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di Emiliano Sciarra Pubblicato il 22/12/2017
L’insolvenza delle società partecipate a un anno dal T.U.
Il tema della fallibilità delle società partecipate ha trovato (per ora) una apparente stabilizzazione a partire
dall’intervento di riforma operato dall’art. 14 del d.lgs. 175/2016 (da ora t.u.), che ha prodotto rilevanti
mutamenti specie ove si consideri il precedente assetto, ove il carattere “pubblico” era suscettibile di
produrre effetti “bipolari” in quanto capace al contempo di disinnescare l’incombenza di una procedura
concorsuale a seguito di insolvenza, nonché consentire alle amministrazioni controllanti di avvalersi della
procedura di affidamento diretto1.
Fino al predetto t.u. la materia era dunque connotata da un’endemica instabilità dovuta perlopiù al fatto
che, mancando un preciso riferimento normativo riguardo la disciplina applicabile a tali particolari enti,
spettava alla giurisprudenza individuare di volta in volta se il regime pubblicistico, unitamente alle
conseguenze prodotte, andasse applicato o meno ad un dato organismo.
In tale ottica, si può anzitutto notare come l’intervento operato dal legislatore delegato del 2016 sia stato
concepito come risposta alla duplice esigenza di ridurre la proliferazione di realtà partecipate, che a
seguito del mutato rapporto tra Stato ed economia sono aumentate esponenzialmente di numero, come
pure di frenare l’ascesa del livello di indebitamento delle casse pubbliche, che il loro operare ha sovente
prodotto specie a carico degli enti locali2. Anche a cagion di ciò, da strumento di alleggerimento delle
finanze statali, sia per via della possibilità di esternalizzare i servizi pubblici, sia in virtù della potenziale
attrazione di capitali privati nella loro compagine, le società partecipate sono divenute elemento per molti
versi disfunzionale, specialmente per via di una cronica incapacità di raggiungere anche solo il pareggio
nei loro bilanci di esercizio3.
1 Tra gli altri un caso interessante, se non altro per le definizioni, è quello affrontato dal Tribunale di Patti nella pronuncia del 6 marzo 2009, in cui veniva esclusa la sottoposizione a fallimento di una società per azioni operante nella gestione dei rifiuti in quanto ritenuta “mero sodalizio partecipato esclusivamente da enti pubblici per la migliore gestione di un essenziale servizio pubblico”. 2 Ciò è ben riportato dalla Corte dei Conti nella Relazione sugli organismi partecipati dagli enti territoriali presentata con delibera n. 27/2016, p. 109. 3 I risultati della gestione finanziaria degli organismi partecipati sono ampiamente documentati nella Relazione della Corte dei Conti cit. p. 108, tab. 15 e 16.
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Ma i caratteri essenziali della riforma intercorsa non possono essere comprese appieno se non
ricostruendo gli indirizzi giurisprudenziali sulla natura delle società partecipate, in quanto veri ispiratori
dell’odierno quadro giuridico. Invero la questione della fallibilità delle società partecipate iniziò a
manifestarsi in via prioritaria a seguito del mutato regime di intervento pubblico in economia, giacché nel
mutato assetto di rapporti lo Stato o gli altri enti pubblici territoriali andavano a rivestire la qualifica di
meri soci (molto spesso unici) di un ente di diritto privato, provocando la naturale reviviscenza
dell’interrogativo relativo alla natura delle società pubbliche4. Il tema poi venne a complicarsi
ulteriormente con la comparsa della nozione di impresa pubblica, che imponeva definitivamente ai giuristi
l’avvio di un dibattito, fino ad allora poco approfondito, finalizzato all’individuazione di una disciplina
applicabile nelle situazioni di patologia nella vita di tali organismi, quali appunto i casi di insolvenza5.
Fino ad allora ogni società, ancorché partecipata da un ente pubblico, avente veste privatistica era
sottoposta integralmente alla disciplina prevista dall’art. 2325 e ss. c.c. e ciò sulla base di quanto emergeva
dalla stessa Relazione di accompagnamento al Codice Civile, che a riguardo non ammetteva eccezioni
che non fossero espressamente disposte da leggi speciali6.
La granitica posizione di tale orientamento tradizionale venne tuttavia gradualmente erosa a partire dalla
direttiva 80/723/CEE del 25 giugno 1980, che contrassegnava come pubbliche quelle imprese in cui
sussisteva un’influenza dominante da parte del pubblico potere7.
Vieppiù, stante l’ingresso della nozione di organismo di diritto pubblico nel nostro ordinamento, che
risultava potenzialmente capace di ricomprendere al suo interno tutte quelle persone giuridiche, pur
aventi natura privatistica, il cui oggetto sociale, esulando dal novero di quelle attività sovente attribuite
all’impresa commerciale, fosse incentrato sulla fornitura di un determinato tipo di servizio8.
Il carattere dell’omnicomprensività è d’altro canto testimoniato dagli stessi indici attestanti la natura
pubblicistica di un entità quali: l’esercizio di attività diretta a soddisfare bisogni di interesse generale a
4 Sul tema delle diverse tipologie di imprese pubbliche avvicendatesi nel contesto nazionale si rimanda a G.
Napolitano, Le società pubbliche tra vecchie e nuove tipologie, ivi, 2005, p. 999ss. 5 Cfr. F. CAPALBO, Le società partecipate dagli enti pubblici: un problema di teoria generale, in Respamm.info, aprile 2013. 6 Cfr. Relazione del Ministro Guardasigilli, n. 998. 7 Cfr. D. DI RUSSO, Le società in mano pubblica sono soggette alle procedure concorsuali in caso di insolvenza?, in Atti del Convegno I debitori non fallibili: alternative e punti critici del nuovo diritto fallimentare, Alba, 16 novembre 2013. 8 Cfr. R. GAROFOLI – G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, Nel Diritto Editore, 2017, p. 178. Su questa problematica anche F. NICOTRA, Società a capitale pubblico ed assoggettabilità a fallimento: aspetti problematici, in Diritto.it, 12 giugno 2015, p. 3.
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carattere non industriale né commerciale, la personalità giuridica e la partecipazione maggioritaria o
controllo di gestione da parte dello Stato, di altri enti pubblici territoriali o altri organismi di diritto
pubblico9.
L’individuazione condotta a livello europeo appariva in tal modo prediligere l’aspetto sostanziale rispetto
a quello nominale, portando tanto la giurisprudenza costituzionale10 che quella amministrativa11,
contabile12 e di legittimità13 ad individuare nel modello societario partecipato un connotato neutrale,
enucleabile come elemento comune alle diverse tipologie di realtà insistenti a seguito delle
summenzionate privatizzazioni.
Emblematica a riguardo è la ricostruzione operata dal Consiglio di Stato secondo cui l’identificazione
della natura pubblica di un’entità non poteva fondarsi sull’indagine relativa alla forma societaria assunta,
giacché questa risultava essere un aspetto meramente neutrale, non essendo il perseguimento di una
pubblica finalità in contrasto con lo scopo di lucro14.
Nonostante la coerenza di un tale inquadramento, una più attenta analisi ha permesso di scorgerne i limiti,
tenendo conto in special modo che la definizione del carattere pubblico derivante dal livello europeo,
mirando ad individuare la qualifica pubblica di un organismo non già a livello generale bensì particolare,
assumeva valenza meramente teleologica, avendo a riferimento singole e specifiche finalità dell’ente15.
Una simile impostazione, pur consentendo di ricomprendere come orbitante nella sfera della pubblica
amministrazione realtà private che, in virtù di uno specifico provvedimento amministrativo, esercitavano
una pubblica funzione, non riusciva a comporre il problema della disciplina normativa applicabile alla
generalità delle società partecipate16.
9 Cfr. d.lgs. 50/2016, art. 3 comma 1 let. d). 10 Cfr. Corte cost., 28 dicembre 1993, n. 466. 11 Da ultimo riportata in Cons. St., sez. VI, n. 4711/2002. 12 Cfr. Corte dei conti, sez. contr. reg. Lombardia, 8 luglio 2008, n. 48. 13 Cfr. Cass. pen., sez. II, 30 ottobre 2012, n. 42408. 14 Tra le altre Cons. St., sez. VI, n. 1207/2001. 15 C. VOLPE, op. cit., p. 4. Relativamente alle specifiche finalità considerate, l’Autore fa riferimento al settore degli appalti pubblici, ove il possesso dei suesposti requisiti è sufficiente per considerare pubbliche entità formalmente private. 16 Il quesito relativo alla natura giuridica delle società pubbliche è oggetto di approfondito esame, tra gli altri, da parte di P. PIZZA, Le società per azioni di diritto singolare tra partecipazioni pubbliche e nuovi modelli organizzativi, Milano, 2007.
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Tracciato il punto di partenza della questione occorre ora indagare sulle vicende che determinarono
l’affermazione di un indirizzo giurisprudenziale proteso a ritenere applicabili le procedure concorsuali alle
società in questione, per tramite dell’esame delle correnti condensatesi in due principali orientamenti,
rispettivamente protesi in senso affermativo e negativo all’estensione del regime di diritto comune.
Va certo rammentato che il quadro normativo precedente al Testo unico, appariva decisamente
disordinato e contraddittorio, il che venne denunciato dalla stessa giurisprudenza di merito, la quale a
riguardo ha di volta in volta ritenuto necessario applicare le disposizioni di diritto pubblico o di diritto
comune a seconda che nel settore interessato dallo specifico caso fossero coinvolti o meno interessi
pubblici meritevoli di tutela17.
La definizione della disciplina applicabile aveva assunto così notevole centralità, giacché gli enti pubblici,
secondo le disposizioni tanto codicistiche, che della legge fallimentare, non subivano l’applicazione né
della disciplina del fallimento né quella del concordato preventivo18, onde evitare ogni possibile
intromissione dell’autorità giudiziaria in spazi riservati al potere amministrativo, come pure l’interruzione
di un servizio di pubblica utilità19.
Stante la crisi dell’orientamento tradizione della natura privatistica l’attenzione veniva rivolta verso la sfera
pubblicistica, da cui ha preso forma un secondo orientamento, volto a definire la disciplina applicabile a
una data entità sulla base di due criteri: tipologico e funzionale.
Il primo muoveva dall’indagine sulla natura giuridica dell’ente ricercata non mediante un criterio formale
ma sostanziale20. In virtù di ciò il discrimen della disciplina applicabile era definito dall’attività
prevalentemente svolta dall’organismo, indipendentemente dalla forma giuridica rivestita, quandanche
dalla stessa organizzazione societaria fossero emersi “indici rilevatori” della sua natura pubblica21.
17 Cfr. Trib. La Spezia, 21 marzo 2013. 18 Cfr. art. 2221 c.c. e art. 1 l. fall. 19 Ragioni ricordate da ultimo in App. Torino, sez. I, 15 febbraio 2010, in Fall., 2010, p. 689. L’esclusione dall’assoggettamento al fallimento delle società partecipate è ritenuta legittima da parte della dottrina, tra cui va ricordato G. D’ATTORE, Gli enti di natura pubblica, in M. SANDULLI (a cura di), I soggetti esclusi dal fallimento, Milano, 2007, pp. 105-129. 20 L’approccio in esame è certamente impostato sulla nozione sostanzialista di impresa pubblica derivante dal diritto europeo, come ampiamente descritto nel precedente paragrafo. Inoltre, come ben ricorda F. NICOTRA, op. cit., p. 10, con tale impostazione si mirava a contrastare la tendenza dell’amministrazione partecipante a sottrarsi, usufruendo dell’aspetto privatistico della società controllata, ai vincoli pubblici sottesi al suo operare. 21 L’affermazione è di L. E. FIORANI, Società “pubbliche” e fallimento, in Giur.comm., IV/2012, p. 532 ss. Ricorda l’Autore che tra gli indici sintomatici del carattere pubblico di un ente vi sono l’esclusiva titolarità pubblica del
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Oltre alla menzionata giurisprudenza22, il criterio de quo trovava ricezione anche a livello legislativo23, fino
all’estremo riconoscimento a una società partecipata, stante il rapporto con l’ente pubblico controllante,
del beneficio di vedersi applicata una disciplina speciale e differente rispetto a quella prevista per le altre
società private24.
Il secondo criterio, quello funzionale, propendeva per l’individuazione della disciplina applicabile a un
ente partecipato valutando, in ogni singolo caso, la compatibilità della disciplina di diritto comune con gli
interessi protetti. Le disposizioni applicabili oscillavano così tra quelle inerenti al diritto pubblico (qualora
espressamente previste) e di tipo privatistico (ove non confliggenti con lo scopo dell’attività dell’entità
partecipata)25.
In relazione alla questione della fallibilità delle società partecipate l’applicazione logica di tali criteri
comportava un diverso ordine di possibili conseguenze: quelle relative al criterio tipologico, erano
rappresentate dall’esclusione dalle procedure concorsuali di quegli organismi formalmente privati, ma
sostanzialmente pubblici che venivano per ciò equiparati agli enti partecipanti non soggetti alle suddette
procedure secondo la legge fallimentare26.
Orbene, a tal proposito veniva notato come la ratio stessa di tale esenzione ne poneva in risalto
l’insuperabile discrasia, giacché la mancata assoggettabilità a fallimento, ancorata al solo dato tipologico
capitale sociale, l’ingerenza degli organi statali nella nomina degli amministratori, le limitazioni statutarie all’autonomia degli organi sociali a favore del socio pubblico partecipante. 22 Cfr. nota 14 e 24. 23 Basti considerare il tenore dell’art. 22, let. e) della l. 241/1990, novellato dalla l. 15/2005, in cui la definizione di pubblica amministrazione include “i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”. 24 Il riferimento è alla direttiva 2004/18/CE in materia di appalti pubblici, in cui la stessa escludeva l’applicazione della propria disciplina in ipotesi di affidamenti a società in house, proprio in virtù dell’operare di una prevalenza dell’aspetto sostanziale, rispetto al dato formale. 25 Cfr. E. CODAZZI, La società in mano pubblica e fallimento: alcune considerazioni sulla disciplina applicabile tra diritto dell’impresa e
diritto delle società, in Atti del Convegno “L’impresa e il diritto commerciale: innovazione, creazione di valore, salvaguardia del valore nella crisi”, Roma 21-22 febbraio 2014. 26 Cfr. art. 1, comma 1 l. fall. Oltre alla citata pronuncia del Tribunale di Patti (cfr. nota 1), in relazione a tale indirizzo vanno ricordate altre due statuizioni del Trib. S. Maria Capua Vetere del 9 gennaio 2009 e del 22 luglio 2009, rispettivamente consultabili in Fall. 2009, 713 e Fall. 2010, n. 690, in cui il giudice di merito ha sancito che la presenza di indici sintomatici del carattere pubblicistico di un’entità (cfr. nota 26), come pure il caso di estraneità delle dimensioni gestionali ed operative di una società dalle regole del diritto commerciale, tale da farla apparire come “mero tramite dell’ente pubblico che la partecipa”, costituiscono elementi da cui traspare la natura sostanzialmente pubblica dell’ente, ancorché formalmente rivesta la forma di società per azioni. La presenza di dette caratteristiche, pertanto, assumerebbe rilevo ai fini dell’esenzione di tali realtà dall’applicazione della procedura fallimentare a norma dell’art. 1, comma 1 l. fall.
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inerente alla natura giuridica dell’ente, avrebbe rischiato di rendere plausibile la non fallibilità di ogni
società formalmente privata, orbitante in un mercato privato e concorrenziale, per il mero ricorrere di
indici predeterminati, indipendentemente dall’effettiva tipologia di attività svolta o dalle modalità (più o
meno strumentali rispetto all’amministrazione partecipante) di perseguimento dell’interesse pubblico27.
Inoltre, diverse perplessità erano sollevate in merito alla mutazione del regime e della natura giuridica
privata di una società per azioni, in funzione del solo perseguimento di fini pubblici28.
L’applicazione del criterio funzionale mirava a comporre tali criticità, ritenendo escluso l’assoggettamento
delle procedure concorsuali unicamente nei casi in cui una società partecipata avesse svolto un’attività
finalizzata all’esercizio concreto e attuale di un servizio pubblico avente i caratteri dell’esclusività, ossia
fornito nell’ambito di competenza dell’ente territoriale e in assenza di concorrenza, nonché della
necessarietà per l’ente partecipante, integrato quando l’attività era diretta a svolgere un servizio pubblico
destinato al soddisfacimento dei bisogni primari della collettività29.
Nel sottolineare che il carattere necessario non era tanto riferito all’ente, quanto al servizio stesso30, non
si può sottacere sul richiamo operato dalla giurisprudenza del criterio funzionale per confermare, nonché
in alcune vicende accompagnare, i casi di esclusione da fallimento già elaborati attraverso l’impiego del
metodo tipologico31.
Secondo i fautori di tale approccio, l’esclusione dal fallimento di tutte le società partecipate esercenti un
servizio necessario per gli enti pubblici si poneva in linea di continuità con la ratio stessa del comma 1
dell’art. 1 della legge fallimentare, laddove l’applicabilità del fallimento agli enti pubblici risulta esclusa,
27 Così G. D’ATTORRE, Le società in mano pubblica possono fallire?, in Fall., 2009, pp. 715-725. 28 Cfr. G. GRUNER, Enti pubblici a struttura di S.P.A., Torino, 2009, p. 8. 29 Con tali argomentazioni il Trib. La Spezia, 21 marzo 2013 cit., ha dichiarato la non fallibilità di due società per azioni, il cui capitale era detenuto integralmente da diversi Comuni, affidatarie della gestione esclusiva del servizio rifiuti negli ambiti territoriali degli enti soci. Il carattere necessario del servizio fornito ha consentito ai giudici di escludere l’applicazione del fallimento a detti organismi nonostante fossero “società formalmente di diritto privato che svolgono attività d’impresa in un regime di mercato e con scopo di lucro”. 30 Cfr. M. S. GIANNINI, Diritto amministrativo, I, Milano, 1970, p. 123. Come rilevato dall’illustre Autore, la necessarietà di un servizio è, seppur temporalmente, suscettibile di rendere necessario il soggetto che lo eroga, essendo l’esistenza e l’operatività di quest’ultimo ritenute essenziali dall’ente territoriale partecipante. 31 Cfr. App. Torino 15 febbraio 2010 cit., Trib. Catania, 26 marzo 2010, in www.ilcaso.it, Trib. Napoli, 31 ottobre 2012, in Fall. 2013, p. 73.
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stante l’incompatibilità della procedura concorsuale con il compito di tutela degli interessi generali ad essi
affidato32.
Un contrasto a tale orientamento tipologico-funzionale è stato perpetrato da una tesi protesa a ricostruire
il quesito a partire dalle ragioni a suffragio della non fallibilità.
Nello specifico, è stato in primis rilevato che la mera esenzione fondata sul tenore dell’art. 1, comma 1
della l. fall., avendo carattere speciale, non poteva ritenersi automaticamente estesa a soggetti formalmente
non qualificati come enti pubblici, considerando per di più che, per espressa previsione normativa, solo
attraverso la legge è possibile conferire natura pubblica a un organismo33.
Detto ultimo punto ha poi ricevuto conferma da altra giurisprudenza di merito, ferma oppositrice
dell’equiparazione delle società partecipate agli enti pubblici ai fini dell’esclusione dalle procedure
concorsuali. Invero, secondo i giudici del caso, ciò costituiva una palese violazione del principio di riserva
di legge definito dall’art. 4 della legge 70/1975, dal quale non si evince alcuna estensione implicita della
connotazione pubblica34.
Sempre dalla giurisprudenza di merito è pervenuta un’ulteriore ricostruzione nella quale la non fallibilità
delle società pubbliche non sarebbe stata da ricercare nella natura pubblica (non ritenuta sussistente)
dell’ente, bensì nei caratteri dell’attività svolta. A tal ragione dovevano ritenersi escluse dal fallimento tutte
quelle realtà che non potevano qualificarsi come imprenditori commerciali35.
La tesi funzionale è stata contrastata poi con altre obiezioni che ne hanno determinato il definitivo
tramonto, quali la riscontrata possibile convivenza tra fra erogazione di un servizio pubblico e
32 Così G. NAPOLITANO, Soggetti privati “enti pubblici”, in Dir. amm, 2003, p. 810. Sul punto anche G. D’ATTORRE, Società in mano pubblica e procedure concorsuali, in F. FIMMANÒ (a cura di), Le società pubbliche, Ordinamento, crisi e insolvenza, Milano, 2011, p. 347. L’esclusione nel caso di specie dalla sottoposizione al fallimento, vede soccombere l’interesse dei creditori a beneficiare dell’esecuzione concorsuale in quanto esso non ha carattere assoluto, risultando così ammissibile una sua compressione dinanzi al rilievo assunto dall’interesse pubblico alla continuità nello svolgimento del servizio. Al contrario, se la società partecipata non assume carattere necessario per l’ente pubblico l’eventuale interruzione della sua attività, come possibile effetto della sentenza dichiarativa di fallimento, non equivale a interruzione dell’esercizio di un pubblico servizio e non comporta di conseguenza alcun sacrificio dell’interesse pubblico alla continuità del servizio. 33 Cfr. art. 4, l. 20 marzo 1975, n. 70. Sul punto si è espresso, in modo molto netto, E. SORCI, La fallibilità delle società a partecipazione pubblica, in S. FORTUNATO – G. GIANNELLI – F. GUERRERA – M. PERRINO (a cura di), La riforma della legge fallimentare, Milano, 2011, pp. 533 ss. 34 Cfr., Trib. Palermo, 8 gennaio 2013, n. 99; l’impostazione risultava confermata da App. Napoli, sez. I, 24 aprile 2013, n. 57 in Fall., 2013, p. 767, quindi da Cass. civ., sez. I, 27 settembre 2013, n. 22209, in www.ilcaso.it. 35 Cfr. Trib. Palermo, 8 gennaio 2013 cit., nonché Trib. Palermo, 11 febbraio 2010, in www.osservatorio-oci.org.
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assoggettamento a fallimento (con riferimento alle società partecipate “necessarie”)36, il rilevato contrasto
con la normativa in tema di amministrazione straordinaria37, la denunciata opposizione con la normativa
europea38, nonché la finalità di lucro delle imprese partecipate39.
Il superamento della interpretazione tipologico-funzionale ha determinato l’affermarsi di una tesi
diametralmente opposta e sospinta dalla generale constatazione che le società partecipate, mantenendo
in ogni caso la natura di enti privati, debbano essere assoggettate alle procedure concorsuali al ricorrere
dei presupposti stabiliti dalla legge40.
Le argomentazioni sottese a tale orientamento “privatistico” erano in buona sostanza speculari alle
critiche mosse alla teoria funzionale, incentrandosi in primo luogo sulla natura giuridica delle società
partecipate. L’assunto in questione ha trovato una prima dimora nella sentenza della Corte di Cassazione
n. 21991/2012, in cui veniva statuito il principio secondo cui tutte le società istituite nelle forme previste
dall’ordinamento civilistico, aventi ad oggetto lo svolgimento di un’attività commerciale, erano
sottoponibili a fallimento, in quanto fin dalla loro costituzione acquisivano la qualifica di imprenditore
commerciale41.
In una seconda pronuncia la Suprema Corte ha poi ulteriormente rafforzato questa tesi, rilevando come
l’introduzione legislativa di specifiche disposizioni per tutte quelle realtà coinvolte in ambiti pubblici,
36 Cfr. App. Napoli, 24 aprile 2013, cit. 37 Cfr. Trib. Palermo, 13 ottobre 2014, in www.ilcaso.it. La tesi funzionale andrebbe a rappresentare un rilevante paradosso alla luce dell’art. 27 comma 2 bis del d.lgs. 270/1999, in cui è disposto l’accesso alla procedura di amministrazione straordinaria proprio per le società operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali. 38 Con tale osservazione M. T. CIRENEI, La società per azioni a partecipazione pubblica, in G. E. COLOMBO – G. B. PORTALE (diretto da), in Trattato delle società per azioni: Società di diritto speciale, Torino, 1992, vol. 8, p. 3 ss. L’Autore rilevava come la stessa tutela del regime concorrenziale tra imprese, unitamente alla libertà di stabilimento e circolazione dei capitali, escludano ogni differenziazione ingiustificata di trattamento dei diversi operatori. Come ricordato poi da A. PAPPALARDO, Il diritto comunitario della concorrenza, Profili sostanziali, Torino, 2007, pp. 826 ss., le norme in materia di tutela della concorrenza previste dal TFUE trovano applicazione anche nei confronti di quelle realtà a cui sono stati riconosciuti “diritti speciali o esclusivi”, ancorché siano chiamate alla gestione di servizi di interesse economico generale, pur nel rispetto dei limiti indicati ai commi I e II dell’art. 106 del Trattato. 39 Cfr. Trib. Palermo, 24 ottobre 2014, n. 187. A riguardo va segnalato il contributo di S. ALECCI, Assoggettabilità delle “società pubbliche” alle procedure concorsuali: le mobili frontiere tra socialità e profitto, in Dir. civ. cont., 5 gennaio 2015. 40 Cfr. F. FIMMANÒ, Il fallimento delle società pubbliche, cit., p. 10. Così anche Cass. Sez. un., 15 aprile 2005, n. 7799. 41 Cfr. Cass. civ., sez. I, 6 dicembre 2012, n. 21991. Secondo quanto rilevato dalla Corte, la qualificazione di ente pubblico non poteva essere acquisita in nessun caso quando la società fosse deputata allo svolgimento di attività di carattere industriale o commerciale, nel caso in cui operasse in un mercato concorrenziale e fosse ispirata da criteri di economicità, tali da farle assumere la veste di imprenditore commerciale e come tale sottoponibile a fallimento.
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fossero esse enti, società partecipate o private, permetteva di desumere una loro soggezione alla disciplina
di diritto comune per ogni altro effetto non disciplinato da detta normativa settoriale, incluso quello delle
procedure concorsuali42. Nella stessa pronuncia veniva altresì risolta definitivamente la questione relativa
alla fallibilità delle società partecipate affidatarie di un servizio pubblico essenziale e ciò come diretta
conseguenza dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, il quale status troverebbe
fondamento sulla natura del soggetto e non sul tipo di attività svolto43. Il pericolo dell’interruzione di un
servizio di primaria necessità veniva al contempo evitato, giacché il parametro del danno grave
legittimante l’autorizzazione all’esercizio provvisorio dell’impresa poteva esser determinato dal Tribunale
anche tenendo conto dell’interesse della generalità dei terzi, ovvero dei cittadini utenti del servizio44.
In buona sostanza, il principio cardine del ragionamento svolto dal supremo consesso muoveva
dall’assunto secondo il quale avendo il legislatore consentito, al pubblico ente, di perseguire un interesse
generale attraverso la costituzione di società di capitali, il rischio dell’insolvenza e dell’esecuzione
concorsuale non poteva che gravare autonomamente sulle stesse. Per contro, ragionar diversamente
avrebbe inevitabilmente comportato la violazione del principio di uguaglianza45 e del legittimo
affidamento dei terzi che con tali soggetti entravano in rapporto46.
La coerenza di tale orientamento ne ha determinato la ricezione in via legislativa avvenuta, dapprima
nell’art. 4, comma 13 del d.l. 95/2012 (abrogato dall’art. 217 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50), quindi nell’art.
14 t.u., che verrà di seguito analizzato nella sua forma attuale ossia quella risultante dall’innesto di quanto
previsto dall’art. 8 del decreto legislativo 16 giugno 2017 n. 100, adottato conformemente alle statuizioni
42 Cfr. Cass. civ., sez. I, 27 settembre 2013, n. 22209. 43 Cfr. Cass. civ., sez I, 27 settembre 2013, n. 22209 cit. Il giudice di legittimità riteneva che, optando per un diverso regime, si sarebbe giunti all’estrema conseguenza di dover ammettere che anche società interamente private possano essere esentate dal fallimento qualora sia stata loro affidata la gestione di un servizio pubblico essenziale. A riguardo anche F. FIMMANÒ, L’ordinamento delle società pubbliche tra natura del soggetto e natura dell’attività, in F. FIMMANÒ (a cura di), Le società pubbliche: ordinamento crisi ed insolvenza, Milano, 2011, p. 13. 44 Cfr. Cass. civ., sez. I, 27 settembre 2013, n. 22209. 45 Cfr. G.D’ATTORRE, Il principio di uguaglianza tra soci nelle società per azioni, Milano, 2007, pp. 128 ss. Detto principio impone un medesimo trattamento di enti che adottano la stessa forma organizzativa, così le società avente capitale interamente privato e società a capitale partecipato devono condividere interamente il regime normativo riferibile alle società di capitali. 46 Cfr. Trib. Palermo, 13 ottobre 2014, in www.ilcaso.it. Il giudice di merito ha ritenuto che proprio il nomen juris dichiarato nel registro delle imprese determinerebbe un legittimo affidamento dei terzi sull’applicabilità del regime corrispondente, il quale risulterebbe violato nell’ipotesi in cui venisse meno l’applicazione del diritto comune in favore di disposizioni di natura pubblica.
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dell’art. 16 comma 7 della l. 7 agosto 2015, n. 124, anche a seguito delle osservazioni mosse dalla Corte
Costituzionale nella sentenza n. 251/2016.
L’art. 14, comma 1 del t.u., infatti, ricalcando in pieno il dato emerso dal diritto vivente, definisce in modo
pressoché univoco le misure attivabili nella fase di crisi di una società partecipata, tanto da far ritenere in
buon parte superate le questioni relative alla fallibilità47.
Il tenore della disposizione è a riguardo estremamente chiaro: “Le società a partecipazione pubblica sono soggette
alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di
amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza di cui al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270,
e al decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39.”.
Le società a partecipazione pubblica dunque non dispongono di alcun margine di esenzione dalle
procedure concorsuali, se non quelli già previsti per le società di diritto privato dalla legge fallimentare,
risultando così pienamente applicabili anche alle prime il fallimento, il concordato preventivo e la
procedura di amministrazione straordinaria delle “grandi imprese insolventi”.
Orbene questo dato, seppur ad un primo esame appaia del tutto coerente e compatibile con la natura
privatistica delle società pubbliche, stando al rilievo condotto all’indomani del varo legislativo del t.u.,
apparirebbe viziato in nuce, tanto da suscitare dubbi sulla sua possibile tenuta costituzionale48.
La fonte di tali interrogativi risiederebbe proprio nella totale uniformazione della fase di insolvenza tra
realtà pubbliche e private, senza tener in alcun conto la diversa valenza degli interessi perseguiti. Così, la
mancata previsione da parte del legislatore di una procedura concorsuale “speciale”, a cui sottoporre le
società pubbliche, andrebbe a collidere con il pubblico interesse, sovente fine ispiratore della costituzione
di una partecipata.
Nel dettaglio, il conflitto si estenderebbe su tre profili, quali lo spossessamento, l’esercizio provvisorio e
la liquidazione dell’attivo, giacché il conferimento all’autorità giudiziaria di un potere sostanzialmente
decisorio su tali punti, stante il suo ruolo di arbitro dell’iter concorsuale, comporterebbe di fatto
47 In questo senso C. IBBA, Crisi dell’impresa e responsabilità degli organi sociali nelle società pubbliche dopo il Testo Unico, in Nuove leggi civili commentate, 6, 2016, p. 1233. 48 Tale è l’osservazione di G. D’ATTORRE, La crisi d’impresa nelle società a partecipazione pubblica, in F. FIMMANÒ – A. CATRICALÀ (a cura di) Le società pubbliche, II, p. 678.
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l’esautorazione dell’autorità amministrativa dalla titolarità dei poteri e delle funzioni attribuitele ex art.
118 Cost49.
Nemmeno vi sarebbe la possibilità di accontentarsi del peso riconosciuto dalla Suprema Corte50, nella
fase di autorizzazione all’esercizio provvisorio, all’interesse collettivo all’erogazione del servizio. Questo
perché, a disciplina invariata, detta soluzione non può trovare svolgimento o prosecuzione se in
pregiudizio ai creditori e la crisi di una società, tenendo bene a mente che sovente l’insolvenza è
determinata da un endemico disequilibrio economico dell’impresa pubblica, difficilmente sembra
componibile attraverso una precaria continuazione dell’attività. Oltre a ciò all’autorità giudiziaria
spetterebbe decidere anche sull’eventuale affitto/vendita aziendale e gestire i lavoratori impiegati
nell’azienda, scelte parimenti spettanti ad altro potere51.
Il pregiudizio per i creditori è tuttora il più rilevante blocco per l’esercizio provvisorio dell’impresa
sottoposta a fallimento, a maggior ragione ove si consideri che per materializzarsi non è necessario il
coinvolgimento dell’intero ceto creditorio, essendo sufficiente l’idoneità a ledere anche solo uno dei
creditori52.
Ebbene la criticità rilevata, oltre a sottolineare l’occasione persa per il legislatore del 2016 di codificare
una speciale procedura di insolvenza per le società partecipate esercenti pubblici servizi, non viene
ritenuta superabile con gli strumenti ordinari del diritto comune, soprattutto perché tende a porre sullo
stesso piano situazioni affatto comparabili53.
Preoccupandosi di garantire su ogni altra cosa un pari trattamento tra i creditori senza cui non potrebbe
dirsi compiuta la tutela del regime concorrenziale tra imprese, non ha tenuto abbastanza in conto il
carattere del tutto esclusivo di alcune società partecipate, racchiuso nel raggiungimento di un interesse
pubblico in un dato settore.
49 Così G. D’ATTORRE, La crisi d’impresa nelle società a partecipazione pubblica, cit., p. 678. 50 Cfr. Cass. civ., sez. I, 27 settembre 2013, n. 22209 cit. 51 Questa è invero la previsione dell’art. 1, comma 1 l. fall., che a norma dell’art. 14, comma 1 del t.u. è pienamente vigente anche per le società partecipate. 52 Così Trib. Alessandria, 9 febbraio 2016. 53 Cfr. G. D’ATTORRE, La crisi d’impresa nelle società a partecipazione pubblica, cit., p. 678. A tal proposito, l’Autore ipotizza che dall’assetto delineato possa derivare “un rischio di perduranti frizioni tra l’interesse privatistico dei creditori e l’interesse pubblico alla gestione del pubblico servizio”.
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Ora, è stato a suo tempo assodato che l’interesse in esame fa capo unicamente al socio pubblico e ha
rilievo solo nella dimensione extrasociale54, essendo peraltro la società un’entità del tutto separata e
autonoma dall’ente che la partecipa. Tuttavia, la nuova disciplina definita all’art. 14 del t.u. non lascia
all’ente pubblico competente alcun margine di manovra per garantire l’erogazione di prestazioni che in
molti casi – basti pensare alla gestione dei rifiuti o alla mobilità locale – risultano essere oltremodo
necessarie per i consociati.
Ciò appare ben chiaro da una prima lettura del combinato disposto del citato comma 1 dell’art. 14 e del
successivo comma 6: “Nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico
titolare di affidamenti diretti, le pubbliche amministrazioni controllanti non possono costituire nuove società, né acquisire o
mantenere partecipazioni in società, qualora le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella dichiarata fallita”.
Stando al tenore della disposizione, in situazioni non certo rare di forte indebitamento di una società
partecipata deputata all’erogazione di un servizio di pubblica necessità, quella del fallimento sarebbe una
sorte quasi inevitabile che, stante l’impossibilità di comporre in tempi brevi le diseconomie di scala di
intuibile importanza, difficilmente potrebbe convivere con l’esercizio provvisorio dell’impresa, essendo
il pregiudizio ai creditori una barriera quasi invalicabile. Nel corso della procedura fallimentare, poi, la
fornitura del servizio non potrebbe neppure esser garantita dal socio pubblico mediante la costituzione
ad hoc di una nuova società, a cui trasferire le funzioni e i compiti di quella sottoposta all’esecuzione
concorsuale. Il tutto non andrebbe che a scapito degli utenti di quel servizio, i quali vedrebbero
compromessi i diritti attribuiti loro dalla Costituzione. A riprova di ciò, basti immaginare le conseguenze
della paralisi di un’attività nevralgica e delicata quale la raccolta e la gestione dei rifiuti55, specie nelle città
metropolitane.
In tale (infausta) prospettiva, le lesioni al dettato costituzionale non appaiono limitate alla sola ripartizione
di competenze tra autorità giudiziaria e amministrativa, ben potendo manifestarsi su altri fronti quali,
stando all’esempio suggerito, il diritto alla salute e alla salubrità ambientale56.
54 Cfr. Cass. Sez. un., n. 17287/2006 55 Situazioni tutt’altro che rare, tra le quali può considerarsi il caso trattato dalla citata pronuncia del Trib. Palermo, 24 ottobre 2014, in merito alla dichiarazione di fallimento della società Alto Belice Ambiente s.p.a. incaricata di gestire il servizio rifiuti. 56 A riguardo un’interessante spunto sul legame il diritto all’ambiente salubre e la gestione dei rifiuti è offerto da C. FELIZIANI, Il diritto fondamentale all’ambiente salubre nella recente giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte EDU in materia di rifiuti. Analisi di due approcci differenti, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 6/2012, pp. 7 e ss.
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Appare evidente che le situazioni immaginate corrispondono a casi limite, ma il quadro emergente dalla
lettura combinata dei due commi presenta margini di dubbia compatibilità costituzionale, da aggiungere
a quelli precedentemente rilevati. Inoltre, proprio dall’esame congiunto di queste due disposizioni è
possibile riflettere sulla problematica dell’ingerenza dell’autorità giudiziaria in competenze spettanti a
quella amministrativa, in parte superato dalla Suprema Corte ritenendo: “la società partecipata che gestisce un
servizio pubblico […] è semplice affidataria ad opera dell’ente pubblico socio affidante e, pertanto, l’applicazione dello
statuto dell’imprenditore commerciale compresa la dichiarazione di fallimento, non determina alcuna ingerenza dell’autorità
giudiziaria nell’attività della pubblica amministrazione né impedisce l’esecuzione di un servizio necessario alla collettività”57.
Va certo notato che la pronuncia della Cassazione si inseriva in un quadro legislativo ove la questione
della fallibilità delle società partecipate svolgenti servizi pubblici non aveva ancora trovato esplicito
riconoscimento legislativo, mentre il quadro odierno è sensibilmente mutato specialmente in
considerazione del limite imposto dal predetto comma 6 dell’art. 14. Così viene da chiedersi se
l’impostazione de qua si manterrà inalterata oppure dovrà tenere in buon conto l’eventualità che l’ente
pubblico partecipante e titolare dell’interesse coinvolto si trovi nell’impossibilità giuridica di fornire, in
altro modo, prestazioni fondamentali alla collettività.
Certo è che il sospetto dell’interruzione di un pubblico servizio, appare concretizzarsi appieno soprattutto
alla luce di un’interpretazione della stessa Corte, resa a poca distanza dall’entrata in vigore dell’art. 14
T.U., avente proprio ad oggetto la sfera di quegli enti partecipati che risultavano fino a poco tempo fa
quasi una longa manus del socio pubblico partecipante, ovvero le società in house chiaramente deputate a
svolgere attività di essenziale e delicato rilievo pubblico.
Ebbene a riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha avuto l’occasione di pronunciarsi nella sentenza del
7 febbraio 2017, n. 3196, in cui l’interrogativo in merito all’inclusione delle società in house entro il regime
descritto dal comma primo dell’art. 14, ha trovato un definitivo suffragio in senso affermativo. Ad ogni
buon conto va precisato che a sostegno della tesi protesa all’estensione de qua deponevano diverse ragioni
riassumibili in primis nel rapporto di genus a species che lega società partecipate e società in house nel quadro
complessivo del T.U.; in secundis nel limite imposto dal comma 6 del suddetto articolo, che non avrebbe
ragion d’essere nel caso il legislatore avesse voluto escludere la fallibilità di questi soggetti58. Del resto
57 Cfr. Cass. pen., sez. II, 10 gennaio 2011, n. 234. 58 Così G. D’ATTORRE, La crisi d’impresa nelle società a partecipazione pubblica, cit., p. 675.
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l’ampiezza della formulazione operata dall’art. 14 comma 1, unitamente all’assenza di deroghe espresse,
sono argomenti che depongono a favore della validità del regime privatistico per tutte le società
pubbliche, senza esclusione alcuna59.
Stando a ciò, la conferma della fallibilità testimonia appieno la natura giuridica privatistica di tali enti, il
cui profilo pubblicistico, presente per via del controllo esercitato dall’ente pubblico, non consente in ogni
caso di violare le regole connesse alla veste giuridica assunta, rendendoli del tutto assimilabili a società
private60. Se così non fosse, ha ribadito la Corte, si rischierebbe di inficiare il legittimo affidamento dei
terzi che entrano in rapporto con la società pubblica, consolidato mediante il sistema di pubblicità legale,
la cui valenza verrebbe incrinata qualora fosse esteso a queste entità il beneficio di un regime pubblicistico
di carattere eccezionale e non prevedibile ex ante, sulla base di un indicatore formale impostato in fase di
costituzione e registrazione61.
Tutto ciò non permette certo di fugare le suesposte perplessità, al contrario rende la censura di illegittimità
costituzionale delle norme ricavate dalla lettura dei commi 1 e 6 del neonato art. 14 t.u., incombere in
modo sempre più tangibile.
Per contro, non si può dire che i timori pocanzi avanzati siano stati completamente esiliati dai compilatori
del Testo Unico i quali, probabilmente per scongiurare i tragici eventi derivanti da un’interruzione
protratta nella fornitura di un servizio di nevralgica importanza come quello avente il connotato della
pubblica necessità, hanno previsto una sorta di clausola di raccordo contenuta nell’ultimo periodo del
quinto comma dell’art. 14, in cui viene previsto quanto segue: “Al fine di salvaguardare la continuità nella
prestazione di servizi di pubblico interesse, a fronte di gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l'ordine pubblico e la sanità,
su richiesta della amministrazione interessata, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato su proposta del
Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con gli altri Ministri competenti e soggetto a registrazione della Corte dei
conti, possono essere autorizzati gli interventi di cui al primo periodo del presente comma”.
La previsione de qua, se per un verso tende a prevenire la fase patologica dell’insolvenza di una società
partecipata gerente un servizio essenziale, getta nuove ombre sull’intero impianto del t.u., a partire dalla
59 Cfr. G. RACUGNO, Crisi d’impresa di società a partecipazione pubblica, cit., p. 211. 60 Cfr. Cass. civ., sez. I, 7 febbraio 2017, n. 3196, p. 7. Nella pronuncia il giudice di legittimità ha ribadito che: “le società a partecipazione pubblica siano assoggettate a regole analoghe a quelle applicabili ai soggetti pubblici nei settori di attività in cui assume rilevo preminente rispettivamente la natura sostanziale degli interessi pubblici coinvolti e la destinazione non privatistica della finanza d’intervento, saranno invece assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini dell’organizzazione e del funzionamento”. 61 Cfr. Cass. civ., sez. I, 7 febbraio 2017, cit., p. 5.
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ratio di responsabilizzarne gli organi apicali verso una gestione maggiormente aderente principi guida
dell’attività amministrativa, primo fra tutti quello di economicità. Inoltre, pur ammettendo disinnescati i
summenzionati pericoli di compatibilità con il dettato costituzionale, l’applicazione di una tale
(macchinosa) procedura andrebbe a compromettere la solidità dello stesso principio fondante la teoria
privatistica, ispiratrice della riforma, che subirebbe una profonda e irreversibile alterazione in quanto le
imprese esercenti attività necessarie, grazie ad erogazioni ulteriori e diffuse, beneficerebbero nella
sostanza di un regime diverso rispetto a quello corrispondete alla forma giuridica assunta e pubblicizzata
dall’iscrizione al registro delle imprese.
Ove, al contrario, detto iter emergenziale non venisse attivato o posto in essere dopo la sentenza
dichiarativa di fallimento, lo spettro della legittimità costituzionale tornerebbe ad aleggiare intorno a detta
norma.
I successivi punti in cui è articolato l’art. 14 del t.u., salvo parzialmente il comma 5, descrivono una
disciplina a carattere speciale a cui sono sottoposte solo le società a controllo pubblico (escludendo le
altre partecipate), che involge tanto i meccanismi di controllo quanto il sistema delle responsabilità per
gli organi a esso deputati.
In particolare, il comma 2 dispone: “Qualora emergano, nell'ambito dei programmi di valutazione del rischio di cui
all'articolo 6, comma 2, uno o più indicatori di crisi aziendale, l'organo amministrativo della società a controllo pubblico
adotta senza indugio i provvedimenti necessari al fine di prevenire l'aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed
eliminarne le cause, attraverso un idoneo piano di risanamento”.
Quindi, i programmi ivi menzionati, pubblicati unitamente al bilancio d’esercizio, posseggono una duplice
natura, essendo sia strumenti volti a informare l’assemblea dei soci in merito a potenziali crisi aziendali,
sia primi ed essenziali anelli di una catena di controlli concepiti per scongiurare fatali e irrecuperabili
dissesti. Invero, proprio a partire da tali programmi, gli amministratori della società interessata avranno
anche la possibilità di comporre gli eventuali disequilibri prima che assumano le sembianze di vere e
proprie crisi.
In tale comma si evince come la preoccupazione del legislatore sia stata quella dare attuazione ai principi
di economicità, efficacia ed efficienza di gestione delle società controllate e ciò non può che confortare
l’interprete proprio alla luce delle problematiche messe in evidenza pocanzi. La composizione (quasi)
immediata dei dissesti potrà render maggiormente equilibrata la gestione economico-finanziaria
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dell’impresa, così da allontanare lo spettro del fallimento e dell’ancor più sinistra interruzione
dell’esercizio dell’attività d’impresa.
L’esigenza di scongiurare dissesti finanziari in enti controllati, sovente esercenti servizi necessari, è stata
particolarmente sentita dal legislatore del 2016 che ha rafforzato il meccanismo di cui al comma 2 con la
previsione di un’irregolarità gestoria, ex art. 2409 c.c., a carico di quegli amministratori che, tra l’altro,
abbiano omesso di adottare i provvedimenti adeguati tra cui, nel silenzio del legislatore, certamente
possono rientrare i programmi di valutazione dei rischi, come pure tutte quelle misure volte a prevenire
l’aggravamento di una situazione di dissesto incluse in appositi piani di risanamento62.
Sugli amministratori andrebbe così a pendere un generico dovere di vigilanza sull’equilibrio finanziario
dell’impresa, la cui violazione pare determinare l’insorgenza di un’obbligazione risarcitoria.
L’adempimento di tale compito richiede dunque una verifica periodica della solvibilità a breve e medio
termine, al fine di ricercare possibili segnali di uno stato di crisi latente o di insolvenza, richiedendo altresì,
nei casi di impossibilità a comporre il dissesto, l’attivazione delle procedure concorsuali63.
Un ulteriore rinforzo alle procedure volte a garantire l’equilibrio di gestione è offerto poi dal successivo
comma 4 in cui è statuito: “Non costituisce provvedimento adeguato, ai sensi dei commi 1 e 2, la previsione di un
ripianamento delle perdite da parte dell'amministrazione o delle amministrazioni pubbliche socie, anche se attuato in
concomitanza a un aumento di capitale o ad un trasferimento straordinario di partecipazioni o al rilascio di garanzie o in
qualsiasi altra forma giuridica, a meno che tale intervento sia accompagnato da un piano di ristrutturazione aziendale, dal
quale risulti comprovata la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell'equilibrio economico delle attività svolte,
approvato ai sensi del comma 2, anche in deroga al comma 5”64.
62 Sul punto G. RACUGNO, Crisi d’impresa di società a partecipazione pubblica, in G. MEO – A. NUZZO, Il testo unico sulle società pubbliche, Bari, 2016, p. 206. 63 Con tale ricostruzione G. RACUGNO, op. cit., p. 206. 64 Come ben segnalato a suo tempo da G. D’ATTORRE, La crisi d’impresa nelle società a partecipazione pubblica, cit., p. 682, vi è una lieve incongruenza nel periodo iniziale di tale comma, in quanto i commi dell’art. 14, in cui vengono menzionati i provvedimenti adeguati, non includono il primo bensì il secondo e il terzo. In tal sede questa incongruenza ha trovato ragion di menzione giacché avrebbe potuto esser corretta mediante il d. lgs. 16 giugno 2017, n. 100, la cui funzione era proprio quella di risolvere alcune anomalie riscontrate nella prima versione del t.u. Cfr. Cons. St., par. 9 gennaio 2017, n. 83, punto 8.
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Ora dal seguente comma si può comprendere come il legislatore, ricalcando in parte la legislazione
precedente sul tema65 e l’impostazione costruita sulla stessa dalla magistratura contabile66, si sia premurato
maggiormente di indicare la dimensione negativa dei caratteri dei provvedimenti che gli amministratori
sono tenuti ad adottare in situazioni di squilibrio, rispetto a una definizione positiva e dettagliata degli
stessi, mutuando dal precedente quadro normativo l’esigenza di evitare una continua e improduttiva
emorragia di risorse dalle casse pubbliche, attraverso erogazioni monetarie una tantum a carattere
emergenziale67.
Il comma 5 dell’art. 14, riproponendo buona parte dell’abrogato art. 6, comma 19 del citato d.l. 78/2010,
presenta elementi di particolarità in quanto non appare pienamente in linea con la ratio desunta della
lettura delle disposizioni analizzate nel presente paragrafo, ossia la prevenzione degli squilibri di bilancio
delle società partecipate tramite una gestione accorta e strutturata delle risorse pubbliche.
Invero, la disposizione del primo periodo consente agli enti pubblici di sottoscrivere, senza alcuna
restrizione, aumenti di capitale al ricorrere di una lesione al capitale sociale. Al contrario ove si presentino
mere perdite di esercizio per tre esercizi consecutivi, ancorché ripianate attingendo alle riserve, detti
interventi sono vietati68. Non sfugge a tal punto la contraddizione in fieri, giacché non è chiaro il motivo
per cui si consente l’intervento dell’ente pubblico sul patrimonio della partecipata quando il suo capitale
si è ridotto sotto il limite legale, mentre si esclude per perdite il cui quantum minimo, a differenza del
regime di diritto comune, non trova neppure definizione69.
65 Cfr. d.l. 31 maggio 2010, n. 78, art. 6, comma 19. 66 Il riferimento è da ultimo a Corte conti, reg. Abruzzo, par. 20 ottobre 2015, n. 279, in cui i giudici si esprimevano negativamente riguardo l’erogazione di fondi da parte di un ente pubblico, a favore di una società controllata, ispirato alla logica del “salvataggio a tutti i costi”. Pertanto, come si può leggere dalle parole della Corte: “Non sono ammissibili "interventi tampone" con dispendio di disponibilità finanziarie a fondo perduto, erogate senza un programma industriale o una prospettiva che realizzi l'economicità e l'efficienza della gestione nel medio e lungo periodo”. 67 Cfr. Corte conti, reg. Abruzzo, par. 20 ottobre 2015 cit. Rilevano opportunamente i giudici contabili che: “da un lato finisce per impattare negativamente sui bilanci pubblici compromettendone la sana gestione finanziaria; dall'altro si contrappone alle disposizioni dei trattati (art. 106 TFUE, già art. 86 TCE), le quali vietano che soggetti che operano nel mercato comune beneficino di diritti speciali o esclusivi, o comunque di privilegi in grado di alterare la concorrenza "nel mercato", in un'ottica macroeconomica”. Sul punto anche G. D’ATTORRE, La crisi d’impresa nelle società a partecipazione pubblica cit., p. 680. 68 Il d.lgs. 16 giugno 2017, n. 100 ha apportato una correzione proprio nel primo periodo del comma in questione ove si prevede il divieto di “sottoscrivere aumenti di capitale”, la formulazione originaria invece parlava di “effettuare aumenti di capitale” e ciò ha portato la dottrina ad interrogarsi sulla portata e sul significato del termine, il quale peraltro compariva in analoga posizione nel precedente assetto normativo definito dal d.l. 78/2010. Cfr. G. D’ATTORRE, La crisi d’impresa nelle società a partecipazione pubblica, cit., p. 684. 69 L’incongruenza è posta in luce da G. D’ATTORRE, La crisi d’impresa nelle società a partecipazione pubblica, cit., p. 683.
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Come sottolineato in precedenza poi, è l’ultimo periodo, prevedendo in buona sostanza la possibilità per
il socio pubblico di adottare, a favore di particolari categorie di imprese, alcuni provvedimenti di
sovvenzionamento economico in caso di un grave pericolo incombente su ambiti nevralgici
dell’ordinamento statale, a recare una pericolosa minaccia alla coerenza dell’intera struttura. Questo
elemento di perplessità va così ad aggiungersi a quelli precedentemente sollevati in relazione alla tenuta
costituzionale del comma primo, ma in tal contesto si profila inevitabilmente il pericolo di compromettere
gli stessi riferimenti all’economicità, efficienza e buon andamento dell’attività amministrativa.
Concludendo queste “prime impressioni” sull’operato del legislatore del t.u., con specifico riferimento
all’art. 14, non si può certo dire che il bilancio sia esente da interrogativi. Per quel che concerne la
situazione di incompatibilità, evidenziata in riferimento all’applicazione diretta della procedura
fallimentare di diritto comune a entità partecipate connotate da un particolare ruolo nel sistema sociale
ed economico, è opportuno aggiungere che in data 30 ottobre 2017 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale
la Legge del 19 ottobre 2017, n. 155 con la quale le Camere parlamentari hanno delegato il Governo a
riformare la procedura delle crisi d’impresa. Tra i principi generali che dovranno guidare l’Esecutivo è
interessante sottolineare in tal sede quello attinente alla riforma della procedura fallimentare, che lascerà
il posto ad un nuovo iter: quello della liquidazione giudiziale. Sulla base di ciò appare verosimile che le
attuali criticità riscontrate tra esercizio provvisorio dell’impresa sottoposta a fallimento, pregiudizio dei
creditori e continuità nell’erogazione di un pubblico servizio, verranno con buona probabilità superate
nella nuova procedura nella quale, tra le altre cose, si dovrà: “dare priorità di trattazione, fatti salvi i casi di
abuso, alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche tramite un diverso
imprenditore, purché funzionali al miglior soddisfacimento dei creditori e purché la valutazione di convenienza sia illustrata
nel piano, riservando la liquidazione giudiziale ai casi nei quali non sia proposta un’idonea soluzione alternativa”70.
Ad ogni modo i dubbi a riguardo non possono trovare immediata dissoluzione in quanto nonostante la
legge delega ponga al Governo un termine di (soli) dodici mesi, decorrenti dalla sua entrata in vigore, per
l’adozione del corrispondente decreto; nelle more di una riforma in tal senso le suesposte problematiche
permangono, specie in considerazione della registrata e pacifica applicazione del disposto dell’art. 14,
comma 1 t.u. da parte del giudice di legittimità, mediante la quale è stata confermata una dichiarazione di
70 Cfr. l. 30 ottobre 2017, art. 2, comma 1, let. g).
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fallimento i cui materiali riflessi, da osservare nei mesi a venire, potrebbero manifestarsi a breve e con
essi le criticità rilevate.
Sul fronte poi della disposizione contenuta nell’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 14, di certo le
perplessità non vengono affatto fugate, in quanto, una società partecipata chiamata a gestire un pubblico
servizio potrebbe beneficiare, in via potenzialmente illimitata, di erogazioni finanziarie da parte
dell’amministrazione partecipante, con il risultato di evadere materialmente la fallibilità e contraddire la
stessa ratio della riforma.
Anche per tal ragione la distonia provocata dal fatto che una ratio così nettamente espressa nel comma 1
dell’art. 14 t.u., il cui regime è stato esteso in modo chiaro anche alla particolarissima dimensione delle
società in house, conviva nello stesso articolo con la disposizione dell’ultimo periodo del comma 5 la quale
(ove fosse applicata al di là del mero caso emergenziale) ne potrebbe determinare una sostanziale
negazione, sembra evidenziare il carattere ancora sostanzialmente acerbo dell’impianto normativo
esaminato che, c’è da augurarsi, venga superato al più presto.