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L’importanza della Ue per la pace fra Israele e Palestina 05/07/2014 di Ugo tramballi Come in un’Iliade minore, nella quale gli eroi e i marrani, le vittime e i carnefici perdono il contatto con la storia reale per entrare nel mito, anche il più antico dei conflitti dell’evo contemporaneo ha già prodotto le sue leggende. Che quella fra israeliani e palestinesi sia una pace impossibile, è la prima e più importante. L’accordo, invece, c’è già. Nei dettagli. Gerusalemme, frontiere, sicurezza d’Israele e Stato palestinese, diritto al ritorno dei profughi palestinesi e colonie ebraiche, acqua, economia. Dalla trattativa segreta di Oslo sfociata nella firma a Washington nel 1993, in poi, le parti in causa con il sostegno degli sponsor internazionali, hanno risolto tutto. Israeliani e palestinesi sanno cosa potranno guadagnare e a cosa dovranno rinunciare. Conoscono cioè i dettagli del compromesso necessario per arrivare alla pace. Si tratta solo di ritrovare leaders capaci di accettarlo e farlo digerire alle loro opinioni pubbliche tutt’altro che spossate dal conflitto, come dimostrano gli eventi di queste ultime settimane. Non è poco ma qui non c’è una pace da inventare. La seconda leggenda del conflitto è l’inutile ruolo dell’Europa. O, come dice Nathan Brown, mediorientalista della Carnegie di Washington, “il conflitto sembra coinvolgere molti euro ma molto poca Europa”. Senza il nostro aiuto economico l’Autorità Palestinese sarebbe già fallita e la partnership Ue è fondamentale al successo economico d’Israele. Ma come peso politico non contiamo nulla: il monopolio della diplomazia è americano. E’ evidentemente vero ma ciò non toglie che l’Europa sia stata la coraggiosa e geniale avanguardia del negoziato. Molte delle cose considerate inattuabili quando la Ue le aveva proposte, oggi sono elementi scontati nella lunga marcia per la soluzione del conflitto. Il nostro esordio è il Documento Schumann del 1971. Allora ci chiamavamo ancora Comunità. Proponemmo la creazione di una zona demilitarizzata, il ritiro israeliano dai Territori occupati nel 1967 e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. Non fu facile: l’Europa era il continente che aveva generato e coltivato l’antisemitismo e nel quale pochi anni prima era stato perpetrato l’Olocausto. Durante l’embargo petrolifero arabo seguito alla guerra del ’73, la Comuntà condannò formalmente Israele per aver acquisito con la forza territori. E nel 1977 al vertice dei capi di stato a Londra, fu avanzata per la prima volta l’idea di una “homeland” palestinese come 61 anni prima gli inglesi avevano fatto a favore di un “focolare” ebraico. La svolta è la dichiarazione di Venezia del 1980: diritto palestinese all’autodeterminazione, no alle colonie ebraiche, nessun cambiamento unilaterale dello status di Gerusalemme. Infine gli europei proposero il riconoscimento dell’Olp come rappresentante del popolo palestinese. Oggi è scontato anche per Avigdor Lieberman ma allora Israele e Stati Uniti boicottavano l’Olp. Quello che allora fu condannato come gesto radicale, 13

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L’importanza della Ue per la pace fra Israele e Palestina 05/07/2014 di Ugo tramballi

Come in un’Iliade minore, nella quale gli eroi e i marrani, le vittime e i carnefici perdono il contatto con la storia reale per entrare nel mito, anche il più antico dei conflitti dell’evo contemporaneo ha già prodotto le sue leggende. Che quella fra israeliani e palestinesi sia una pace impossibile, è la prima e più importante.L’accordo, invece, c’è già. Nei dettagli. Gerusalemme, frontiere, sicurezza d’Israele e Stato palestinese, diritto al ritorno dei profughi palestinesi e colonie ebraiche, acqua, economia. Dalla trattativa segreta di Oslo sfociata nella firma a Washington nel 1993, in poi, le parti in causa con il sostegno degli sponsor internazionali, hanno risolto tutto. Israeliani e palestinesi sanno cosa potranno guadagnare e a cosa dovranno rinunciare. Conoscono cioè i dettagli del compromesso necessario per arrivare allapace. Si tratta solo di ritrovare leaders capaci di accettarlo e farlo digerire alle loro opinioni pubbliche tutt’altro che spossate dal conflitto, come dimostrano gli eventi di queste ultime settimane. Non è poco ma qui non c’è una pace da inventare.

La seconda leggenda del conflitto è l’inutile ruolo dell’Europa. O, come dice Nathan Brown, mediorientalista della Carnegie di Washington, “il conflitto sembra coinvolgere molti euro ma molto poca Europa”. Senza il nostro aiutoeconomico l’Autorità Palestinese sarebbe già fallita e la partnership Ueè fondamentale al successo economico d’Israele. Ma come peso politico non contiamo nulla: il monopolio della diplomazia è americano. E’ evidentemente vero ma ciò non toglie che l’Europa sia stata la coraggiosa e geniale avanguardia del negoziato. Molte delle cose considerate inattuabili quando la Ue le aveva proposte, oggi sono elementi scontati nella lunga marcia per la soluzione del conflitto. Il nostro esordio è il Documento Schumann del 1971. Allora ci chiamavamo ancora Comunità. Proponemmo la creazione di una zona demilitarizzata, il ritiro israeliano dai Territori occupati nel 1967 e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. Non fu facile: l’Europa era il continente che aveva generato e coltivato l’antisemitismo e nel quale pochi anni prima era stato perpetrato l’Olocausto. Durante l’embargo petrolifero arabo seguito alla guerra del ’73, la Comuntà condannò formalmente Israele per aver acquisito con la forza territori. E nel 1977 al vertice dei capi di stato a Londra, fu avanzata per la prima volta l’idea di una “homeland” palestinese come 61 anni prima gli inglesi avevano fatto a favore di un “focolare” ebraico.

La svolta è la dichiarazione di Venezia del 1980: diritto palestinese all’autodeterminazione, no alle colonie ebraiche, nessun cambiamento unilaterale dello status di Gerusalemme. Infine gli europei proposero il riconoscimento dell’Olp come rappresentante del popolo palestinese. Oggi è scontato anche per Avigdor Lieberman ma allora Israele e Stati Uniti boicottavano l’Olp. Quello che allora fu condannato come gesto radicale, 13

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anni dopo sarebbe diventata parte essenziale degli accordi di Oslo.

Come il concetto di “Stato palestinese”: lo espresse il vertice Ue di Berlino nel1999 e nel 2002 finalmente anche George Bush riconobbe questo diritto, annunciando la sua visione dei “Due Stati uno accanto all’altro in pace e sicurezza”.

Agli europei con scarso orgoglio d’appartenenza, agli autoflagellati del “tanto l’Europa non conta nulla”, sono felice di ricordare che la Dichiarazione di Siviglia del 2002 conteneva dettagli specifici di uno “status finale” della pace, ora parte della trattativa americana; e che la presidenza danese di allora fu la prima a parlare di una “road map”. Sono queste decisioni europee che hanno permesso la nascita del Quartetto (Usa Ue, Onu, Russia) del quale gli americani sono diventati gli unici titolari politici.

La capacità europea di guardare sempre al domani, infine, è stata implicitamente riconosciuta da Barack Obama quando ha stabilito che il puntodi partenza (non necessariamente d’arrivo) del negoziato territoriale dovessero essere le frontiere del 1967. Un atto di giustizia diplomatica che l’Europa aveva individuato un trentennio prima. Per rafforzare questa unità di misura del negoziato, nel luglio dell’anno scorso la Ue aveva deciso che istituzioni e produttori di beni israeliani che operano dentro i Territori non potranno accedere agli importanti finanziamenti europei. Le così dette “Linee guida”. Con grande pragmatismo l’Unione ha deciso di congelarle per non ostacolare il negoziato avviato da John Kerry, il segretario di Stato americano.

Apparentemente fallita la trattativa, l’Europa ha deciso di rafforzare le “Linee guida” che probabilmente entreranno in vigore entro quest’anno. Non è un boicottaggio a Israele che per la Ue e ogni singolo Paese dell’Unione resta un partner attivo ed essenziale. Nessun documento europeo ha mai usato la definizione di “Governo di Tel Aviv”, riconoscendo la piena legittimità israeliana di considerare Gerusalemme come sua capitale. Se le nostre ambasciate sono a Tel Aviv è solo in segno di protesta contro l’occupazione di Gerusalemme Est, araba. E’ così per quasi tutti i Paesi del mondo, Usa compresi.

Fonte:

http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/2014/07/05/limportanza-della-ue-per-la-pace-fra-israele-e-palestina/

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Quanto costa la guerra tra Israele ed Hamas?25/07/2014 – Rocco Ballantone per Lookout News Proviamo a fare i conti in tasca ad Hamas e Israele e capire quanto entrambe spendono per farsi la guerra. Perché la guerra costa (e qualcuno ci guadagna) - Tutto sulla guerra

A tre settimane dall’inizio del conflitto nella Striscia di Gaza, lo Statodi Israele e Hamas iniziano a fare i conti anche con le conseguenzeeconomiche della guerra.

Secondo studi economici israeliani, le spese dell’operazione militare a Gaza avrebbero già superato i 3 miliardi di dollari. I costi più alti derivano dall’utilizzo di caccia ed elicotteri e dal richiamo al fronte dei soldati riservisti,ma soprattutto dall’uso del sistema missilistico di difesa Iron Dome. La “cupola di ferro”, realizzata dalle aziende israeliane Elta e Rafael, è costata5 miliardi dollari, parte dei quali sono stati finanziati dal governo americano (310 milioni di dollari già versati, più altri 621 per i prossimi tre anni secondo il New York Times). Arma di difesa sofisticatissima, il problema di Iron Dome èlegato alle spese di gestione: il lancio di ogni missile intercettore Tamir vale infatti tra i 30.000 e i 50.000 dollari, un’enormità rispetto ai circa 800 dollari che servono ad Hamas per assemblare in casa i propri razzi Qassam.Ci sono poi circa 1,3 miliardi di dollari spesi dalla Difesa israeliana nel 2013per preparare l’esercito a un’eventuale nuova operazione militare. Soldi che sono stati spesi per la formazione di migliaia di truppe di terra, per acquistareblindati e per l’ammodernamento dell’artiglieria. In questo computo, non rientrano gli altri miliardi di shekel (la proporzione è 1 euro = 4,6 shekel) spesi per lo sviluppo tecnologico del proprio arsenale e per garantire la massima connessione tra i vari comparti dell’esercito. Un processo di digitalizzazione esteso che va dalla trasmissione in tempo reale alle truppe di terra delle fotografie scattate dall’alto dai droni, alla comunicazione audio e visiva tra i comandanti dei reggimenti di terra e i piloti dei caccia.

I conti in tasca ad Hamas Cifre alla mano, la sproporzione del confronto militare tra Israele e Hamas appare più che evidente. Secondo il sito d’intelligence israeliano Debkafile Hamas nell’ultimo anno e mezzo è riuscito a rafforzare in maniera rilevante soprattutto le proprie capacità militari, come dimostra l’utilizzo di razzi M-302 Khaibar, assemblati in Siria ma di produzione cinese, arrivati a Gaza dall’Iran passando dal Sudan e dall’Egitto. Si tratta degli stessi razzi utilizzati anche dal movimento libanese sciita Hezbollah durante l’offensiva contro Israele dell’estate 2006, in grado di trasportare 175 chili di esplosivo e capaci di coprire una gittata di 150 chilometri. Recentemente, questi vettori avrebbero subito anche delle evoluzioni nelle officine palestinesi, grazie ai miglioramenti apportati già dagliingegneri di Hezbollah ai sistemi propulsivi. Il risultato sono i nuovi razzi R-160 (chiamati così in onore del leader di Hamas Abdel Aziz Rantisi, ucciso nel 2004 da un raid aereo israeliano), potenzialmente in grado di sfondare la barriera dei 150 chilometri.

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Hamas continua a non avere una forza aerea ma, allo stato attuale, oltre che su questi razzi può contare anche sui razzi Grad (di progettazione russa e simili ai Katyusha) e sui Fajr-5 (di fabbricazione iraniana). E sui droni, di cui ha dato sfoggio nei primi giorni delle incursioni aeree di Israele, subito abbattuti e probabilmente già esauriti.Insomma, i tempi dei Qassam sono ormai definitivamente superati. Fatti in casa utilizzando tubi in acciaio, ghisa e alluminio, su questi razzi inizialmente venivano caricate testate pesanti solo qualche chilo, fabbricati alla bene meglio e imbottiti di esplosivo e schegge di metallo, mentre per la propulsioneveniva utilizzato un mix di zucchero e fertilizzanti. Questo materiale - che arriva senza esclusione dal contrabbando nei tunnel sotterranei che collegano la Striscia all’Egitto - ha un prezzo totale che oscilla tra gli 800 e i 1.000 dollari, a cui va aggiunto il costo della precarie impalcature da cui vengono effettuati i lanci.

Le alleanza di HamasNonostante le aperture c’è chi teme che, al netto delle centinaia di morti in Palestina, il Movimento Islamico di Resistenza continuerà a portare avanti la sua strategia di attacco. “Hamas - spiega l’analista Firas Abi Ali - ha calcolato che, intensificando i lanci e variando la gamma dei suoi razzi può creare un danno economico significativo a Israele, paralizzando le attività commerciali nei porti e negli aeroporti, e stroncare la stagione turistica estiva di Israele. Tutto ciò, dal punto di vista di Hamas, compensa i danni materiali inflitti alla società palestinese (distruzione di case, scuole, ospedali ed esercizi commerciali, ndr) e le centinaia di vittime tra miliziani e civili”.Hamas starebbe inoltre usando questa guerra per raccogliere nuovi finanziamenti tra i Paesi “nemici” di Israele e superare così la grave crisi economica creata dal raffreddamento dei rapporti con l’Iran e conl’Egitto, in particolare dopo l’estromissione dal potere dei Fratelli Musulmani. “Con questa battaglia - spiega Adnan Abu Amar, professore dell’Università Uma di Gaza aReuters- Hamas punta a rilanciare le relazioni con le potenze regionali amiche, a cominciare dall’Iran e dalla Turchia, dove molti sostengono la causa palestinese”. I rapporti con Teheran si erano raffreddati dopo che Hamas nel 2011 aveva rifiutato di sostenere il loro alleato sciita Bashar Assad nella lotta contro i ribelli sunniti in Siria. Sino ad allora, Hamas aveva potuto contare su un finanziamento annuale di 250 milioni di dollari da parte dell’Iran.

I costi sociali del conflittoSul piano prettamente economico e sociale, non sono solo i territori palestinesi a pagare le conseguenze di questo conflitto, come invece lascia intendere una buona parte dei media internazionali. Oltre alle ingenti spesemilitari, Israele sta infatti facendo i conti con una serie di spese collegate all’attivazione dei piani di emergenza per la messa in sicurezza delle popolazioni delle regioni meridionali del Paese, quelle più bersagliate dai razzi di Hamas. Solo su questo versante sono stati già spesi dal governo israeliano circa 400 milioni di shekel.Tuttavia, la perdita più grave è legata al calo del PIL nazionale, in quanto i consumi in queste tre settimane si sono praticamente dimezzati nel sud del Paese. In città come Ashdod, Ashkelon e Sderot, le vendite sono diminuite tra

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il 60 e il 70%, mentre nella zona intorno a Tel Aviv i consumi sono calati di un terzo. Male i trasporti pubblici (-20%) e malissimo - ovviamente - il turismo, considerato che circa il 40% del fatturato del settore si concentra proprio nella stagione estiva, che quest’anno sembrava particolarmente florida. Questo settore rappresenta il 7,3% dell’economia israeliana e impiega un’unità su tredici dell’intera forza lavoro. Prima della nuova crisi a Gaza, l’industria del turismo veniva da un periodo record (+17% nei primi cinque mesi del 2014 rispetto allo stesso periodo del 2013). Adesso, con l’escalation del conflitto in pieno corso e con diversi governi stranieri che a intermittenza hanno imposto alle proprie compagnie il divieto di atterrare all’aeroporto di Tel Aviv, circa il 30% delle prenotazioni alberghiere sono state annullate, mentre i nuovi arrivi sono pressoché fermi allo zero. Sul fronte opposto, per i territori palestinesi la situazione economica non può che divenire sempre più preoccupante ogni giorno che il conflitto va avanti. Secondo il “ministero” delle Finanze palestinese, dall’inizio del 2014 in Palestina sono arrivati in donazioni dall’estero circa 182 milioni di dollari, il 65% in meno rispetto al primo trimestre del 2013, il che ha causato una flessione della crescita del 2% (il livello più basso negli ultimi sei anni) e un aumento significativo della disoccupazione (oltre il 40% della popolazione). Con l’escalation del conflitto, però, gli aiuti internazionali per Gaza e West Bank sono tornati ad aumentare. In cima alla lista dei finanziatori ci sono: Arabia Saudita (53,3 milioni di dollari), Emirati Arabi Uniti (52 milioni di dollari), Stati Uniti (47 milioni di dollari) e Qatar (20 milioni di dollari). Tanti soldi - ma parliamo solo di quelli dichiarati - che potrebbero permettere alla Palestina di risollevarsi dalle macerie, ma che rischiano di non servire a nulla, fino a quando sarà Hamas a dettare legge in questa terra.

Fonte:http://www.panorama.it/news/costi-guerra-israele-gaza/

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Walzer: "Un conflitto folle per Israele, Hamas ne uscirà più forte" di ALIX VAN BUREN (26 luglio 2014)Il filosofo americano teorico della "guerra giusta", analizza le contraddizioni delle operazioni nella Striscia: "Netanyahu vuole una scusa per non procederealla creazione di uno Stato palestinese"

(…) Se c'è uno studioso acuto, in grado di misurarsi con le grandi questioni etiche e morali, quello è proprio Michael Walzer: il suo contributo forse più illustre di un'intera vita da filosofo, è l'aver ripescato il concetto di "guerra giusta" ("Guerre giuste e guerre ingiuste", 1977) senza cedere al pacifismo. Eppure stavolta Walzer, al telefono da Harvard, riguardo alla guerra di Gaza esita.Professore Walzer, quali sono le sue perplessità? Perché, come altri intellettuali, lei finora non s'era espresso?"Beh, io avrei preferito scrivere a guerra conclusa, quando il quadro si fosse chiarito. Ma per rispondere alla sua domanda, dietro all'esitazione c'è un insieme di sentimenti: ci sono lo sbigottimento di fronte a quel che accade, forse l'assuefazione all'infinito ripetersi del conflitto, l'imbarazzo nell'affrontare delicate questioni morali. Quanto a me, io sono terribilmente depresso. Il preludio della guerra resta fumoso, le spiegazioni offerte da Israele e da Hamas sono contrastanti. E poi, la condotta della guerra resta molto problematica".A cosa si riferisce in particolare?"Penso al quesito fondamentale: come si combatte un nemico che ha le caratteristiche di Hamas? Come si conduce una guerra che miete tante vittimecivili, e nella quale ogni singola vittima civile si trasforma in una vittoria per Hamas e in una sconfitta per Israele? Un conflitto folle in cui più infliggi perdite al nemico, e più perdi? La soluzione non è facile. Israele deve rispondere a queste domande. Però, anche i critici di Israele devono indicare un'alternativa, ma la maggior parte di essi si sottrae".Lei appunta delle responsabilità?"Le appunto a entrambe le parti, sia a Hamas sia a Israele. A Hamas in primo luogo e gli addosso la colpa d'aver causato la morte di civili usati come scudi umani, d'aver lanciato razzi nei dintorni delle scuole. Ma tanti altri palestinesi sono rimasti uccisi nei combattimenti, senza che siano serviti da scudo. Perciò attribuisco la responsabilità in secondo luogo a Israele, che ha l'obbligo di ridurre al minimo le perdite fra i civili".Israele ha lanciato tre operazioni, dal 2008 a oggi, per "spazzare via" Hamas, ognuna con un pesante costo in vite umane. Però nessuna è stata risolutiva. Lei vede una differenza nel conflitto in corso?"È vero, Hamas resta al suo posto. L'unica differenza notevole è che a ogni cessate il fuoco Hamas si dota di nuovi tunnel, di razzi più numerosi e dalla gittata più lunga. Non resta quasi più angolo di Israele al riparo dai tiri. D'accordo, i razzi non sono particolarmente efficaci in termini balistici, ma se parliamo di tattica, sono estremamente efficienti nel terrorizzare un'intera popolazione, quella israeliana, costretta a correre verso i rifugi. Ma se parliamo di "spazzare via" Hamas, io non sono tanto sicuro che Netanyahu voglia davvero farlo".

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Vale a dire?"La presenza di Hamas regala a Netanyahu una scusa per non procedere alla creazione di uno Stato palestinese. La vera intenzione del primo ministro israeliano è quella di indebolire Hamas, non di sostituirlo. Infatti, chi governerebbe al suo posto a Gaza? Un movimento ancora più radicale? La Jihad islamica? o magari l'Isis (il gruppo jihadista Stato islamico in Iraq e Siria, ndr)? L'obiettivo di Netanyahu è più limitato: fiaccare Hamas quanto basta per ottenere un paio di anni di quiete".Fino a due settimane fa Hamas s'era messo da sé alle corde. Isolato, già indebolito, privo di fondi, i suoi appelli ai palestinesi in vista di unaterza intifada erano rimasti inascoltati. E adesso invece la sua popolarità aumenta, i palestinesi di Cisgiordania insorgono. Secondo lei, l'operazione di Netanyahu rischia di rivelarsi un boomerang?"È proprio così: il premier israeliano sta ottenendo il contrario rispetto a quanto si era prefissato. Ora Hamas si è rafforzato, oltre a Gaza, anche in Cisgiordania. Mentre Fatah, che dovrebbe essere il primo interlocutore di Netanyahu, ne esce indebolito. In più, Israele sta perdendo la battaglia nell'arena dell'opinione pubblica internazionale. Fino a poco fa contava su un sostegno molto ampio. A ogni nuova vittima civile, quell'appoggio evapora".Lei teme una nuova ondata di antisemitismo?"In America, dove io mi trovo, questo rischio non c'è. Il sostegno a Israele è forte, per molti motivi. Il pericolo è invece più verosimile da voi, in Europa, dove resistono radici del passato. Nelle manifestazioni di questi giorni l'antisemitismo di vecchio stampo a volte si sovrappone alle proteste indirizzate a Israele. Già si vedono riemergere tracce di nazionalismi nazi-fascisti, o di antiche origini cristiane. Però, malgrado il rischio, io non generalizzerei. Ogni Paese in Europa è diverso dall'altro".Che cosa teme, allora?"Piuttosto, in cima alle mie preoccupazioni c'è qualcos'altro: la situazione immediata in Medio Oriente. Lì l'orizzonte è cupissimo, davvero, da qualsiasi angolo lo si osservi".http://www.repubblica.it/esteri/2014/07/26/news/walzer_un_conflitto_folle_per_israele_hamas_ne_uscir_pi_forte-92422734/

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La soluzione? Dimenticare Bibbia e Corano"Israele e Palestina rinuncino ai loro sogni"

11/08/2014 Gigi Riva e Stefano Vastano

A Gerusalemme come a Gaza e in Cisgiordania vivono ancora nell’epoca dei testi sacri. Da lì nasce il fanatismo. Ne è convinto Daniel Cohn-Bendit, leader del maggio francese e fondatore dei Verdi tedeschi. Un ebreo contro i muri. Che non ha perso la speranza

Ci vorrebbero sia tra gli israeliani sia tra i palestinesi, sostiene Daniel Cohn-Bendit, leader capaci di spiegare ai loro cittadini che devono rinunciare ad alcuni sogni. Non si vedono però all’orizzonte, e la guerra in Terra Santa si avvita su se stessa per la mancanza di questo coraggio. Cohn-Bendit, 69 anni, figlio di un avvocato tedesco e di una francese, entrambi ebrei, ha trascorso, sipuò dire, un’intera esistenza sulle barricate. Leader del maggio 68 a Parigi,quando era “Dany le Rouge”, Dany il rosso, poi fondatore dei Verdi tedeschi assieme all’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer, dal 1994 deputato al Parlamento europeo fino al recente annuncio di abbandono della politica attiva per lasciare spazio ai giovani. Un protagonista, insomma, che harinunciato al seggio, ma non a far sentire la propria voce e il proprio pensiero su questa estate di conflitti che infiamma l’intero Medioriente e lambisce l’Europa. Lo fa con questa intervista all’“Espresso” in cui spazia da Gaza all’Ucraina per analizzare un disastro, anche se lascia aperta la porta alla speranza. Perché una exit strategy andrà pur trovata. Perché persino Vladimir Putin dovrà imboccare la strada della ragionevolezza.Daniel Cohn-Bendit, Israele e Hamas stanno combattendo la loro guerra più lunga. Qual è il possibile accordo perché le armi tacciano inmodo duraturo e non più per piccole tregue, peraltro sempre violate? «Persino per Benjamin Netanyahu c’è una exit strategy dal massacro. Il problema è capire se la società israeliana e Hamas sono pronti ad accettare i necessari compromessi per trovare la via d’uscita».Cominciamo da Israele. Non è pronto, secondo lei, a pagare un prezzo per la pace?«Il governo e la maggior parte dell’opinione pubblica altro non vuole se non lasconfitta totale di Hamas. La gente non ne può più di subire il terrore quotidiano dei missili da Gaza. Ma Netanyahu non ha sinora segnalato nessun interesse per la soluzione “due Stati per due popoli”, senza la quale non è possibile una pace duratura».E cosa si dovrebbe fare per arrivarci?«Israeliani e palestinesi dovrebbero rinunciare entrambi ai loro sogni. Gli israeliani dovrebbero accettare che città come Ramallah o Hebron non facciano parte del loro Stato, e i palestinesi altrettanto per quanto riguarda Tel Aviv o Haifa».Difficile quando, e ci riferiamo a Israele, si ha una tale supremazia bellica.«La maggior parte degli israeliani è convinta di dover determinare da sola la via d’uscita dal conflitto. E Hamas parla il linguaggio dell’islam radicale, sposal’idea che le sconfitte di oggi saranno le vittorie di domani. E l’isolamento non scalfisce le profonde convinzioni religiose».

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Entrambi prigionieri di una visione che ha poco a che fare con la realtà, dunque.«Sì, vivono in uno spazio metafisico. Israele si ripete il mantra: “Noi siamo David, lo siamo sempre stati e ascoltiamo solo la lingua di David”. Il rabbino capo di Vienna una volta mi ha detto che non ci sarà mai pace se non si riuscirà a far capire a israeliani e palestinesi che non viviamo nell’epoca della Bibbia o del Corano. Nel mondo globalizzato si deve parlare il linguaggio dell’Onu, accettare i compromessi politici. Se si resta ai testi sacri la situazione rimarrà bloccata in Medioriente».I coloni sono un ostacolo insormontabile alla nascita di due Stati. La causa palestinese ha fatto passi indietro. E con Gaza ostaggio di Hamas, la pace non conviene a nessuno. Tel Aviv ha condannato le future generazioni a vivere nell'insicurezzaSembra un appello alla ragione.«Io sono un ebreo secolare. Cerco di promuovere un dialogo razionale tra ebrei e Israele. Sì, avete capito bene. Tra ebrei e Israele. La società israeliana,esausta per i continui attacchi dei palestinesi, ha costruito attorno a sé un muro e non vuole più vedere nemmeno quello che fanno i suoi coloni, il suo esercito, o cosa succede ai palestinesi. Da quando c’è il muro, una decina d’anni, gli israeliani non possono più viaggiare nei Territori occupati, non sanno come si vive dall’altra parte. E i palestinesi vedono l’israeliano solo nei panni odiosi del colonialista o del soldato».Dove sono finiti i movimenti per la pace, la stessa sinistra?«A Tel Aviv hanno fatto una manifestazione con diecimila persone. Gli scrittori si schierano. Ma dopo anni di stragi e bombardamenti la gente stremata non chiede che sicurezza. E ha perso fiducia nella prospettiva della pace: una dellepiù tragiche conseguenze dell’omicidio di Rabin».Ma fu 19 anni fa.«Yitzhak Rabin era come de Gaulle per molti israeliani. Se L’Oas (Organisationde l’armée secrète) avesse mai attentato alla vita di de Gaulle, la lunga storia di liberazione dell’Algeria dalla Francia sarebbe stata molto diversa. Dalla morte di Rabin Israele non ha ancora trovato alcun politico in grado di proseguire nello spirito degli accordi di Oslo».È sembrato di essere vicini nel 2000, a Camp David, con Bill Clinton.«Ma né Ehud Barak né Yasser Arafat sono stati all’altezza di quel negoziato. Barak non ha avuto il coraggio di dire agli israeliani che avrebbero dovuto rinunciare alle colonie in Cisgiordania. Arafat non ce l’ha fatta a dire ai palestinesi che non ci sarebbe stato un ritorno di massa dei rifugiati». Lo scrittore David Grossman osserva che la società israeliana sta maturando in quest’ultimo conflitto. Il suo collega Meir Shalev al contrario sostiene che gli israeliani sono più divisi e isterici che mai.«Hanno ragione entrambi. Grossman, al netto delle tragedie personali, resta un ottimista. Vuol credere che la durezza della guerra finirà per condurre alla ragione. Shalev valuta che l’esasperazione induce a seguite compatti Netanyahu».La cui politica è stata paragonata dal turco Erdogan a quella di Hitler.«La similitudine mostra solo tutti i limiti della personalità di Erdogan».Similitudine però ripresa anche nelle strade d’Europa, dove soffia forteil vento dell’antisemitismo.«L’antisemitismo non ha bisogno del conflitto a Gaza per fare capolino. C’è sempre stato, più o meno forte, in Europa. Oggi a questo antisemitismo storico

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si somma l’antisionismo del mondo islamico e arabo».Si lanciano molotov contro le moschee e nel centro di Berlino si inneggia a Hitler.«Intollerabile. Ma siamo nel 2014, in un mondo globalizzato. Quello a cui assistiamo non ha nulla a che vedere con la Berlino nazista del 1938 o la “notte dei cristalli”. Con le dittature nazifasciste l’antisemitismo era al potere e parte delle persecuzioni erano volute dallo Stato. Non possiamo paragonarleagli stupidi slogan di oggi per non banalizzare gli orrori del nazismo e le vittime della Shoah».Anche Vladimir Putin ha usato parole forti contro lo Stato d’Israele. E accusa di nazismo il governo ucraino.«Ai miei occhi Putin fa ciò che Israele sta facendo da anni: espande il suo territorio, rende più grande, in tutti i sensi, la Russia, dopo le perdite dell’era Eltsin».Perché lo può fare impunemente?«Dopo la fine della Guerra Fredda abbiamo vissuto la breve illusione del mondo monopolare, con gli Usa come unico gendarme planetario e l’ideologia neoliberista come unica dottrina. La speranza in un mondo multipolare è un progetto a lungo termine non ancora realizzato. È in questo scenario fluido, con Europa e Usa fiaccati dalla crisi, che Putin mostra i muscoli».Basteranno le sanzioni a fermarlo?«Credo di sì. Faranno sentire a lui e agli oligarchi russi tutta la dipendenza economica dalle banche e dalle tecnologie europee e americane. Almeno dal 17 luglio (giorno dell’abbattimento con un missile dell’aereo malese, 298 morti, ndr), Putin sa che il suo tentativo di inghiottire l’Ucraina è fallito».Ma il suo progetto, unito ai conflitti regionali in Medioriente e Africa, non dimostra che il mondo ha bisogno di un gendarme?«Al contrario dimostra che le logiche egemoniche militari sono condannate al fallimento. Oggi fallisce Putin, ieri era toccato a George W. Bush con le sue tonnellate di bombe e le nevrasteniche crociate in Iraq e Afghanistan. E questo è precisamente il problema di Obama: non ha la forza, o la capacità, di risollevare gli Usa dopo l’immensa catastrofe politica, militare e finanziaria dell’era Bush».Sembra scomparso dalla scena l’Onu.«L’Onu non è capace di interagire col nuovo ordine globale multipolare. Quel che è sicuro è che dopo l’avventura imperiale di Bush è tramontata per sempre la dottrina neoliberale. Nella nuova logica multipolare c’è spazio sia per l’alleanza Pechino-Mosca, sia per gli Usa, l’America Latina e, soprattutto, l’Europa. Trovare nuove regole per l’ordine multipolare è la condizione per mediare i vari conflitti».Cohn-Bendit, lei cita l’Europa come se davvero ce ne fosse una.«È il nazionalismo il vero freno all’Europa unita. Gli stati si spacciano come “europei” ma hanno l’intenzione, nemmeno troppo velata, di conformare l’Europa al loro modello, tedesco, francese, olandese o italiano che sia. Come nel conflitto israelo-palestinese, anche in Europa manca una leadership capace di articolare gli interessi comuni al di là dei gretti nazionalismi».Alcuni storici sostengono che, con la nostra diplomazia sonnambula, stiamo attraversando una crisi simile a quella che, 100 anni fa, portò alla Grande Guerra.«Sbagliano. Nonostante le critiche agli egoismi nazonali, noi una Ue oggi ce l’abbiamo. E i miei amici, in Algeria come in Brasile e nel resto del mondo, ce

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la invidiano per i valori universali di libertà, democrazia, giustizia sociale. Talmente belli che si esportano da soli».

Fonte:http://espresso.repubblica.it/internazionale/2014/08/07/news/dimenticate-bibbia-e-corano-1.176291

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Svezia riconosce Palestina, Israele convoca l'ambasciatore 05/10/2014

La convocazione arriva dopo l'annuncio del premier svedese Lofven sul prossimo riconoscimento dello stato palestinese. Ma la sinistra israeliana insorge: "Basta con le ossessioni"

Il premier svedese Loefven ROMA - Il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha convocato l'ambasciatore svedese a Tel Aviv, Carl Magnus Nesser, dopo che il nuovo premier di Stoccolma, Stefan Lofven, aveva annunciato che la Svezia sarà il primo paese europeo a riconoscere lo Stato palestinese. Lo ha reso noto questa mattina il servizio stampa di Lieberman, secondo cui la decisione svedese mostra come Lofven non abbia ancora "compreso che chi ha costituito negli ultimi venti anni un ostacolo tra gli israeliani e i palestinesi sono proprio questi ultimi".La dichiarazione di Lofven era stata invece apprezzata dalla presidente del partito di sinistra Meretz, Zahava Gal-On, secondo cui la posizione di Stoccolma potrebbe creare "un effetto a catena che porti il resto degli Stati dell'Unione europea a riconoscere lo Stato palestinese". "Invece di convocare l'ambasciatore svedese in Israele per un rimprovero, sarebbe meglio per il governo lasciar perdere le proprio ossessioni e acconsentire al riconoscimentodi uno Stato palestinese alle Nazioni Unite". In quel caso, secondo Gal-On, "Israele potrebbe tenere un tipo diverso di negoziati, tra governo e governo, atto a raggiungere una soluzione comprensiva".Hanan Ashrawi, del comitato esecutivo dell'Olp, ha salutato con soddisfazione la decisione della Svezia di riconoscere lo Stato di Palestina. "L'annuncio della Svezia - ha detto - indica una reale impegno alla giustizia e alla pace, inclusa la soluzione dei Due Stati sui confini del 1967". Ashrawi si è augurata che altri stati europei seguano la Svezia: "tutti quelli a sostegno di Due Stati devono comprendere che riconoscere la Palestina è la chiave della soluzione".Nei giorni scorsi Lofven aveva annunciato in parlamento il riconoscimento della Palestina sottolineando che la soluzione al conflitto israelo-palestinese passa per la creazione dei due Stati: "Una soluzione a due Stati suppone un riconoscimento reciproco e la volontàdi una coesistenza pacifica. Ecco perché la Svezia riconoscerà lo Stato della Palestina". La decisione di Lofven renderebbe la Svezia il primo grande Paese membro dell'Unione europea a riconoscere la Palestina come Stato. L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite l'aveva riconosciuto de facto, ma l'Ue non ha maiconcesso un riconoscimento ufficiale. "Il conflitto tra Israele e Palestina può essere risolto solo con una soluzione a due Stati - ha aggiunto Loven durante ilsuo discorso inaugurale in Parlamento -, negoziata in conformità del diritto internazionale".

Fontehttp://www.repubblica.it/esteri/2014/10/05/news/svezia_palestina-97385280/

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Il DNA del terrorismo islamistaISIS, Hamas, Hezbollah, così come al-Qaeda e Fronte al-Nusra, hanno tutti il gene della distruzione di Israele

Da: Ha’aretz, di Moshe Arens, 6.10.14

Ci sono volute le orrende decapitazioni televisive di due giornalisti per mano di un boia dello “Stato Islamico” perché il mondo occidentale aprisse gli occhi sui pericoli del terrorismo islamista. Molto rapidamente il presidente americano Barack Obama ha messo insieme una coalizione per combattere l’ISIS e nel giro di pochi giorni gli aerei della coalizione hanno iniziato i bombardamenti sugli obiettivi dello “Stato Islamico”. Evidentemente non hanno preso il genere di precauzioni adottate dalla forze aeree israeliane durante la recente campagna contro Hamas nella striscia di Gaza allo scopo diridurre al minimo le perdite tra civili innocenti – preavvisi, colpi di preavvertimento, inviti scritti e verbali ai civili di sgomberare l’area – e inevitabilmente ci sono stati danni collaterali.Il presidente Obama e i paesi che hanno aderito alla coalizione contro l’ISIS erano ben consapevoli del fatto che Israele è in lotta con il terrorismo islamista già da molti anni. E da solo. Contro Hezbollah, la milizia libanese finanziata, armata e diretta dall’Iran, uno stato terrorista in procinto di raggiungere l’arma del terrore definitiva, la bomba nucleare; e contro Hamas, filiale ideologica dei Fratelli Musulmani, anch’essa armata dall’Iran. Sebbene sia Hezbollah che Hamas siano considerati dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea come organizzazioni terroristiche, Israele ha goduto di ben poca comprensione quando si è trovato a combattere queste organizzazioni, ed anzi in più occasioni è stato oggetto di severe condanne per aver causato danni collaterali.

Davvero tra ISIS, Hamas e Hezbollah c’è una differenza così sostanziale da spiegare la diversità di atteggiamento di Stati Uniti e Unione Europea rispettoa queste organizzazioni, e il fatto che finora non è stata organizzata nessuna coalizione per combattere Hezbollah e Hamas, un compito che è stato lasciato tutto a Israele?

In realtà ISIS, Hamas, Hezbollah sono versioni simili del terrorismo islamista. I primi due sono sunniti, mentre Hezbollah è sciita. Ma hanno un denominatore comune: considerano l’Occidente come loro nemico e perseguono la distruzione dello Stato di Israele. Non ci vuole un esperto genetista per analizzare il DNA di ISIS, Hamas, Hezbollah e delle altre organizzazioni terroriste islamiste come Al-Qaeda e il Fronte al-Nusra. Hanno tutte il gene che punta alla distruzione dello Stato di Israele. Anche l’ISIS, sebbene la parola Israele non compaia nel suo acronimo (Stato Islamico in Iraq e nel Levante). Nessuna illusione: per quanto li riguarda, la lettera S sta per Sham, il Levante o “Grande Siria” che comprende anche tuttala Palestina/Israele, che essi considerano “Siria meridionale”.

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Lo stesso gene è anche nel DNA del regime islamista iraniano, chenon fa mistero di voler perseguirela distruzione dello Stato d’Israele. Questo è il motivo per cui sostengono Hezbollah, e anche Hamas sebbene sia un’organizzazione sunnita. E casomai Hezbollah e Hamas non dovessero riuscirci, si stanno dotando di un ordigno nucleare.Come mai il presidente Obamanon vede la comune

composizione genetica di tutte queste organizzazioni terroristiche, e come mai a Washington si oppongono all’equiparazione fatta da Benjamin Netanyahu tra ISIS e Hamas? Si spiega forse con la distribuzione geografica di queste organizzazioni? Lo “Stato Islamico” hafinora concentrato le sue attività in Iraq e Siria, mentre Hamas controlla la striscia di Gaza e si sta facendo strada in Giudea e Samaria (Cisgiordania). Forse si ha l’erronea impressione che gli obiettivi di Hamas siano limitati alla creazione di uno stato palestinese, mentre l’ISIS afferma di voler stabilire un califfato islamico che includerà l’Iraq, la Siria e la Palestina. Ma non ci si faccia illusioni: Hamas dichiara apertamente che il suo obiettivo è la distruzione di Israele, e non si farà alcun problema ad associarsi al califfato dell’ISIS.

Per quanto riguarda Hezbollah, anch’esso tempo fa era visto come un’organizzazione con un obiettivo limitato: espellere l’esercito israeliano dal suolo libanese. Ma una volta che le Forze di Difesa israeliane si sono ritirate dalla zona di sicurezza del Libano meridionale nel maggio 2000, Hezbollah ha continuato imperterrito la sua campagna che mira alla distruzione di Israele. Il suo presunto obiettivo limitato non era altro che il frutto della fantasia degli osservatori disinformati.

Considerare l’ISIS l’unica minaccia terroristica al mondo è una visionemiope. Purtroppo la minaccia è molto più ampia, e include al-Qaeda, Hamas, Hezbollah, il Fronte al-Nusra, e, soprattutto, l’Iran.

Fonte:

http://www.israele.net/il-dna-del-terrorismo-islamista

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Israele critica il Primo ministro svedese sullo Stato palestineseNews - 8/10/2014Gerusalemme-Afp. Israele ha attaccato il neoeletto primo ministro svedese Stefan Loevfen riguardo la sua decisione di riconoscere lo Stato palestinese.

“Il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman ha dichiarato di essere dispiaciuto per il fatto che il nuovo primo ministro abbia avuto fretta di pronunciarsi sulla posizione della Svezia riguardo al riconoscimento dello Stato palestinese – a quanto pare, prima di avere il tempo di analizzare la questione a fondo”, così si sarebbe espresso Lieberman, secondo il suo entourage, in una dichiarazionerilasciata sabato sera. Nella dichiarazione si legge anche che Carl Magnus Nesser, l’ambasciatore svedese in Israele, “sarà convocato al ministero degli Esteri a Gerusalemme per un colloquio”.“Il primo ministro Loefven deve capire che nessuna affermazione o attodi un ente politico esterno può sostituirsi alla negoziazione diretta fra le parti”, recita la dichiarazione.Venerdì il leader socialdemocratico Loefven – che il mese scorso ha vinto le elezioni politiche – ha dichiarato che il suo paese vuole appoggiare una soluzione del conflitto israelo-palestinese basata sulla creazione di due stati.“Una soluzione basata sulla creazione di due stati richiede il riconoscimento reciproco e la volontà di coesistere pacificamente”, ha affermato Loefven nel suo discorso di insediamento al Parlamento.Tale soluzione dovrebbe avere luogo nel rispetto “della legittima richiesta dei palestinesi e degli israeliani di vedere riconosciuto il loro diritto all’autodeterminazione e alla difesa”, ha aggiunto.Nel 2012 la Svezia ha votato in favore del riconoscimento alla Palestina dello status di osservatore alle Nazioni Unite, status che le fu accordato nonostante l’opposizione degli Stati Uniti e di altri paesi.Sette membri UE nell’Europa dell’Est e dell’area mediterranea hanno già riconosciuto lo Stato palestinese; si tratta di Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Ungheria, Malta, Polonia e Romania. L’Islanda, che non è uno stato membro dell’UE, è l’unica nazione dell’Europa occidentale ad averlo fatto.La dichiarazione di Loefven è stata accolta con favore dai palestinesi, ma gli Stati Uniti, alleati di Israele, sostengono che si sia trattato di unpasso precipitoso.“Crediamo che il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese sia prematuro”, ha detto la portavoce del Dipartimento di Stato Jen Psaki. Fonte:

http://www.infopal.it/israele-critica-il-primo-ministro-svedese-sullo-stato-palestinese/

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Abbas: Israele sta trasformando un conflitto politico in una guerra religiosaNews - 9/10/2014Ramallah – Maan. Mercoledì il presidente Mahmoud Abbas ha avvertito Israele riguardo al trasformare il conflitto israelo-palestinese in una guerra di religione, sottolineando che i recenti attacchi contro i fedeli musulmani nella moschea di Al-Aqsa hanno minacciato la natura della lotta nazionale.Abbas, in una dichiarazione televisiva dal suo quartier generale presidenziale a Ramallah, ha affermato che i palestinesi e “il mondo conoscono i pericoli dell’usare la religione nei conflitti politici. Tutti dobbiamo vedere cosa succedeintorno a noi e Israele deve prestare attenzione e capire che tali iniziative sono pericolose sia per Israele e gli altri”.Ha aggiunto che il tentativo di Israele di aprire un secondo cancello solo per gli ebrei ad Al-Aqsa, alterando così lo status quo religioso, era una provocazione su cui i palestinesi “non potevano rimanere in silenzio”. Abbas ha anche avvertito che lo stesso tipo di provocazioni stanno accadendo a Hebron nella moschea di Ibrahimi, nella quali ai fedeli vieneimpedito di pregare”, come se Israele volesse annullare completamente l’esistenza islamica della moschea”. La moschea di Ibrahimi è stata divisa in una sezione ebraica e una musulmana da quando un estremista ebreo ha aperto il fuoco e ucciso più di due dozzine di fedeli nel 1994.“I palestinesi non rimarranno in silenzio”, ha affermato Abbas. “Gli scontri accadono ogni giorno e i palestinesi vengono feriti e uccisi per resistere alle violazioni israeliane delle moschee di al-Aqsa e di Ibrahimi”.Fonte:

http://www.infopal.it/abbas-israele-sta-trasformando-un-conflitto-politico-in-una-guerra-religiosa/

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Quanto costa la ricostruzione di Gaza13//10/2014 Lookout – panorama Raccolti oltre 5 miliardi di dollari per risollevare le città della Striscia colpite dal conflitto tra Israele e Hamas. E intanto il Regno Unito approva una mozione per chiedere il riconoscimento della Palestina come Stato

Fondi pari a 5,4 miliardi di dollari per la ricostruzione delle città palestinesi colpite dal recente conflitto tra Hamas e l’esercito israeliano che ha provocato più di 2mila vittime e 100mila sfollati. Oltrepassa le aspettative iniziali la quota raccolta dai donatori internazionali durante la conferenza organizzata al Cairo domenica 12 ottobre dai governi di Egitto e Norvegia. La cifra richiesta dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per far fronte alle priorità della ricostruzione era infatti di 4 miliardi di dollari.Da solo il Qatar ha offerto un miliardo di dollari, Emirati Arabi e Turchia hanno fatto una donazione di 200 milioni di dollari ciascuno, gli USA hanno annunciato 212 milioni di aiuti mentre l’UE garantirà 450 milioni di euro. Il contributo dell’Italia, ha specificato il ministro degli Esteri Federica Mogherini, ammonta a 18 milioni di euro, contro i 30 milioni offerti dalla Francia e i 25 del Regno Unito.Assente alla conferenza internazionale, il governo israeliano ha comunicato che ogni opera di ricostruzione dovrà avvenire “con il consenso di Tel Aviv e con la cooperazione delle autorità israeliane”. Riunione del governo di unità nazionale palestinesePochi giorni prima dello svolgimento della conferenza internazionale siè riunito per la prima volta, a tre mesi dalla sua formazione, il governodi unità nazionale nato dallo storico accordo dello scorso aprile tra le due fazioni palestinesi, Fatah (la formazione più moderata che controlla la Cisgiordania) e Hamas (il movimento più radicale che invece controlla la Striscia di Gaza). La composizione dell’esecutivo era stata stabilita a giugno poco prima dell’inizio del conflitto militare, ma da allora il governo è stato inoperativo anche a causa del blocco imposto da Israele sui viaggi verso la Cisgiordania.Il primo ministro palestinese, Rami Hamdallah, che ha diretto l’incontro tenutosi a Gaza nella residenza presidenziale il 9 ottobre, ha dichiarato che la situazione nella Striscia richiede “un governo di unità funzionante ed efficace, che superi le annose divisioni per garantire una fase di normalizzazione ai palestinesi”. Dal canto suo, il ministro degli Esteri palestinese, Riyad al-Malki, presente alla conferenza di domenica al Cairo, ha garantito che gli aiuti raccolti dai donatori internazionali serviranno esclusivamente per la ricostruzione e che non finiranno nelle mani dei militanti di Gaza. La strategia di AbbasMentre i negoziati con Israele attraversano una fase di stallo pressoché totale,Mahmud Abbas, presidente dell’ANP, tenta il tutto per tutto dirottando la questione verso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Già nel 2012 la Palestina veniva riconosciuta da 138 Paesi dell’Assemblea Generale dell’ONU, ottenendo così lo status di Stato osservatore non membro. L’obiettivo successivo che adesso Abbas sta tentando di perseguire è l’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di una

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risoluzione che ponga fine all’occupazione israeliana e sancisca l’indipendenza dello Stato palestinese, racchiudendo tutti gli elementi sui quali gli Stati Uniti hanno finora concordato in questi anni di negoziati in modo da scongiurare la possibilità, molto consistente, del veto americano.Così facendo Abbas porterebbe Israele a trovarsi coinvolto in un conflitto contro uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale, con tutte le conseguenze del caso. Nel caso in cui il Consiglio non dia seguito alla risoluzione, la mossa di riserva dell’ANP sarebbe quella di aderire allo Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale per avviare procedure penali contro lo Stato di Israele.La battaglia diplomatica con cui Abbas deve prima fare i conti riguarda però ilraggiungimento di almeno 9 firme sicure a sostegno della risoluzione all’interno del Consiglio di Sicurezza (inclusi i cinque Stati membri con diritto di veto, vale a dire Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia), il che farebbe accedere la richiesta palestinese alla seduta plenaria dell’Organizzazione, dove a quel punto i palestinesi non avrebbero problemi ad assicurarsi i due terzi della maggioranza grazie alla presenza di numerosi Stati arabi e di altri non allineati. Secondo fonti diplomatiche, attualmente Abbas disporrebbe già di diverse adesioni in sede di Consiglio. Il 3 ottobre anche la Svezia (Paese che non fa attualmente parte dei membri non permanenti del Consiglio) aveva annunciato il riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente. La Francia invece vacilla, ma potrebbe rivelarsi il sostenitore chiave di cui Abbas necessita per spostare l’ago della bilancia verso la sua parte. Il sostegno ormaicerto alla causa palestinese è invece arrivato ieri, lunedì 13 ottobre, dalla Gran Bretagna. La Camera dei Comuni ha infatti approvato una mozione che chiede il riconoscimento della Palestina come Stato, con 274 voti a favore e 12contrari. Nel documento si chiede al governo britannico di “riconoscere lo Stato palestinese insieme a quello di Israele” al fine di “assicurare una soluzione negoziata dei due Stati”. La mozione non è però vincolante e lo stesso sottosegretario per il Medio Oriente, Tobias Ellwood, ha dichiarato che uno Stato palestinese potrebbe essere riconosciuto solo al momento opportuno.

Fonti: http://www.lookoutnews.it/palestina-miliardi-ricostruzione-gaza/

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Lo stallo che penalizza IsraeleL’Occidente si culla nell’illusione di proteggersi dal terrorismo jihadista gettandogli in pasto qualche “progresso” diplomatico a spesedi Israele

Da: Israel HaYom, di Dan Margalit 14.10.14

Israele e Autorità palestinese sono bloccati in un braccio di ferro: situazione che appare un enorme spreco enorme di tempo ed energie, e piuttosto noiosa.Israele non deve nulla al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), a dispetto del parlamentare arabo-israeliano Ahmad Tibi che cerca di spiegare alla popolazione ebraica d’Israele che, se non fosse per Abu Mazen, gli abitanti di Tel Aviv non potrebbero sorseggiare in pace il caffè nei bar della città. Israele non gli deve nulla perché è stato proprio Abu Mazen ad avviar e il fallimento dei colloqui di pace con i primi ministri israeliani Ehud Barak ed Ehud Olmert, ed èlui che ha voltato le spalle primo ministro Benjamin Netanyahu.Il risultato diplomatico è una vana impasse, che sembrerebbe un pareggio. In realtà Abu Mazen trae vantaggio della situazione bloccata, mentre Netanyahu perde. Questo perché il punteggio politico finale non si conteggia nella vita reale a Gerusalemme e Ramallah, a Tel Aviv o a Gaza, quanto piuttosto nelle capitali d’Europa e del nord America. E là Israele rischia di pagarla cara.

Naturalmente non è giusto. Europei e americani sanno bene che il caos ingiro per il mondo non è causato dal conflitto israelo-palestinese, ed anzi casomai il caso in Medio Oriente si sviluppa nonostante il conflitto israelo-palestinese. Migliaia di musulmani sono partiti dall’Europaper andare a infoltire i ranghi dello “Stato Islamico” (ISIS) non certo per aiutare i palestinesi di Gaza, ma a causa della lancinante dissonanza tra l’abbondanza democratica di cui godevano in Occidente e il senso di inferiorità e alienazione che vi hanno sviluppato, forse più in Inghilterra che altrove.

Il ribrezzo e l’odio di ISIS, al-Qaeda, Hezbollah e Hamas verso Israele in particolare, e verso l’Occidente in generale, non verrebbe minimamente attenuato se le Forze di Difesa israeliane si ritirassero non solo da Yitzhar e Ariel, ma neanche dai luoghi santi di Gerusalemme.

Ma nelle capitali occidentali amiche Israele deve pagare il prezzo di questa situazione di stallo con Abu Mazen. In Olanda e in Germania, ma anche in Francia e in Inghilterra, le autorità hanno paura di permettere agli ebrei di costruire la sukkah (la capanna provvisoria costruita per la festa di Sukkot) perché la cosa potrebbe irritare masse di giovani musulmani inclini al tumulto violento per le strade. Molti Stati tremano come foglie di fronte al potere, in fondo insignificante, dello “Stato Islamico” e combattono con mano malferma mentre si cullano nella dolce illusione di poter promuovere i loro interessi strategici nei confronti di Iran e gruppi terroristici gettando loro in pasto qualche “progresso” a loro gradito sulla scena israelo-palestinese. E’ un errore (il solito errore), e Israele è costretto a pagarne il prezzo.

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Fontehttp://www.israele.net/lo-stallo-che-penalizza-israele

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Il segretario dell’ONU critica gli insediamenti israeliani e sollecita i colloqui di paceNews - 14/10/2014Ramallah – AFP. Lunedì il capo delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha criticato la costruzione di insediamenti israeliani e ha messo in guardia contro le “provocazioni” nei luoghi santi di Gerusalemme, lanciando un appello per nuovi colloqui di pace per evitare un ulteriore conflitto con i palestinesi.Ki-moon si è recato nella città di Ramallah, dove ha incontrato il primoministro palestinese Rami Hamdallah, un giorno dopo la conferenza al Cairo in cui i donatori internazionali hanno promesso 5,4 miliardi dollari per ricostruire la Striscia di Gaza devastata dalla guerra.“L’importo che è stato promesso dalla comunità internazionale è molto incoraggiante”, ha commentato Ki-moon in una conferenza stampa congiunta con Hamdallah. I fondi dovrebbero finanziare la ricostruzione “urgente” di infrastrutture e abitazioni, ha dichiarato, riferendosi a un livello “senza precedenti” di distruzione a Gaza, dove quasi 2.200 palestinesi sono stati uccisi nella guerra di 50 giorni fra luglio e agosto.Ma “anche se la ricostruzione è importante, dobbiamo affrontare alla radice lecause di instabilità”, ha aggiunto. “Dobbiamo dare una rinnovata attenzione alla Cisgiordania. Ancora una volta condanno fortemente l’attività di insediamento continuo da parte di Israele”, ha dichiarato, facendo eco alla condanna internazionale circa i progetti per le nuove case dei coloni nel territorio palestinese occupato.La Casa Bianca e l’Unione Europea hanno criticato l’approvazione di Israele nel mese di settembre di 2.600 nuove unità di insediamento nella Gerusalemme Est occupata.La questione degli insediamenti ha causato il fallimento di numerosi cicli di colloqui di pace israelo-palestinesi. “Sono anche profondamente preoccupato per le ripetute provocazioni nei luoghi santi di Gerusalemme. Queste infiammano solo le tensioni e devono cessare”, ha affermato Ki-moon.I suoi commenti sono arrivati a distanza di qualche ora dallo scontro fra la polizia israeliana e i manifestanti palestinesi nella moschea di al-Aqsa a Gerusalemme, la stessa area dello scoppio della Seconda Intifada.Il sito è sacro per ebrei e musulmani ed è una delle cause di fondo delle tensioni israelo-palestinesi, che si sono accresciute a Gerusalemme a partire dal conflitto di Gaza.Ki-moon ha fatto appello alle due parti per rilanciare un processo di pace stagnante che è collassato nel mese di aprile, nonostante gli intensi sforzi degli Stati Uniti.“Esorto i palestinesi a mostrare coraggio e a continuare a impegnarsi nel processo di pace e gli israeliani a fare lo stesso”, ha sollecitato Ki-moon. “Accolgo con favore la rinnovata azione della leadership politica internazionale. Il tempo non è dalla parte della pace. Dobbiamo agire immediatamente per evitare un’intensificazione di uno status quo già insostenibile… questo è l’unico modo per evitare l’ennesimo tragico conflitto in futuro”.

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Quel ragionamento che pare attendibile ma non fa i conti con la realtàRiconoscere ora lo “stato di Palestina" significa gettare tutta la colpa del conflitto sulle spalle di Israele ignorando il ruolo decisivo giocato dai palestinesi nel perpetuarlo

(Da: Jerusalem Post, 15.10.14)

«Noi condividiamo l’opzione della resistenza (armata) in tutte le sue forme». Sultan Abu Al-Einein, consigliere del presidente Mahmoud Abbas (Abu

Mazen), alla tv ufficiale palestinese lo scorso 23 settembre.

https://www.youtube.com/watch?v=IG5SwY0-lXo

Dietro ai voti “simbolici” del parlamento britannico e alle dichiarazioni del neoprimo ministro svedese Stefan Löfven (sul riconoscimento unilaterale dello “stato palestinese” senza un accordo negoziato con Israele) c’è un ragionamento che sembra lineare ed è invece alquanto contorto. Suona più o meno così. La questione territoriale sta al cuore del conflitto tra Israele e palestinesi, in particolare l’”occupazione” israeliana di Cisgiordania e striscia di Gaza. Se Israele rinunciasse al suo controllo su questi territori, il conflitto avrebbe termine. Dunque, se la Gran Bretagna e altre nazioni riuscissero a costringere Israele a ritirarsi con la decisione di riconoscere unilateralmente lo “stato di Palestina” sulle linee armistiziali del 1949, esse porrebbero fine al conflitto mediorientale.Purtroppo questo ragionamento è sbagliato, e per una serie di motivi.

In primo luogo Hamas – oggi verosimilmente il movimento politico più popolare nella società palestinese – rifiuta l’esistenza stessa di Israele entro qualunque confine.

In secondo luogo, entrambi i leader dell’Olp – Yasser Arafat e il suo successore, il presunto “moderato” presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) – hanno seccamente respinto diverse proposte di compromesso che avrebbero dato ai palestinesi il controllo su più del 90% di Cisgiordania e striscia di Gaza.E poi c’è il fatto che in questo modo si finisce per giustificare il più violento e spietato terrorismo come se fosse una “comprensibile” reazione all' ”occupazione”. Secondo questo ragionamento, infatti, quando i rappresentantiufficiali dell’Autorità Palestinese e i suoi mass-media glorificano i terroristi, alimentano l’odio contro Israele sin dalle scuole elementari, negano qualunque legame storico fra ebrei e Terra d’Israele e rifiutano esplicitamentedi riconoscere la sovranità israeliana su città come Jaffa, Haifa e Acri; quando i terroristi di Hamas sparano razzi e colpi di mortaio su cittadini israeliani innocenti e insistono a usare materiali come cemento e metallo per costruire tunnel terroristici da usare per compiere attentati contro le comunità

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israeliane che si trovano attorno alla striscia di Gaza, facendo tutto questo nonfanno altro che “battersi contro l’occupazione”.

«E’ nobile, puro e morigerato: un angelo, eroe tra gli eroi e un leader. Se Allah non lo avesse amato, non l’avrebbe onorato con il Martirio». Lo dice la madre di Marwan Al-Qawasmi, uno dei terroristi di Hamas che hanno sequestrato e assassino nel giugno scorso tre adolescenti israeliani. L’intervista è stata trasmessa il 23 settembre dalla tv ufficiale dell’Autorità Palestinese, la cui conduttrice ha definito “shahid” (martiri) i due terroristi. https://www.youtube.com/watch?v=rfINQQFF1hs

E quando Israele tenta di difendersi mettendo in atto un blocco attorno alla striscia di Gaza per impedire a Hamas difarvi entrare razzi, esplosivi e materiali per costruire i tunnel terroristici, viene accusato di “occupare” Gaza anche se daGaza si è ritirato sin dal 2005. E quando Israele manda i suoi soldati a Gaza per distruggere i tunnel e i razzi che i

terroristi di Hamas piazzano deliberatamente all’interno di aree abitate sparando contro Israele da scuole e ospedali per aumentare il più possibile le vittime civili, sono le Forze di Difesa israeliane, e non Hamas, che vengono accusate di “crimini di guerra”.

La verità è che se i palestinesi avessero scelto i loro leader in base alla loro capacità di costruire, e non in base alla loro reputazione di guerrieri; se avessero preteso un governo meno corrotto che tutelasse i diritti dei palestinesi, invece di un governo che esalta i terroristi e incita alla guerra contro Israele; se si fossero dati da fare per andare avanti e progredire, anziché fermarsi in eterno nell’autocommiserazione vittimistica, la pace sarebbe arrivata già da parecchio tempo.

Non è troppo tardi per cambiare rotta. Ma chi sceglie di riconoscere ora lo “stato di Palestina”, sceglie di ignorare tutto questo: sceglie di gettare ingiustamente tutta la colpa del conflitto sulle spalle di Israele,ignorando il ruolo determinante giocato dai palestinesi nel perpetuarlo.

Fonte: http://www.israele.net/quel-ragionamento-che-pare-attendibile-ma-non-fa-i-conti-con-la-realta

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Riconoscimento dello Stato palestinese: il Governo italiano cosa aspetta?15/10/2014 di Arturo Scotto (Capogruppo Sel Camera dei Deputati)

Finalmente, negli ultimi giorni, sono arrivate delle buone notizie dall'estero: nel giro di una settimana sia la Svezia che l'Inghilterra hanno deciso di riconoscere lo Stato palestinese. Sono i primi due grandi Paesi membri dell'Unione Europea a muoversi in tale direzione, e ciò rende gli eventidelle scorse ore di grandissima rilevanza storica. L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva già operato un riconoscimento de facto, mentre l'Unione Europea non ha mai concesso un riconoscimento ufficiale. A maggior ragione, dunque, le parole del Presidente del Consiglio svedese Lofven, che ha affermato che la soluzione al conflitto israelo-palestinese deve necessariamente passare per la creazione di due Stati sulla base dei confini del 1967, ed il voto alla House of Commons inglese, dove forze di sinistra e di destra si sono espresse univocamente ed unitariamente, possono rappresentare la molla di un importantissimo effetto a catena che porti anche il resto degli Stati europei a riconoscere lo Stato palestinese.La Svezia e l'Inghilterra, paesi sicuramente non ostili ad Israele, dunque. Le reazioni piccate del governo israeliano, che attacca qualsiasi riconoscimento internazionale, trovano un perfetto contraltare nelle sagge e meditate parole del partito israeliano di sinistra Meretz, che sostiene la bontà di tali scelte e propone al governo di acconsentire al riconoscimento di uno Stato palestinese alleNazioni Unite. La strada giusta è quella del riconoscimento reciproco edella dimostrazione di una volontà reale di coesistenza pacifica. Possibile che il nostro governo ancora non abbia introiettato tutto ciò?Cosa aspettiamo prima di procedere sullo stesso tracciato di Svezia ed Inghilterra? Io mi auguro che sul riconoscimento dello stato di Palestina il governo ed il Pd si tengano alla larga delle posizioni strumentali di Alfano e del Nuovo Centrodestra, ma rilancino invece un punto di vista autonomo sull'intera partita politica e diplomatica che si gioca in Medio oriente, centratosull'assunto oramai ineludibile del "due popoli, due Stati".Non è più tempo di aspettare. Le immagini degli scorsi mesi, delle bombe su Gaza, delle famiglie distrutte e dei tanti, troppi morti non possono essere sepolte nella nostra memoria e relegate in un angolo. Non possiamo più concederci il lusso di ragionare sul tema solo sull'onda dell'emotività provocataci da immagini strazianti nelle fasi più drammatiche del conflitto isrealo-palestinese, abbiamo il dovere dare risposte serie e concrete. Se il governo non può o non vuole, saremo noi a farcene carico: per questo con il mio partito presenterò, già nelle prossime ore, una mozione parlamentare per impegnare il governo a riconoscere lo Stato palestinese. Vi è una sola via: quella della pace e del rispetto reciproco. A noi il compito di perseguirla.Fonte:http://www.huffingtonpost.it/arturo-scotto/riconoscimento-stato-palestinese-governo-italiano_b_5987748.html

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L’Unione Europea cerca nuove strade per fermare gli insediamenti israelianiTraduzione di Edy Meroli News - 17/10/2014

Memo. I funzionari dell’Unione Europea sono alla ricerca di nuovi strade per fare pressione sull’autorità di occupazione israeliana al fine di fermare le costruzioni di insediamenti nella Cisgiordania occupata, secondo quanto ha riferito martedì l’agenzia di stampa Reuters.I diplomatici europei hanno spiegato che la loro frustrazione per la costruzione degli insediamenti in Cisgiordania ha raggiunto un nuovo massimo storico, e ora discutono di misure come la “lista nera” di coloni ebrei condannati per reati e la proibizione di entrare nei Paesi della UE.

Hanno anche detto che la UE potrebbe rivedere gli accordi commerciali con Israele, ma hanno sottolineato che non stanno ancora valutando di imporre sanzioni commerciali.“Il lavoro d’ ufficio [per quanto riguarda la lista nera] è stato fatto ma è congelato, per ora”, ha riferito un funzionario della UE alla Reuters. “Si tratta essenzialmente di una lista nera di coloni violenti che sono stati accusati o condannati per reati. Si potrebbe impedire loro di viaggiare in Europa”. Il diplomatico ha aggiunto: “Un tale passo probabilmente interesserà solo da 100 a 200 persone, e potrebbe rivelarsi complicato da imporre, dal momento che alcuni di coloro che potrebbero essere nella lista nera hanno anche passaporti europei, ma manderebbe un messaggio forte: l’Unione Europea fa sul serio”.L’autorità di occupazione israeliana ha recentemente compiuto una serie di misure illegali, tra cui il sequestro di 4.000 dunam (1.000 acri) di terra palestinese vicino alla città di Betlemme e l’annuncio di un piano per costruiremigliaia di unità negli insediamenti nei pressi della Gerusalemme occupata.Queste misure, secondo quanto riferito, hanno irritato UE, USA e ONU, sollecitando richieste di spiegazione.Due anni fa, l’UE ha imposto restrizioni sui prestiti alle istituzioni scientifiche israeliane che operano negli insediamenti in Cisgiordania e sta attualmente portando avanti un piano per etichettare i prodotti di questi insediamenti.I diplomatici della UE avvertono che l’opinione pubblica in Europa sta diventando fortemente contro Israele, in particolare in risposta alle guerre di Israele nella Striscia di Gaza, tra cui la recente aggressione di 51 giorni che si è conclusa il 26 agosto e ha ucciso più di 2.000 Palestinesi, in gran parte civili.Questo cambiamento è evidente nel disegno della Svezia di riconoscere la Palestina come stato indipendente e il voto non vincolante del parlamento britannico sullo stesso argomento, lunedì.Molti dei 28 stati membri dell’UE hanno espresso preoccupazioni sulle politiche israeliane degli insediamenti, ma non è affatto certo che ci sarà un sostegno unanime per azioni contro Israele, che ha ancora forti difensori tra molti governi dell’Unione.Diplomatici europei ed altri funzionari hanno detto alla Reuters che ci sono diversi campi dove l’UE potrebbe fare pressione su Israele, per

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esempio applicando rigorosamente le normative di riferimento dell’Association Agreement firmato tra l’UE e Israele nel 1995.Tale accordo definisce un quadro molto specifico per il libero scambio di merci, servizi e capitali, nel ”rispetto dei diritti umani e dei principi democratici”.L’articolo 83 della convenzione precisa che si applica soltanto al territorio dello Stato di Israele, e che un funzionario ha chiesto su come si tratta, per esempio, con le banche israeliane che operano nei territori occupati che l’Unione europea non considera parte dello stato di Israele.“Non sto dicendo che dovremmo smettere di trattare con le banche israeliane,ma è una questione che è stata sollevata e qualcuno potrebbe sostenere che abbiamo bisogno di approfondire”, ha riferito un ambasciatore parlando con laReuters.

Fonte:

http://www.infopal.it/lunione-europea-cerca-nuove-strade-per-fermare-gli-insediamenti-israeliani/

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Il tempo è dalla parte della Palestina17/10/2014 Gwynne DyerOttenere il riconoscimento come stato indipendente è un processo lento, ma laPalestina sta facendo progressi.A settembre del 2013 il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen ha ottenuto il permesso di sedere sulla “poltrona beige”, quella riservata ai capi di stato che attendono di raggiungere il podio e rivolgersi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.Ora è arrivato un altro grande balzo in avanti. Il 13 ottobre il parlamento britannico ha approvato una mozione (con 274 voti favorevoli e 12 contrari) in favore del riconoscimento dello stato palestinese. Bisogna tenere presente che si è trattato dell’iniziativa di un deputato e non del governo, e che ai ministri del gabinetto di David Cameron è stata imposta l’astensione.Il documento non può costringere Cameron a riconoscere la Palestina, una decisione che il governo britannico prenderà solo “se lo riterrà opportuno e quando sarà la cosa migliore per favorire la pace”.Ancora aria fritta e inutili simbolismi, insomma. Il voto del parlamento, però, è comunque un’importante anticipazione di cosa ci riserva il futuro. Dopo mezzo secolo in cui Israele ha potuto contare sull’appoggio incondizionato degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa occidentale, oggi l’opinione pubblica europea sta cambiando orientamento.Fino a poco tempo fa gli unici membri dell’Unione europea ad aver riconosciuto la Palestina erano gli ex satelliti sovietici dell’Europa dell’est, e l’avevano fatto quando erano ancora governati dai comunisti. Eppure all’inizio di ottobre il nuovo governo svedese ha dichiarato che intende riconoscere la Palestina, mentre altre votazioni sull’argomento sono in programma in Irlanda, Danimarca, Finlandia e soprattutto in Francia.Probabilmente tutti i parlamenti approveranno il riconoscimento. “Sono preoccupato dal cambio di orientamento a lungo termine da parte dell’opinione pubblica a proposito dello stato ebraico”, ha spiegato l’ambasciatore britannico in Israele Matthew Gould, intervistato da una radio israeliana. “Israele ha perso molti sostenitori dopo il conflitto di quest’estate e dopo l’annuncio dei nuovi insediamenti in Cisgiordania. Questo voto parlamentare dimostra in quale direzione soffia il vento”. Lo stato ebraico fa finta di niente, ma questo cambiamento è molto importanteper due motivi. Innanzitutto perché fa pensare che presto l’unico ostacolo al pieno riconoscimento della Palestina alle Nazioni Unite potrebbe essere il veto degli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza dell’Onu, che probabilmente dovrà essere ribadito ogni anno. La seconda ragione, ben più grave per Israele, è che dimostra quanto sia agli sgoccioli la pazienza dell’elettorato occidentale nei confronti delletattiche ostruzionistiche del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Tra i giovani questa pazienza si è già completamente esaurita.La maggior parte degli israeliani pensa che Netanyahu non abbia alcuna intenzione di permettere l’affermazione di uno stato palestinese indipendente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, ovvero quel 20 per cento della

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Palestina coloniale che non è stato incorporato nello stato ebraico dopo la guerra del 1948. La maggior parte della sua forza politica viene dagli israeliani che sperano che riesca a scongiurare questo scenario.Chiaramente Netanyahu non può manifestare questa intenzione, perché altrimenti perderebbe l’appoggio delle persone che vivono lontano da Israele eche di solito credono che la pace possa essere raggiunta solo attraverso la soluzione dei due stati, accettata da entrambe le parti con gli accordi di Oslo di 22 anni fa. Questi sostenitori hanno chiuso un occhio davanti al comportamento del governo israeliano purché continuasse a fingere di sostenere gli obiettivi di Oslo. Nella camera dei comuni britannica, intanto, la fiducia nel primo ministro israeliano si sta esaurendo.Richard Ottaway, presidente del comitato per gli affari esteri e alleato storico di Israele, ha dichiarato alla camera che “pensando agli ultimi vent’anni capisco che Israele si è progressivamente allontanato dall’opinione pubblica mondiale. L’annessione di 380 ettari di Cisgiordania pochi mesi fa mi ha scandalizzato più di qualsiasi altra cosa nella mia vita politica. Mi ha fatto sentire uno stupido, ed è una cosa che non mi piace affatto”.L’erosione del sostegno nei confronti di Israele è stata più lenta negli Stati Uniti, dove le critiche contro lo stato ebraico sono rare sui mezzi d’informazione e dove il congresso è ancora (per usare le parole di alcune fonti da Washington) “un territorio occupato da Israele”. Eppure questo processo è in corso anche là, e tra le giovani generazioni è già molto avanzato.Secondo un sondaggio condotto da Gallup a luglio, quando imperversava la guerra a Gaza, più della metà degli statunitensi di oltre 50 anni giustificava le azioni di Israele (che hanno ucciso più di duemila palestinesi). Tra i giovani trai 18 e i 29 anni la percentuale scendeva al 25 per cento.Probabilmente entrambe le generazioni rimarranno ancorate alle loro convinzioni per tutta la vita, ma il tempo farà prevalere le opinioni dei più giovani. Le idee dei giovani statunitensi sono state probabilmente plasmate dalle azioni e dalla politica israeliana degli ultimi dieci anni. Se Israele continuerà su questa strada per altri dieci anni, è prevedibile che anche negli Stati Uniti la maggioranza della popolazione vorrà riconoscere la Palestina.

Fontehttp://www.internazionale.it/opinioni/gwynne-dyer/2014/10/17/il-tempo-e-dalla-parte-della-palestina/

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7 cose da considerare prima di schierarsi nel conflitto israelo-palestinese13/08/2014 15:46 CEST Aggiornato: 13/10/2014 11:12 CEST

Ali A. Rizvi Pakistani-Canadian writer, physician and musician

Sei filo-israeliano o filo-palestinese? Sono già stato accusato di essere entrambe le cose. Questi termini mi affascinano perché si riferiscono direttamente alla natura ostinatamente tribale del conflitto israelo-palestinese. Non ci si riferisce universalmente in questa maniera a molti altri paesi. Perché questi due? Sia gli Israeliani che i Palestinesi sono complessi, con storie e culture diverse, e due religioni incredibilmente simili (anche se controverse). Schierarsi totalmente da una parte piuttosto che da un'altra non mi sembra sia del tutto razionale.Si dice che la maggior parte dei musulmani nel mondo supportano i Palestinesi, mentre la maggior parte degli Ebrei supporta Israele. Questo è naturale - ma è anche problematico. Significa che non c'è qualcuno che ha torto o che ha ragione quanto piuttosto una tribù o nazione alla quale essere fedele. Significa che quelli che supportano i Palestinesi sarebbero supporter altrettanto ardenti di Israele se fossero nati a Israele o da famiglie ebree, e vice versa. Significa che i principi guida per la maggior parte delle persone su questo conflitto sono in gran parte dati dalla nascita - e che in qualunque modo noi intellettualizziamo ed analizziamo i componenti della faccenda mediorientale, quella rimarrà fondamentalmente un conflitto tribale.Per definizione, i conflitti tribali prosperano e sopravvivono quando le personesi schierano. Scegliere una parte in questo genere di conflitti alimenta e aggrava la polarizzazione. E peggio di tutto, ci si sporca le mani. Quindi primadi scegliere da che parte stare nell'ultimo conflitto israelo-palestinese, considerate queste 7 domande:

1. Perché tutto diventa più difficile quando c'entrano gli Ebrei?Più di 1000 persone sono morte a Gaza. Le polemiche dei musulmani si sono sollevate in tutto il mondo. Ma è davvero a causa dei numeri? Bashar al-Assad ha ucciso più di 180mila Siriani, principalmente musulmani, in due anni - più del numero degli uccisi in Palestina in due decadi. Migliaia di musulmani in Iraq e in Siria sono stati uccisi dall'ISIS negli ultimi due mesi. Decine di migliaia sono stati uccisi dai Talebani. Mezzo milione di musulmani di colore sono stati uccisi dai Musulmani Arabi in Sudan. La lista va avanti.Ma è Gaza a fare parlare i Musulmani in tutto il mondo, sia sunniti che shiiti, in maniera diversa da tutte le altre. Il conteggio giornaliero dei morti e le orribili fotografie dei cadaveri di bambini a Gaza scorrono sui social tutti i giorni, senza fine. Se fosse solo una questione di numeri, non si darebbe la precedenza ad altri numeri? Qual è il punto allora? Se io fossi Assad o l'ISIS, penserei "Grazie a Dio non sono ebreo".Sorprendentemente, molte delle immagini di bambini morti attribuite ai

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bombardamenti israeliani che circolano online vengono in realtà dalla Siria, come evidenziato da un report della BBC.1 Molte di quelle foto che vedete sono di bambini uccisi da Assad, supportato dall'Iran, che sostiene anche Hezbollah e Hamas. Cosa può esserci di peggio che attribuire ai tuoi nemici delle foto di innocenti bambini morti uccisi in realtà dai tuoi stessi alleati, semplicemente perché non eri abbastanza attento quando "i tuoi" stavano uccidendo "i tuoi"? Questo non scusa in alcun modo l'avventatezza, la negligenza, e talvolta la totale crudeltà delle forze israeliane. Ma sottolinea chiaramente la probabilità che l'opposizione del mondo musulmano a Israele non sia solo una questione di numeri.Ecco una domanda per quelli che sono cresciuti in Medio Oriente e in altri paesi a maggioranza musulmana, come me: se Israele si allontanasse dai territori occupati domani, tutto d'un colpo - e tornasse ai confini del 1967 - e desse ai Palestinesi la parte est di Gerusalemme - pensate onestamente che Hamas non troverebbe qualcos'altro a cui aggrapparsi? Pensate onestamente che non abbia nulla a che vedere con il fatto che sono Ebrei? Vi ricordate quel che guardavate e sentivate sulla tv pubblica crescendo in Palestina, Arabia Saudita, Egitto? Sì, c'è un'occupazione ingiusta e illegale laggiù, e sì, c'è un disastro umanitario. Ma è anche vero che una buona parte è motivata dall'anti-semitismo. Chiunque abbia vissuto nel mondo arabo/musulmano per più di qualche anno lo sa. Non c'è sempre una colpa chiara, di uno o dell'altro,in queste situazioni, come vogliono fare credere i vostri Chomsky e Greenwald. È di entrambe le parti.

2. Perché tutti continuano a dire che non si tratta di un conflitto religioso?Ci sono tre miti pervasivi che circolano ampiamente sulle radici del conflitto mediorientale:

Mito #1: il Giudaismo non ha nulla a che fare con il Sionismo.Mito #2: l'Islam non ha nulla a che fare con il jihadismo o con l'anti-semitismo.Mito #3: questo conflitto non ha nulla a che fare con la religione.

Alla folla del "io mi oppongo al Sionismo, non al Giudaismo!", chiedo: è una mera coincidenza che questo passaggio dal Vecchio Testamento (enfasi aggiunta) descriva così accuratamente quel che sta succedendo oggi?

"Stabilirò i vostri confini dal Mar Rosso al Mar Mediterraneo, e dal deserto al fiume Eufrate. Vi darò in mano il popolo che vive in quel territorio, e lo caccerete fuori. Non fate patti con loro o con i loro dei." - Exodus 23:31-32O quest'altro:

"Vedete, vi ho dato questa terra. Andate e prendete possesso della terra che

1 https://www.youtube.com/watch?v=XnO4gy8dQIc&feature=youtu.be

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Dio promise che avrebbe dato ai vostri padri - ad Abramo, Isacco e Giacobbe - e ai loro discendenti dopo di loro". - Deuteronomio 1:8E ancora: Genesi 15:18-21, e il Numero 34 per ulteriori dettagli sui confini. Il sionismo non è la politicizzazione o la distorsione del Giudaismo. È la sua rinascita.

E a quelli che dicono "Non si tratta dell'Islam, si tratta di politica!", questo verso del Corano è senza significato?

"Oh voi che avete creduto, non considerate gli Ebrei e i Cristiani come vostri alleati. In realtà sono alleati l'uno dell'altro. E chiunque tra voi sia loro alleato - allora è uno di loro. Ma Allah non guida le persone che sbagliano." - Corano, 5:51Cosa dire dei numerosi versi e hadith citati nella carte di Hamas? E il famoso hadith dell'albero di Gharqad, che ordina esplicitamente ai Musulmani di uccidere gli Ebrei?

Per favore ditemi - alla luce di questi passaggi scritti secoli e millenni prima della creazione di Israele o dell'occupazione - come si può non pensare che c'èla religione alla base di tutto questo, o che almeno è un fattore determinante nel conflitto? Potrete anche roteare gli occhi davanti a questi versi, ma sono stati presi molto seriamente da molti di quelli attivi nel conflitto, da entrambe le parti. Non dovrebbero essere riconosciuti? Quand'è l'ultima volta che avete sentito un'argomentazione buona, razionale e laica che supportasse l'espansione dell'insediamento nella Striscia di Gaza? Rinnegare il ruolo della religione sembra essere un modo di poter criticare le politiche rimanendo apologeticamente rispettosi delle credenze dei popoli per paura di offenderli. Ma quest'apologia e questo rispetto per delle idee disumane valgono la morte di migliaia di esseri umani?Le persone hanno tutti i tipi di credenze - dall'insistere che la Terra è piatta al rinnegare l'Olocausto. Potete anche rispettare il loro diritto di mantenere queste credenze, ma non siete obbligati a rispettare le credenze in se stesse. È il 2014, e le religioni non devono essere rispettate più di qualsiasi altra idea politica o pensiero filosofico. Gli esseri umani hanno dei diritti. Le idee, no. La spesso citata dicotomia politica e religiosa nelle fedi semitiche è falsa e fuorviante. Tutte le religioni semitiche sono inerentemente politiche.

3. Perché Israele dovrebbe volere deliberatamente uccidere dei civili?Questa è la questione che innervosisce tutti, e giustamente. Ancora, non c'è giustificazione per l'uccisione degli innocenti a Gaza. E non ci sono scuse per la negligenza di Israele in incidenti come l'uccisione dei quattro bambini sulla spiaggia di Gaza.2 Ma torniamo indietro e pensiamoci su qualche minuto. Perché mai Israele dovrebbe volere deliberatamente uccidere dei civili?

2 http://www.huffingtonpost.it/2014/07/21/4-bambini-palestinesi-uccisi-foto-amir-schiby_n_5605667.html

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Quando muoiono dei civili, Israele appare come un mostro. Richiama le ire persino dei suoi più stretti alleati. Immagini orribili di innocenti feriti o morti riempiono i media. Proteste crescenti anti-Israele vengono organizzate dappertutto dalla Norvegia a New York. E il numero relativamente basso di vittime a Israele (ci arriveremo in un attimo) richiama ripetutamente accuse perché "sproporzionate". Più importante ancora, le morti di civili aiutano Hamas immensamente. Come potrebbe mai essere nell'interesse di Israele? Se Israele voleva ucciderei civili, è pessimo nel farlo. L'ISIS ha ucciso più civili in due giorni (700 in più) di Israele in due settimane. Immaginate cosa succederebbe se l'ISIS o Hamas avessero le armi, l'esercito, l'aviazione, il supporto statunitense e l'arsenale nucleare di Israele. I loro nemici sarebbero stati annichiliti molto tempo fa. SeIsraele volesse veramente distruggere Gaza, potrebbe farlo in un giorno, dall'alto. Perché allora portare avanti un'incursione da terra più dolorosa e costosa, rischiando la vita dei suoi soldati?

4. Davvero Hamas usa i suoi stessi civili come scudi umani?Chiedete al presidente palestinese Mahmoud Abbas cosa ne pensa delle tattiche di Hamas. "Cosa stai cercando di ottenere lanciando missili?" chiede3, "Non mi piace commerciare il sangue palestinese". Non è solo una speculazione ormai dire che Hamas mette i suoi cittadini in prima linea. Il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri ha ammesso esplicitamente alla tv nazionale di Gaza che la strategia degli scudi umani si è rivelata "molto efficace". L'UNRWA, l'organizzazione ONU di soccorso, ha fortemente condannato Hamas dopo avere scoperto dei razzi nascosti non in una, ma in due scuole infantili a Gaza4.Hamas lancia migliaia di razzi contro Israele, raramente uccidendo dei civili o causando dei seri danni. Li lancia da aree densamente popolare, inclusi ospedali e scuole. Perché lanciare dei missili senza creare alcun vero danno all'altra parte, richiamando grandi danni al tuo stesso popolo, e poi mettendo icivili in prima linea quando arriva il contrattacco? Anche quando l'IDF avvertei civili di evacuare le loro case prima di un attacco, perché Hamas gli dice di rimanere fermi?

Perché Hamas sa che la sua causa è aiutata solo quando gli abitanti di Gaza muoiono. Se c'è una cosa che aiuta Hamas - una cosa che gli dà qualsiasi legittimità - sono i civili morti. Razzi nelle scuole. Hamas sfrutta la morte dei suoi bambini per guadagnarsi il supporto del mondo. Li usa come un'arma. Non deve piacervi quel che sta facendo Israele per sconfiggere Hamas. Verosimilmente, Israele e Fatah sono moralmente equivalenti. Entrambi hannodella ragione dalla loro parte. Hamas, da parte sua, non ne ha neanche un briciolo.

3 http://www.slate.com/articles/news_and_politics/frame_game/2014/07/hamas_is_destroying_gaza_the_palestinian_militant_organization_is_sacrificing.html

4 http://www.unrwa.org/newsroom/press-releases/unrwa-condemns-placement-rockets-second-time-one-its-schools

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5. Perché le persone chiedono ad Israele di interrompere l'occupazione di Gaza?Perché hanno una memoria breve. Nel 2005, Israele aveva interrotto l'occupazione di Gaza. Ha portato fuori fino all'ultimo soldato israeliano, ha smantellato ogni singolo insediamento. Molti coloni israeliani che rifiutarono di andarsene sono stati portati via di forza dalle loro case, urlanti5. Quella fu una mossa unilaterale da parte di Israele, parte di un piano di disimpegno che intendeva ridurre le frizioni tra Israeliani e Palestinesi. Non fu perfetta - Israele continuò a controllare i confini, la costa e lo spazio aereo di Gaza - ma considerando la storia della regione, fu un primo passo alquanto significativo. Dopo l'evacuazione, Israele aprì le frontiere ai confini per facilitare il commercio. Ai Palestinesi furono anche date 3000 serre6 che già da anni producevano frutta e fiori da esportare negli anni successivi. Ma Hamas scelsedi non investire nella scuola, nel commercio o nelle infrastrutture. Al contrario, costruì una rete estesa di tunnel per ospitare migliaia di migliaia di razzi e di armi, inclusi alcuni più nuovi e sofisticati provenienti dall'Iran e dalla Siria7. Tutte le serre furono distrutte.Hamas non costruì alcun rifugio anti-bomba per il suo popolo. Anzi, ne costruì alcuni per i suoi leader8 per nascondersi durante gli attacchi aerei. Ai civili non fu dato accesso a quei rifugi per esattamente la stessa ragione per cui Hamas ordina loro di stare a casa quando stanno per arrivare le bombe. A Gaza fu data una grande opportunità nel 2005, che Hamas ha sprecato trasformandola in un magazzino di armi anti-Israele invece di uno stato palestinese florido che, con il tempo, avrebbe potuto diventare un modello per il futuro di tutta la Striscia di Gaza. Se Fatah aveva bisogno di un'altra ragioneper aborrire Hamas, eccolo servito.

6. Perché ci sono così tante più perdite a Gaza che a Israele?Il motivo per cui muoiono meno civili israeliani è che li raggiungono meno razzi. È perché sono protetti meglio dal governo. Quando i razzi di Hamas si dirigono verso Israele, le sirene partono, si attiva l'Iron Dome, e i civili corrono verso i rifugi anti-bomba. Quando i missili israeliani si dirigono verso Gaza, Hamas dice ai civili di stare a casa e affrontarli. Mentre il governo israeliano dice ai civili di allontanarsi dai razzi lanciati verso di loro, il governodi Gaza impone ai civili di mettersi davanti a quelli lanciati contro le loro case.La spiegazione popolare è che Hamas è povero e non ha le risorse per proteggere il suo popolo come fa Israele. La vera ragione, però, sembra avere più a che fare con le sue priorità distorte che con le risorse mancanti (vedi #5). Ha tutto a che vedere con la volontà, non con la possibilità. Tutti quei razzi, missili, e tunnel non sono economici da costruire o acquistare. Ma sono priorità. E non è che i Palestinesi non hanno dei vicini di casa ricchi di

5 http://www.theguardian.com/world/2005/aug/17/israel46 http://www.nbcnews.com/id/9331863/ns/world_news-mideast_n_africa/t/looters-strip-gaza-

greenhouses/#.VFAExfl5NtO7 http://www.nytimes.com/interactive/2014/07/13/world/middleeast/the-growing-reach-of-hamas-rockets.html?_r=18 http://www.commentarymagazine.com/2014/07/12/why-gaza-doesnt-have-bomb-shelters-hamas-israel-terrorism/

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petrolio che possano aiutarli nel modo in cui gli Usa aiutano Israele. Il problema è che se le vittime civili a Gaza diminuiscono, Hamas perde l'unica arma che ha nella sua guerra di relazioni pubbliche incredibilmente efficace. Ènell'interesse nazionale di Israele proteggere i suoi civili e minimizzare le morti della gente di Gaza. È nell'interesse di Hamas fare esattamente l'opposto su entrambi i fronti.

7. Ma se Hamas è così cattivo, perché in questo conflitto non sono tutti filo-israeliani?Perché i difetti di Israele, anche se minori in numero, sono di entità maggiore. Molti Israeliani sembrano avere la stessa mentalità tribale della loro controparte palestinese. Celebrano il bombardamento di Gaza allo stesso modo in cui molti Arabi celebrarono l'11 settembre. Un report ONU recentemente9 ha scoperto che le forze israeliane torturavano dei bambini palestinesi e li usavano come scudi umani. Picchiano gli adolescenti10. Sono spesso incoscienti nei loro attacchi aerei. Hanno degli accademici che spiegano come lo stupro possa essere l'unica vera arma efficace contro il loro nemico11. E molti di loro festeggia spietatamente e pubblicamente la morte di innocenti bambini palestinesi.Per essere giusti, quel genere di cose accade da entrambe le parti. Sono le inevitabili conseguenze di diverse generazioni cresciute per odiarsi nel corso di più di 65 anni. Tenere Israele su uno standard più alto significherebbe guardare ai Palestinesi con il razzismo di aspettative abbassate. Tuttavia, se Israele si innalza a uno standard più alto come dice - bisogna allora fare moltodi più per dimostrare che non è ai bassi livelli dei suoi vicini. Israele si sta via via auto-conducendo verso un crescente isolamento e verso un suicidio nazionale per due motivi: 1. L'occupazione;2. L'espansione dell'insediamento.

L'espansione dell'insediamento è semplicemente incomprensibile. Nessuno capisce veramente il suo scopo. Virtualmente ogni amministrazione statunitense - da Nixon a Bush a Obama - si è inequivocabilmente espressa in maniera contraria12. Non c'è giustificazione se non nella Bibbia (vedi #2) il cherende un po' più difficile ancora considerare laiche le motivazioni di Israele.L'occupazione è più complicata. Da vecchio, Christopher Hitchens aveva ragione quando diceva13, riguardo all'occupazione israeliana del suolo palestinese:"Se Israele vuole entrare a far parte dell'alleanza contro quello che possiamo chiamare barbarie religiose, teocratiche, aggressioni teocratiche termonucleari o nucleari teocratiche, non può, dovrà prima interrompere

9 http://www.haaretz.com/news/diplomacy-defense/.premium-1.53099310 http://www.usatoday.com/story/news/nation/2014/07/07/beaten-palestinian-teen-family-speaks/12281665/11 http://www.ibtimes.co.uk/israeli-professor-rape-hamas-militiants-mothers-sisters-deter-terrorist-attacks-145783612 http://www.cmep.org/content/us-statements-israeli-settlements_short 13 http://www.theatlantic.com/daily-dish/archive/2010/07/hitch-on-israel/184524/

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l'occupazione. È evidente. Potete farne una questione di stile europeo, da stato occidentale, ma Israele non può governare altri popoli contro la loro volontà. Non può continuare a rubare la loro terra nel modo in cui fa ogni giorno. Ed è incredibilmente irresponsabile da parte degli Israeliani, conoscendo la posizione degli Stati Uniti e dei suoi alleati nel mondo, continuare a credere fermamente in questa posizione incosciente. E temo di sapere troppo sulla storia del conflitto per pensare a Israele come una piccola isoletta circondata da un mare di lupi affamati. Voglio dire, ne so abbastanza di come è stato fondato quello stato, e della quantità di violenza ed espropriazioni che sono state necessarie. E sono prigioniero di quella consapevolezza. Non posso smettere di saperlo".Come si è visto con Gaza nel 2005, è più semplice parlare del ritiro unilateraleche metterlo effettivamente in pratica. Ma se Israele non si impegna di più perla soluzione di un doppio stato (forse un triplo stato, causa Hamas), allora dovrà fare la brutta scelta tra l'essere uno stato a maggioranza ebrea o una democrazia. È ancora troppo presto per chiamare Israele "uno stato apartheid", ma quando John Kerry ha detto che Israele sarebbe potuto finire così nel futuro14, non ci aveva visto del tutto male. È semplice matematica. C'èun numero limitato di modi in cui uno stato ebraico bi-nazionale con una popolazione a maggioranza non ebrea può mantenere un'identità ebrea. E nessuno di quei modi è felice.Facciamocene una ragione, quella terra appartiene ad entrambi ormai. Israeleè stato creato in Palestina per gli Ebrei dagli Inglesi negli anni '40 proprio come la mia patria, il Pakistan, è stata creata in India per i Musulmani all'incirca nello stesso periodo. Il processo è stato doloroso, ed ha portato allo sfollamento di milioni di persone in entrambi i casi. Ma sono passati quasi 70 anni. Ora ci sono almeno due o tre generazioni di Israeliani che sono nate e cresciute in quel paese, per le quali è veramente una casa, e che spesso sono ritenute responsabili e fatte pagare per delle atrocità per le quali non hanno alcuna responsabilità. Sono programmate per opporsi "all'altro" proprio come i bambini palestinesi. In fondo, questo è un conflitto religioso tribale che non sarà mai risolto finché le persone non smetteranno di schierarsi da una delle due parti.

Quindi, in realtà, non dovete scegliere tra essere filo-israeliani e filo-palestinesi. Se state dalla parte della laicità, della democrazia e della soluzione con due stati - e se siete contro Hamas, contro l'espansione degli insediamenti e contro l'occupazione - potete essere entrambe le cose. Se continueranno a chiedervi di scegliere da che parte stare dopo tutto questo, ditegli che state dalla parte dell'hummus.

14 http://www.washingtonpost.com/blogs/right-turn/wp/2014/05/19/explaining-john-kerrys-apartheid-slur/

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Da “IL BUIO OLTRE GAZA” in LIMES (09/2014) - “Israele e Palestina, l’unica pace possibile” di Giovanni Fontana

- “L’insostenibile leggerezza dello status quo” di Mattia Toaldo

- “Per Israele Hamas è il male minore” di Umberto De Giovannelli

o Intervista a Marzuk “Israele dovrà uccidere tutti i palestinesi se vuole eliminare Hamas”

o Intervista a Steinitz “E’ Hamas a tenere in ostaggio il suo popolo”

ISRAELE E PALESTINA L’UNICA PACE POSSIBILENell’attuale fase di cupo pessimismo, l’analisi dei dati di realtà ci ricorda chela soluzione dei due Stati non ha alternative. I termini concreti dell’accordo. Idettagli territoriali ed etnici. Le opposte ragioni che spingono israeliani epalestinesi a non concluderlo. di Giovanni FONTANAShimon Peres disse una volta che «non è vero che non c’è luce in fondo altunnel in Medio Oriente. Tutt’altro, la luce c’è. Il problema è che non c’è iltunnel». È una considerazione amara che torna in mente a ogni ripetersi dibrutte notizie da Israele e Palestina, come quelle delle ultime settimane in cui,ironia della sorte, Israele ha indicato nella distruzione dei tunnel di Ḥamās ilfine della propria operazione di terra. È però bene ricordare che il conflitto,a minore o maggiore intensità, non si è mai interrotto: durante i treeventi bellici degli ultimi anni abbiamo assistito a un notevoleincremento dell’intensità degli scontri, ma i razzi di Ḥamās e di altrigruppi palestinesi hanno sempre continuato a piovere su Israele, cheha sempre continuato le proprie incursioni nei Territori occupati,anche nei momenti di supposta tregua. È questa percezione diintangibilità del conflitto, di fatalità indipendente dagli sforzi del mondo, cheporta a cercare soluzioni alternative, a pensare che prima ancora dipercorrerlo, bisogna trovare il tunnel buono.Ma la verità è che una soluzione alternativa non c’è, perché di vie praticabiliper la pace ne esiste soltanto una. In questo senso, Peres sbaglia: il tunnelc’è, ma bisogna convincere israeliani e palestinesi a imboccarlo. Infatti, qualisaranno le condizioni della pace fra israeliani e palestinesi è noto da anni,forse ormai da decenni. Su questa formula si sono articolate tutte lediverse trattative di pace, da Madrid a Oslo, da Camp David a Ṭābā,dalla road map all’accordo di Ginevra. Due Stati. Lo Stato palestineseformato sul 95% dei Territori occupati; giurisdizione su GerusalemmeEst e metà della Città Vecchia (inclusa la Spianata delle Moschee);rientro di una quota simbolica di profughi ancora viventi in Israele ediritto all’immigrazione in Palestina per tutti gli altri.Sappiamo come sarà questa pace non perché sia la soluzione miglioreo la più facile da ottenere, ma perché è l’unica. È importante farequesta considerazione perché per arrivare a una pace in Medio Orienteè necessario astrarsi dal piano della giustizia e porsi su quello dellapossibilità. In un conflitto che, secondo una caustica battuta, «coinvolgetroppa storia e troppa poca geografia», caricarsi dell’inestricabile matassadelle rivendicazioni delle due parti – ciò che ha sempre alimentato questo

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eterno conflitto – significa condannarsi a ripetere gli errori del passato. Ilpragmatismo che anima queste considerazioni, perciò, non tratta di qualesia la pace giusta, ma di quale sia la pace possibile. D’altra parte,affermare che una soluzione è l’unica percorribile non vuol dire che essa saràpercorsa, né tantomeno che verrà percorsa a breve. La conclusione di questoragionamento è che la pace non va trovata, va accettata e fatta accettare.

La premessa: la pace cinica

Purtroppo, conoscere l’obiettivo a cui tendere non è che una piccolissimaparte della soluzione, per una ragione evidente: convincere israeliani epalestinesi a trattare seriamente per arrivare a un accordo èterribilmente difficile. Non soltanto perché si tratta di un conflittogonfio di integralismi, spesso religiosi, e povero di pragmatismi; maperché la storia ha insegnato alle due parti in gioco che il cinismopaga, che sono le dimostrazioni di forza e non le mani tese a portareavanti la propria causa. L’esempio più significativo è l’Egitto, per molti anniil principale nemico israeliano nella regione, a capo di ogni evento bellico fraarabi e israeliani fino alla pace firmata nel 1979. Ci sono volute quattro guerreperse (1948, 1956, 1967 e 1973) perché gli egiziani si arrendesseroall’evidenza che Israele non sarebbe stato spazzato via. Ma è stata la guerradel 1973, la prima in cui l’Egitto era riuscito a conquistare del territorio, aconvincere Israele che gli egiziani non avrebbero perso per sempre.Sei anni più tardi due uomini politici con reputazione e credito da spendere diuomini duri firmarono la pace fra Egitto e Israele. Il primo era Anwar al-Sādāt e fu il primo capo di Stato arabo a riconoscere Israele. Era ilgenerale che aveva guidato l’attacco del 1973, noto proprio per questo come«Baṭal al-‘Ubūr», l’«Eroe dell’attraversamento» (del Canale di Suez). Ilsecondo era Menachem Begin, ex capo dell’Irgun, gruppo paramilitare ebraiconella Palestina mandataria, oltre che primo premier di destra nella storiad’Israele. Begin rinunciò all’intero Sinai (penisola grande il triplo d’Israele) equindi alla lingua di terra fino a Šarm al-Šayḫ che Golda Meir, intervistata daOriana Fallaci pochi anni prima, aveva definito irrinunciabile. In inglese c’èuna metafora politica, «Nixon goes to China», che descrive come uominipolitici con una solida reputazione d’inflessibilità – nella metafora il viaggiodell’anticomunista Nixon nella Cina di Mao – abbiano più possibilità di operaresegni di distensione senza correre il rischio di essere accusati di complicitàcon il nemico. Vale naturalmente anche l’inverso: mostrarsi aperti alletrattative significa investire la propria credibilità in un’operazione ben piùrischiosa rispetto allo scegliere il populismo e l’intransigenza.Questa dinamica cinica, presente da sempre nel conflitto arabo-israeliano, si è perfettamente replicata in quello israelo-palestinese: fula Prima Intifada, alla fine degli anni Ottanta, a catalizzare la disposizioneisraeliana alla trattativa sulla Cisgiordania, culminata nella conferenza diMadrid (1991) e poi negli accordi di Oslo (1993-95). Queste concessioniterritoriali – intese soltanto come un primo passo, ma da vent’annicristallizzatesi nell’attuale scenario geopolitico-militare – avevano comecontraltare il riconoscimento di Israele e la fine del terrorismo. È per questoche con la costruzione del Muro e la virtuale fine del terrorismo (le statistichesono emblematiche: negli ultimi sette anni una sola persona è morta a causadi attentati suicidi palestinesi, nei sette anni precedenti i morti erano stati617), l’Autorità nazionale palestinese ha perso potere contrattuale. Per la

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stessa ragione, Israele è tornato a essere disinteressato al riconoscimentodella Palestina e quindi alle trattative di pace, in quella che è la storia degliultimi dieci anni, mentre i dirigenti dell’Anp – senza la possibilità dipubblicizzare troppo la propria disposizione, per non inimicarsi l’opinionepubblica – cercano di trovare un accordo. Allo stesso modo, il ritiro israelianoda Gaza del 2005, con lo smantellamento di tutte le colonie nella Striscia, erastato celebrato da Ḥamās e Fatḥ con canti, roghi e spari quale dimostrazionedell’efficacia della resistenza palestinese.Non bisogna ragionare nei termini di una convenzionale trattativa di pace,perché i segni di distensione vengono interpretati come segni di debolezza. Ilmomento in cui un interlocutore è costretto a tendere la mano è quello in cuil’altro ha il potere di ritrarla. Ogni trattativa parte dai cosiddetti «facts on theground»: il riconoscimento che, allo stato attuale delle cose, ci sono alcunidati di fatto demografici e geopolitici ineludibili. È l’obiettivo delle colonieisraeliane, specie a Gerusalemme: presentare in sede di trattativa questi «fattisul terreno» come dati di realtà. Al tempo stesso, però, lo scetticismo deveessere temperato da un’altra considerazione: molte concessioni, inevitabiliagli occhi di tutti, non vengono ammesse dalle due parti perché anche larinuncia a una rivendicazione è un’arma contrattuale; dichiarare accettabileuna concessione significa privarla automaticamente di valore contrattuale.

L’alternativa: lo Stato unico

Negli ultimi anni, specie nei circoli intellettuali israeliani epalestinesi, si è venuta affermando l’alternativa di uno Stato unicobinazionale. La proposta non è nuova: la Carta istitutiva dell’Olp del 1964afferma che la Palestina è «un’unità territoriale indivisibile», e l’ipotesiriguadagna credito a ogni fallimento dell’opzione bistatale. È vero che tutti itentativi, naufragati, di arrivare alla pace sono stati fatti sulla base dei «duepopoli due Stati», ma è vero anche che tutte le trattative si sono svolte suquella base per la motivata consapevolezza dell’inconsistenza dellealternative. Lo Stato unico non può funzionare per una sempliceragione: Israele non l’accetterà mai, come ogni sondaggio dimostra. Inquest’ultimo decennio di disincanto, il tasso di natalità è spesso descritto daipalestinesi come la loro unica arma rimasta, ed è al tempo stesso l’autenticaossessione israeliana. Nel penultimo romanzo di David Grossman, l’arabo-israeliano Sami si riferisce ironicamente ai cinque figli come «cinque problemidemografici».Ciò che conta non è l’effettiva curva demografica, ma la percezione degliisraeliani, che hanno gioco facile nel mostrare come la soluzione dello Statounico sia quella sostenuta da Ḥamās e dagli altri gruppi integralisti. Ilproblema della garanzia dei diritti personali e civili all’interno di uno Statoche soltanto nelle intenzioni di pochi potrebbe essere davvero secolare, èreale e significativo, ma non affronta la questione dirimente, cioè l’equivocosul quale è fondato Israele. Israele ha sempre vissuto, senza mairisolvere, il dilemma fra essere uno Stato ebraico e uno Statodemocratico, e il retorico ricorso al paragone con i ben più autoritari governidell’area ha sempre permesso di evadere il problema. Israele è costruitosull’idea di essere uno Stato nazionale ebraico, sul modello degli Statinazionali europei: privarlo della componente nazionale significherebbeprivarlo della propria ragione d’essere. Anche questa, naturalmente, è unaconsiderazione realistica e non etica: lo Stato unico è il tentativo di fare

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un accordo fra due parti senza una parte.Negli ultimi anni, poi, si è discusso di alcuni studi demografici che mettendoassieme il calo del tasso di natalità nel mondo arabo all’altissimo tasso dinatalità delle comunità ultra-ortodosse (haredi) suggerirebbero un’inversionedi tendenza a favore degli ebrei. Sarebbe su questi dati che si basa la destraisraeliana nel perpetuare la situazione attuale di occupazione militare fino almomento, in un futuro piuttosto lontano, in cui sia possibile annettere iTerritori. Ciò presenta tre problemi: prima di tutto i dati non sono moltoconvincenti, ed escludono il tasso di natalità a Gaza. Il secondo è che affidarsial tasso di natalità degli ultrareligiosi costituirebbe un problema non soltantopolitico (gli ultraortodossi rappresentano già il 15% dell’elettorato), ma ancheeconomico (la maggior parte dei maschi adulti è fuori della forza lavoro, e vivedei sussidi dello Stato d’Israele). Il terzo problema è, semplicemente, chequesta prospettiva sarebbe quella di un’annessione, non quella di uno Statobinazionale: in altre parole, nel momento – molto lontano e molto inverosimile– in cui gli israeliani si sentissero sicuri di essere una netta maggioranza,sarebbero i palestinesi che oggi puntano sulla carta demografica a nonaccettare la soluzione.In realtà, è almeno dalla Seconda Intifada che anche i più accesi sostenitoridel «Grande Israele» hanno rinunciato all’annessione delle zone più popolatedella Giudea e della Samaria: a Rāmallāh, Janīn o Nāblus vivono troppi arabi,che costituirebbero una minaccia alla maggioranza ebraica dello Stato. Perquesto tutti, perfino la destra più estrema, riconoscono la necessità di unaconcessione territoriale ai palestinesi. Di qui la proposta di AvigdorLieberman, attuale ministro degli Esteri e capo di Israel beiteinu, partitodichiaratamente antiarabo, di trasferire all’Anp le zone più popolate – aschiacciante maggioranza araba – del «triangolo» di Samaria, in cambio degliinsediamenti ebraici in Cisgiordania. In sostanza, la massima aspirazione degliisraeliani meno interessati alla pace è la dilazione indefinita dello status quo,ciò che infatti hanno dimostrato di volere gli ultimi governi israeliani. Speciecon Netanyahu è stata adottata una politica che cerca di garantire la relativaprosperità economica ai palestinesi della Cisgiordania, anche qui inopposizione a quelli di Gaza, sperando che questo sia sufficiente a far lorodimenticare le rivendicazioni d’indipendenza.Il paradosso è che lo status quo assomiglia a uno Stato unico binazionale. LaPalestina è uno Stato all’interno dello Stato, privo di un esercito edell’amministrazione civile su molti dei propri territori. Lo status degli arabi èancora più frammentato: ci sono gli arabi israeliani, ossia cittadini israeliani atutti gli effetti che lottano per avere il pieno riconoscimento all’internod’Israele; i gerosolomitani, palestinesi che vivono in Israele e lottano per nonperdere il diritto alla loro residenza; i palestinesi della Cisgiordania, chelottano per la propria libertà di movimento; e i palestinesi di Gaza, che hannomolto poco per cui lottare, ma continuano a pagare in shekel e a dipendere daIsraele per i rifornimenti di elettricità e carburante. Questa politica didivisione è la risposta israeliana, ovviamente agevolata dallo scontro Fatḥ-Ḥamās, alla questione demografica: più sono le divisioni, meno coesa è la basenumerica con cui confrontarsi.

La pace possibile

Le questioni cardinali dell’unico possibile accordo di pace sono tre: laCisgiordania, Gerusalemme e i profughi. Le altre questioni, come quella

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delle risorse idriche, non sono in assoluto di minore importanza ma sono menovissute dalle due opinioni pubbliche, ciò che le rende meno sensibili. L’unicovero altro tema in campo, incluso infatti nei cosiddetti «Clinton parameters»,è quello della sicurezza. Tuttavia, la sproporzione di forze è tale che i confinidi un accordo sono quelli di cui si è sempre discusso: la Palestina sarà unoStato smilitarizzato, ma padrone del proprio spazio aereo civile. Le esigenzedifensive di Israele saranno garantite da linee guida d’intervento d’emergenzasotto la supervisione della comunità internazionale. I palestinesi erediterannotutte le infrastrutture costruite dagli israeliani in Cisgiordania e questesaranno considerate nel determinare l’indennizzo per le famiglie dei profughi.Il conflitto israelo-palestinese è prima di tutto un conflitto sulla terra,ed è la sovranità sul territorio il punto centrale di ogni possibileaccordo di pace. È una spartizione laboriosa e dettagliatissima, perchétrattandosi di un territorio molto piccolo si discute dei singolichilometri quadrati: l’intero territorio palestinese (Cisgiordania, Gaza eparte del Mar Morto) è meno esteso della provincia di Cosenza, e quello di cuisi contendono le sorti finali è un decimo della Cisgiordania. La base di ognitrattativa sono sempre stati i cosiddetti «Territori del 1967», che sono inrealtà quelli che ricalcano le linee d’armistizio del 1949 (anche dette «LineaVerde» e «Linea Rossa», dai colori delle matite con cui i generali dei dueeserciti Dayan e al-Tall segnarono le rispettive posizioni acquisite aGerusalemme). Come capita spesso nel conflitto arabo-israeliano, quello chedoveva essere un passaggio transitorio si è fossilizzato nella più statica dellebasi negoziali. Gaza non è in discussione, dato che gli insediamentiisraeliani sono stati smantellati, ed è semmai una questione interna alfronte palestinese. Ciò di cui si discute è quanta parte dellaCisgiordania (più precisamente, dell’Area C degli accordi di Oslo) verràtrasferita sotto la giurisdizione del nuovo Stato palestinese.Sul campo la situazione è molto simile a dieci anni fa: la strategia israeliana dirosicchiamento dei confini attraverso la popolazione di aree della Cisgiordaniaè sempre andata avanti, ma è – per sua natura – relativamente lenta. Inoltre,subisce rallentamenti dovuti all’inopportunità politica di autorizzareoperazioni che la comunità internazionale definisce a tutti gli effetti illegali.Dal punto di vista politico, però, con il disastro della Seconda Intifada ipalestinesi hanno perso molto potere contrattuale, e l’unica mappa possibileassomiglierà molto alla proposta finale israeliana al vertice di Ṭābā del 2001,la più sostanziosa offerta mai fatta da Israele, più consistente della proposta diClinton a Camp David 2000. Anche qui bisogna essere realisti: più una coloniaè adiacente alla Linea Verde e più è popolosa, meno sono le possibilità che ilterritorio rimanga allo Stato palestinese. È il caso di molti insediamenti al diqua del Muro, come Modi’in Illit, Beitar Illit o Giv’at Ze’ev. Più problematico ilcaso di colonie come Gush Etzion e soprattutto di Ariel, che si collocanolargamente all’interno del territorio palestinese. Gli israeliani, diversamenteda Camp David, dovranno rinunciare alle colonie più lontane dal confine cheallungherebbero lingue di terra israeliane fino a frammentare lo Statopalestinese: Beit El e Kokhav Ya’akov nei pressi di Rāmallāh, Qiryat Arba aHebron, Mitspe Gerico e Verad Gerico a ovest di Gerico, Shilo a sud di Nāblus.È inevitabile che molti di quei coloni, se non vorranno trasferirsi in Israele,costituiranno una piccola minoranza ebraica nello Stato palestinese. Neinumeri, i palestinesi otterranno il 100% di Gaza, il 95% della Cisgiordania, eun piccolo indennizzo territoriale israeliano, pari al 2-3% dei Territori, nella

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zona a sud-ovest di Hebron.Nell’area di Gerusalemme il problema più grosso è certamente Ma’aleAdumim, che gli israeliani vorrebbero inglobare assieme agli altriinsediamenti della zona, come Pisgat Ze’ev, Ramot e Gilo, dichiaratiunilateralmente parte della municipalità di Gerusalemme. Il problema diMa’ale Adumim è che si tratta di una colonia di 40 mila persone che restringeancora di più lo spazio a est, quasi dimezzando a poco più di 10 km il corridoiofra il Nord e il Sud della Palestina. La questione della continuitàterritoriale è controversa e difficilmente definibile in maniera univoca;tuttavia, per trovare un compromesso che tenga conto dell’etnia degliabitanti, è inevitabile che il nuovo confine sia pieno di arzigogoli,strisce di terra e passanti. Sarà necessario costruire un passantepalestinese fra Gaza e il Sud-Ovest della Cisgiordania e ci sarà unastriscia di terra a collegare Ariel a Israele. È allo stesso modo da rilevareche il tratto di autostrada da Gerusalemme a Ma’ale Adumim, che evita learee a maggiore densità araba, assomiglia a un passante. Un altro,perpendicolare, potrebbe collegare Abū Dīs e Betania/al-‘Azariyya da unaparte, ‘Anāta e Šu‘afāṭ dall’altra, in modo da creare un nuovo passaggio fra ilNord e il Sud della Palestina e un migliore collegamento con GerusalemmeEst.Israele dovrà cedere sulla spartizione di Gerusalemme, quella che oggiappare come la concessione più difficile: non c’è alcuna possibilità che ipalestinesi accettino uno Stato senza Gerusalemme come capitale. La parteEst sarà rinominata al-Quds, «La Santa», formalmente una città diversa dallaparte Ovest, Yerushalayim, capitale israeliana, che sarà riconosciuta tale dallacomunità internazionale (diversamente da oggi). La Città Vecchia sarà divisain due, dal punto di vista della giurisdizione civile: quartieri ebraico e armenoa Israele, quartieri cristiano e musulmano alla Palestina. Il delicato tema delMonte del Tempio, dove il luogo più sacro dell’ebraismo e il terzo luogo sacrodell’islam sono quasi sovrapposti, non può che essere risolto con laspartizione: a Israele il Muro del Pianto, alla Palestina la giurisdizione sullasuperficie della Spianata delle Moschee, con ogni eventuale scavoarcheologico da decidere congiuntamente. Per quanto riguarda GerusalemmeEst, che per gran parte Israele ha unilateralmente annesso, varrà lo stessocriterio etnico: i quartieri nordorientali sulla via dei Monti Scopus e degli Ulivirimarranno israeliani. Quelli a maggioranza araba, come Abū Tawr o Silwān,andranno alla Palestina.Sull’ultimo punto, quello dei profughi, saranno i palestinesi a doverrinunciare al diritto al ritorno in Israele per tutti e 5 i milioni di eredi dei700 mila palestinesi che lasciarono il territorio israeliano all’indomani delconflitto del 1949. La storiografia del Medio Oriente ha discussolargamente quanto questo esodo fosse stato imposto dalla forzamilitare israeliana, alimentato dalla paura o incoraggiato dai proclamidi guerra dei leader arabi. Indipendentemente da quali fossero lemotivazioni, evidentemente compresenti e difficili da dirimere, è undato di fatto che riconoscere la cittadinanza israeliana a 5 milioni dipersone costituirebbe la fine della maggioranza ebraica nello Stato,condizione che Israele non accetterà. I profughi palestinesi sonosempre stati usati come arma politica da ciascuna delle parti inconflitto, aiutati dalla colpevole incapacità della comunitàinternazionale.

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Nel mondo esistono due agenzie Onu che si occupano di profughi: Unhcr, chesi occupa dei profughi di tutto il mondo; e Unrwa, che si occupa di quellipalestinesi. Già questo chiarisce l’assurdità giuridica della condizione diprofugo palestinese. Un unicum significativo è l’automatica ereditarietà dellostatus, soprattutto perché a ciò non è associato un impegno all’inserimentonelle nuove comunità. Questo è il punto più controverso: i profughipalestinesi, al contrario di qualunque altro profugo, non hanno dirittoall’accoglienza nel paese ospitante. Anzi, la Lega Araba ha datomandato ai propri Stati membri di negare loro la cittadinanza, così danon disperdere l’identità palestinese. I profughi palestinesi non sonoquindi profughi a tutti gli effetti, sono quasi dei prigionieri politici, usati dagliStati di residenza come strumento di trattativa, quando non come bomba aorologeria. La soluzione realistica sarà che Israele accetterà un ritornosimbolico di una quota equivalente ai profughi viventi (fra le 40 e le 60mila persone) e il diritto – oggi negato dalla legislazione israeliana –per tutti gli altri all’immigrazione nel nuovo Stato palestinese. Saràprevista anche una compensazione economica per coloro che hanno perso leloro abitazioni, che sarà pagata congiuntamente da Israele e dalla comunitàinternazionale.

Ancora un tunnel in fondo alla luce?

Quella sopra enunciata è la formula praticabile per arrivare alla pace. Non èuna garanzia che la pace arriverà, né una previsione che sarà siglata a breve:al contrario, la storia recente del conflitto suggerisce la previsione opposta.Questi termini sono noti a entrambe le leadership, che si conoscono, econoscono meglio di ogni altro le rivendicazioni proprie e quelle dei propriomologhi. Ciò che manca è la volontà di fare la pace. Più propriamente,manca la disponibilità ad accettare le concessioni necessarie alla pace,che nei fatti significa la stessa cosa. Quest’ultimo decennio è stato il decennio dello scetticismo, che ha seguito ildecennio della speranza (gli anni Novanta, gli unici in settant’anni senza unaguerra arabo-israeliana). Lo scetticismo di israeliani e palestinesi non è peròsimmetrico: la prospettiva adottata dagli israeliani è quella della convenienza.Gli israeliani vedono i palestinesi come coloro che «non hanno mai persoun’occasione di perdere un’occasione». Ogni rifiuto dei palestinesi alcompromesso ha portato al peggioramento delle proprie posizioni ditrattativa. Il volto negativo di questo atteggiamento è il cinismo. Al contrario,la prospettiva adottata dai palestinesi è quella della giustizia. I palestinesivedono gli israeliani come coloro che hanno usurpato una cospicua partedella loro terra, e ora ne rivendicano dell’altra. Per questo ogni considerazionedi realtà deve essere subordinata a una valutazione storica. Il volto negativo diquesto atteggiamento è l’irrazionalismo.Il lato inconfessabile di questi due approcci è che, in modi diversi, entrambele parti non ritengono conveniente una pace a questo prezzo. Questalatente convinzione è in parte motivata e in parte illusoria, ma soprattutto nontiene conto delle numerose sofferenze quotidiane che la perpetuazione di unconflitto, anche in una forma meno violenta, impone a entrambe le parti. Gliisraeliani vedono nella situazione attuale la migliore alla qualepossano aspirare. È la considerazione, cinica ma concreta, che difficilmenteIsraele potrà amministrare più territorio di quello attuale. In questo senso nonhanno bisogno di una luce in fondo al tunnel, né di un tunnel, perché la luce –

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la prospettiva più auspicabile – è quella presente, che rende meno appetibilel’opzione di un compromesso. Naturalmente questa visione non tiene conto delpeso di sottoporsi quotidianamente a gigantesche misure di sicurezza, alleenormi spese militari (economiche e umane), alla tensione imposta dallaminaccia di una guerra; e, all’inverso, della distensione dei rapporti israelianicon il mondo di cui sarebbe foriero un accordo di pace per la Palestina. Ipalestinesi vedono in qualsiasi ipotesi di accordo che comporti larinuncia a una parte della Cisgiordania, quando non della Palestinamandataria, un tradimento del proprio popolo. L’irrazionalità di questoatteggiamento – il rifiuto di un accordo che, anche nella forma piùsvantaggiosa immaginabile, migliorerebbe la condizione di vita dei palestinesi– trova la sua collocazione ideale in una prospettiva futura indefinita, a trattireligiosa. Questa mancata disposizione al compromesso, presente oggi nellagente più che nella leadership, confida in un domani lontano in cui laquestione demografica garantisca un futuro migliore del presente. In questosenso i palestinesi non hanno bisogno di una luce in fondo al tunnel, né di untunnel, perché la luce – la prospettiva più auspicabile – è collocata in unavvenire indistinto che rende meno appetibile l’opzione odierna di uncompromesso. Naturalmente anche questa visione manca di realismo, e nonsoppesa a sufficienza le sofferenze quotidiane associate alle restrizioni delmovimento, alla mancanza di una vera e propria sovranità nazionale,all’inevitabile insicurezza di vivere sotto un’occupazione militare.Questa conclusione sofferta, maturata nell’ultimo decennio didisincanto, è necessaria a spiegare il perché due parti che conoscono itermini dell’unico accordo possibile non siano disposte ai sacrificinecessari per metterlo in pratica. È questo il ruolo che deve assumerela comunità internazionale: farsi carico dell’imposizione dicompromessi che israeliani e palestinesi percepiscono, con storichema poco lungimiranti ragioni, come non convenienti. Solo la pressione diuna forza esterna può rompere la dinamica che suggerisce ai due protagonistil’intransigenza come miglior arma per tutelare i propri interessi. In questosenso, il riconoscimento da parte dell’Onu della Palestina come Statoosservatore è un fatto positivo, perché costringe la parte più forte e perciòmeno disposta a stringere un accordo – oggi quella israeliana – a confrontarsicon il proprio unilateralismo. In altre parole, bisogna persuadere due particonvinte di aver trovato la luce in fondo al tunnel che quello è il tunnelsbagliato.Nei momenti di maggiore speranza, alla fine del secolo scorso, Abba Eban –storico diplomatico e ministro israeliano – metteva in guardia dagli eccessi diottimismo, ricordando che in Medio Oriente «c’è sempre un tunnel in fondoalla luce». La speranza è che oggi, nel momento di maggiore pessimismo, ilsenso di quell’adagio possa essere ribaltato. Che questo tunnel vengafinalmente percorso.

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L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLO STATUS QUORipristinare gli equilibri è sempre più costoso per Gerusalemme e per Ḥamās.A Gaza, in Cisgiordania e nella società israeliana l’estremismo guadagnaconsensi. L’asse anti-Fratellanza tra il Cairo e Riyad mantiene caldo il frontedella Striscia.

di Mattia TOALDOLa guerra di luglio-agosto tra Ḥamās e Israele non era la prima epotrebbe non essere l’ultima. È però la prima volta che questo conflittosi è svolto all’interno di una più grande guerra regionale che siestende dalla Mesopotamia alla Libia, passando per Gaza e il Cairo. Cisono stati giorni di questa estate 2014 in cui le parole «razzo» o «esplosione»si potevano applicare indistintamente a uno qualsiasi dei paesi di quest’area.Non si tratta certo di un conflitto riconducibile a un unico paradigma: i motiviper cui si combatte a Mosul non sono gli stessi per cui si muore all’aeroportodi Tripoli. Nell’area che va da Gaza alla Tunisia, però, lo scontro è tra i regimiautoritari arabi (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto in testa) e leforze dell’islam politico legate in qualche maniera alla Fratellanza musulmanae ai governi di Turchia e Qatar. Israele condivide con il primo fronte l’obiettivodi colpire Ḥamās, che della Fratellanza è una ramificazione. La differenza, nonpoco sostanziale, è che mentre chi comanda al Cairo o a Dubai pensa asradicare i Fratelli, il primo ministro israeliano non ha come obiettivoconcreto la completa eliminazione di Ḥamās ma solo il ristabilimento periodicodella deterrenza – quello che alcuni suoi generali chiamano «tosare l’erba».Abbastanza, però, per creare un asse perlomeno implicito tra lo Stato ebraicoe alcuni tra i più grandi paesi arabi della regione. E per schiacciare ancor dipiù, se possibile, il ruolo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) come«amministratore» dello status quo, piuttosto che come Stato in nuce.Non bisogna sovrastimare il rapporto tra questione palestinese eguerra regionale. La prima non è conseguenza della seconda, anche sene è influenzata. La lotta per il dominio in Terrasanta preesiste, e dimolto, a quella tra i regimi autoritari e l’islam politico. Tuttavia,questo secondo conflitto è la lente attraverso cui più di un attoremediorientale ha guardato a ciò che accadeva tra Israele e la Strisciaquest’estate: Ḥamās sarebbe sopravvissuta o avrebbe seguito il destinodei suoi fratelli del Cairo? Lo shock esterno della guerra regionale haquindi esacerbato il conflitto israelo-palestinese, nei confronti del quale invecele medie potenze arabe si erano spesso rivelate un elemento stabilizzatoredello status quo – si badi bene, non facilitatore di un accordo di pace.

Un quadro regionale ostile

Tradizionalmente, allo status quo in Terrasanta il resto del MedioOriente forniva un sostegno fondato su due pilastri. Il primo eral’appoggio all’Olp e all’Anp in caso di negoziati, ma soprattutto nellagestione quotidiana delle crisi e nei finanziamenti di alcune attività. Ilsecondo era la promessa di riconoscimento di Israele in caso di ritirodai Territori occupati, la cosiddetta iniziativa di pace araba tanto viva nelledichiarazioni ufficiali quanto morta e sepolta nella realtà.È il secondo pilastro in particolar modo a essere diventato obsoleto in virtùdell’alleanza implicita tra lo Stato ebraico e l’asse Sa‘ūd-Emirati-Egitto.Israele non ha più bisogno di fare la pace con i palestinesi per intrattenere

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rapporti civili e «di lavoro» con alcuni grandi paesi della regione. Il primopilastro, poi, è mutato alla luce della guerra regionale: sostegno sì ad ‘Abbās,ma purché non faccia accordi con i nemici di Ḥamās. Il presidentepalestinese rimane quindi bloccato: senza un vero governo di unitànazionale non ha la forza politica per negoziare la finedell’occupazione. Per lo stesso motivo non può indire elezioni osbloccare la situazione istituzionale dell’Anp, rinnovando sia la suacarica sia il parlamento che sono scaduti da diversi anni.In virtù di questo quadro regionale e in presenza di un governo israeliano checerto non si spreca in misure di confidence-building, ad ‘Abbās rimangonosolo americani ed europei. Questi ultimi, nella recente crisi, lo hannosnobbato presentando per due volte proposte su Gaza concordate solocon gli israeliani. Prima gli E3 (Gran Bretagna, Francia e Germania) hannodiscusso solo con Netanyahu il loro piano per la gestione dei confini di Gaza,arrivando a promettere un impegno per la smilitarizzazione di Ḥamās. Inseguito, gli stessi E3 hanno lavorato a una risoluzione Onu per il-cessate-il-fuoco, nuovamente senza scomodarsi per coprire i pochi chilometri cheseparano l’ufficio di Netanyahu da quello di ‘Abbās.Il quadro regionale rende quindi l’uscita dallo status quo tanto necessariaquanto improbabile: ‘Abbās è di fatto solo mentre Israele non ha veri incentivia terminare l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania. Della fragilità einsostenibilità di questo assetto sono consapevoli sia gli americani siagli europei: variazioni del termine «insostenibile» si associano a«status quo» nelle dichiarazioni del Quartetto (Usa, Onu, Ue, Russia)così come in diverse conclusioni di vertici europei. L’illusione fino apoco tempo fa era però che, seppure insostenibile, l’attuale situazionefosse quantomeno stabile.

A che punto eravamo quando tutto è cominciato

Durante i nove mesi di negoziati condotti sotto l’egida di John Kerry, gliamericani non hanno mai sviluppato un vero piano B. Alla domanda: «Cosafate se le trattative falliscono?», sia i diplomatici che i funzionari diWashington reagivano in due maniere: strabuzzando gli occhi come lostudente che si chiede: «Ma questo c’era nel programma?». Trattando poil’autore della domanda con sufficienza, come se il problema non fosserealistico. D’altronde, si diceva: «Che vuoi mai che succeda?». In fondo, ipalestinesi non faranno la terza Intifada e gli arabi hanno ben altro a cuipensare.Nel frattempo, tra i palestinesi la vera discussione verteva su cosa fare dopo ilfallimento dei negoziati, dato per certo vista l’intransigenza israeliana. Unapiattaforma e una strategia comuni venivano indicate da molti come ilnecessario punto di partenza, essendo oramai chiaro a tutti – in Cisgiordaniacome altrove – che il prolungamento del «processo di pace» non avrebbeportato a nulla di concreto per i palestinesi. La definizione di una strategiaconcertata doveva essere il preludio alla riconciliazione nazionale, non solo traFatḥ (il partito di ‘Abbās) e Ḥamās, ma anche tra l’Olp e i settori della società edella politica palestinese di fatto esclusi o marginalizzati.Sorprendendo tutti gli osservatori esterni, i due grandi partiti bruciavano letappe e presentavano il 2 giugno un accordo per la creazione di un governo ditecnocrati sostenuto da entrambi, corredato da un programma a tappe versole elezioni presidenziali e parlamentari. Non si trattava di un vero governo di

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unità nazionale, giacché non comprendeva ministri di Ḥamās ma solo tecnicida esso sostenuti. In gran parte, i ministri erano gli stessi del precedentegoverno Ḥamdallāh, il che rendeva molto complicato per americani ed europeidecidere di non collaborare con coloro con i quali avevano lavorato fino algiorno prima. Tanto più che ‘Abbās in persona garantiva il rispetto degliaccordi internazionali precedentemente sottoscritti e il riconoscimento diIsraele.Gerusalemme non era però isolata nel suo boicottaggio del nuovogoverno Ḥamdallāh, che non poteva piacere né all’Egitto né ai suoi alleatiarabi perché rilegittimava Ḥamās. In realtà, il movimento islamico arrivavaagli inizi di giugno 2014 esangue politicamente e materialmente: perso ilsostegno di Mursī in Egitto a seguito dell’ascesa di al-Sīsī, in crisi dipopolarità tra i palestinesi, economicamente falcidiato dalla chiusura deitunnel con il Sinai che rifornivano di beni legali e illegali, nonché di mazzette,il movimento. In privato, più di un funzionario israeliano si diceva preoccupatoche l’Egitto stesse «spremendo» troppo Ḥamās.Si arrivava così al rapimento dei tre adolescenti israeliani in Cisgiordania.L’attribuzione di questo crimine alla leadership di Ḥamās è stata controversa ed’altronde gli stessi indagati dalle autorità israeliane sono membri del clanQawāsma di Hebron, sì parte di Ḥamās ma da sempre ribelle e indipendente.Quello che conta, in attesa del processo, è che il governo Netanyahu abbiacollegato il rapimento al movimento islamico, cominciando l’operazioneBrother’s Keeper che ha portato a centinaia di arresti nei ranghi di Ḥamās enon solo. Da lì si arrivava nel giro di poche settimane all’inizio dell’operazioneMargine Protettivo, durata quasi cinquanta giorni.C’è quindi un piano quasi inclinato che porta dal fallimento deinegoziati ad aprile alla guerra di Gaza, passando per il governo diriconciliazione nazionale palestinese, il rapimento dei tre adolescentiisraeliani e lo scoppio delle violenze. Fino ad allora, lo status quo avevaportato a Israele uno dei periodi con meno vittime civili della suastoria. Status quo che ora sembra difficile da ristabilire, nonostantealmeno una parte dell’establishment militare israeliano abbiainterpretato l’operazione Margine Protettivo come volta a garantirnela continuazione.

Le nuove alleanze di Israele

Nonostante il senso comune porti a pensare a Israele come a unanazione isolata dalla regione circostante, così non è e non è mai stato.Tradizionalmente, lo Stato ebraico ha avuto buoni rapporti con la Turchia,anche di tipo militare. Fino alla rivoluzione islamica, e in parte anche dopo,c’era un rapporto di lavoro con l’Iran. Oggi gli interessi comuni spingono afacilitare le relazioni con i nemici della stessa Teheran: sauditi, Emirati ArabiUniti e Consiglio di Cooperazione del Golfo. Senza dimenticare che, al di làdella contingenza, lo chargé d’affaires israeliano in Qatar tradizionalmenteaveva accesso diretto al ministro degli Esteri, un onore riservato a pochi.Già a metà aprile, il ministro degli Esteri di Gerusalemme, il falco AvigdorLieberman, aveva rivelato in un’intervista al quotidiano Yediot Ahronot cheerano in corso colloqui riservati con l’Arabia Saudita e il Kuwait perdiscutere delle minacce comuni quali il programma nucleare iraniano, iljihadismo e Ḥizbullāh. Al di là delle smentite sdegnate dei due paesi inquestione, la convergenza di interessi è innegabile. Durante la guerra di

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quest’estate, gli stessi «partner» venivano elencati da un esponente dell’alaopposta della coalizione di governo, il ministro del Tesoro Yair Lapid, comesoggetti da coinvolgere nella ricostruzione di Gaza. Nella mente di Lapid, gliamericani e gli europei avrebbero collaborato con i loro partner arabi eIsraele per realizzare contestualmente la «riabilitazione» di Gaza e lasmilitarizzazione di Ḥamās, con quest’ultima condizione imprescindibileaffinché lo Stato ebraico sostenesse la prima. Al di là dei progetti più o meno realistici dei suoi ministri, Netanyahu ha sceltochiaramente di avvalersi di questi schieramenti regionali quando haincentrato la soluzione negoziale della guerra di Gaza sull’Egitto di al-Sīsī.John Kerry e gli americani, rei d’aver voluto coinvolgere i nemici regionalidella Turchia e del Qatar, si dovevano accontentare di fare da osservatori.Proprio perché parte dell’asse regionale anti-Fratellanza, gli egiziani nonriuscivano a produrre un accordo se non al quarantanovesimo giorno diguerra – molto più tempo di quanto ne era servito a Mursī.Durante le trattative sull’accordo finale condotte da Kerry, i rapporti conl’amministrazione americana erano già guastati dalla percezione di scarsabuona volontà di Netanyahu. La guerra di Gaza e l’esclusione dellamediazione americana hanno dato la mazzata finale: proprio nelmomento critico del conflitto, la Casa Bianca ha tolto il pilotaautomatico agli approvvigionamenti militari allo Stato ebraico,stabilendo di decidere caso per caso quali e quante armi fornire aIsraele. Come se non bastasse, ormai da anni i rapporti tra Gerusalemme eMosca migliorano costantemente e il rinnovato ruolo russo in Egitto non puòche favorirli. All’esplosione della crisi ucraina, il ministero degli Esteriisraeliano era in sciopero: ecco perché le reazioni alla politica russa sono state– per usare un eufemismo – rallentate.

Sta cambiando anche Israele?

Per la prima volta dalla guerra in Libano nel 2006, questo conflitto hastravolto la vita quotidiana di quasi tutti gli israeliani, mentre di solito i razzicausavano forti disagi soprattutto nel Sud. Già prima dello scoppio delconflitto vero e proprio, il ritrovamento dei corpi dei tre ragazzi avevadato il là a episodi di violenza verbale e fisica sia contro la minoranzapalestinese in Israele (soprattutto a Gerusalemme) sia contro i «sabotatoriinterni». Tre slogan si sono sovrapposti: «Israele vuole vendetta», «morteagli arabi», «morte ai sinistrorsi». Si sono verificati casi di licenziamento odi sanzioni disciplinari per lavoratori o accademici che in alcuni casi avevanomostrato solo empatia per le sofferenze dell’altra parte.Accanto agli estremisti nelle piazze, cresce la legittimazione di certe ideeanche nell’establishment e nei media mainstream. Il centrista Times ofIsrael ha dovuto cancellare in tutta fretta l’articolo di uno dei suoi blogger cheinvocava il genocidio a Gaza. Moshe Feiglin, vicepresidente del parlamento emembro di spicco del partito di Netanyahu, ha invocato a fine luglio laconquista di Gaza e l’espulsione dei suoi residenti verso il confine con l’Egitto«fino a quando la destinazione della [loro] emigrazione non potrà esseredeterminata».Ora la battaglia delle idee dentro Israele non è più tanto tra chi vuoleun accordo con i palestinesi e chi non ci crede, ma tra quelli comeNetanyahu che difendono uno status quo fatto di colonizzazione eoccupazione della West Bank e quelli, come il ministro dell’Economia

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Naftali Bennett, che chiedono l’annessione formale di tutta laCisgiordania al momento sotto controllo israeliano, la cosiddetta «areaC» degli accordi di Oslo. Le città palestinesi delle zone A e B verrebberogentilmente offerte in dono alla Giordania. All’interno di questo secondofronte «annessionista» ci sono quelli che, come il presidente della RepubblicaReuven Rivlin, che credono che ai palestinesi debbano essere garantiti quantomeno i diritti civili, se non proprio quelli politici. Sviluppi da tenere presente,specie perché nel frattempo Netanyahu ha chiarito che anche il suo sostegno(perlopiù formale) alla soluzione dei due Stati è venuto a mancare.

Palestinesi tra vecchia e nuova politica

Anche in campo palestinese è un buon momento per gliestremisti. Ḥamās ha ora nuova legittimità. Conquistata, come spessoaccade, a spese della popolazione civile. Da non sottovalutare però laconcorrenza del gruppo della Jihād islamica, che nelle prime settimane delconflitto ha subìto più perdite, segnale di un maggiore coinvolgimento nelleoperazioni. D’altronde, già a marzo era stato quest’ultimo movimento ariprendere in grande stile il lancio di razzi verso Israele con l’operazione«Rompere il silenzio». Stando ai sondaggi interni alla Striscia, la suapopolarità è passata dall’1% del 2010 a quasi il 13% prima del conflitto nel2014. A questo ruolo nelle violenze corrisponde una non-ostilità da parteegiziana, sia da parte di al-Sīsī che del partito salafita al-Nūr, suo alleato difatto.Raramente il presidente ‘Abbās è stato così nell’angolo. La sua strategianegoziale nei mesi precedenti al conflitto ha portato solo alla liberazione dialcune decine di prigionieri, nulla in confronto al migliaio che Ḥamās negoziòcon Israele per liberare il soldato Gilad Shalit catturato nel 2006. Neanche unposto di blocco permanente è stato rimosso, mentre Ḥamās ora discute ditogliere il blocco a tutta la Striscia. Ora ‘Abbās dovrà agitare la bandiera dellalegalità internazionale, con qualche adesione agli organismi dell’Onu etenendo viva, senza mai utilizzarla davvero, l’arma della ratifica del Trattato diRoma sulla Corte penale internazionale.Nel frattempo, il vasto campo intellettuale e politico non allineato ad‘Abbās né a Ḥamās sviluppa strategie che escludono sia i partneroccidentali sia quelli arabi. Hānī al-Maṣrī, direttore di quel think tankMasārāt che ha condotto un forum per il dialogo nazionale proprio incoincidenza del fallimento dei negoziati di pace primaverili, ha scrittochiaramente che la «resistenza (anche armata) semina mentre la politicaraccoglie». In un editoriale sul quotidiano palestinese al-Ayyām ha delineatouna strategia che rifiuta i negoziati bilaterali e stabilisce invece una cartacomune della resistenza, con un impegno a favore del rispetto del dirittoumanitario internazionale e la convocazione di una conferenza internazionale.Particolari non secondari del piano sarebbero la sospensione dellacooperazione sulla sicurezza tra Anp e Israele, la non applicazione del Trattatodi Parigi, che regola i rapporti economici con lo Stato ebraico, e la ratificaimmediata del Trattato di Roma.La «terza Intifada» da lui invocata è di là da venire, ma sta di fatto che sia aluglio sia ad agosto le manifestazioni in Cisgiordania sono state tante epartecipate, mentre il numero di palestinesi arrestati durante e dopo i cortei aGerusalemme Est non era così alto dalla seconda Intifada. Le mosse concreteinvocate da al-Maṣrī, fino a ieri tutt’altro che un estremista, riflettono in realtà

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il pensiero comune di molti palestinesi, sia della diaspora che dellaCisgiordania. L’appello alla violenza non viene approvato unanimemente el’unico vero sfidante di ‘Abbās oggi in campo, il medico e politico laico Muṣṭafāal-Barġūṯī, lo rifiuta categoricamente.Nessuna di queste mosse ha probabilità di essere realizzata nel breve periodo– anche se nell’odierno Medio Oriente una situazione così fluida sconsiglia diformulare previsioni troppo rigide. Tuttavia, sarà sempre più costoso per‘Abbās battere strade alternative, dalla cooperazione sulla sicurezza allapartecipazione a negoziati internazionali, fino alla realizzazione degli accordieconomici e politici per la gestione dell’Anp. A meno di non radicalizzare laretorica o i gesti simbolici. Con il rischio di palesare ai palestinesi quello chela loro politica ufficiale potrebbe essere ma non è.

La rottura dello status quo?

Durante la crisi, in molti hanno scritto che non si sarebbe riusciti a uscirnesenza alterare lo status quo di cui questa guerra è solo un episodio ricorrente.Sebbene la strategia concreta delle due parti in causa puntasse alripristino dello status quo, entrambi i contendenti hanno adottato unapostura diplomatica pubblica che ha radicalizzato obiettivi e richieste:per Israele smilitarizzare la Striscia; per Ḥamās il porto di Gaza e lafine del blocco. Ora il negoziato che seguirà alla tregua rischia di prolungarsioltre il mese previsto, con esiti imprevedibili sul lato delle violenze.Permettendo l’esposizione pubblica di questi obiettivi – ma in assenza dellaloro realizzazione – il conflitto ha reso più costoso il mantenimento dello statusquo.Si dirà: più costoso, ma sempre possibile. Ma anche se si guarda agli obiettivipiù realistici c’è da riflettere. Il ristabilimento della deterrenza – obiettivoisraeliano – non s’è svolto secondo le previsioni. Ḥamās ha dimostrato di poterrovinare la vita quotidiana degli israeliani e di far cancellare decine di voli nelloro unico aeroporto internazionale. L’offensiva di terra israeliana haprovocato molte più vittime del passato tra i soldati e sarà più difficile daripetere. Anche perché la strategia militare di Ḥamās è cambiata e assomigliapiù a quella di un esercito regolare che a quella di un gruppo terroristicourbano.In questo scenario, il clima regionale non aiuta. Lo scontro per il futurodell’islam politico divide in due il campo palestinese. I tradizionali partnerregionali di ‘Abbās sono impegnati a combattere altri demoni e hannodimostrato di non volersi spendere più di tanto per il presidente. L’alleanzaimplicita tra Israele e i regimi autoritari dà un senso di sicurezza che a voltetradisce, oltre a non fornire più un quadro negoziale per chiudere i conflitticome quello di Gaza. E se, nonostante tutte le chiacchere sul declinoamericano, i due contendenti cercassero di nuovo il numero della Casa Bianca,per sfuggire alle maglie della guerra regionale?

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PER ISRAELE ḤAMĀS È IL MALE MINORELa guerra di Gaza è servita ai due schieramenti per ricompattarsi elegittimarsi a vicenda. Senza scalfire il muro contro muro. La forza e il creditoregionale dell’organizzazione palestinese è per Netanyahu freno allapenetrazione jihadista in territorio ebraico.

di Umberto DE GIOVANNANGELI

1. Una guerra per rilegittimarsi a vicenda. Ḥamās e Israele nemici sul campo,ma alleati nel seppellire definitivamente sotto le macerie di Gaza ogni residuapossibilità anche solo di immaginare una pace fondata sulla soluzione dei «dueStati». La terza guerra di Gaza non va raccontata solo evidenziandone iltragico bilancio di sangue, superiore ai precedenti conflitti che hannoinvestito la Striscia: 2. 138 palestinesi uccisi, oltre 11 mila feriti, mentre71 sono le vittime israeliane, 6 delle quali civili. La storia sembraripetersi, con una narrazione degli orrori che ricalca quella delle guerreprecedenti. A cambiare, i nomi in codice delle operazioni militari condotte daIsraele: da Piombo Fuso a Margine Protettivo. Ma la realtà dell’oggi non è lareiterazione del passato. Le novità esistono e sono sostanziali. E percomprenderne la portata occorre concentrarsi sull’analisi politica piuttostoche sugli aspetti militari dell’operazione Protective Edge.E sul piano politico non c’è dubbio che i due belligeranti abbianoottenuto gli obiettivi che si ponevano. Binjamin Netanyahu, primoministro d’Israele, ha spazzato via la «questione palestinese», così come si eradipanata nell’arco di decenni, sostituendola con un’altra, militarmente forsepiù ostica ma di certo politicamente più gestibile da parte di chi altra strategianon ha che quella di perpetuare l’attuale status quo: la «questione Ḥamās».Riflette in proposito Yūsif Bazzī, analista di Al Mustaqbal (Libano): «Israelenon vuole uno Stato palestinese funzionante, con un territorio e delle frontieredefinite in modo chiaro. (…) Non può separarsi dai palestinesi né inglobarli alsuo interno. La loro esistenza rende impossibile la realizzazione di uno Statoebraico». «E così», prosegue Bazzī, «se la Nakba (catastrofe, n.d.r.) deipalestinesi è stata la creazione dello Stato d’Israele nel 1948, oggi la Nakba diIsraele è l’esistenza dei palestinesi: non in quanto essere umani dei quali nonriesce a sbarazzarsi, ma come realtà nazionale di un popolo che rivendica ilsuo territorio».2. In questa «terra di nessuno», storica, politica e identitaria, Ḥamās sirafforza, tesse nuove alleanze, liberata com’è dall’incombenza di doverdar conto del suo fallimento come forza di governo. Ḥamās torna alcentro della scena come movimento di resistenza armata e in questa vestenegozia, imbastisce nuove alleanze e rafforza quelle già esistenti. La costolapalestinese della Fratellanza musulmana ha saputo usare la guerra perrisollevare il proprio credito nel composito ed eterodiretto fronte dellaresistenza palestinese. Un credito che si era fortemente ridotto in questiultimi tempi, fiaccato dalla concorrenza sempre più agguerrita dei salafiti edal venir meno di alleati munifici come i Fratelli egiziani, ma anche Iran eArabia Saudita. «La lotta di Ḥamās», annota Rāmī Ḫūrī, «è una tragediaeroica. Per molti palestinesi è eroica perché si oppone alla cancellazionedell’identità palestinese. Ma è anche tragica perché ha causato grandisofferenze ai civili. Forse un giorno la resistenza di Ḥamās darà i suoi frutti,ma oggi è una possibilità remota».Resta il fatto che la guerra, e i negoziati che l’hanno accompagnata,

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rilegittimano reciprocamente i due «nemici-sodali», spazzando viatutte le posizioni intermedie, e tarpa le ali alle sfiancate colombe. Laguerra ricompatta, tranne voci prestigiose quanto marginali, le opinionipubbliche dei due campi, nella paura le rassicura, alimenta la psicologianazionale israeliana, un «popolo in trincea permanente» circondato da entitàostili, così come rilegittima Ḥamās quale campione indomito della resistenzaall’entità sionista. In questo schema, la popolazione di Gaza è oggetto-soggetto del cinismo di Ḥamās. Oggetto, perché ostaggio di scelte su cui nonpuò influire. Soggetto, perché, nonostante finanziamenti tagliati sull’asse IlCairo-Riyad (ma resta il portafoglio del Qatar), a Gaza funziona ancora il«welfare verde» di Ḥamās: quella rete di associazioni caritatevoli che hannosempre garantito alla costola palestinese della Fratellanza un seguito di massanella società civile palestinese, anzitutto nei suoi settori più deboli.Ḥamās può trattare e definire, come ha fatto, un cessate-il-fuoco anche dilunga durata e strappare a Gerusalemme un allentamento dell’embargo chedal 2007 fa di Gaza un’enorme prigione a cielo aperto isolata dal mondo, con isuoi quasi due milioni di abitanti, in maggioranza minorenni, costretti incattività. Ḥamās può farlo, e l’ha fatto con un’intesa che prevede l’apertura deivalichi della Striscia per consentire l’accesso degli aiuti e dei materiali per laricostruzione, la ripresa della pesca entro 22 chilometri dalla costa, mentrealtre questioni verranno discusse in altri negoziati entro la fine di settembre,ma ciò che non farà mai è porre Israele di fronte alle proprie contraddizioni difondo, alle scelte strategiche che rimettono in discussione la sua stessaidentità nazionale.Ḥamās è un nemico, sì, ma di quelli che rassicurano, perché non hainteresse al compromesso, a un incontro a metà strada tra le rispettiveragioni. Ḥamās ammette l’hudna (tregua) ma non cerca un accordo dipace, e ciò conforta l’attuale leadership israeliana che sa che una pacevera non potrà mai essere a costo zero, e quel prezzo necessario, nonsolo in termini territoriali, non intende pagarlo. Ḥamās non èinteressata alla soluzione «dei due Stati», come non lo sono le forzeche governano oggi Israele. Ḥamās, vive nel presente. Non si proietta nelfuturo. Ḥamās, come la destra israeliana sempre più egemone sul pianoculturale e di ritorno su quello politico-elettorale nello Stato ebraico,teme più di ogni altra cosa l’idea stessa di «normalità». Perché lanormalità impone rinunce, rompe ogni retorica irredentista, non fadella percezione del nemico mortale il fondamento della psicologia diuna nazione (sia essa israeliana o palestinese). La normalità confliggecon quella bramosia di possesso assoluto che innerva e struttura il mito dellaGrande Palestina come quello del Grande Israele.Ḥamās vince se si legittima, e viene rilegittimato da Israele come movimentodi resistenza. Entra in crisi se misurato sul terreno dell’amministrazione. Unesempio emblematico: venuto meno il sostegno della Fratellanza egiziana,destituita a forza dall’esercito, incrinato il rapporto con Teheran per essersischierata a fianco dell’opposizione siriana contro il regime di al-Asad, ridottigli stessi finanziamenti del Qatar (pressato in tal senso dall’Arabia Saudita edagli altri alleati del Consiglio per la Cooperazione del Golfo), Ḥamās si ètrovata a dover fare i conti con una gravissima crisi di liquidità, al punto daessere impossibilitata perfino a pagare lo stipendio agli oltre 40 milafunzionari civili di Gaza sotto la sua responsabilità. Ma anche di fronte aquesta crisi dirompente, Ḥamās ha continuato a investire nell’addestramento

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militare e puntato sull’opzione militare per spezzare il proprio isolamento.Riuscendoci, e dimostrando che le armi possono pesare a un tavolo negoziale.3. E così la guerra da «emergenza» diviene «norma», nella quale non c’èposto per posizioni intermedie, anche se a sostenerle è un signore che siedealla Casa Bianca. In questo senso, la terza guerra di Gaza, tanto più seinquadrata nel sempre più destabilizzato scenario mediorientale,affossa miseramente quel «nuovo inizio» mai iniziato da BarackObama. Il 10 agosto, il presidente Usa ripropone così a Thomas L. Friedman,che lo intervista per il New York Times, la sua visione d’Israele e di una paceche non c’è: «Considerando le capacità militari di cui dispone, non sonopreoccupato per la sopravvivenza d’Israele», rimarca Obama. «La veraquestione secondo me», si chiede il presidente americano, «è comeriuscirà a sopravvivere. Come preservare uno Stato d’Israele cherifletta i valori migliori di coloro che lo fondarono. E per riuscirci»,chiosa l’inquilino della Casa Bianca, «sono sempre più convinto che sianecessario trovare un modo per vivere fianco a fianco coi palestinesi,in pace. È necessario riconoscere che le loro rivendicazioni sonolegittime e che questa è anche la loro terra».Peccato che i due belligeranti si muovano prescindendo completamente daquesta inattuata e ormai inattuabile perorazione, dimostrando nei fatti che inMedio Oriente l’America non ha perso solo autorità ma, cosa forse ancor piùgrave, non incute timore.Ḥamās si rigenera nelle punizioni collettive inflitte da Israele alla popolazionedella Striscia. Si dice: Israele si è illusa che queste punizioni potessero servirea rendere Ḥamās colpevole e invisa agli occhi della gente di Gaza. No, Israelenon si è illusa. Di certo non Netanyahu. Il suo è stato un investimentopoliticamente mirato, condotto attraverso l’uso dello strumento militare:rafforzare Ḥamās significa indebolire ulteriormente la già consunta leadershipdel presidente Abu Mazen.Con Ḥamās è chiamato a fare i conti l’uomo forte del Cairo, il presidentegenerale al-Sīsī, tessitore dell’intesa per una tregua «duratura e totale», inquesto bissando il successo del suo predecessore, il presidente islamistaincarcerato Mursī. Con Ḥamās interloquiscono la Turchia di Erdoğan, l’Irandel presidente riformatore Rohani e della guida spirituale della RepubblicaIslamica, l’immarcescibile ayatollah Ali Khamenei, così come la dinastia deiSa‘ūd, oltre che il nuovo sponsor Qatar. Ognuno ha i suoi referenti interni almovimento: al Qatar guarda il gruppo più moderato di Ḥamās, capeggiato dauomini come l’ex primo ministro Ismā‘īl Haniyya, il vicepresidente dell’ufficiopolitico Mūsā Abū Marzūq e Ḫalid Miš‘al, il numero uno che vive in esilioproprio a Dōḥa. A Teheran fanno invece riferimento i duri, più intenzionati aproseguire la guerra con Israele e meno inclini ai compromessi. Tra i leader diquesto gruppo Marwān ‘Īsā, che guida la delegazione di Ḥamās in Iran, eMuḥammad Ḍayf, responsabile dei sistemi di lancio dei missili contro Israele ecomandante delle brigate ‘Izz al-Dīn al-Qassām.Ḍayf è diventato capo del braccio armato di Ḥamās dopo la morte in un raidnel 2002 del suo predecessore Ṣalāḥ Šaḥāda. Israele ha tentato sei volte diassassinarlo, senza successo: l’ultima il 20 agosto, con un raid aereo in cuisono morti la moglie e uno dei figli di sette mesi. Da prigione a «caserma». AIsraele che scatena l’operazione Margine Protettivo, Ḥamās risponde dandovita all’operazione Strangolamento, con l’uccisione di 18 presunticollaborazionisti del nemico sionista; un’azione lanciata il 22 agosto dopo gli

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attacchi contro Ḍayf e contro i suoi sottoposti (uccisi nei raid israeliani)Muḥammad Abū Šamalah, Rā’id al-‘Aṭṭār e Muḥammad Barhūm. Le sentenzecontro i collaborazionisti sarebbero state emesse da una Corte marzialerivoluzionaria.4. La Striscia è un campo d’armi. E Ḥamās ne ha il controllo. La terzaguerra di Gaza ha ridefinito alleanze e rimescolato le carte nel movimentatoscacchiere arabo. Quelli celebrati al Cairo come a Dōḥa, a Riyad come adAmman non sono certo matrimoni d’amore in salsa mediorientale: Egitto,Giordania, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, in particolare,odiano Ḥamās, per i suoi legami con i Fratelli musulmani, macon Ḥamās devono fare i conti, provando a condizionarne le scelte mapuntando anche a farne un argine contro la penetrazione salafita neiTerritori palestinesi. Una penetrazione già in atto, visto che secondo unrecente rapporto dello Shin Bet sarebbero almeno trecento le cellule salafiteoperanti a Gaza e nella Cisgiordania, e che se portata a termine salderebbe latrincea-Gaza con il più ampio fronte siro-iracheno, proiettando i suoiminacciosi tentacoli anche sul regno hashemita.Oggi l’evoluzione a livello regionale, la formazione di Ğabhat al-Nuṣra in Siria,l’influenza del salafismo haraki e del jihadismo nel conflitto siriano, masoprattutto l’emergere drammatico e apparentemente vittorioso dello StatoIslamico (Is) e del califfato di Ibrāhīm Abū Bakr al-Baġdādī rappresentano unodei motori degli sviluppi politico-militari che segnano la Palestina storicaridefinendo, in termini nuovi e potenzialmente ancor più destabilizzanti, ilvecchio conflitto israelo-palestinese. Il califfato islamico nel cuore d’Israele: ildisegno di Osama bin Laden realizzato dal suo non meno ambizioso eagguerrito erede al-Baġdādī, i cui ritratti cominciano ad apparire nelleroccaforti jihadiste della Striscia.Di ciò è consapevole lo stesso Netanyahu che, a differenza dei super-falchiBennett e Lieberman, vuole sì intaccare fortemente la capacità militaredi Ḥamās, ma non fino al punto di consegnare Gaza alle cellule salafite. Dinuovo: nemico sì, Ḥamās, ma nel panorama attuale resta per Israele ilmale minore. La riprova è che tappato il fronte Sud con la treguasancita con Ḥamās per Israele è scattato l’allarme sul fronte Nord,quello del Golan, con i ribelli jihadisti che innalzano le loro bandieresul valico di al-Qunayṭra, il punto di passaggio sulla frontiera con laSiria lunga 70 chilometri. In prima fila i combattenti del Fronte al-Nuṣra,vicini ad al-Qa‘ida e competitori di Ḥamās. E lo stesso vale per i jihadisti delSinai, appartenenti a Anṣār Bayt al-Maqdis, gruppo filo-al-Qā‘ida, entrati nellahit del terrore con la video-decapitazione di quattro persone accusate diessere spie del Mossad e di aver fornito informazioni a Israele per compiereraid aerei che hanno poi ucciso tre militanti estremisti.La terza guerra di Gaza è anche un conflitto per procura, almeno nellesue ricadute regionali, nella definizione in campo arabo di nuoviequilibri di potenza. Ecco allora il Qatar minacciare il leader dell’ufficiopolitico di Ḥamās, Ḫālid Miš‘al, di espellerlo dal paese qualora avesseaccettato l’accordo di cessate-il-fuoco proposto dall’Egitto per la Striscia diGaza. A raccontarlo (il 20 agosto) è un alto funzionario di Fatḥ al quotidianoarabo al-Ḥayāt, sostenendo che Ḥamās avrebbe chiesto al Cairo di farpartecipare il Qatar al negoziato, ottenendo un rifiuto. Secondo la stessafonte, l’Egitto avrebbe respinto la richiesta di coinvolgere nei colloqui indirettiil ministro degli Esteri o il capo dell’intelligence di Dōḥa, condizionando un

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eventuale assenso alla presentazione delle scuse del Qatar per la politicaadottata verso l’Egitto dopo la deposizione del presidente Mursī.5. La «questione Ḥamās», vista anche in questa chiave, non può essereaffrontata e tanto meno risolta con un accordo di cessate-il-fuoco.Occorre uno sguardo più profondo, un orizzonte più ampio. Il coraggio divoltar pagina. Ne è convinto Abraham Yehoshua: «Per far uscire gli abitanti diGaza da questo vicolo cieco o dal tunnel in cui si sono trincerati e nel qualevogliono trascinare anche noi», annota lo scrittore israeliano, «occorrepredisporre un piano effettivo e ingegnoso dopo il cessate-il-fuoco che prevedanon solo la ricostruzione e il risanamento delle ferite della Striscia ma, inprimis, la fine del disperato isolamento dei suoi abitanti mediante il ripristinodei legami con i loro fratelli in Cisgiordania e in Israele. E questo ripristino»,spiega, «deve coinvolgere Ḥamās, l’autorità ufficiale della Striscia, e ilgoverno palestinese di unità nazionale istituito qualche mese fa e con il qualeIsraele ha poco saggiamente interrotto i rapporti». Una tesi condivisa aRāmallāh.Nella ricostruzione degli eventi degli ultimi mesi fornita dai più stretticollaboratori del presidente Abu Mazen, emerge l’accusa che questatempesta di piombo sia stata usata anche per distruggere il processodi riconciliazione tra le forze politiche palestinesi, a partire daFatḥ e Ḥamās. «L’accordo con Ḥamās è stato chiuso il 23 aprile scorso»,racconta il capo negoziatore dell’Anp, Ṣā’ib Erekat (‘Urayqāt), «e prevedevaun governo unitario con una gestione pubblica unica, una sola forza disicurezza e una legislazione comune». Un processo andato in pezzi,seppellito sotto le macerie di Gaza.La conferma viene da un’intervista (del 29 agosto) a Palestine Tv delpresidente Abu Mazen. Quello lanciato da «Maḥmūd il moderato» è unpesante j’accuse contro Ḥamās, reo di aver inutilmente prolungato la guerracon il suo atteggiamento e il continuo lancio di razzi, rendendosi quindiresponsabile di centinaia di morti e civili. «Potevamo evitare tutto questo: 2mila martiri, 10 mila feriti, 50 mila case danneggiate o distrutte», chiarisce illeader palestinese. L’esercizio della forza come surrogato di una strategiapolitica inesistente. Vale per Ḥamās ma anche per Israele. «Le armi dellaresistenza sono sacre e non accetteremo che siano nell’agenda» di futurinegoziati, avverte il leader in esilio di Ḥamās, Ḫālid Miš‘al. «È diventatoevidente che a meno che Ḥamās sia disarmato e i suoi strumenti di controllosmantellati, non possa esserci pace e sicurezza né per gli israeliani né per ipalestinesi», ribatte il ministro degli Esteri d’Israele, Avigdor Lieberman.Avvisaglie di una possibile Gaza 4. Per «fermare il tempo» Netanyahu hapagato un prezzo più alto che nelle precedenti avventure militari nellaStriscia: per le perdite di vite umane e, sul piano politico, per lefrizioni non mascherate né marginali con gli Usa. Sempre meglio,però, che ragionare sul prezzo della pace. Una pace vera. «Ciò che mipreoccupa di più è l’idea di pace che oggi permea trasversalmente il miopaese», rileva Ze’ev Sternhell, tra i più autorevoli storici israeliani, «un’ideadiventata senso comune per la maggioranza dell’opinione pubblica. È qualcosadi più e di più grave di un’idea di pace a costo zero. È la convinzione chel’unica pace accettabile sia la resa incondizionata dei palestinesi».Su Ḥamās, lo storico israeliano annota: «In linea di principio, penso che noidovremmo parlare con chiunque, se ciò può portare a risultati. Credo cheIsraele avrebbe potuto trarre profitto dalla formazione del governo di unità

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nazionale Fatḥ-Ḥamās e dargli un aiuto, qualcosa con cui lavorare. Non gliabbiamo dato niente, solo la richiesta di riconoscere Israele come Statoebraico». «Ḥamās è Gaza», spiega Sternhell, «e non più soloun’organizzazione terroristica. Ha messo in piedi una provincia, una regionesotto il suo controllo. Ha investito tutti i suoi sforzi nella guerra contro Israele,ma bisognerebbe essere onesti su tutta questa storia». E continua: «Cerco diessere il più obiettivo possibile. È vero che Ḥamās è un’organizzazioneestremamente fondamentalista, un’organizzazione di 4uhāda’, ma noidobbiamo vivere con quella gente. Abbiamo bisogno del bastone e dellacarota. Abbiamo usato abbondantemente il bastone, ma io non ho ancora vistola carota. ‘Abbās sta morendo per noi», chiarisce, «perché gli concediamoqualcosa. Forse possiamo arrivare a un accordo, come parte dellaricostruzione di Gaza. Non c’è nessun bisogno di chiedere ad Ḥamās di alzarebandiera bianca. Abbiamo bisogno di una prospettiva a lungo termine checomprenda una certa generosità nei confronti dei palestinesi». E la prima cosada fare, secondo lo storico israeliano, «è smettere di aumentare la presenzaebraica nei Territori. Questo per mostrare loro che vogliamo veramente i dueStati. E per dimostrare che facciamo sul serio, allentiamo il blocco di Gaza conla supervisione degli uomini di ‘Abbās ai valichi e lasciamo respirare lapopolazione».Ma non è questa la logica che muove la destra israeliana. Il muro contromuro è una (non) politica che rassicura l’opinione pubblica dello Statoebraico e, al tempo stesso, rafforza Ḥamās. Ieri belligeranti, oggicontraenti una tregua. Sempre e comunque nemici-sodali.

INTERVISTEIsraele dovrà uccidere tutti i palestinesi se vuole eliminare ḤamāsConversazione con Mūsā Abū MARZŪQ, vice presidente dell’ufficio politicodi Ḥamās e capo delegazione ai negoziati del Cairo con Israele, a curadi Umberto DE GIOVANNANGELI

LIMES Oltre duemila morti palestinesi, decine di migliaia di feriti, centomilasfollati, macerie e devastazione. C’è chi accusa Ḥamās di aver risollevato lesue sorti sulla pelle dei civili della Striscia.MARZŪQ Non è la prima volta che Israele prova a risolvere con la forza laquestione palestinese. Ma ancora una volta ha dovuto fare i conti con unaresistenza popolare che non ha ceduto campo, dimostrando una capacità diazione e un’unità d’intenti che hanno sorpreso il nemico. Ḥamās ha sempremantenuto un legame forte, indissolubile, con la società palestinese,ed è questa la ragione vera per cui Israele non è riuscito mai adeliminarci. Certo, hanno ucciso molti dei nostri leader ma altri hanno subitopreso il loro posto. Sarà così anche questa volta. Per distruggere Ḥamās,Israele dovrebbe spazzare via il popolo palestinese. Ma questo èimpossibile anche per quello che viene considerato ancora oggi uno deglieserciti più agguerriti al mondo.LIMES Nella terza guerra di Gaza, Israele ha più volte accusato la leadershipdi Ḥamās di aver sabotato i tentativi di mediazione portati avanti dallacomunità internazionale, in particolare dal presidente egiziano al-Sīsī. Allafine, però, a passare è stata la mediazione egiziana. Chi ha capitolato?MARZŪQ Non di certo la resistenza palestinese. Siamo stati noi a proporre

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una tregua decennale. Ma ad alcune condizioni che riguardano lecondizioni di vita della popolazione di Gaza: la riapertura dei valichi difrontiera, la realizzazione di infrastrutture nella Striscia, l’estensionedelle acque territoriali. Insomma, abbiamo posto al centro la vita diGaza e della sua popolazione. Oggi si contano i morti della guerrascatenata da Israele, migliaia, in maggioranza civili, tra cui centinaia dibambini, ma la tragedia di Gaza è nella sua normalità. Quando l’artiglieriatace ma non vengono meno le punizioni collettive inflitte da Israele allapopolazione civile, punizioni che confliggono con le leggi internazionali, ildiritto umanitario e la stessa Convenzione di Ginevra.Nessuno poteva chiedere alla resistenza palestinese di accettare una treguasenza rimettere in discussione i fondamenti dell’oppressione. È questa la lineadi condotta che è stata perseguita da Ḥamās: rompere l’assedio. In questosenso l’intesa del Cairo, con la riapertura di tutti i valichi di Gaza, compresoquello di Rafaḥ con l’Egitto, rappresenta una vittoria della resistenza. Nonabbiamo combattuto invano.LIMES Ḥamās rivendica il consenso della gente di Gaza. Ma è consensofucilare 18 presunti collaborazionisti? O è qualcos’altro: il terrore del boia?MARZŪQ Non c’è niente di più ignobile che vendere al nemico i propri fratellie contribuire alle uccisioni di combattenti della resistenza. Non si tratta dicompiere vendetta ma praticare la giustizia. In tempi di guerra.LIMES Altra voce: Ḥamās ha voluto la guerra per riconquistare l’egemonia sulvariegato fronte jihadista sempre più attratto dal califfato islamico dell’Is.MARZŪQ L’obiettivo della resistenza palestinese, quello da cui trae forzae legittimazione, è uno e uno solo: la liberazione della Palestina. Nelnostro orizzonte non c’è jihād globale, abbiamo i nostri princìpi e unavisione delle cose che trae ispirazione dal Corano, ma non siamoattratti da califfi o califfati. Altra cosa sono le alleanze, e possosostenere a ragione che Ḥamās ha oggi rapporti sempre più stretti ediffusi nel mondo arabo e musulmano, sciita e sunnita. Chi ci volevaisolati, ai margini, trattati come paria, ha compiuto un grave errore divalutazione.LIMES Ma con il «criminale» Israele, Ḥamās ha trattato. E raggiuntoun’intesa, sia pur parziale. Non è anche questo un cedimento?MARZŪQ La domanda dovrebbe essere posta ai governanti israeliani che sindall’inizio di questa nuova aggressione avevano sbandierato ai quattro ventiche per Ḥamās sarebbe stata la fine, e che mai si sarebbero prestati atrattative con i terroristi di Gaza. Al Cairo è andato in scena un altro film.E Ḥamās ha recitato un ruolo da protagonista.LIMES A proposito del Cairo. Lei è ritenuto uno dei dirigenti di Ḥamās piùgraditi al nuovo uomo forte egiziano, il presidente al-Sīsī. Eppure Ḥamās èentrato nel mirino dei generali egiziani assieme alla Fratellanza di Mursī.Tutto archiviato?MARZŪQ Non siamo in vendita. I legami con i Fratelli egiziani non sonostati cancellati. Al tempo stesso, però, va preso atto che l’Egitto restaun perno centrale negli equilibri mediorientali. Il presidente al-Sīsī haavanzato proposte che andavano in buona parte nella direzione da noiauspicata: la fine dell’assedio di Gaza, la sua ricostruzione. Da qui il nostrosostegno.LIMES Israele ha fermato i razzi palestinesi. Ma qual è l’arma segreta inmano ad Ḥamās?

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MARZŪQ Quella demografica. E il tempo. Tra neanche un decennio, gliarabi saranno maggioranza in Palestina e Israele dovrà fare i conti conquesto. Sarà sempre più difficile definirsi Stato ebraico. Il tempo non èdalla parte israeliana. Noi sappiamo attendere, oltre che combattere. E iltempo della liberazione non è lontano.

È Ḥamās a tenere in ostaggio il suo popolo

Conversazione con Yuval STEINITZ, ministro per gli Affari strategici d’Israele,a cura di Umberto DE GIOVANNANGELILIMES L’efficacia di un’operazione militare si misura dal rapporto tra perditee raggiungimento degli obiettivi prefissati. Se l’obiettivo d’Israele eracancellare Ḥamās, decapitandone la leadership politica, si può affermare chela terza guerra di Gaza sia stata un fallimento per Israele?STEINITZ Sì, se l’obiettivo d’Israele fosse stato quello a cui lei fa riferimento.Ma le cose non stanno così. Spesso si parla di Gaza come di una «prigione acielo aperto» addossando a Israele la responsabilità di ciò. Ma Gaza è statatrasformata da Ḥamās e dagli altri gruppi terroristici palestinesi in benaltro: è diventata una trincea militarizzata usata per minacciare lasicurezza di Israele e dei suoi cittadini. Sin da subito abbiamo chiaritoche il nostro obiettivo era quello di smantellare l’arsenale militare deigruppi terroristici, di distruggere i tunnel attraverso i quali commandoterroristici progettavano infiltrazioni sul nostro territorio per attacchifinalizzati all’uccisione di civili. Non è certo da imputare a Israele il fattoche Ḥamās usi abitazioni, edifici pubblici, perfino scuole per nascondere armie miliziani.LIMES C’è chi sostiene, anche in Israele, che la terza guerra di Gaza abbiafinito per rafforzare Ḥamās e indebolire ulteriormente la leadership moderatadel presidente Abu Mazen.STEINITZ La leadership del presidente Abu Mazen si è indebolita ilgiorno in cui ha scelto di dar vita a un governo con dentroun’organizzazione come Ḥamās, che anche l’Europa annovera nella blacklist delle organizzazioni terroristiche. Come si può essere credibileinterlocutore negoziale quando a condizionare le tue scelte è un gruppo chepredica, e pratica, la distruzione d’Israele? Vorrei aggiungere che il mondo èinorridito di fronte agli orrendi crimini perpetrati dall’Is, il presidente Obamalo ha definito un cancro da estirpare. Lo stesso metro di giudizio non vieneperò adottato nei confronti di Ḥamās che, a nostro avviso, rappresenta l’altrafaccia dello stesso terrorismo islamico. Mentre si organizza un’azionemilitare contro l’Is si pretende da Israele un cessate-il-fuoco«immediato e senza condizioni». Questo doppio standard è per noiinaccettabile.Quanto al presunto rafforzamento di Ḥamās nutro in proposito forti efondati dubbi. Le nostre Forze armate hanno inferto un duro colpo allecapacità operative di Ḥamās, distruggendo buona parte di quelleinfrastrutture che avevano fatto sì che a Gaza vivesse una cittàsotterranea militarizzata. L’indebolimento di Ḥamās può servire alpresidente Abu Mazen per ripristinare la sua autorità nella Striscia,senza la quale egli è destinato a restare un leader dimezzato, e non pervolontà d’Israele. Semmai, è vero il contrario. Se Israele non avessecontrastato l’azione di Ḥamās e della Jihād islamica, oggi questi gruppi non

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controllerebbero solo Gaza ma avrebbero defenestrato il presidente AbuMazen anche da Rāmallāh.LIMES Israele rivendica il suo diritto di difesa, ma dal ministro per gli Affaristrategici vorremmo sapere se c’è qualcosa di strategico in questa guerra, ese questo qualcosa potrebbe avere una ricaduta positiva sul moribondonegoziato di pace.STEINITZ La smilitarizzazione di Gaza. È questo un passaggio cruciale,che dovrebbe essere sostenuto convintamente da quanti nel mondo,Europa e Stati Uniti in primis, perorano una soluzione «a due Stati». Lagrande maggioranza dell’opinione pubblica del mio paese ha sostenutol’azione militare a Gaza, e questo non perché siamo un popolo di guerrafondai,ma per un fatto molto semplice condiviso dalle persone comuni, non importase di destra o di sinistra: ci siamo ritirati da Gaza ed ecco il risultato, quelterritorio è diventato la rampa di lancio di missili che se non hanno mietutocentinaia di vittime civili nelle nostre città è solo grazie al nostro sistemadifensivo antimissile e non certo perché non fosse tale la volontà stragista deiterroristi. E se questa minaccia è già così forte da Gaza, chissà cosa potrebbeaccadere se una simile piazza d’armi dovesse insediarsi a Rāmallāh, Betlemmeo Gerico, città a poche decine di chilometri da Gerusalemme, Haifa e Tel Aviv.Sono considerazioni che non possono essere liquidate sbrigativamente, perchéaffondano nel vissuto quotidiano di un popolo che sente, e non per sua colpa,di essere in trincea.La smilitarizzazione di Gaza ci avrebbe permesso di alleggerire le restrizioni,permettendo tra l’altro a più persone della Striscia di lavorare in Israele. Aben vedere, è ciò che è avvenuto in Cisgiordania. Almeno 100 mila palestinesidella Cisgiordania hanno lavorato all’interno d’Israele, contribuendo amigliorare il tenore di vita della popolazione cisgiordana. E ciò è stato resopossibile dal fatto che Tsahal ha potuto smilitarizzare la Cisgiordania conl’operazione Scudo difensivo del 2002. Forse è possibile fare la stessa cosa aGaza. Credo che sarà complicato, ma non impossibile. E se ciò avverrà, saràun bene non solo per i cittadini d’Israele ma per gli stessi palestinesi di Gaza.LIMES Ḥamās e Jihād islamica cantano vittoria per l’accordo sul cessate-il-fuoco raggiunto al Cairo dopo cinquanta giorni di combattimenti.STEINITZ L’accordo prevede che non un razzo dovrà cadere su Israele.Se ciò avverrà, la nostra risposta non si farà attendere. E sarà moltopesante. Inoltre, il nostro assenso all’ingresso nella Striscia di aiutiumanitari per la ricostruzione è vincolato a una condizione imperativa:in nessun modo tali aiuti devono servire ad Ḥamās per riarmarsi ecostruire tunnel. Ḥamās fa propaganda. La realtà è che ha subìto uncolpo pesantissimo e non ha visto soddisfatta nessuna delle suerichieste per la firma del cessate-il-fuoco. Pretendeva la costruzione di unporto e un aeroporto a Gaza, la liberazione dei prigionieri palestinesi, ilpagamento dei salari dei funzionari, ma di tutto ciò non c’è traccianell’accordo del Cairo. L’intesa raggiunta non fa venir meno il nostro obiettivostrategico: la smilitarizzazione della Striscia. Un obiettivo per noiirrinunciabile.LIMES La terza guerra di Gaza ha messo in evidenza, in alcuni passaggicruciali, visioni diverse fra Israele e l’amministrazione Obama. È unadivaricazione strategica?STEINITZ Direi di no. Sulla sostanza del conflitto, il diritto d’Israele didifendersi da attacchi terroristici, il presidente Obama non ha fatto

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mai venir meno il proprio sostegno. Il che non significa disconoscere chesu alcune importanti questioni si siano manifestati accenti diversi. Un puntodirimente resta il disarmo di Ḥamās e il controllo della Striscia da partedell’Anp. Per quanto ci riguarda, restiamo dell’idea che la totalesmilitarizzazione di Gaza altro non sia che l’adempimento di unimpegno che l’Autorità Nazionale Palestinese ha sottoscritto vent’annifa sul prato della Casa Bianca. Un impegno mai mantenuto.LIMES A proposito di dissensi con Washington. In diverse dichiarazionipubbliche, lei stesso non ha nascosto divergenze di valutazioni con Usa edEuropa sulla conduzione del negoziato sul nucleare con Teheran.STEINITZ Noi non siamo contrari a una soluzione diplomatica ma nonapproveremmo una soluzione purchessia. Un accordo che non prevedesse losmantellamento del programma nucleare iraniano aprirebbe uno scenario daincubo. L’Iran potrebbe disporre di 50-100 ogive nucleari nel giro di undecennio, se l’Occidente accettasse un accordo insufficiente con la RepubblicaIslamica. A rischio non sarebbe solo la sicurezza d’Israele ma la sua stessaesistenza. In questo caso, oltre alle bombe nucleari, l’Iran avrebbe 2.024missili balistici in grado di raggiungere l’Europa occidentale e la costaorientale degli Stati Uniti. In queste condizioni, Arabia Saudita, Egitto,Algeria, Turchia e probabilmente altri paesi del Medio Oriente potrebberolanciare i propri programmi nucleari in risposta all’Iran. Una corsa agliarmamenti che potrebbe portare all’esplosione della polveriera nuclearemediorientale. Israele farà di tutto perché ciò non avvenga.