a dire loro quello che davvero vogliamo?

V.O.F.U.S. Naval Training CampPelham Bay Park

28 gennaio 1918

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La nuova arte

È un errore piuttosto comune quello di giudicare il film secondo gli stan-dard dell’opera teatrale e di condannarlo se non può offrire esattamente quello che lo spettacolo teatrale offre. È un dato di fatto che il film sia muto e prati-camente privo di parole, ma ciò non è in sé e per sé deplorevole più di quanto non lo sia il fatto che la scultura sia priva di colori o che la musica sia invisibile. L’uomo che si confronta con i fatti piuttosto che con i pregiudizi, deve pensare che i limiti delle varie arti non sono difetti, ma qualità distintive.

Studiando il film in quanto forma d’arte, scopriamo che esso eredita qual-cosa da ognuna delle arti che l’hanno preceduto e al contempo si differenzia in modo sostanziale da tutte. Nonostante la composizione filmica sia un’opera fatta di immagini mute e non di parole dette, essa conserva del teatro il potere di delineare personaggi umani in una serie di azioni interpretate dagli attori. Dall’arte della recitazione e dalla pantomima, il film eredita alcuni metodi di queste rappresentazioni visive: tuttavia, il film, grazie all’ubiquità delle sue am-bientazioni e alle innumerevoli risorse dello schermo, possiede una flessibilità che gli consente di rappresentare storie che nessun drammaturgo o regista teatrale si sognerebbe mai di mettere in scena.

Il film eredita addirittura qualcosa dalle mascherate e dalle parate stori-che. La mobilitazione di grandi masse con cui Griffith ottiene effetti dram-matici sullo schermo potrebbe ricordare a qualche storico l’impatto visivo e la potenza drammatica di una massa di teatranti in un trionfo romano o in un masque medievale. Senza dubbio Griffith avrebbe molto da imparare da que-ste splendide forme d’arte se potessero di nuovo comparire ai suoi occhi. Ma la differenza tra le folle in un masque o nella vita reale e le folle sullo schermo si può capire dalle parole dello stesso Griffith, tratte da un’intervista dove parla del suo lavoro sul fronte di battaglia occidentale: «Nessun essere umano ha mai veramente visto una battaglia in questa guerra… Ciò che vede il generale, sommato a ciò che vedono i suoi colonnelli e i suoi maggiori, i capitani e i luogotenenti, i sergenti, i caporali e i soldati semplici, darebbe un’idea sod-disfacente di come appare una grande battaglia moderna. In altre parole, ci

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vorrebbero diecimila occhi per vedere una tale battaglia e nessun essere umano ne ha così tanti. Solo la macchina da presa ha diecimila occhi».

Il film eredita anche molto dall’arte della pittura. La caratteristica essen-ziale del cinema, naturalmente, è che registra dal vero e trasmette movimenti visibili. Il film così inteso è una singola composizione di tali movimenti pittori-ci. Il compositore cinematografico è un artista che dapprima concepisce questi movimenti, poi li mette in relazione l’uno con l’altro mentalmente in modo da creare una forma unitaria, organizza e dirige la loro ripresa e infine unisce le va-rie registrazioni cinematografiche in una pellicola, e se nel farlo i princìpi della composizione pittorica sono stati applicati, il film rivelerà, quando proiettato sullo schermo, una bellezza pittorica.

A questo un pittore potrebbe rispondere: “Sciocchezze: solo noi pittori ab-biamo il monopolio della bellezza pittorica”. Lasciategli dire quello che vuole, purché non nasconda le sue opere, perché da quei dipinti, o dai capolavori dei secoli passati, il compositore cinematografico potrà imparare i princìpi della composizione pittorica. E sebbene tali princìpi possano non essere modificati da un nuovo utilizzo, nelle mani del compositore cinematografico produrranno un nuovo e diverso tipo di bellezza pittorica.

Anche la scultura andrebbe esplorata per cogliere il segreto del suo fasci-no, e rivelare questo segreto a chi fa film. Del resto, la scultura non colpisce soprattutto per il fatto che l’osservatore può guardarla da diverse angolazioni e distanze finché chiarezza ed enfasi non emergono dalla ripetizione degli effetti e dei significati? La ripetizione è anche il mezzo fondamentale per dare enfasi alla musica e poiché la musica è un movimento costante di suoni che sorgono e svaniscono, con alcuni motivi ricorrenti, allo stesso modo la composizione cinematografica potrebbe considerarsi in effetti come un movimento di valori visivi che compaiono e scompaiono, con alcuni motivi pittorici ricorrenti.

Inoltre, il film eredita o adatta le tecniche del romanzo. È un privilegio ti-pico del romanziere quello di poter seguire i suoi personaggi ovunque vadano, senza preoccuparsi di quanto spesso la scena possa cambiare. Anche il compo-sitore cinematografico ha questo privilegio: la macchina da presa può seguire il protagonista negli interni ed esterni, in luoghi solitari o in strade affollate, nella tranquillità del privato o nella confusione degli spazi pubblici, al punto che gli spettatori, che si trovano virtualmente dietro la macchina da presa, finiscono per conoscere intimamente il personaggio e iniziano a interessarsi profonda-mente alla sua storia.

Lo scrittore si serve delle parole e il regista teatrale di pittura e tele per riprodurre i vari ambienti in cui si trova il protagonista. Il compositore ci-nematografico, invece, può recarsi direttamente nei luoghi reali e portarli di

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fronte al pubblico, misteriosamente reali e allo stesso tempo dotati di qualità artistica. Per la prima volta nella storia della rappresentazione narrativa, la na-tura stessa può ricoprire un ruolo di primo piano. Gli ambienti reali possono essere ulteriormente manipolati nel film, al punto che architettura e paesaggio arrivano a combinare il loro effetto artistico con i principali elementi pittorici e drammatici della storia.

Di conseguenza, un film non può essere pensato come un romanzo su celluloide. In una recente recensione pubblicata sull’«Herald» di New York l’autore scrive: «I Miserabili, un dramma filmico adattato dall’epico romanzo di Victor Hugo, è stato presentato al Lyric Theatre dopo molti mesi di prepara-zione. Il film probabilmente ha un approccio così prossimo alla letteratura da farla sembrare realizzata sullo schermo». Questo recensore guarda al film come a un’arte o come a un’imitazione commerciale? Se avesse dovuto commentare una scultura, l’avrebbe lodata in quanto prossima alla pittura al punto da sem-brare pittura realizzata nel marmo?

Al di là dei debiti più o meno ovvi contratti con le arti che l’hanno precedu-to, il cinema ha naturalmente i suoi specifici poteri, appena scoperti e ancora in fase sperimentale. Il misterioso fascino del movimento visibile in natura ora per la prima volta viene adattato all’arte e il soprannaturale, di cui tanto si è scritto e detto in poesie, drammi e racconti, viene ora mostrato per la prima volta davanti ai nostri occhi grazie alla magia del cinematografo.

Vedremo dunque come il film sia un qualcosa di estremamente comples-so, che coinvolge numerosi elementi espressivi e princìpi di composizione. La selezione e il controllo di tutti questi elementi, la conoscenza e l’applicazione di tutti questi princìpi, richiedono una mente dotata di straordinaria pazienza, attenzione e inventiva. Se le numerose parti che formano un film sono salda-te dalla fiamma del genio in un insieme armonioso, il risultato potrà essere un’opera d’arte che potrà offrire al pubblico ora divertimento, ora bellezza, ora verità o ispirazione, oppure anche tutte queste cose, arrivando a rivelare, nella particolarità della sua composizione, il gusto e il temperamento del suo compositore.

Ora, se quest’opera non è né letteratura, né teatro, né pittura, né scultu-ra, né musica, né architettura ma qualcos’altro distinto da queste arti, benché affine a loro, allora occorrerà giudicarla e considerarla come una nuova arte. Tuttavia non può esserci un giudizio giusto senza conoscenza, non può esserci critica costruttiva su una nuova arte senza un approccio congeniale alla sua for-ma specifica e all’unicità del suo potenziale. Ciò di cui necessita oggi l’universo del cinema sono canoni critici più definiti. Esso necessita di critici competenti che scrivano su periodici e quotidiani, di studi seri in forma di libri, di circoli

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cinematografici e di essere protetto contro il non-artistico e l’immorale. Soprat-tutto, il cinema necessita di quel qualcosa che con il tempo gli verrà dalla critica costruttiva degli specialisti: una conoscenza e una comprensione generale da parte del pubblico di ciò che vorrebbe vedere sullo schermo e che metta final-mente da parte quegli inutili pot-pourri che oggi troppo spesso attirano la sua attenzione. Non c’è dubbio sul fatto che il pubblico saprà sviluppare un buon gusto purché gli venga dato qualcosa di buono da gustare. Accadrà, in futuro, che ogni film verrà filmato più e più volte fino a che non si avvicinerà alla perfe-zione. Potrebbe perfino accadere che il proiettore cinematografico trovi posto nelle nostre case vicino al fonografo, ma ciò non succederà fino a quando i film non diventeranno degni di essere visti e rivisti come opera d’arte preferita.

Il film come arte ha circa duemilacinquecento anni in meno del teatro, è ancora nella sua infanzia e l’infanzia è l’età delle sperimentazioni. Che queste sperimentazioni siano dirette in modo intelligente verso la maturazione delle potenzialità del nuovo mezzo, dipende dallo sforzo condiviso di autori, critici ed estimatori.

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La psicologia del pubblico cinematografico

Il creatore di film studia il suo pubblico attraverso il botteghino. Per lui ci sono due tipi di pubblico: quello buono e quello piccolo. Per lui, un film può considerarsi riuscito al novantacinque percento se novantacinque proprietari di sale su cento registrano una buona presenza di pubblico nel giorno o nella settimana in cui il film viene proiettato. Tuttavia, noi studiosi, o critici, o sce-neggiatori seri non possiamo permetterci giudizi avventati e basati solo sugli in-cassi e sulle sale; se dobbiamo migliorare l’arte del film, dobbiamo addentrarci in modo più filosofico nella natura del pubblico, dobbiamo capire l’esperienza dello spettatore medio, le sue reazioni, le sensazioni, i sentimenti e i pensieri durante la proiezione di un film. Con il pragmatismo degli artisti, dobbiamo avere chiaro il nostro obiettivo prima di iniziare, dobbiamo indirizzare il nostro messaggio prima di spedirlo; dovremmo quindi conoscere il nostro pubblico prima di tentare di comunicare con lui.

Non bisogna mai dimenticare che a teatro il pubblico è una folla. Una folla è una massa compatta di persone tenuta insieme da un singolo scopo per un periodo di tempo più o meno lungo. Le diverse unità di questa massa sono in stretto contatto tra loro e la folla esiste finché questa vicinanza si mantiene. A teatro, ad esempio, una determinata folla esiste finché dura quella rappresen-tazione e non potrà mai più esistere una volta terminata la rappresentazione che l’aveva riunita.

Questo stretto contatto è sia spirituale che fisico: non solo è possibile toccare il gomito del proprio vicino e respirare la stessa aria, ma si può per-fino essere contagiati dalle sue emozioni, condividere i suoi desideri, i suoi propositi, le sue reazioni. Questo stretto contatto dà alla folla una psicologia particolare: l’individuo nella folla non è lo stesso di quando è solo, in quanto inconsciamente influenzato dai suoi accompagnatori o vicini, al punto che le sue emozioni sono amplificate e la sua volontà o abilità di pensare diminuisce. Ride più facilmente e per cose meno comiche quando è parte di una folla ri-spetto a quando è solo. Nella folla è più reattivo, più espansivo, più gentile, più crudele, più sentimentale, più religioso, più patriottico, più irragionevole, più

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ingenuo di quando è solo. Una folla, dunque, è più emotiva e meno razionale di quanto non lo siano i suoi componenti prima di trovarsi insieme.

La folla ha una sola mente, mentre il pubblico ha molte menti1. Il concetto di pubblico potrebbe essere descritto come una grande rete di gruppi unificati: famiglie, combriccole, circoli, associazioni e folle. Una folla non può esistere in quanto tale per più di tre o quattro ore per volta, oppure fintanto che si mantiene un contatto ravvicinato, o un interesse comune. Il pubblico invece può avere spazio e tempo tra le sue sessioni. Inoltre, il pubblico esiste sempre. I suoi gruppi entrano in contatto tra loro, anche se non simultaneamente; si scambiano opinioni, si portano avanti discussioni, si scrivono lettere fino a che, come risultato di tutte queste riflessioni, si giunge a un pensiero condiviso e tale pensiero è detto opinione pubblica.

La folla invece, per sua natura, non ha mai il tempo di riflettere e deve de-cidere e agire d’istinto o d’impulso o, nel migliore dei casi, seguendo il primo pensiero che viene in mente. Una volta che la folla si è separata, ciascun indivi-duo potrà, sulla base di riflessioni personali, capovolgere le proprie decisioni e questi secondi pensieri, questi giudizi ponderati potranno allora diventare una parte dell’opinione pubblica. Accade pertanto molto spesso che oratori politici – non è necessario fare nomi – possano influenzare le folle, ma non il pubblico. Può anche succedere che un dramma possa essere applaudito da tre, quindici o anche cinquanta folle di spettatori e tuttavia non riuscire a fare presa sul pubblico. Ciò è dovuto al fatto che la folla reagisce all’ovvio e all’immediato perché è impressionata da valori superficiali, ma un’opera teatrale non può di-ventare patrimonio permanente della civiltà se i suoi valori non sono profondi, decisivi, vitali ed eterni. In breve, a meno che non superi la prova dello studio e del tempo.

Testi teatrali classici come Macbeth o La scuola della maldicenza o Il venta-glio di Lady Windermere hanno superato questa prova e hanno il loro pubblico, che andrà a vedere la rappresentazione indipendentemente dal fatto che sia realizzata dagli studenti di un college, da attori amatoriali o dai migliori attori professionisti. Attraverso i loro capolavori, drammaturghi come Shakespeare, Sheridan, Wilde, Shaw, Maeterlinck e Barrie hanno il loro pubblico, che sarà interessato a ogni opera attribuita a questi autori, non importa quanto scono-sciuta o minore. Ma, nella breve storia del cinema, nessuno sceneggiatore è riuscito a conquistarsi un pubblico. È vero che Griffith ha un pubblico, ma è regista e produttore oltre che autore. Ad oggi, neanche un film su cento ha un pubblico; perché la natura effimera della programmazione e della proiezione lo impedisce. I film sono visti e giudicati da folle isolate di spettatori a Boston e a Kalamazoo come a Galveston, ma raramente da un regolare flusso di folle

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nello stesso posto, un flusso che alla fine consentirebbe di sviluppare un atteg-giamento critico pubblico – ci sono ovviamente delle eccezioni, quali Cabiria, La nascita di una nazione e Intolerance.

Al cinema è la “star”, attore o attrice, che si conquista un pubblico. Mary Pickford ha il suo pubblico, Francis Bushman il suo, i Drew e Chaplin il loro. Ancora una volta la responsabilità è delle modalità di presentazione del film, che viene proiettato sullo schermo, si dissolve e muore con quella performan-ce. Rinasce altrove, magari a Brooklyn o Hoboken, ma non per noi, che non possiamo leggerlo, né cercarlo o rivederlo quando ci pare. Esiste solo ed esclu-sivamente per una folla. Le storie vanno, ma le “star” rimangono e le potremo applaudire ancora, nella stessa sala, domani o la prossima settimana. Esibi-ranno le loro qualità in una nuova storia, un nuovo “veicolo” a cui tuttavia presteremo scarsa attenzione, perché già sappiamo che anch’esso sparirà. Nel frattempo prendiamo confidenza con gli attori, impariamo i loro nomi, la loro età e i loro passatempi preferiti. Li critichiamo, diciamo ai nostri amici che non sono così straordinari come vorrebbe farci credere la pubblicità, oppure che sono assolutamente degni di essere visti. Così, in una situazione di questo tipo, l’interprete, più della storia, garantisce una presa sul pubblico.

Tuttavia, queste difficili condizioni proprie del film non devono scorag-giare il compositore cinematografico. Se riuscirà ad attirare abbastanza folle di spettatori, diciamo un migliaio o più, alla fine avrà anche lui un pubblico, a patto che, ovviamente, il fascino superficiale che ha soddisfatto la folla riveli poi una natura più profonda, capace di mantenere un pubblico. Ma come può un compositore cinematografico riuscire a conquistare anche una sola folla? Se vorrà studiare la psicologia degli spettatori in sala, scoprirà che per loro in ogni film che narra una storia ci sono tre tipologie di fascinazione: primo, il fascino visivo; secondo, il fascino emotivo e terzo, il fascino intellettuale. Il fascino visi-vo e quello emotivo sono primari, fondamentali e molto potenti, mentre quello intellettuale è secondario e relativamente più debole.

Il senso visivo dello spettatore reagisce innanzitutto alla bellezza del sog-getto fotografato e pertanto un lago illuminato dalla luna, una spiaggia spazzata dalle onde, colline coperte di abeti, una villa italiana nei pressi di un passo di montagna, l’interno di un palazzo riccamente arredato – tutto ciò dà all’occhio una sensazione di piacere, un piacere che è piuttosto lontano dal significato della scena e dalla sua relazione con il resto della storia. Lo spettatore potrebbe anche essere troppo stupido per capire la storia e tuttavia potrebbe godersi il film interamente. Questo piacere visivo è una sensazione primitiva, provata da tutti gli spettatori indipendentemente dall’età o dal livello culturale. È più dell’apprezzamento di un quadro, è una gioia in quanto tale. Lo spettatore

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immagina di essere a contatto diretto con quella realtà meravigliosa, dimenti-cando che è la macchina da presa a mostrargliela.

L’occhio è particolarmente appagato da certi tipi di movimento fisico che il film è in grado di trasmettere e che non possono essere trasmessi da nessun altro mezzo artistico. Quando si getta un sasso in uno stagno, si formano im-mediatamente una serie di piccole onde circolari che, espandendosi in anelli concentrici, finiscono per appiattirsi per poi svanire sulla superficie immobile dello stagno. L’occhio è appagato da queste onde in espansione e dall’infinita moltiplicazione degli anelli che nascono misteriosamente dal punto in cui il sas-so è affondato. L’occhio non trova alcun significato particolare in questa scena, semplicemente apprezza il movimento astratto. Se il movimento fosse assente e gli anelli fossero immobili, come apparirebbero in una normale fotografia, non ci sarebbe un tale piacere visivo. Altri esempi di movimento puro che ap-pagano la vista sono l’acqua scrosciante di una cascata, le ondulazioni ritmiche del mare, l’aprirsi di un fuoco di artificio nel cielo, la lenta spirale di fumo che esce dal camino di una fabbrica, l’equilibrio variabile di un uccello in volo, la costante spinta in avanti di una barca che naviga a vele spiegate. In tutti questi soggetti l’occhio è appagato dalla continuità del movimento piuttosto che dalla staticità del momento e il cinema è il nuovo ed unico mezzo grazie a cui questi movimenti possono essere riprodotti con effetti artistici.

Il piacere per l’occhio è particolarmente intenso anche quando il fascino del movimento si identifica con l’espressione del corpo umano, sia individua-le, come nel caso di un danzatore, che en masse, come nel caso di una parata militare. Questa reazione dei nostri sensi alla forma umana e al movimento fisico è primaria e fondamentale, e avviene prima che il nostro cervello abbia il tempo di interpretare il significato drammatico dello stimolo visivo. Di conse-guenza, è fondamentale che lo sceneggiatore dia agli attori la totale possibilità di esprimere la loro fisicità e ambienti la loro azione in un contesto che catturi all’istante lo sguardo dello spettatore. Questa prima impressione sullo spetta-tore è estremamente importante e lo sceneggiatore deve ricordare che è suo compito fornire un buon soggetto al regista e che entrambi devono coordinarsi con l’operatore per catturare lo sguardo degli spettatori poiché, al di là di ogni altra cosa su cui può fare leva un film, prima di tutto deve attirare l’occhio.

Mentre lo spettatore di un film prova le sensazioni visive o puramente fi-siche descritte sopra, la sua esperienza spirituale è arricchita dalle emozioni che lo spettacolo riesce a suscitare. Come abbiamo già detto, la folla è parti-colarmente sensibile al potere delle emozioni e l’individuo nella folla è più fa-cilmente emozionabile di quando è solo. La sua esperienza emozionale ha una duplice natura: egli prova quella che potremmo chiamare “auto-emozione”,

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cioè un’emozione che non ha a che fare con nessun personaggio della storia e con nessuno in generale, e un’“emozione sociale”, un sentimento di relazione sociale e di interesse personale nei confronti dei personaggi della storia. Nella sala cinematografica, l’auto-emozione durante la visione di un film è uguale all’auto-emozione che si prova nella vita reale di fronte alla realtà; l’abbiamo provata tutti, anche se non è semplice descriverla. Talvolta può essere una vaga nostalgia che compare quando guardiamo, tra le sottili betulle, oltre un’insena-tura, la sommessa maestosità dell’altra riva coperta di abeti. La nostalgia però non si manifesta chiaramente e noi non sappiamo esattamente ciò che vogliamo o proviamo: si tratta di una misteriosa miscela di contentezza e tristezza. Allo stesso modo il bianco purissimo di una vetta alpina, una vela indistinta nel lon-tano orizzonte, il riflesso luminoso di una nuvola estiva in un lago di montagna, tutto questo provoca in noi un sentimento di meraviglia silenziosa o di stupore, o una vaga nostalgia di qualcosa che va oltre la nostra esperienza del presente. A volte l’auto-emozione può anche essere più primitiva, un fremito o una par-ticolare eccitazione dovuta a determinate azioni o disordini, come una folla in strada che accorre a una rissa o un incendio, anche quando non siamo del tutto sicuri o non ci interessa particolarmente ciò che sta accadendo. La percezione di un’agitazione esterna incipiente o incombente sollecita in noi un’agitazione corrispondente, e ci ritroviamo impressionati prima ancora di sapere davvero che cos’è che ci ha impressionati. Al cinema, lo spettatore cede facilmente a queste attrazioni emozionali e altrettanto facilmente si arrende alle illusioni dell’arte, credendo di trovarsi davvero in quella realtà, davanti a quell’azione.

Ma l’esperienza emozionale dello spettatore è ancora più vivida se con-siderata in relazione alle forme di empatia e di interesse sociale provate nei confronti dei personaggi sullo schermo. Il fatto che le emozioni sociali possano essere suscitate da qualcosa di dichiaratamente irreale, da mere immagini di persone che non esistono se non nell’immaginazione, è di fondamentale impor-tanza per l’arte drammatica e letteraria. È questa illusione che dà al dramma un enorme potere, che rende il nostro mondo così grande e così vasta la cognizio-ne umana: la finzione diventa realtà, i personaggi inventati diventano più veri perfino dei loro autori, per cui Shylock ci sembra più vero di Shakespeare e potremmo addirittura pensare che l’ebreo è una figura storica e l’autore inglese solo un mito. Don Chisciotte, Sherlock Holmes e Peter Pan sono senza dubbio molto più reali di Cervantes, Conan Doyle e Barrie. Conosciamo i personaggi di queste storie così intimamente perché, grazie all’arte, entriamo in diretto contatto con loro, ammiriamo la loro forza, condividiamo le loro gioie e le loro pene e, soprattutto al cinema, questa illusione di contatto personale con i personaggi è particolarmente forte. Ammiriamo o disprezziamo quelle che

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sono mere ombre sullo schermo, le amiamo o le odiamo, le approviamo o di-sapproviamo, le perdoniamo o rifiutiamo loro il nostro perdono. Arriviamo al punto di sceglierci i nostri amici tra quegli eroi ed eroine come pure sdegniamo i malvagi, gli sciocchi e i più miseri. Al cinema versiamo vere lacrime su pene che sappiamo benissimo non esistere, applaudiamo trionfi che sappiamo non essere mai stati raggiunti, proviamo reali paure, perfino terrore, speranze e ambizioni per personaggi del tutto immaginari.

Queste emozioni sociali crescono in noi non solo perché siamo empatica-mente interessati all’esito di ogni vicenda umana, come vedremo in un capitolo successivo, ma perché, per una legge psicologica, proiettiamo noi stessi nei per-sonaggi sullo schermo. Così, ogni spettatore potrà provare, come per delega, le esperienze e le emozioni del personaggio che sta osservando.

L’identificazione di sé con i personaggi fittizi è specialmente verificabile nei bambini. Gli amanti di Dickens ricorderanno che David Copperfield dice che quando era bambino il suo unico e costante conforto gli veniva dal leggere romanzi e dal mettersi nei panni dei buoni, mentre proiettava Mr. Murdstone, il suo odiato patrigno, e Miss Murdstone in tutti i cattivi. Oggi, al cinema, la ragazzina si identifica con la regina o con l’avventuriera, si immagina potente come l’una e abile come l’altra. Il giovanotto, invece, si identifica intensamente con l’eroe e con la sua nobiltà o col cattivo e la sua astuzia. È la natura umana a desiderare ardentemente un’esperienza sempre più ricca, che non sia limitata dai confini delle circostanze o delle convenienze: laddove la quotidianità ci imprigiona, l’arte ci libera e grazie a essa il custode può diventare un re, il po-stino un generale, tu potresti diventare un assaltatore di treni e tua sorella un vampiro e io potrei diventare milionario. Così ognuno di noi potrebbe avere esperienze vicarie nelle quali non potremmo essere coinvolti, o non vorremmo esserlo, nella nostra vita reale.

Un’interessante rappresentazione di questa proiezione del sé in un per-sonaggio si trova nel film della Blue Bird Undine 2. Il film racconta la storia di un uomo che legge la storia di Undine alla sua bambina. Quando arrivano alla parte sulla figlia del pescatore, la bimba dice al padre: «Voglio essere la loro figliola». Il padre acconsente e per il resto del film vediamo che nel ruolo della figlia del pescatore c’è la stessa bambina che stava seduta sulle ginocchia del padre e ascoltava la storia dell’altra bambina.

Uno dei fattori decisivi che ci permettono di simpatizzare con i personaggi sul palco o sullo schermo è legato all’attore che interpreta la parte. Dopo aver visto Sarah Bernhardt in Camille, o David Warfield in The Music Master, o John Barrymore in Justice, non possiamo più pensare ai protagonisti di queste storie se non vincolandoli a quegli attori. Una lettura del testo prima o dopo la sua

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55L’arte di fare film

messinscena non riduce la forza con cui la personalità dell’attore si imprime nella nostra memoria; nel caso del film, dove la versione è unica, la coincidenza tra l’attore e il suo ruolo è ancora più completa. Sarebbe infatti impossibile per noi entrare in contatto con il personaggio di un film se non attraverso la perfor-mance fotografata dell’attore. Pertanto, al cinema, le nostre emozioni sociali verso i personaggi sono largamente condizionate dall’apprezzamento o meno nei confronti di un attore o un’attrice.

Non è un caso che il “fan cinematografico” si accontenti di ammirare la recitazione indipendentemente dal suo valore rispetto all’interpretazione del personaggio. I suoi dieci centesimi, ceduti così volentieri, sono un tributo alle doti fisiche o all’audacia di un nostro simile, a un commediante che rotola co-micamente giù da una rampa di scale o un’attrice che salta sul vagone bestiame di un treno da un’automobile in corsa. Questa emozione ha un che di primi-tivo: da millenni gli uomini restano a bocca aperta e si emozionano davanti a giocolieri e acrobati. E chi di noi non apprezza ancora questo divertimento elementare? Chi tra noi non sottrae un po’ di tempo agli affari, alle profondità della filosofia o alle altezze dell’arte per emozionarsi di fronte alla destrezza dei lanciatori di baseball, dei pugili, o delle ballerine da cabaret? Questa ammira-zione nei confronti delle abilità fisiche di un nostro simile costituisce la base del godimento che proviamo di fronte agli spettacoli teatrali. Julia Marlowe e Charlie Chaplin, per quanto agli antipodi, hanno costruito il loro successo sulle medesime basi, su questa emozione sociale della folla, sull’ammirazione che si prova per le capacità fisiche di un altro essere umano. La folla non si lamenta mai dei personaggi riusciti in uno spettacolo, ma pretende che questi perso-naggi siano concepiti o per lo meno adattati sulla base dei punti di forza dei loro attori o delle loro attrici preferite. Qualsiasi folla teatrale, fuorché quella composta dai critici e drammaturghi, preferirebbe vedere un attore di primo li-vello in un dramma di second’ordine piuttosto che un attore di livello inferiore in un’opera di prim’ordine. Ciò non fa altro che confermare quanto dicevamo prima e cioè che la folla reagisce all’ovvio e all’immediato ed è facilmente im-pressionata da valori superficiali: l’attore è il valore superficiale del personaggio che interpreta. Nel caso di un buon attore questo valore superficiale si confor-ma esattamente al personaggio sottostante, mentre nel caso dell’attore scarso il valore superficiale è come una tenda di cattivo gusto che ci impedisce di vedere il personaggio creato dall’autore. In entrambi i casi l’occhio della folla si nutre avidamente dello spettacolo di superficie.

La morale è questa: se l’autore cinematografico intende suscitare nella folla un’emozione sociale, se intende offrire a ogni spettatore una possibilità di fuga nel magico regno dell’esperienza vicaria, è necessario che concepisca e tratteggi

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56 Victor Oscar Freeburg

i suoi personaggi secondo i massimi valori della recitazione. Le emozioni degli spettatori sono il tesoro nello scrigno dell’artista e a tutt’oggi la star del cinema è la sola in grado di aprirlo.

Il fascino intellettuale di un film non è paragonabile al suo impatto emozio-nale. L’immediatezza, la naturale rapidità della proiezione e la psicologia della folla danno allo spettatore poche opportunità e poca voglia di esercitare le sue facoltà intellettuali, e tuttavia alcuni processi intellettuali sono sollecitati anche dalla visione di un film.

Il primo di questi riguarda la nostra curiosità: in continuazione desideriamo aggiungere nuovo materiale al nostro bagaglio di conoscenze e bramiamo cose nuove. L’americano medio scorre il giornale tutto d’un fiato, ma il riconoscimen-to di qualcosa di nuovo è un processo intellettuale: classifichiamo una cosa come nuova sulla base del confronto con le cose più vecchie che già conosciamo. Poi il nuovo diviene a sua volta vecchio e la nostra mente deve ricominciare la sua avventura. Solo ieri il cinema ci sembrava una grande novità e completamente rapiti osservavamo: “L’immagine si muove!”, “Non fa male agli occhi!”, “Tutto sembra così vero!”, “L’operatore è abilissimo!”. Oggi i dispositivi meccanici per raccontare storie sullo schermo sono ancora nuovi, gli espedienti dei cartelli, dei tagli, dei primi piani, dei flashback, delle dissolvenze in apertura e in chiusura, delle doppie esposizioni, dei doppi ruoli etc., hanno tutto il fascino della novi-tà. Alla luce della sua esperienza, lo spettatore riconosce questi processi come nuovi ed è ansioso di vedere il nuovo film che uscirà, perché potrebbe offrire ulteriori prove dell’ingegnosità dei tecnici.

La novità dei contenuti fisici affascina lo spettatore tanto quanto la novità fisica della forma. Egli soddisfa appieno la sua curiosità riguardo ad altri luoghi e altre latitudini, altri popoli e stadi della vita, diversi da quelli ai quali è abitua-to. Il cowboy del Sud Dakota trova nuova la storia ambientata in un villaggio di pescatori a Cape Cod o a bordo dello yacht di un milionario e la troverebbe nuova anche il bambino del ghetto. Invece il pescatore, la gentildonna e l’ere-ditiera trovano nuova la triste storia del ghetto, o quella ambientata tra i ranch, negli immensi spazi del Sud Dakota. Poco importa che queste storie possano essere “contraffatte” dal produttore del film: la mente dello spettatore sarà ugualmente soddisfatta poiché l’illusione dello schermo è così forte da far cre-dere di essere in diretto contatto con la realtà. Questa impressione è destinata a durare, al punto che, nei ricordi confusi della vecchiaia, quello stesso spetta-tore dirà, pur senza esserci mai stato, “Quando ero a Yokohama…”, oppure “Quando mi trovavo di fronte alla Sfinge…”, venendo interrotto da qualche benevolo nipote che spiegherà: “Sai, il nonno non è mai stato in quei luoghi, li ha semplicemente visti al cinema!”.

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57L’arte di fare film

La curiosità che riguarda le strutture superficiali di una storia e il suo con-tenuto fisico può facilmente essere stimolata dal regista cinematografico, ma più difficile sarà interessare la folla alle leggi e ai princìpi astratti su cui la storia è costruita. La folla non dimostra nessun apprezzamento critico per l’abilità artistica. Il compositore cinematografico esperto può mostrarsi assai abile nel-la gestione del materiale umano della storia, può mostrare una logica sottile nel motivare l’azione o particolare originalità nella drammatizzazione dell’am-bientazione pittorica; potrebbe anche dimostrare straordinaria destrezza nel tessere l’intreccio e la folla potrebbe assistere a tutto questo senza il minimo entusiasmo estetico. L’apprezzamento estetico della maestria tecnica è frutto non di uno stimolo, ma di un’analisi e un’opera deve affermarsi come una delle preferite dal pubblico prima che tali valori siano conosciuti e ammirati. Una volta che l’opera ha raggiunto il pubblico, le sue possibilità di diventare un classico si moltiplicano grazie alla perizia con cui è stata costruita, ma una tale perizia è di per sé di scarso aiuto nel favorire l’affermazione di un’opera presso il pubblico. Di conseguenza, non avrebbe senso che un regista cinematografico dicesse: “Strano che quest’opera non conquisti la folla, è costruita perfettamen-te!”, perché l’abilità artigianale è un mezzo e non un fine, almeno per quel che riguarda il pubblico. L’autore deve progettare e pianificare abilmente – quasi in segreto – per appagare i sensi, catturare le emozioni e coinvolgere l’intelletto degli spettatori. I risultati saranno straordinari, mentre l’ingegnosità e l’abilità dei metodi impiegati saranno del tutto ignorati o non riconosciuti. Ma tornan-do al nostro discorso, la prima esperienza intellettuale di uno spettatore cine-matografico riguarda l’esigenza di soddisfare la sua curiosità, curiosità rispetto al contenuto e rispetto agli espedienti fotografici con cui la storia è narrata.

Un altro processo intellettuale è il riconoscimento dell’effetto comico. Ci diverte essere sorpresi dall’osservazione di qualcosa di incongruo, un esem-pio di incapacità umana che ci fa ridere perché noi sapremmo fare di meglio. In un attimo confrontiamo l’inadeguatezza della cosa con ciò che sappiamo dovrebbe essere adeguato e questo paragone è un istantaneo e inconsapevole processo intellettuale. A dire il vero questa forma inconscia di giudizio non richiede un grande sforzo, che è quasi assente quando assistiamo a certe buffo-nerie farsesche, mentre è massimo quando apprezziamo commedie con situa-zioni sottili o bizzarre. Quando paragoniamo l’adeguatezza all’inadeguatezza scegliamo naturalmente noi stessi come esempi della prima e le vittime del dramma come esempi della seconda. In questo modo ci poniamo sempre in una posizione di maggiore dignità rispetto a quei pagliacci che fanno le smor-fie, siamo più a nostro agio dell’insegnante che si siede sopra una puntina, più tranquilli dell’ubriacone logorroico, più saggi dell’idiota che ha paura di un

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58 Victor Oscar Freeburg

orso impagliato e più svegli dello zotico paesano che cerca di infilare le lette-re nella cassetta dell’allarme antincendio. Questa improvvisa consapevolezza della nostra superiorità ci fa così piacere da farci ridere: veniamo pervasi da un senso di piacere e una sensazione di ilarità che spazzano via ogni traccia di preoccupazione dalla nostra mente. Il lieve quasi impercettibile sforzo che la nostra mente opera per riconoscere l’incongruità della situazione, allontana tutto lo stress mentale, ci fa dimenticare la seriosità della nostra vita quotidiana e ci abbandoniamo ai capricci della spensierata irrealtà dello schermo.

Ricordiamoci sempre che il film ci conquista prima di tutto attraverso gli occhi. È del tutto normale che l’individuo nella folla, con le sue facoltà mentali sopite, reagisca più facilmente alla caricatura fisica e all’azione comica che non all’ironia di situazioni che devono essere interpretate attraverso i personaggi e i loro comportamenti all’interno della storia. In uno dei prossimi capitoli approfondiremo la discussione sulla commedia in generale e sulle potenzialità della commedia filmica in particolare. Qui basti dire che gli spettatori sono innamorati della commedia e che si appassionano soprattutto a quel tipo di commedia che si può capire visivamente, in un attimo e con il minor sforzo mentale possibile.

Il processo di giudizio e confronto relativo al fascino comico che abbiamo appena descritto è un processo inconscio della mente. L’opportunità di ragio-nare e di giudicare attentamente non sembra essere tra le massime aspirazioni degli spettatori. La folla che riempie i teatri non ha la propensione a vagliare attentamente ogni questione e a trarre conclusioni su temi più o meno dibattu-ti; la folla è più sentimentale che filosofica e vuole vedere gli amanti ricongiun-gersi alla fine della storia, non le interessa premiare questi personaggi secondo princìpi di assoluta equità e giustizia. La folla si agita all’idea che un marito tratti la moglie come una sua esclusiva proprietà, ma non si infiamma se sullo schermo si mostra una discussione circa i diritti di proprietà. La folla acclama la bandiera a stelle e strisce o una fotografia del Presidente, ma non si scalda se sente parlare di tariffe doganali. Tutto ciò si spiega col fatto che la legge, le scienze sociali e l’arte di governare richiedono molto pensiero e poco diverti-mento e il pubblico vuole il massimo del divertimento con il minimo sforzo di pensiero. La ricettività della mente è determinata dal nostro stato d’animo e lo stato d’animo che ci dispone al piacere visivo e all’emozione non è lo stesso che ci dispone alla riflessione. Lo sceneggiatore non deve dedurre dalla nostra discussione che la sua storia debba per forza essere sciocca ma, d’altro canto, non deve sperare di impressionare la folla cinematografica con l’originalità del suo pensiero, né ritenere che il film sia un mezzo facile di espressione argo-mentativa. Quel che è certo è che, se lo sceneggiatore si aspetta di raggiungere

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59L’arte di fare film

il pubblico e di conquistarlo per sempre, deve far sì che la filosofia implicita nella sua composizione sia accurata e solida, ma deve anche assicurarsi che tale filosofia sia implicita e non esplicita, perché non può nutrire la folla di filosofia a meno che non la edulcori con l’intrattenimento emotivo.

La più intensa esperienza intellettuale che uno spettatore può fare durante un film riguarda la suspense circa l’esito di una determinata situazione o del-la storia intera. La suspense mentale è l’elemento fondamentale del fascino drammatico e nessuna storia può conquistare gli spettatori senza di essa. Come provocare e mantenere la suspense è una questione talmente importante che dovremo dedicarle un capitolo a parte. Qui ci limitiamo a dire che la suspense è una combinazione di esperienze emotive e intellettuali: lo spettatore è in uno stato di eccitazione e stupore circa lo sviluppo della storia. Allo stesso tempo incrocia le sue intuizioni con il disegno dell’autore, assumendo il ruolo di de-tective e profeta, provando a prevedere e anticipare l’azione. Egli presta grande attenzione a ogni dettaglio della storia e compie rapide previsioni sul contenuto delle immagini che devono ancora apparire sullo schermo. La sua attenzione rimane alta fino alla fine dell’azione, quando la mente si rilassa e si riposa sod-disfatta come dopo uno sforzo fisico. Senza suspense il film è semplicemente una successione di immagini e non riesce a mantenere salda l’attenzione dello spettatore più di quanto non vi riesca una fila di immagini sulla parete di un museo. Una storia di questo tipo lascia insoddisfatto il singolo spettatore, per-ché lo priva dell’intenso piacere mentale di essere imprigionato nel dubbio, l’ansia, l’aspettativa circa ciò che accadrà.

La suspense è un rapido e freddo processo mentale che allo stesso tempo scalda il cuore; se così non fosse, la folla, che è estremamente emotiva, non la vorrebbe mai. Come abbiamo detto, la suspense dipende dalle emozioni socia-li, da una precisa e personale empatia coi personaggi della storia e da un forte interesse per le loro vicende e il loro destino.

L’individuo nella folla è disposto a pensare a patto che lo possa fare con il cuore; è disposto a pensare a patto che lo possa fare come vuole. Non esiste atti-vità intellettuale più semplice e rilassante dell’esercizio della fantasia: semplice perché non sottostà a nessuna regola e ognuno può lasciare che la sua mente vaghi dove preferisce e rilassante perché offre una via di fuga dalla dura realtà quotidiana. Considerando che allo spettatore cinematografico piace esercitare la sua immaginazione, il compositore cinematografico non dovrebbe rispar-miarsi per garantirgli questo genere di attività mentale. La cosa straordinaria del cinema è che, sebbene per certi versi impoverisce l’immaginazione pre-sentando fotograficamente all’occhio fisico cose che finora abbiamo visto solo attraverso l’occhio della mente, ciononostante esso può contare su numerosi

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mezzi e metodi del tutto nuovi per colpire l’immaginazione. Sarà interessante analizzare e illustrare nei prossimi capitoli i nuovi modi in cui è possibile cat-turare grazie al cinema il senso di meraviglia dello spettatore e la sua immagi-nazione.

Abbiamo dunque studiato e cercato di capire la natura e gli stati d’animo, gli affetti e le avversioni, i capricci e l’affidabilità, l’impressionabilità emotiva e la ricettività intellettuale dello spettatore medio che riempie le sale. Una volta che il compositore cinematografico possiede alcune nozioni di psicologia della folla e sa bene qual è il suo compito, potrà decidere più consapevolmente con quali metodi portarlo a termine. Ora che siamo di fronte al nostro problema, proviamo a capire quali sono i modi per risolverlo. Impariamo il modo mi-gliore per appagare l’occhio, come provocare l’auto-emozione dell’individuo nella folla, come sollecitare e tenere vive le sue forme di empatia sociale, come offrirgli un intrattenimento intellettuale senza affaticargli la mente; e infine ricordiamoci sempre che se il nostro film vuole diventare un classico deve pos-sedere, sotto la superficie attraente che affascina la folla, valori imperituri come la verità illuminante, il significato universale e la bellezza che non svanisce.

Note

1. Qui Freeburg si riferisce al concetto esteso di “pubblico” (public) e non al pubblico cine-matografico o teatrale (audience) [N.d.T.].

2. Film del 1916 diretto da Henry Otto.3. Film del 1916 diretto da Edmund Lawrence.

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233L’arte di fare film

Indice dei nomi

Abramson, I., 133nAbruzzese, A., 15, 37nAlovisio, S., 36nAltenloh, E., 22, 38nAnspacher, L.K., 195Aristofane, 165Aristotele, 203Aumont, J., 21, 38nAzlant, E., 12, 36n(2), 37n

Baedeker, K., 115Balázs, B., 19-21(3), 38nBall, E.H., 11, 12, 23, 36n(2), 39nBanda, D., 38nBara, T., 196, 201nBarbera, A., 37nBarker, G., 70, 153Barrie, J.M., 28, 50, 53, 70, 110, 160, 165,

168, 172, 226Barrymore, J., 54, 146Benjamin, W., 21Bennett, A., 115, 127Berger, R., 133nBernhardt, S., 54Bernstein, H., 193Blaché, H., 118nBlackton, J.S., 37nBoschi, A., 37nBrenon, H., 96nBreton, J., 159Brieux, E., 127Browning, R., 111Brunetta, G.P., 37nBulwer-Lytton, E., 150, 159Bush, W.S., 37n

Bushman, F., 23, 51Butler, N.M., 12Byron, G.G., 115

Campari, R., 35Canudo, R., 16Carroll, N., 14, 37nCasetti, F., 15(2), 22, 23, 29, 35,

37n-39n(3)

Cervantes, M., 28, 53Cervini, A., 39nChapelle Wojciehowski, H., 35Chaplin, C., 23, 51, 55, 165(4), 166,

169, 170, 205Chase, W.M., 66Ciccotti, E., 35, 38nColombo, C., 98Conan Doyle, A., 28, 53Costa, A., 17, 35, 35n, 37n, 84nCraig, G., 153Crary, J., 33, 40nCummings, W., 39n

D’Aloia, A., 35D’Annunzio, G., 108, 118nD’Arco, G., 66, 91, 100, 217Decherney, P., 11, 36n, 37nDe Mille, C.B., 84n, 88, 107, 201nDench, E.A., 11, 36n(2), 37ndi Chio, F., 36n, 37nDickens, C., 54, 167Drew, S., 51, 167Drew, S.R., 133nDu Maurier, G.L., 133nDumble Freeburg, D., 10

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234 Victor Oscar Freeburg

Dunsany (Edward Plunkett), 196Dvorak, A., 91

Egbert, J., 12Ejzenstejn, S.M., 21, 26, 38n, 39n(3)

Ekblad, M., 9Eliot, G., 159, 194Epstein, J., 21Erickson Freeburg, M., 8Esenwein, J.B., 11, 36nEugeni, R., 26, 32(2), 39n, 40n(2)

Fairbanks, D., 158Farrar, G., 196, 201nFaure, E., 16Fielding, H., 160Fouqué, F. de la Motte, 149France, A., 109Freeburg, A.V., 8

Gallese, V., 39nGalsworthy, J., 186Gandini, L., 35Gaudreault, A., 37nGerstenberg, A., 114Gilbert, C.A., 111, 165Goethe, J.W., 175, 216Griffith, D.W., 23, 45(3), 50, 92, 111,

121, 212(2), 217, 230(2)

Guerra, M., 35Guy, A., 84n

Hals, F., 165Hannon, W.M., 13, 14(2), 37n-38n(5)

Hansen, M., 21(2), 38n(3)

Hardy, T., 152(3), 227Harte, B., 150, 176(2)

Hauptmann, G.J.R., 145(2)

Hawthorne, N., 106Hennequin, A., 17Hesselius, G., 10Hitchcock, A., 27Holmes, O.W., 113(2)

Hugo, V., 47, 148

Ibsen, H., 107, 116, 117, 126, 133(5), 148, 182n, 189, 190

Ince, T., 110, 127

Jerome, J.K., 130Johnson, B., 165

Kant, I., 27Keats, J., 111, 115Kellerman, A., 101Kennedy, C.R., 130(2)

Kirkwood, J., 182nKlein, C., 167Knoblauch, E., 115, 127Koszarski, R., 37nKracauer, S., 21Kuhn, A., 38(2)

Lasky, J.L., 11, 12, 15, 17, 37n, 72, 73d,84n, 88d, 88, 100, 149, 196

Lawrence, E., 60n, 84nLeblanc, G. (Madame Maeterlinck), 140Le Bon, G., 22(2), 31(3), 32, 38nLee, G.S., 30, 31(2), 40nLee, J., 133(2)

Lee, V., 33, 40n, 62Leeds, A., 11, 36n-37n(3)

Leites, N., 31, 40nLeSaint, E., 133nLewis, S., 8Linder, M., 171Lindsay, V., 7(2), 13, 14-19(11), 34, 35n,

37n-38n(7), 41, 78, 79(2), 83,84n(2), 118n

Livingstone, S., 38nLoos, A., 158

MacGowan, K., 10, 36nMaeterlinck, M., 50, 130-131(5), 205(2) Marcus, L., 23, 25, 39n-40n(6)

Marlowe, J., 55Marlowe, P., 216Masefield, J., 152(3)

Matthews, B., 9, 13(3), 23McCardell, R., 12Meissonier, E., 75

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235L’arte di fare film

Meredith, G., 168Millet, J.F., 67, 68d, 75, 76, 159Mirone, 64d, 64Molière, 117, 165(2), 168, 226Monet, C., 108Montani, P., 38nMourgue, R., 39nMoscovici, S., 31(2), 32, 40nMoure, J., 38nMoussinac, L., 29, 39nMünsterberg, H., 7(2), 14, 18, 25, 33, 34,

35n, 41

Napoleone, 75, 98, 175Nast, T., 165Neilan, M., 103nNoruschat, S., 35

Olcott, S., 84nOliveira, L., 39nOtto, H., 60n

Paget, V., vedi Lee, V.Panofsky, E. 23, 37n, 39nPastrone, G., 23, 118nPatterson, F., 9(5), 13, 19(2)

Pettijohn, C., 12, 36nPhillips, H.A., 11(3), 12, 13, 17, 24, 32,

36n-38n(10), 40nPickford, M., 23, 51, 100Pinero, A.W., 127, 207Plantinga, C., 32, 40nPlauto, 165Poe, E.A., 123(2), 126, 147Polan, D., 9, 12(2), 13, 35n-36n(4),

38nPonzo, M., 24, 39nPoore, H.R., 25, 81(2)

Previtali, C., 38nPudovkin, V., 28, 39nPuffer, E., 33

Quaresima, L., 38n

Radinoff, F., 11, 12(2), 32, 40nRadnor, L., 11

Raffaello, 67, 74, 176cRathbun, J.B., 11Reed, R.R., 15Reinhardt, M., 153Reizenstein, E.L., 190Reynolds, L., 118nRobertson Hamlin, C., 36nRodin, A., 73, 121, 179Rogers, R., 19(2)

Romano, G., 64, 65d, 85Rude, F., 112

Salt, B., 37nSargent, E.W., 11, 14, 36n(2), 37n, 41Schiller, F., 175Scott, W., 159Service, R.W., 108Shakespeare, W., 10, 13(4), 28, 52, 55,

71, 83, 100, 101, 108, 109, 139, 159, 166, 182n, 186, 197(2), 208, 209, 212, 216, 225(3), 226

Shaw, B., 50, 127(2), 160, 165, 171, 182n,186, 197(2), 226(2), 227

Shaw, H.M., 133nSheridan, R.B., 50, 117, 163n, 165, 168,

169Sidney, S., 182nSlevin, J., 11Smalley, P., 133nSmith, M., 39nSmith, R.E., 36nSmith, T.J., 39nSmith, W., 146Sofocle, 216, 226Solomon, M., 37nSomaini, A., 39nSpinosa, D., 35nStevenson, R.L., 100, 194(2)

Strakosch, E., 36nSudermann, H., 195

Talbot, F.A., 11Tan, E.S., 39nTaudien, G., 23(2), 39nTaylor, J., 11, 12, 38nTerenzio, 165

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Toulouse, E., 24, 39nTourneur, M., 84n, 103n, 133nTruffaut, F., 27Turigliatto, R., 37n

Valentine, C.W., 25, 33, 81Vermeule, B., 39nVignola, R.G., 84n

Wagner, R., 93, 120, 135Walsh, R., 173n, 201nWarfield, D., 54Weber, L., 131, 133n(2)

Wellington (Arthur Wellesley), 175Whitman, W., 93Wilde, O., 50, 169Wolfenstein, M., 31, 40nWright, W.L., 36n(2)

Zangwill, I., 127Zukor, A., 11, 12

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Negli anni della definitiva esplosione del fenomeno cinema-tografico negli Stati Uniti e del primo interessamento delle università americane verso questa nuova forma di espressio-ne, L’arte di fare film di Victor Oscar Freeburg appare come un’opera in grado di mediare le diverse posizioni teoriche e pragmatiche richieste dal cinema. Freeburg intende il film come una nuova forma d’arte che esercita uno straordinario potere sulla mente degli spettatori, una forma d’arte che è in grado di modellare e riconfigurare il concetto stesso di pub-blico. L’attenzione prestata alla “magia” del cinema e lo stu-dio dei processi immaginativi che è in grado di favorire, sono sostenuti dall’analisi dei procedimenti compositivi, della co-struzione drammatica e dei personaggi, nonché da un primo studio delle esigenze commerciali connaturate all’industria cinematografica. Tra teoria e didattica, tra indagini tecniche e psicologiche, L’arte di fare film si presenta come uno dei contributi più originali di inizio Novecento, ancora capace di offrire spunti di riflessione a studiosi e semplici appas-sionati.

Victor Oscar Freeburg, figlio di immigrati svedesi, nasce a Stanton, Iowa, nel 1882 e morirà a Rockport, Massachussets, nel 1953. Laureato a Yale e addottorato alla Columbia, nel 1915 sarà incaricato di insegnare il primo corso di cinema nella storia dell’Università americana e non solo. I temi portanti dei suoi corsi confluiranno nel 1918 nel volume L’arte di fare film, sa-lutato alla sua uscita come uno dei più significativi contributi sul cinema del suo tempo. Insieme a Vachel Lindsay e Hugo Münsterberg, Freeburg è ritenuto tra i maggiori teorici del film americano delle origini. Nel 1923 scriverà il suo secondo e ul-timo libro di cinema, Pictorial Beauty on the Screen.

Michele Guerra è ricercatore presso il Dipartimento di Lette-re, Arti, Storia e Società dell’Università di Parma, dove inse-gna Storia del cinema americano. Ha scritto libri e articoli sul cinema italiano, su quello americano e sulle teorie del film e da alcuni anni lavora sulle relazioni tra cinema e neuroscien-ze cognitive.

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Questa reazione dei nostri sensi alla forma umana e al movimento fisico è primaria e fondamentale, e avviene prima che il nostro cervello abbia il tempo di interpretare il significato drammatico dello stimolo visivo.È questa illusione che dà al dramma un enorme potere, che rende il nostro mondo così grande e così vasta la cognizione umana.

Victor Oscar FreeburgL’arte di fare film

Victor Oscar FreeburgL’arte di fare filmA cura di Michele Guerra

ISBN 978-88-8103-806-0

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