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www.lapprodo.info La ricerca degli ambiti olfattivi relativi al mondo etrusco ha determinato da subito, a causa dei molteplici potenziali settori di indagine, la necessità di una scelta mirata. Si è cercato cioè di approfondire quegli argomenti che, da un lato, offrissero dati importan- ti e storicamente accertati relativi all'ambito olfattivo; dall'altro che fossero il più possi- bile connessi, dal punto di vista storico-documentario, con alcuni reperti conservati all'interno del Museo locale della città di Cortona, con i monumenti funerari del Parco Archeologico, e, in generale, con la storia del territorio, inteso come paesaggio che interagisce con l'attività umana [2] . In particolare la ricognizione storica si è appuntata sui seguenti temi: - alcuni aspetti del carattere agricolo della società etrusca, facendo attenzione a tutti quei prodotti derivati da pratiche di coltivazione, che possono avere avuto una parte importante sia come alimenti a sè stanti, sia come ingredienti nella preparazione di pietanze più complesse; ancora, i prodotti dell'allevamento e delle attività predatorie (caccia e pesca) ed il rituale del banchetto; - l'utilizzo di piante medicinali storicamente attestato da parte degli Etruschi; - i rituali di sepoltura; - profumi e tecniche di profumazione degli ambienti. 3.1 Carattere agricolo della società etrusca La società etrusca, come ogni altra società dell'antichità, ebbe una base economica fondamentalmen- te agricola e per prima realizzò, nella nostra penisola, una forma agraria organizzata e stabile del paesaggio, frutto di una costante azione selettiva o distruttiva sulla vegetazione spontanea. Se si per- corrono a ritroso almeno cinque- mila anni, la configurazione ambientale dell'Italia non presenta alterazioni macroscopicamente apprezzabili rispetto al sistema orografico ed idrografico odierno: le pianure attuali erano già forma- te, i vulcani toscani e laziali già spenti e solo i profili delle coste erano molto diversi. Le pianure asciutte erano però rico- perte, molto più che adesso, da boschi di olmi, tigli, aceri, allori, quer- ce e, nella fascia costiera, da pini. La sedimentologia non mostra particolari irrigidimenti climatici LA VITA QUOTIDIANA DEGLI ETRUSCHI Cap. 3: un caso emblematico per la ricerca olfattiva relativa al mondo antico [1] edito su http://www.cortonaweb.net/archeologia/capitoli/cap3modi.htm

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La ricerca degli ambiti olfattivi relativi al mondo etrusco ha determinato da subito, acausa dei molteplici potenziali settori di indagine, la necessità di una scelta mirata. Si ècercato cioè di approfondire quegli argomenti che, da un lato, offrissero dati importan-ti e storicamente accertati relativi all'ambito olfattivo; dall'altro che fossero il più possi-bile connessi, dal punto di vista storico-documentario, con alcuni reperti conservatiall'interno del Museo locale della città di Cortona, con i monumenti funerari del ParcoArcheologico, e, in generale, con la storia del territorio, inteso come paesaggio cheinteragisce con l'attività umana [2] .In particolare la ricognizione storica si è appuntata sui seguenti temi:- alcuni aspetti del carattere agricolo della società etrusca, facendo attenzione atutti quei prodotti derivati da pratiche di coltivazione, che possono avere avuto unaparte importante sia come alimenti a sè stanti, sia come ingredienti nella preparazionedi pietanze più complesse; ancora, i prodotti dell'allevamento e delle attività predatorie(caccia e pesca) ed il rituale del banchetto;- l'utilizzo di piante medicinali storicamente attestato da parte degli Etruschi;- i rituali di sepoltura;- profumi e tecniche di profumazione degli ambienti.

3.1 Carattere agricolo della società etruscaLa società etrusca, come ogni altrasocietà dell'antichità, ebbe unabase economica fondamentalmen-te agricola e per prima realizzò,nella nostra penisola, una formaagraria organizzata e stabile delpaesaggio, frutto di una costanteazione selettiva o distruttiva sullavegetazione spontanea. Se si per-corrono a ritroso almeno cinque-mila anni, la configurazioneambientale dell'Italia non presentaalterazioni macroscopicamenteapprezzabili rispetto al sistemaorografico ed idrografico odierno:le pianure attuali erano già forma-te, i vulcani toscani e laziali giàspenti e solo i profili delle costeerano molto diversi.Le pianure asciutte erano però rico-perte, molto più che adesso, daboschi di olmi, tigli, aceri, allori, quer-ce e, nella fascia costiera, da pini.La sedimentologia non mostraparticolari irrigidimenti climatici

LA VITA QUOTIDIANA DEGLI ETRUSCHI

Cap. 3: un caso emblematico per la ricerca olfattiva relativa al mondo antico [1]

edito su http://www.cortonaweb.net/archeologia/capitoli/cap3modi.htm

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per questo periodo, con variazioni di poco più di un grado, per nulla incidenti sulle col-tivazioni agricole. Dal Neolitico in poi, fino all'apparire attorno al IX secolo a.C. dellaprima facies culturale della civiltà etrusca, denominata villanoviana, l'uomo-agricoltoreprivilegiò dunque, proteggendole e diffondendole tenacemente, le specie di piante"economiche", utili per il suo sostentamento o per la sua cura [3].L'Etruria, nome latino della regione in cui si sviluppò la civiltà etrusca, corrispondeapprossimativamente all'attuale Toscana, con i confini orientale e meridionale segnatiperò dal corso del Tevere ed il confine occidentale segnato dal Mar Tirreno, incluse leisole. Il confine settentrionale era probabilmente costituito dalla valle dell'Arno;comunque non va dimenticato che, alla fine del VI secolo a.C., l'espansione etrusca rag-giunse la pianura padana e la Campania, e la tradizione letteraria vuole che, nelle nuoveterre, fossero fondate dodecapoli come nell'Etruria propria [4].Quest'ultima presenta un certo frazionamento geologico: a sud, terreni di origine vul-canica punteggiati da antichi crateri, ora divenuti bacini lacustri; ad ovest, al paesaggiodel tufo si contrappone quello della Maremma, con pianure estese lungo la costa, inter-rotte dalla collina calcarea dove sorge Tarquinia, dai Monti della Tolfa, dalle alture diCosa, del Monte Argentario e dell'Uccellina. Le terre rosse, originate dalla decomposi-zione dei calcari, caratterizzano tali territori in parte coperti dalla macchia mediterra-nea. Se il tufo ed i calcari offrono un buon grado di fertilità, più poveri sono i terrenisabbiosi alluvionali delle pianure fluviali. Prima delle bonifiche la presenza di argillepoco permeabili sotto i depositi sabbiosi provocava estesi fenomeni di impaludamentoe, già al tempo di Catone, la zona doveva essere malsana, se egli spiegava che il nomedi Gravisca, colonia romana fondata nel 181 a.C. per essere porto di Tarquinia, avevatale etimologia quia aer gravis est [5].La terza area, corrispondente all'attuale Toscana con l'appendice perugina, si distingueper un paesaggio per lo più collinare, con un grande lago di origine tettonica, ilTrasimeno, ed ampie vallate fluviali interne sparse per tutto il territorio (Valli delTevere, del Chiana, del Cecina, dell'Arno).Includiamo, in questa analisi, anche la pianura padana, di origine alluvionale, con un pae-saggio quasi ovunque piatto ed uniforme, alla cui formazione ha contribuito l'operaplurisecolare di disboscamento e messa a coltura dell'uomo. L'esistenza in epoca anticadi zone boschive, oggi limitate ai soli boschi di Carrega presso Collecchio e, nel ferra-rese, ai boschi Panfilo e della Mesola, è testimoniato, oltreché dai rinvenimenti paleo-botanici, dal nome dei borghi di origine medievale, come Cerreto, Querceto,Frassineto, Rovereto, Saliceto, Castenaso. La leggera pendenza della pianura, con altitu-dine degradante da ovest verso est e dai bordi verso il centro, permette alle acque discorrere verso il mare invece di fermarsi e ristagnare in paludi. Se i terreni ai piedidelle Alpi e degli Appennini, estremamente permeabili, rendono i terreni aridi e pocofavorevoli alla vegetazione, quelli della bassa pianura sono invece più compatti edimpermeabili, trattengono le acque e le assorbono poco per volta: per questo si pre-stano maggiormente all'agricoltura. I "granai d'Etruria", evidenziati da uno studio pedo-logico e climatico, sono riconducibili dunque alla Val di Chiana, alla zona del Valdarnoinferiore presso Pisa, alla Maremma, ai terreni tufacei dell'alto Lazio, alla Valle del Paglia,all'area sud-padana.Tutte queste aree offrono una precisa corrispondenza di repertiarcheologici collegabili con l'agricoltura [6] (depositi votivi con attrezzi agricoli; model-lini bronzei d'aratro, di buoi e di animali domestici; contenitori per derrate alimentari)e di cariossidi carbonizzate di cereali e legumi ritrovati negli scavi degli abitati etruschi;né sono da sottovalutare i precisi riferimenti, se pur tardi, delle fonti letterarie grechee latine alla fertilità e ai prodotti di queste terre [7].

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3.1.1 Le produzioni alimentari3.1.1.1 I cerealiGli Etruschi furono grandi produttori di cereali, vino ed olio. La coltivazione dei cerealifu assai precoce, come testimoniano numerosi reperti paleobotanici provenienti da sitidell'età del Bronzo (Luni sul Mignone, Sorgenti della Nova) [8], ed un bronzetto villa-noviano rappresentante un contadino che guida un aratro trainato da due buoi, perti-nente ad un carrello bruciaprofumi da Bisenzio [9].

Lo sfruttamento sistematico del suolo a partire dal IX secolo a.C. e la grande disponi-bilità di metalli, di cui il sottosuolo era estremamente ricco, presto utilizzati per la fab-bricazione di uno strumentario agricolo di prim'ordine portò, nel giro di pochi secoli, aprodurre una quantità in eccesso di cereali. Dionigi di Alicarnasso e Livio raccontanoche Roma stessa, nel corso del V secolo a.C., in concomitanza con alcune carestie, nonesitò a rifornirsi di cereali sia dalle città dell'Etruria interna che da quelle costiere [10]Non è un caso che sempre alla fine del V secolo a.C. la zecca di Tarquinia batté mone-te con effigiato l'aratro [11].Tali frumentationes assisteranno i Romani anche duesecoli dopo. Nel 205 a.C., alla vigilia della spedizione di Scipione in Africa controAnnibale, le città etrusche di Cerveteri, Roselle,Volterra, Chiusi, Perugia,Arezzo procu-reranno numerosi moggi di frumento: in particolare Arezzo ne inviò 120.000 [12].La coltivazione cerealicola fu in particolare quella che impresse forma definitiva al pae-saggio agrario, frazionato in campi di forme geometriche regolari, spesso delimitati daaceri maritati a vite, come ancora si poteva vedere nelle nostre campagne anteceden-temente alla meccanizzazione agricola del secondo dopoguerra.Quanto all'alimentazione, i cereali avevano un doppio uso: quelli nudi erano impiegatiper ricavare farina da pane, come la famosa siligo, grano tenero prodotto a Chiusi e adArezzo per confezionare pane fine, come sappiamo da Plinio [13]; quelli vestiti, fra cuiil Triticum monococcum e l'Hordeum vulgare, erano usati predisponendoli nell'alimen-tazione mediante torrefazione, cui seguivano battiture e macinazione [14]. Con il granofrantumato si preparavano poi pappe e polente, in latino puls, termine che, secondo iglottologi [15], sarebbe stato trasmesso dall'etrusco: di qui l'epiteto pultiphagi attribui-to dagli orientali ai romani ed italici in genere, nomignolo ricorrente nelle commedie

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di Plauto [16]. Con il grano si preparavano anche farinate, in latino farratae, cheGiovenale [17] specifica essere il piatto nazionale etrusco. Tali pultes potevano poiessere mescolate con ingredienti diversi, come uova e miele, unico dolcificante cono-sciuto. Nell'area di Pisa era apprezzata una specie di pasta-polenta ottenuta con untipo di semola (alica) mescolata con vino e miele [18]. Diffuse in genere presso lepopolazioni italiche erano le mescolanze fra farina di cereali e farina di legumi, in parti-colare le fave [19]. Gli stessi cereali dovevano essere presenti con diverse specie in talipiatti, come ci indica il termine latino farrago che, secondo Festo [20], indicava unamiscela di cereali coltivati per il bestiame, ma la pratica doveva in origine riferirsi a col-ture miste per l'alimentazione umana.Tale attività è ancora oggi attuata in alcune regio-ni alpine a clima rigido dove si seminano miscele di frumento e segale o anche avena,così che, a seconda dell'andamento stagionale, prevale l'uno o l'altro cereale, assicuran-do il raccolto. Con la farina di farro (Triticum dicoccum) si facevano anche focaccetteimpastate con olio, miele, oppure latte o fegato di pecora [21].

3.1.1.2 Il vinoSe non è da escludere che fin da epoca micenea il vino della Grecia, sia pure in formasporadica, potesse essere conosciuto, tramite contatti commerciali, dalle popolazionidella penisola italica, fu soprattutto a seguito delle frequentazioni greche del IX secoloe della fondazione delle prime colonie greche nella penisola italica, a partire dalla finedell'VIII secolo a.C., che la vite fu impiantata largamente nelle regioni meridionali, e cheil vino venisse proposto su larga scala agli esponenti di rilievo dei grandi centri preur-bani villanoviani [22].Già alla fine del IX secolo a.C. giunsero infatti dall'area euboica, in area veiente eromana, i primi vasi greci di importazione, che si collegano indiscutibilmente al consu-mo di vino importato, diffusi all'interno di sepolture di individui che si pongono ai ver-tici delle società [23].Recentemente è stata proposta l'ipotesi che fosse noto, almeno nel Lazio meridionalema probabilmente anche in area etrusca, già un vino indigeno, indicato dalla parola lati-na temetum [24]. L'esistenza di un simile prodotto e di una ritualità ad esso connessa,precedente dunque l'introduzione dei riti simposiaci di origine greca, potrebbe essere

confermata anche da altre due categorie di indizi.La prima riguarda il mondo della ceramica, nel quale si ritrovano dueforme vascolari autoctone molto probabilmente connesse con il vino: se il

legame è probabile per la capeduncola con ansa bifora, esso èaccertato per l'anforetta a spirale, fossile-guida delle necropoli

laziali e sud-etrusche di età orientalizzante, la cui imitazione darà,come esito, l'anforetta attica nicostenica sicuramente connessa al

vino, nel VI secolo a.C. [25] La seconda riguarda il mondo paleobotanico, con le atte-

stazioni di Vitis vinifera e di vinaccioli presso l'abitato delGran Carro (VIII secolo a.C.), località per la quale si èproposta l'ipotesi di un primo tentativo di sfruttamentoindigeno della vite [26] o con la presenza di vinaccioli

d'uva nelle tombe della necropoli laziale del Foro a Roma[27]

Ma il nuovo prodotto, conosciuto attraverso l'osmosi culturalecon i Greci, doveva presentarsi di qualità superiore, sia perchéfrutto di specie di vitis selezionate nel tempo, sia perché realizzatocon le più progredite tecniche di coltura e di preparazione: il suo

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successo fra gli Etruschi sarà pertanto inarrestabile.Con la fine dell'VIII secolo a.C. il cerimoniale del simposio si strutturò alla manieragreca specialmente in Etruria meridionale, quando a Tarquinia si stabilirono ceramistigreci che produssero, per le aristocrazie etrusche, interi gruppi di vasi per i momentisalienti del simposio: l'oinochoe e lo skyphos a decorazione geometrica, prepostirispettivamente per l'attingitura ed il trasporto del vino il primo, il vaso per bere deisimposiasti il secondo, il grande calderone in bronzo su sostegno o alto piede, benattestato nei corredi delle tombe principescheorientalizzanti. Che la pratica simposiastica siaormai largamente diffusa tra le classi principescheè testimoniato anche dalla lastre delle regiae diMurlo ed Acquarossa, della metà del VI secolo a.C.Per ciò che concerne più propriamente il vino,fino alla metà del VII secolo a.C., all'interno deicorredi delle tombe degli aristocratici etruschi sitrovano anfore prodotte unicamente in regionigreche (Attica, Eubea, Grecia orientale) o fenicie,insieme con materiali da mensa euboici, rodii ocorinzi [28]. Fino a quell'epoca dunque il vino eraun prodotto esotico, raro e alla portata di pochi.Lo stesso mito di Dioniso che trasforma in delfinii pirati etruschi che avevano cercato di rapirlo,cantato nel VII inno omerico e più volte raffigura-to nella ceramografia etrusca, sembrerebbe adom-brare tale sudditanza commerciale [29].Dall'ultimo quarto del VII secolo a.C. cominciainvece, probabilmente nella prima fase per iniziati-va dei grandi principes proprietari terrieri, una produzione di vino locale, anche graziealle grandi masse di servi sulle quali poter contare [30] . In questo stato sociale nume-rosi gruppi di persone sono interamente destinati alla coltivazione di una coltura spe-cializzata come la vite, che necessita di un'assidua cura. I primi emblematici segnalicompaiono a partire dall'ultimo venticinquennio del VII secolo a.C. e riguardano laceramica da mensa. Cominciano ad apparire diffusamente grandi servizi da simposio inbucchero, ceramica etrusca che imita per lo più le forme greche, anche se conservaanche alcune forme autoctone [31].Ma l'indizio più importante di una locale produzione di vino, che presto arriveràall'esportazione, è fornito da città come Cerveteri e Vulci, dove sono state localizzatebotteghe che fabbricavano i contenitori da trasporto della bevanda. È attestata infattiuna graduale diffusione delle anfore prodotte dalle due città sia nelle tombe che innumerose località dell'Italia e dei paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo.Pensiamo in particolare ai rinvenimenti dei relitti lungo le coste francesi, ad esempioquelli di Cape d'Antibes e Bon Porté, che trasportavano assieme anfore (il vino) e ilvasellame da mensa (vasi di bucchero necessari per il suo consumo e forse dono dirappresentanza).In generale i numerosi rinvenimenti di anfore indicano che ambito privilegiato perl'esportazione del vino etrusco fu, oltre all'intera costa tirrenica fino alla Sicilia orienta-le, lo specchio nord-occidentale del Mediterraneo fino a Marsiglia e ad Ampurias. Ilmercato era indirizzato dunque sia verso le colonie greche, che verso i Celti (odiernaFrancia), fino alla Spagna.Altri luoghi che hanno restituito sporadicamente vasellame dibucchero e di imitazione corinzia sono la Sardegna, la Sicilia occidentale, Cartagine e la

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Spagna meridionale, ambito geografico dove opera la marineria punica e dove il vinoetrusco non può trovare accoglienza, a significanza di quella spartizione della influenzadiretta tra le due potenze e di quell'alleanza di difesa del Mediterraneo occidentale infunzione antiellenica testimoniata anche dalla battaglia di Alalia e dalla lamina di Pyrgiiscritta in lingua punica [32].A partire dalla fine del VI secolo a.C. si canonizzano altre forme ceramiche da impiega-re nel simposio: dal kyathos, forma vascolare etrusca con origini che affondano nell'etàdel Bronzo e che è riprodotta nel Ceramico di Atene, a tutte quelle forme nate edirettamente prodotte in Grecia, a figure nere prima, e rosse poi: kantharoi, skyphoi,olpai, oinochoai, kylikes, crateri, anfore.L'Etruria sarà l'acquirente più importante della produzione ceramica attica, pur conti-nuando a produrre, in parallelo, anche serie ceramiche locali. Nei casi più raffinatiabbiamo anche servizi realizzati in metallo. Basta pensare all'area dell'adriatico setten-trionale che, fra il VI e il V secolo a.C., è caratterizzata dalla produzione di eleganti situ-le in bronzo per il consumo di vino [33]. Oppure ai non rari servizi in bronzo che,oltre alle consuete olpai e oinochoai, possono annoverare anche grattugie, colini, aseconda di esigenze di consumazione (probabile associazione, in alcuni casi, del formag-gio grattugiato con la bevanda vino, filtraggio dello stesso o di decotti di cui potevacostituire base essenziale) [34].Le esportazioni di vino etrusco verso le coste della Francia continuano anche dopo ladisfatta di Cuma, del 474 a.C., sia pure con una progressiva contrazione, almeno finoall'inizio del IV secolo a.C. Dal III secolo a.C. le anfore di produzione vulcente e cere-tana vengono sostituite dalle anfore cosidette greco-italiche, provenienti dall'Italiameridionale, che ebbero una larghissima diffusione nel III-I secolo a.C. e che dovetteropresto essere prodotte anche nell'Italia centrale [35].Anche l'Etruria interna con i centri di Arezzo, Cortona e Chiusi sembra ora promuo-vere diffusamente una produzione vinicola, come è adombrato dalla serie monetalefusa ruota-ancora, riferita a tali città, che può presentare, al rovescio, anche il cratere ol'anfora [36].Le testimonianze paleobotaniche relative a questo orizzonte cronologico hanno resti-tuito rami di Vitis vinifera a Pyrgi (in pozzi colmati verso il 270 a.C.) [37] e vinacciolidella stessa a Blera, presso l'insediamento agricolo Le Pozze (III secolo a.C.) [38].Le fonti letterarie relative alla produzione di vino, uve e vigneti risalgono quasi tutteall'età ellenistica e alla romanizzazione, pur facendo riferimento, in alcuni casi, ad epo-

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che precedenti. Secondo Dionigi di Alicarnasso, abbondanti ed eccellenti erano i pro-dotti dei vigneti della regione etrusca, albana e falerna [39] . Sia Dionigi [40] che Livio[41] ricordano l'importanza del vino di Chiusi come attrattiva per i Celti a propositodel celebre passo sulla vicenda di Arrunte. Lo stesso Ateneo conferma come i vinietruschi fossero conosciuti ed apprezzati anche in Grecia [42].Plinio il Vecchio ricorda alcune qualità note di vitigni etruschi, che forse riflettono areedi produzione rinomate anche in epoca precedente: si tratta dell'uva di Todi, che hadue varietà piantate nel territorio di Arezzo e di Firenze [43]. Plinio rammenta ancheun tipo di uva di Chiusi, impiantato anche a Pompei e nell'area del Vesuvio e da cuideriva il nome di Pompeiana [44], il vino di Pisa [45], i vini di Adria, Gravisca, Statonia,Luni [46].A Caere sono dati come presenti vini di qualità [47] e vigneti [48]. I vitigni diPerugia, con uva dai chicchi neri, che in quattro anni forniva vino bianco, erano statiimpiantati anche nell'area di Modena [49] . Un pessimo vinello dell'area di Veio è testi-moniato da molti poeti [50].

3.1.1.3 L'olioNon si hanno documentazioni letterarie significative relative alla presenza di olivi edell'olio in Etruria. Secondo Fenestella e Plinio il Vecchio [51] , la coltura dell'olivosarebbe stata introdotta da Tarquinio Prisco, proveniente dall'Etruria, ma figlio delgreco Demarato. Sappiamo poi che Arrunte, a detta di Dionigi di Alicarnasso [52] , fra iprodotti che portò ai Celti per convincerli ad invadere le campagne di Chiusi offrì"molti otri di vino ed olio". In questo caso dobbiamo affidarci largamente alla docu-mentazione archeologica, paleobotanica ed epigrafica.Fino a tutto il VII secolo a.C. l'olio fu importato dalla Grecia per quattro scopi princi-pali: alimentare, ginnico, di illuminazione, estetico.Nell'alimentazione l'olio era impiegato sporadicamente (dovevano trovare un consumopiù largo i grassi animali), mentre più diffuso era il consumo delle olive; nell'ambitosportivo era comunemente utilizzato dagli atleti, special-mente dai lottatori, per sfuggire all'avversario, comenella famosa scena dipinta nella Tomba degli Auguri, aTarquinia; spesso si vede l'aryballos contenente l'oliolegato al braccio dell'atleta (come nella Tombadella Scimmia a Chiusi). Notevole doveva esse-re il suo impiego nell'illuminazione, da picco-le lucerne fino ad arrivare a esempi ecla-tanti come il lampadario di Cortona, chepresenta bocchette per accogliere l'olioche poi bruciava tramite uno stoppino. Nelmondo della bellezza femminile l'olio eraimpiegato, unitamente a sostanze profuma-te, dalle aristocratiche etrusche. Il preziosoliquido doveva accompagnare anche l'ultimoatto della vita umana, nella pratica di profumareil defunto con unguenti.Fino alla metà del VII secolo a.C. l'olio era importa-to dalla Grecia già stivato all'interno di contenitoridiversi a seconda dei vari usi. Per le grandi quantità siutilizzavano le anfore; per gli unguenti odorosi, in cuientrava come componente essenziale l'olio d'oliva, i conte-nitori erano i piccoli aryballoi, gli alabastra e gli askoi.

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Le anfore greche olearie, rinvenute in gran numero specialmente a Spina, prove-nivano particolarmente dall'Attica. Invece i vasetti da profumi erano prodottiessenzialmente da Corinto. Questi ultimi, ricchi di decorazioni e raffinati,entravano nel corredo della matrona etrusca, come si può apprezzare daalcune scene incise su specchi. Di norma tra i mercanti greci e l'acquirenteetrusco poteva frapporsi un rivenditore, che offriva l'olio dentro il conteni-tore o sfuso: è lecito supporre ciò osservando una scena su un vaso atticoa figure nere, dove un uomo sta versando con un imbuto una piccolaquantità di olio in un vasetto tenuto in mano dall'acquirente [53].L'importazione perdura per tutto il VII secolo a.C. (dall'Attica, Eubea,Corinto, Grecia orientale e Fenicia), ha come naturale conseguenza il fattoche in questo periodo non si coltivava l'olivo in Etruria.Successivamente, a partire dal terzo quarto del VII secolo a.C., comincianoalcune produzioni anforacee etrusche che inizialmente imitano i tipi fenicielaborati in Occidente (esempi a Vulci e a Chiusi) e imitazioni in buccherodei vasi da profumi. È il momento in cui si inizia a far concorrenza all'olio eai profumi greci, attraverso una produzione locale. Le conoscenze tecnichesulla coltivazione dell'olivo furono probabilmente acquisite dalla Magna Grecia,regione dove già da tempo la coltura era praticata. L'olio, insieme al vino, cominciaa comparire largamente nei corredi, testimoniato dai suoi contenitori specifici.Conferma di tale processo è anche la terminologia olearia etrusca, prestito dal greco, esuccessivamente passata al latino. Basti citare la parola latina amurca, designante la mor-chia, che testimonia un chiaro passaggio del greco amorgon attraverso l'etrusco.Altrettanto significativa è l'iscrizione etrusca aska mi eleivana, presente in un aryballos dibucchero della fine del VII secolo a.C., che documenta, sia nel nome del vaso (aska daaskòs), che nel contenuto (eleivana da elaion, olio in greco), l'origine greca di tali termini.È chiaro che l'introduzione della coltivazione dell'olivo e della vite comportò da unlato una sicura trasformazione del paesaggio agrario, e dall'altro uno sfruttamentorazionale delle campagne, che dovette toccare l'apice con l'affermazione della civiltàurbana.Affiancare ad una generale coltivazione estensiva (i cereali) una intensiva (quel-la dell'olivo e della vite) sottointende la presenza di manodopera specializzata, e un'at-tesa di molti anni prima di poter effettuare la raccolta. Oltre all'olio si utilizzavano, afini alimentari, i frutti: ne è un esempio la Tomba delle Olive di Cerveteri, del 575-550a.C., all'interno della quale si sono rinvenuti numerosi noccioli in una sorta di caldaia,assieme ad un servizio di vasi bronzei per il banchetto. Noccioli di olive sono statirecuperati anche nelle anfore del relitto dell'Isola del Giglio.Attestazioni paleobotaniche sulla coltivazione dell'olivo in età etrusca provengono dallazona portuale di Pyrgi, il porto di Cerveteri, all'interno di pozzi colmati verso il 270a.C.; rametti di Olea europaea risalenti al IV-III secolo a.C. Da Blera, presso l'insedia-mento agricolo di Le Pozze, provengono invece un nocciolo intero ed uno frammenta-rio di Olea europaea, insieme a materiali inquadrabili in un arco cronologico che spaziadalla metà del IV agli inizi del III secolo a.C. I due noccioli però non consentono diriconoscere caratteri discriminativi tra l'olivastro e l'olivo coltivato [54].

3.1.1.4 La fruttaScarse sono le attestazioni letterarie, a differenza della vite e dei cereali, sulla presenzadi alberi da frutto in Etruria. Una generica notizia tramandata da Diodoro Siculo [55]ricorda come l'Etruria pullulasse di alberi. Arrunte di Chiusi, a detta di Dionigi diAlicarnasso [56], fra i prodotti che portò ai Celti per convincerli ad invadere le campa-gne di Chiusi offrì (oltre al vino e all'olio) anche "molti cesti di fichi".

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I rapporti stretti con Cartagine, dove l'agricoltura era perfezionata, e il gran numero dischiavi orientali che entravano nelle loro familiae, fecero sì che gli Etruschi contribuis-sero all'importazione di alcune piante esotiche, come una particolare varietà di ciliegeoriginaria del Ponto, dai frutti più rossi, il Cerasum apronianum, il cui diffusore, uncerto Apronio, era originario delle parti di Perugia [57].Ma è chiaro che dovevano essere diffuse molte altre varietà di frutta, probabilmenteanche il cedro (il cui nome latino citrus implicherebbe secondo alcuni una mediazioneetrusca), e sicuramente i meli e i peri, che necessitano di un'attenta conduzione agricola.Importanti e diffuse le attestazioni paleobotaniche [58]. Il pero (Pyrus sp.) è attestato aBlera. Recentissimi scavi relativi alla necropoli etrusca orientalizzante di CasaleMarittimo hanno restituito resti di mela, vinaccioli, melograna, numerosioggetti in legno di pero e un favo d'api, che attesta il consumo delmiele.Quest'ultimo alimento poteva essere usato per dolcificare, ma anchecome componente fondamentale per impiastri e medicine [59].Esisteva poi tutta una serie di alberi da frutto o arbusti che erano inte-ressati da una raccolta sistematica dei frutti spontanei che, stagional-mente, integravano la dieta. La paleobotanica ha attestato la presenza alGran Carro del fico (Ficus carica) del corniolo (Cornus mas), del noc-ciolo (Corylus avellana), del pruno selvatico (Prunus spinosa), del dama-sceno (Prunus insititia) e del rovo (Rubus sp.).A Blera sono testimoniatiil fico, il corniolo ed il nocciolo. Alcune pitture tombali mostrano anchel'uva da tavola e le melograne (ad esempio la Tomba Golini di Orvieto).Facevano probabilmente parte dell'alimentazione degli strati più umilidella popolazione anche le ghiande di quercia, dopo essere state bolliteper togliere loro il contenuto tannico, ed i frutti del faggio.Tale abitudinesi è mantenuta fino ad epoca recente in ambiente appenninico e nellaSardegna. Le ricerche polliniche attestano poi che all'inizio dal I secolo d.C.,in piena età imperiale romana, ebbe grande sviluppo l'introduzione del casta-gno che sostituì, nelle aree collinari, la quercia [60].

3.1.1.5 La verduraRelativamente al consumo di verdura presso il popolo etrusco, non vi sono fonti lette-rarie significative.Almeno sulla base del confronto con la tradizione letteraria romanasi dovevano coltivare cipolle, aglio, carote, rape, cavoli, finocchi, il Phaseolus (non l'at-tuale fagiolo, di origine americana, ma il Dolichos unguiculata), il pisello, la veccia, la len-ticchia, il cece, il lupino, e, diffusamente, la fava (Vicia faba).Quest'ultima è largamente attestata nei reperti paleobotanici a Sorgenti della Nova,Narce, Gran Carro, Luni sul Mignone,Torrionaccio, Mezzano [61], ed è stata trovata informa carbonizzata, stipata all'interno di vasi accanto a cariossidi di cereali, nell'abitatoetrusco del Forcello, presso Mantova [62]. La fava poteva essere seccata e conservataa lungo oppure poteva offrire una farina da unirsi ad acqua, latte e frumento tostato,formando quelle farinate di cui gli Italici erano famosi consumatori. Essa era inoltre uti-lizzata per essere alternata ai cereali nella coltivazione dei campi. Il legume, una voltafiorito, era reciso e interrato ed andava ad arricchire il terreno di azoto, sostanzanutritiva che era stata sottratta dal grano l'anno precedente.Tale tecnica del sovescioera diffusamente praticata dai Saserna, proprietari terrieri etruschi del Piacentino [63].Altre attestazioni paleobotaniche riguardano per Narce il Pisum sp. e il Lathyrus sp.,per Acquarossa una specie di pisello (Pisum o Cicer arietinum) o la veccia, per Luni sulMignone il Lathyrus sp. [64].

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3.1.1.6 La carne e il pesceAccanto agli alimenti di origine vegetale, frutto di un'agricoltura assai sviluppata, nondovevano mancare sulla tavola etrusca prodotti derivati dall'allevamento animale. Findall'età del Bronzo, i bovini erano stati scelti per il traino dell'aratro e del carro per lamaggiore resistenza al lavoro rispetto agli altri animali, come ad esempio i cavalli.Taleoriginaria preferenza non fu che il primo stadio della selezione - perfezionata facendoriprodurre solo gli esemplari migliori - che porterà alla formazione delle razze chianinae maremmana, esaltate già nei bronzetti votivi di VII secolo a.C. [65] e ricordate anco-ra ai tempi di Ovidio [66] e Columella [67] per la loro muscolatura e la loro resisten-za al traino dell'aratro.Ma proprio per l'importanza che tali animali rivestivano nella vita rurale, essi godevanodi una sorta di sacra protezione: il loro sacrificio era limitato alle cerimonie religiosepiù importanti e la consumazione delle loro carni nel quotidiano avveniva solo al ter-mine del loro ciclo lavorativo [68].È un dato di fatto che tutte le popolazioni che hanno operato una selezione dei bovinia scopo alimentare-agricolo mostrino una tolleranza al lattosio non riscontrabile neipopoli che non hanno conosciuto il carro e l'aratro, o hanno utilizzato animali diversio addirittura altri uomini per il traino delle due "macchine agricole", quali i cinesi, alcu-ne popolazioni africane, i nativi americani, i nativi australiani.Le fonti letterarie, i rinvenimenti osteologici e l'arte figurativa ricordano inoltre alleva-menti di ovicaprini e di suini, questi ultimi in particolare nell'Etruria padana. Fra tutti, ilmaiale era l'animale più consumato [69]. Per i ceti meno abbienti un contributo note-vole ad una dieta poco ricca di proteine e di grassi animali era costituito dalla selvaggi-na [70] . Le colline ricoperte da boschi e le zone pianeggianti, talora paludose, eranoun ambiente ideale per cinghiali, lepri, caprioli, uccelli acquatici. Difficile dire però qualefosse il reale peso della cacciagione nell'alimentazione quotidiana etrusca, se cioè talepratica non fosse relegata, almeno fra gli aristocratici, al ruolo di attività sportiva. Fra lepiù significative iconografie venatorie ricordiamo la decorazione pittorica della Tombadel Cacciatore di Tarquinia, riservata ad un personaggio di alto rango: in un paesaggioidilliaco sono appesi per le zampe, all'interno di una tenda, alcuni daini ed anatre selva-tiche [71].

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In genere la carne poteva essere bollita in calderoni bronzei sostenuti da treppiedisopra il fuoco, oppure veniva arrostita su spiedi metallici. Per conservarla, in modospecifico quella di suino, si usava salarla o affumicarla [72].Un altro settore importante era quello dei derivati dai prodotti animali: uova, latte eprodotti caseari. Plinio [73] e il poeta Marziale [74] parlano di enormi forme di for-maggio fabbricate a Luni, al confine fra la Liguria e l'Etruria.Le città costiere e quelle vicino ai laghi dovevano far largo uso della pesca, anch'essatestimoniata da evidenze archeologiche. Ami e pesi da rete da Cerveteri, fiocine,modellini fittili di imbarcazioni [75], figurazioni pittoriche come la Tomba della Caccia edella Pesca di Tarquinia [76] , mostrano almeno quattro tecniche specifiche di cattura:con la rete, il tridente, la canna con la lenza ed il cesto di vimini.Vi erano sui promontori di Populonia e del Monte Argentario sopra Orbetello alcunithynnoscopeia, posti d'osservazione da cui si spiava l'arrivo dei branchi di tonni e pescispada [77]. Strabone [78] e Columella [79] ricordano che, nelle acque lagunari edinterne, si pescavano capitoni, anguille, spigole, orate, cefali, gamberi, triglie.Molto apprezzati erano anche i molluschi, rinvenuti negli scavi di Populonia ma anchein abitati non costieri, come quello del Forcello.

3.1.2 La tavola dei ricchi e la tavola dei poveri: la dieta alimentareNella società etrusca estremamente diversa doveva essere l'ali-mentazione delle classi meno agiate da quelle più ricche. Leprime consumavano essenzialmente vegetali (cereali, legumi,frutta) o formaggio con verdure ed aglio, come il contadinodescritto nel Moretum di Virgilio. Le proteine potevano esserericavate da grano, uova, pecorino, fave secche; i grassi dall'oliod'oliva; il fabbisogno di vitamina A e C era per lo più copertodal consumo di rape, evitando così xeroftalmia e scorbuto(non va dimenticato che gli agrumi furono introdotti dagliArabi in Sicilia solo nel Medioevo). La pratica diffusa dell'allat-tamento materno diminuiva l'incorrere del rachitismo; ilgrano copriva il fabbisogno di vitamina B1, evitando così ilberi-beri. La vitamina B2 era offerta da fave secche, latteintero, pecorino, pesce, evitando così distrofie di cute omucose. Uova, formaggio e pesce fornivano anche la B12,scongiurando anemia e patologie neurologiche a tale deficit collegate. Il grano coprivaanche il fabbisogno di PP, scongiurando la pellagra, ed inoltre offriva anche calcio eferro. Gli elementi menzionati fornivano anche le minime quantità necessarie di acidofolico. La loro bevanda era essenzialmente l'acqua; raramente doveva essere consuma-to vino; magnesio e zinco, occorrenti in quantità minimali, si ricavano da qualsiasi dietamista [80].Si è già accennato al fatto che molti di questi alimenti, in particolare i cereali ma anchei legumi e i formaggi, erano prodotti in eccedenza e rifornivano il mercato romano.Non c'è ragione di dubitare quindi che i grandi proprietari terrieri etruschi fosseroben attenti ad alimentare la loro manodopera, come più avanti insegnerà la precettisti-ca agronomica di Catone o Columella.Non dissimile doveva essere il regime alimentare delle classi libere più umili, piccoliproprietari terrieri che riusciamo a identificare bene solo dall'età ellenistica, quandocolonizzano capillarmente i territori di Chiusi, Perugia e Volterra. Essi si fanno deporrein urnette cinerarie di fabbricazione corsiva, dove per lo più compare un eroe che, conl'aratro, fracassa la testa ad alcuni soldati: mito ignoto nella sua esegesi, ma probabil-

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mente polemico contro i vecchi possidentes etruschi spalleggiati da Roma.Ben diversa era l'alimentazione degli aristocratici, deliziati nei banchetti da portate ric-che di carne e soprattutto rallegrati dal vino, la bevanda che, per eccellenza, li qualifica-va socialmente. Un esempio di dispensa per la carn,e costituita da un bue, un capriolo,una lepre e alcuni anatidi, con servi intenti a cucinare per i loro signori, compare nellaTomba Golini di Orvieto [81], del IV secolo a.C. Scene di simposiasti sono presenti,come già accennato, fin dalla metà del VI secolo a.C.: ricordiamo solo le lastre di terracot-ta eseguite a stampo da Murlo [82] o il frontone dipinto della Tomba della Caccia e dellaPesca di Tarquinia. Se dunque, per gli humiliores, il problema poteva essere un'alimenta-zione scarsa o ipoproteica, altri erano gli inconvenienti della dieta per i ceti abbienti.La possibilità di studiare uno scheletro antico conservato in tutte le sue parti è di fon-damentale importanza anche dal punto di vista della ricerca paleonutrizionale. Negliultimi anni le analisi si sono concentrate su una serie di microelementi, che vengonoconsiderati degli indicatori della nutrizione. Rilevando ad esempio l'assorbimento distronzio o di zinco nelle ossa si può risalire ad una alimentazione rispettivamente piùricca di vegetali o di carne rossa, frutta secca o latte. Un'indagine specifica volta alla ricer-ca di tali elementi è stata condotta sugli inumati della necropoli del Ferrone e su quellidella necropoli di Monterozzi di Tarquinia. I primi sono risultati possedere una dieta varia-ta (valori di zinco e stronzio simili), i secondi una dieta più ricca di prodotti vegetali e,probabilmente, data la vicinanza con il mare, di pesce (alti picchi di stronzio) [83].Vi è poi il tema della rappresentazione di aristocratici etruschi obesi su numerosi sar-cofagi di Tarquinia,Tuscania, Cerveteri, dagli inizi del IV secolo a.C. in poi, dove benPaola appare la volontà di esprimere, tramite l'obesità, uno status symbol di ricchezzae dignità, riservata solo a chi se la può permettere [84]. Quanto sia rispondente allarealtà la rappresentazione di tale classe e quanto sia invece voluta non è dato di sape-re. Sta di fatto che, al tempo di Catullo [85], lo stereotipo dell'obesus Etruscus eraormai un dato diffuso, e d'altra parte anche Virgilio [86] parla del pinguis Tyrrenus.Adogni modo, le rappresentazioni fortemente realistiche dei coperchi dei sarcofagimostrano prominenza del ventre, tratti cadenti del viso, doppio mento, ginecomastia.Nel mondo greco o romano invece l'obesità è caricaturale, o ha una connotazionemorale tipica dei cattivi ricchi, dei tiranni, degli imperatori abusivi.La letteratura medica ippocratica riconduceva, fra i mali derivanti dall'obesità, la sterili-tà, sia per l'uomo che per la donna [87]. In periodo tardoromano, il medico CelioAureliano [88] la considera una vera e propria malattia, e per combatterla consiglia ildimagrimento. Se ormai è acquisito che l'obesità è il risultato di un fenomeno biologi-co in cui si combinano fattori esogeni (sovralimentazione) ed endogeni (fattori eredita-ri, ormonali, neurologici, psicosomatici), va specificato che il mondo etrusco ha fabbri-cato obesi anche per uno scopo mirato, ad esempio sovralimentando gli atleti di disci-

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pline pesanti, come i lottatori, o i pugili dal ventre enorme e la corporatura estrema-mente tozza e robusta della Tomba degli Auguri [89] di Tarquinia, anch'essi appartenen-ti all'aristocrazia (si tratta di ludi funebri in onore di un defunto ai quali partecipa lajeunesse dorée tarquiniense); la loro dieta doveva consistere, se si accetta il paragonecon le diete alimentari degli atleti greci, in grandi quantità di carne, uova, fichi secchi eformaggio.Abbiamo accennato al largo uso del vino da parte delle famiglie aristocratiche, durantela cerimonia del simposio, in cui schiere di servi sono indaffarate a servire la bevandadi Dioniso ai loro signori in vasi in metallo prezioso (come ancora nel frontone dipin-to della Tomba della Caccia e della Pesca). Il largo utilizzo del vino, oltre che dall'evi-denza archeologica, è testimoniato storicamente da Diodoro [90] e altri autori antichi.Pur ammettendo che esso fosse diluito secondo la moda greca (tre parti di acqua perogni parte di vino) ciò non sopprimeva l'alcool contenuto, ed è chiaro che, dal puntodi vista tossicologico, conta solo la quantità di etanolo introdotta nell'organismo e lacapacità degli individui di metabolizzarlo [91].Gli effetti di tale alcoolizzazione intermittentee di carattere essenzialmente festivo sulle ari-stocrazie etrusche potevano variare da caso acaso, visto che differenti sono le reazioni e lasensibilità dei singoli individui all'alcool. Se, sulmomento, l'etanolo poteva esercitare sul siste-ma nervoso un'azione euforizzante (rilevabilead esempio in scene orgiastiche di danze oamplessi nella Tomba delle Baccanti o nellaTomba della Fustigazione di Tarquinia), coltempo le conseguenze potevano essere molte-plici: alcuni, nonostante una notoria intolleran-za, potevano condurre una vita felice, altripotevano presentare turbe e disturbi viscerali,ma anche nevrosi mentali dopo solo qualcheanno di intossicazione.Poiché è provato che le donne sono più sensibili in media alla tossicità dell'etanolo, evisto che la donna etrusca, molto emancipata, partecipava a pieno titolo con il maritoal simposio - cosa che aveva fatto gridare allo scandalo il greco Aristotele [92] - non èescluso che le nobili etrusche soffrissero largamente di questi disturbi. È chiaro poiche vi sono grandi difficoltà nel riconoscere, anche nel ben più documentato mondogreco e romano, il percorso naturale della malattia alcolica, perché, in genere, il dannoepatico di tipo cirrotico è tardivo: è probabile che gli Etruschi, in media, non avessero iltempo di contrarre la cirrosi, perché morivano prima del suo manifestarsi, dato che laloro speranza di vita alla nascita era di circa 20 anni. Quanto poi alla coscienza chepoterono avere del rapporto causa-effetto fra l'alcool e questa malattia che minacciavai bevitori ultraquarantenni, è difficile fare affermazioni certe; tuttavia, sulla scorta delfatto che il filone medico ippocratico ha ignorato questo legame (accertato sicuramen-te solo nel XIX secolo d.C.), è ragionevole pensare che lo stesso valesse per gliEtruschi, e che si imputassero ad altre cause tali disturbi.A titolo di curiosità, precisistudi sull'argomento sono stati condotti solo per la figura di Alessandro Magno [93],per il quale l'abbondanza di dati riportati dai biografi è enorme. Nelle turbe mentali enel comportamento squilibrato degli ultimi anni di regno del re macedone si sonovoluti vedere precisi effetti legati all'esagerato consumo di vino.Ad ogni modo, il costo e la preziosità del vino, con tutte le sue conseguenze nefaste, lo

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relegavano in un preciso entourage sociale. È probabile che, almeno da quando iniziòuna produzione locale su larga scala, qualità inferiori del prodotto fossero consumatedalle classi più umili, con analoghe complicazioni collaterali; forse, considerato l'effettoeuforizzante che la bevanda arrecava, un uso moderato della stessa era permessoanche ai soldati.Il largo abuso dei prodotti della mensa poteva causare fenomeni dismetabolici, gastro-enterici e stomatologici.Alcuni ex voto raffiguranti l'apparato digerente possono sen-z'altro riferirsi ad una richiesta di guarigione alla divinità per questi tipi di disturbi [94].Un'altra conseguenza della buona tavola dovevano essere le frequenti malattie dell'ap-parato masticatorio, testimoniate dall'alto numero di apparecchi protesici dentari, rin-venuti in tombe di famiglie agiate.Gli insegnamenti di Pitagora di Samo, passato nel VI secolo a.C. a Crotone, dove fondòuna setta esoterica, furono in parte resi pubblici fra i Greci. L'alone di leggenda checircondava il saggio era ben condiviso fra i Romani, ed è molto probabile che anche leclassi elitarie del mondo etrusco, in continuo contatto culturale e commerciale con laMagna Grecia, ne conoscessero il pensiero. Fra i prescritti sicuramente genuini, uno deipiù famosi, e sicuramente dei meno compresi fu l'interdizione di "astenersi dalle fave"[95] e di "camminare su un campo di fave" [96] . La leggenda voleva che Pitagora fossestato ucciso da alcuni soldati perché impedito, nel tentativo di fuga, dalla presenza diun campo di fave che egli preferì non attraversare [97].Il legume è la Vicia faba, originaria dell'area geografica al sud del Caspio e dell'Africa delnord, che esisteva in Persia e nel Maghreb allo stato selvatico, ed il cui uso alimentare,la coltivazione ed espansione lungo le coste del Mediterraneo, risalgono alla preistoria.Varie furono le ipotesi di spiegazione, fin dall'antichità, dell'interdizione, che dimostranoperò come già pochi anni dopo la morte del maestro si fosse persa la cognizione dellacausa reale. Per alcuni era la somiglianza del baccello ai testicoli umani che ne impedivail consumo: mangiarlo sarebbe stato come praticare una sorta di cannibalismo, "tantopiù che" - aggiungeva Luciano [98] - "se le fave sono esposte per un certo numero digiorni alla luna esse si coprono di macchie sanguigne e quindi, essendo considerate unasorta di animali, sono interdette ai Pitagorici che non possono consumare carne". Ineffetti, l'accettazione da parte dei Pitagorici della trasmigrazione dell'anima negli esseriappartenenti al mondo animale li obbligava a nutrirsi di soli vegetali. Per Cicerone [99]le fave provocavano flatulenze e gorgoglii che potevano disturbare il pensiero notturno.Il problema è che la medicina ufficiale dell'antichità, a partire dagli ippocratici fino aDioscuride, medico a Roma nel I secolo d.C., non vedeva controindicazioni nel consu-

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mo di fave, e anzi venivano prescritte cotte per curarealcune forme dissenteriche, il vomito e la tosse, e perquesto si riconoscevano solo alcuni disturbi (come la fla-tulenza) derivati dalle fave crude. La medicina modernaconferma per l'essenziale la fondatezza di queste osser-vazioni dietetiche e di queste indicazioni terapeutiche[100] : le fave in effetti contengono degli oligosaccarididifficili da digerire che, da un lato, provocano flatulenze,dall'altro possono avere un'azione benefica nella cura dialcune diarree di origine infettiva.Quanto poi all'innegabile influenza dell'ingerimento dellafava sull'attività psichica essa non è da tributarsi al meteo-rismo, ma al fatto che le fave contengono, in concentra-zione abbastanza elevata, il levodopa (L-DOPA), unasostanza utilizzata oggi per la cura del morbo diParkinson. La somministrazione di tale sostanza aumentala quantità della dopamina che precorre l'adrenalina, nelsistema nervoso centrale, provocando insonnie, ansie oallucinazioni. In sostanza quindi i medici ippocratici nonriportavano alcun inconveniente derivato dall'ingerimentodelle fave. Semmai era per un altro legume da foraggio, laVicia ervilia, che essi raccontavano un caso di intossicazione generale per gli abitanti diuna città della Tracia presa d'assedio: nutrendosi per molti mesi con il pane derivato daquesta pianta furono colpiti da paralisi finale degli arti inferiori (latirismo) [101] È invece dalla fine dell'Ottocento che è stata introdotta la parola "favismo" per desi-gnare gli inconvenienti, provocati in soggetti particolarmente sensibili, dall'ingerimentodelle fave o dall'inalazione del polline della Vicia faba. La reazione è di tipo ittero-emo-globinurica acuta: nelle ore successive all'ingestione delle fave crude si scatena unagastroenterite con violenti dolori addominali, seguiti da emoglobinuria, anemia grave,ittero. L'anemia conseguente alle crisi di favismo, durante l'infanzia, può provocarelesioni croniche che somigliano all'iperostosi porotica di origine talassemica.I soggetti a rischio sono oggi stati riconosciuti avere un deficit ereditario di G6PD(glucosio 6-fosfato deidrogenasi), un enzima che protegge l'emoglobina nella sua fun-zione di trasporto gassoso, ed avere un siero privo di fattore protettivo. Gli studimoderni hanno anche localizzato il principale focolaio storico del favismo nella MagnaGrecia (Italia del sud e Sicilia), la Sardegna, alcune zone della Grecia attuale (specie leisole, come Rodi), la Corsica, l'Anatolia, le sponde mediterranee dell'Africa. Prima dellarecente mescolanza delle popolazioni e della migrazione massiccia degli abitanti delmeridione, nell'Italia del centro e del nord la frequenza del favismo era minima e, insostanza, si può dire che le antiche dimore degli Etruschi sono state toccate da questaaffezione solo in epoche recenti. Il pericolo del favismo mediterraneo, che si annide-rebbe molto probabilmente dietro la proibizione pitagorica di mangiare fave, nonriguardava gli Etruschi [102] . Gli Etruschi anzi, come abbiamo già accennato, furonograndi produttori di questi legumi, se si considera che, ovunque si siano fatti scavifacendo attenzione ai reperti paleobotanici (Acquarossa, Forcello, San Giovenale, GranCarro), se ne sono trovati in gran quantità (la condizione perché si mantengano finoad ora è che si siano carbonizzati).L'ultimo paradosso da risolvere è il fatto che la fava fu coltivata anche in MagnaGrecia, dove il pericolo di morbilità e mortalità era reale. Si è supposto, ma manca atutt'oggi la conferma sperimentale, che il rischio di favismo fosse controbilanciato da

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un nascosto vantaggio biologico. Più precisamente si è constatato che parecchi tipi dicomposti attivi della fava accrescono negli individui sani la sensibilità dei globuli rossiagli ossidanti, con accresciuta resistenza alla malaria, piaga dell'antichità. È possibile che,inconsciamente, i Greci dell'Italia meridionale e gli Etruschi che abitavano in quellearee in cui era quotidiana la convivenza con il flagello trasmesso dalla zanzara anofele,abbiano tratto vantaggio da tali principi [103].

3.2 Le erbe medicinali3.2.1 La vegetazione dell'EtruriaLa prima terapia che l'uomo ha escogitato è stata ricercare quanto offerto dalla natu-ra, traendo insegnamento dall'utilizzo, esterno ed interno, delle sostanze contenutenelle erbe e nelle piante di cui l'Etruria di oltre 2000 anni fa era ricchissima.In effetti, nonostante il grande sviluppo agricolo, il territorio ridotto a paesaggio agra-rio in età etrusca era una porzione molto esigua rispetto ai nostri tempi e le fonti let-terarie ricordano l'esistenza di grandi boscaglie, vere e proprie "miniere" di vegetalimedicamentosi.Già nella tradizione delle origini di Roma sappiamo di quella silva Maesia che ai tempidi Anco Marzio venne sottratta ai Veienti [104].Chiusi, Perugia, Roselle,Volterra contribuirono inoltre con legname di abete alla flottadi Scipione nel 205 a.C. [105] mentre la nuova Volsinii, costruita dopo la distruzionedella vecchia da parte di Fulvio Flacco nel 264 a.C., sorgeva, ancora ai tempi diGiovenale, fra monti selvosi [106] ; nota era anche la silva Arsia ai confini fra il territo-rio di Roma e di Veio, dove si scontrarono i Romani con gli Etruschi di Tarquinia e diVeio [107].Ma la foresta più famosa per la sua impenetrabilità era la silva Ciminia, che si estende-va sulla regione di Viterbo dai monti Cimini fino a Perugia e che, solo alla fine del IVsecolo a.C., fu attraversata da Quinto Fabio Rulliano, condottiero dell'esercito romano

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in lotta con gli Etruschi [108]. Fitti boschi dovevano essere presenti anche intorno aVetulonia se, nel 225 a.C., diecimila Galli Boi li sfruttarono per tendere un agguato,sventato poi all'ultimo momento, al console Paolo Emilio [109] . Famoso era l'abetebianco di Cerveteri, impiegato nella cantieristica navale e ricordato da Virgilio [110].Anche le aree attorno a Modena erano ricordate per le fitte estensioni di querce [111]e molto nota era la silva Litana, nei dintorni di Bologna, che servì per un agguato deiGalli Boi all'armata di Lucio Postumio [112]. Esistevano boschi anche lungo la via Emilia,presso Forum Gallorum (Castelfranco) ancora nel 43 a.C. [113]. Strabone ricorda infine"molto e lungo legname" trasportato sulle acque dei fiumi d'Etruria [114].Altre fonti ci ricordano, sia pure in contesti isolati, la presenza della Quercus ilex, delcorniolo, della Quercus suber, dell'abete dell'Appennino, del pino, del larice per laregione padana, del corniolo, del carpino, dell'orniello, del salice, del pioppo, del tiglio,dell'acero, del trifoglio, dell'acanto, della rosa, del lauro, del bosso, dell'edera, del platanoe del cipresso per l'Etruria propria [115].La toponomastica attesta inoltre una maggiore estensione del manto boschivo. Bastipensare ai numerosi cerreto, frassineto, rovereto diffusi in Toscana ed in EmiliaRomagna, fossili linguistici di concentrazioni arboree gradualmente scomparse.Anche la paleobotanica conferma l'estensione delle aree boschive, sia nell'Etruria pro-pria che in quella padana. Fra le specie attestate ricorderemo: Quercus semperviri-dens, Quercus caducifolia,Abies alba, Ostrya Carpifolia, Populus sp.,Alnus sp.,Cupressus sp., Salix sp.,Acer campestre, Sorbus sp., Fraxinus ornus, Fraxinus excelsior,Fagus sylvatica, Ficus carica,Tilia platyphyllos, Pinus sp., Buxus sp. [116].Si tratta di un mondo vegetale non molto dissimile da quello attuale [117]; i boschierano però di tipo primario, selve vastissime con alberi giganteschi, tutti nati da seme,poche specie lianose e scarso sottobosco, prevalentemente erbaceo o con muschi: quidovevano abbondare numerose le erbe medicinali.Immaginandoci dunque una flora molto più rigogliosa, con distribuzioni anche diverseda quelle attuali, possiamo ipotizzare, partendo dalle isole toscane e muovendo versogli Appennini, una serie di vegetazioni fondamentali [118].

Vegetazione dell'Arcipelago toscanoLe isole di Montecristo, Gorgona, Capraia ed Elba hanno una vegetazione caratterizza-ta da macchia mediterranea e lecceta in generale impoverita da tagli dei boschi, incen-di, ovini. La pianta più significativa di quest'area è la linaria della Capraia (linaria capra-ria), della famiglia delle Scrofulariacee (le comuni "bocche di leone").Altra specie signi-ficativa è l'arenaria delle Baleari (Arenaria balearica), cariofillacea dai fiorellini bianchi,che si rinviene alle Baleari, in Corsica, Sardegna e nell'isola di Montecristo, testimonian-za di un antichissimo ponte di terre emerse che collegava tali regioni ora separate dalmare.Vegetazione delle duneLe spiagge rappresentano una fascia di suolo sabbioso inospitale, sia per essere semprebattuto dal vento, sia per la continua salinizzazione ad opera delle acque marine. Lepiante, che possono sopravvivere in tale habitat, resistono agli ambienti salinizzati ehanno sviluppato un forte apparato radicale nonché forma strisciante o cespugliosaper resistere all'azione eolica.Fra le più note ricordiamo la verga d'oro delle sabbie marine (solidago virgareua) edue centauree (centaurea paniculata, varietà cosana e varietà maremmana).Vi sonoanche piante erbacee a foglie spinose come la calcatreppola marina (Eryngium mariti-mum), il convolvolo delle sabbie (Calystegia soldanella) con grandi fiori rosa ad imbuto,il giglio di mare (Pancratium maritimum).Allontanandosi dalla battigia ed arrivando

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sulla duna, troviamo le prime piante consolidatrici delle sabbie (grazie al loro robustoapparato radicale): in particolare lo sparto pungente o cannizzola (Ammophila litoralis)dal colore verde tenero delle foglie.Vegetazione mediterraneaAl di là delle prime dune consolidate e sulle pendici delle colline prospicienti il mare,appare la vegetazione mediterranea, sotto le sembianze di macchia.Le essenze legnose, arboree ed arbustive che la compongono, sempre di modestedimensioni, sono il ginepro coccolone (Juniperus oxycedrus), la scopa marina (Ericamultiflora), il cisto (Cistus salvifolius e monspeliensis), la salsapariglia (Smilax aspera), laginestra (Spartium junceum), il mirto (Myrtus communis), il lentisco (Pistacia lentiscus),l'alaterno (Rhamnus alaterno), il corbezzolo (Arbutus unedo) con le sue bacche rosse;fra le piante erbacee la margherita delle sabbie (Anthemis maritima) con fiori bianchi,le codine di topo (Lagurus ovatus), le numerose orchidee.Camminando a ritroso, man mano che il terreno sabbioso prende più consistenza, tro-viamo il bosco di leccio, il pino marittimo (Pinus pinaster), l'orniello (Fraxinus ornus), ilviburno (Viburnum tinus) ed il pino domestico (Pinus pinea) che però deve esserestato introdotto.Vegetazione palustreLa vegetazione palustre è formata da piante che si insediano con le radici nelle paludi,nei laghi e nei fiumi. Laghi e paludi possono essere salmastri in prossimità del mare,con acque dolci nelle zone interne.Tollerano bene il sale i giunchi pungenti (Juncusmaritimus), la cannuccia di palude (Phragmites australis), le tamerici (genere Tamarix).Negli ambienti di acqua dolce troviamo i giunchi, il lino d'acqua (Salmolus valerandi), ilcrescione selvatico (Ranunculus repens), la lisimachia (Lysimachias vulgaris), dai fiori gial-li, la salicaria (Lythrum salicaria) comune in tutti i fossi e con fioritura rosso-violacea.Dove l'acqua si fa più profonda si trovano la cannuccia di palude e la mazzasorda(Typha latifolia e angustifolia), mentre in mezzo ai laghi, dove le acque sono ferme, tro-viamo le bellissime ninfee dai fiori bianchi e rosati (Nymphaea alba) e i fiori di loto(Nuphar lutea), le castagne d'acqua (Trapa natans), i ranuncoli d'acqua (Ranunculusaquaticus).Gli alberi di tale ambiente sono essenzialmente la farnia (Quercus robur), i salici (Salixviminalis e alba), gli ontani, i pioppi (genere populus). Fra gli arbusti la frangola(Frangula alnus).Vegetazione di caducifoglie delle basse collineTutte le aree collinari non coltivate, che dalla pianura arrivano fino a quote di 700-800metri, sono ricoperte da foreste di caducifoglie; nelle parti più basse si insediano laroverella (Quercus pubescens), più in alto l'orniello, il carpino nero (Ostrya carpinifo-lia), poi il cerro (Quercus cerris).Accompagnano i boschi di caducifoglie arbusti quali ilbiancospino (Crataegus monogyna), la rosa selvatica (Rosa canina), il rovo (Rubus ulmi-folius) dalle more gustosissime, il susino selvatico (Prunus spinosa), la ginestra, il cor-niolo sanguinello (Cornus sanguinea).Fra le piante erbacee, oltre alle graminacee, la pratolina (Bellis perennis), l'erba quer-ciola (Teucrium chamaedrys), il garofano selvatico (Dianthus carthusianorum), lo sfer-racavallo (Hippocrepis comosa).I boschi di carpino nero hanno come rappresentanti più significativi del sottoboscol'edera (Hedera helix), l'emero (Coronilla emerus), il maggiociondolo (Laburnum ana-gyroides). I boschi di cerro hanno ancora nel sottobosco edera, emero e in più erbalaurina (Daphne laureola), anemone dei boschi (Anemone nemorosa), erba trinità(Hepatica nobilis), occhio di civetta (primula vulgaris).Vegetazione di caducifoglie montane

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La vegetazione submontana e montana è costituita dai castagneti e, ad altitudini mag-giori, dai faggeti. I castagneti, di origine antropica, ospitano la ginestra dei carbonai(Cystus scoparius), la fragola di bosco (Fragaria vesca), la radicchiella (varie specie delgenere Hieracium), la verga d'oro (Solidago virgaurea); sul suolo muschi e, nel periodoautunnale, i deliziosi porcini (Boletus edulis). Il sottobosco delle faggete è povero eformato da poche specie: oltre alla fragola il mirtillo (Vaccinium myrtillius), la stellinaodorosa (Asperula odorata), il maggiociondolo della montagna (Laburnum alpinum)con le sue infiorescenze dorate. Nella faggeta manca lo strato di muschi, ma sonoabbondanti i funghi.Vegetazione di essenze sempreverdi montaneNella parte più alta delle montagne la vegetazione di essenze sempreverdi è per lo piùformata da conifere impiantate da frati (come a Camaldoli o alla Verna) o dalla guardiaforestale (essenzialmente l'abete bianco, il pino nero, il pino silvestre). Fra i semprever-di ormai rari è il tasso (Taxus baccata) altresì detto "albero della morte" per le suefoglie velenose. Il suo legno, usato nell'antichità e nel Medio Evo per fabbricare archi,ne ha causato il sistematico abbattimento. Nel sottobosco di tale regione segnaliamo ilginepro comune (Juniperus communis).Vegetazione dei prati cacuminaliSulla sommità delle più alte montagne appenniniche della Toscana, oltre i 1000 metri,incontriamo un tappeto omogeneo di graminacee. La causa di tale tipo di vegetazioneè da ricercarsi nei secolari disboscamenti e nelle avverse condizioni atmosferiche. Fra lepiante erbacee le più importanti sono le avenule (genere Avenula), le festuche (genereFestuca), le poe (genere Poa), i ranuncoli (genere Ranunculus), le margherite(Leucanthemum vulgare), le genziane (genere Gentiana), le campanule (genere campanula).

3.2.2 Le fonti letterarie sui medicamenti di origine vegetaleGià Esiodo, vissuto tra la fine dell'VIII e gli inizi del VII secolo a.C., ricorda la discenden-za dei principi etruschi Agrio, Latino e Telegono da Ulisse e dalla maga Circe e, in quan-to tali, depositari di una profonda conoscenza nella preparazione di filtri magici [119]Alla fine del IV secolo a.C.,Teofrasto di Ereso, discepolo e successore di Aristotele nellaconduzione del Peripato, affermava che Etruria e Lazio erano feconde di piante medici-nali; a suffragio di ciò riportava due versi tratti da una elegia ormai persa di Eschilo,poeta di V secolo a.C., nei quali l'Etruria era sempre celebrata per offrire gran copia di

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erbe medicamentose e gli Etruschi erano presentati come popolo fabbricatore di far-maci [120] . Sappiamo che sul Monte Soratte, prima che il console Fulvio vi erigesse iltempio di Apollo, vi era un collegio di sacerdoti etruschi che possedevano i segreti perla fabbricazione di sostanze atte a togliere il dolore o a rendere temporaneamenteinsensibili al fuoco [121] . La fama era ancora viva nel V secolo d. C., giacché MarzianoCapella ripeteva che l'Etruria era nota come terra di origine dei medicinali [122] Il fatto che Teofrasto usi la parola "farmaci" è un tipico esempio della labilità termino-logica che entrava in gioco ogni volta che si parlava di medicamenti: si definiva infatticosì ogni sostanza che provocasse un effetto che, variando le dosi, poteva essere laguarigione o la morte. Non a caso, poco oltre,Teofrasto parlerà della energica veleno-sità dell'efèmero o elleboro, dicendo che di esso erano profondi conoscitori i Tirrenidi Eraclea, città non ben localizzabile dell'Etruria, che comunque doveva avere alcunicentri con questo nome, se consideriamo, ad esempio, la sopravvivenza onomasticanell'attuale Porto Ercole [123] . Secondo Teofrasto tale pianta, dalle foglie di giglio,doveva subire una sapiente preparazione per riuscire velenosa. Da una commedia diPlauto si intende che poteva essere usato come sedativo nelle forme di eccitazionepsichica [124]; Esichio lo identificava con la cicuta [125], Dioscuride [126] e Galeno[127] ritenevano fosse il nome del colchico o di un'altra gigliacea, l'iride selvatica, dalfiore candido e grossa radice.Notizie più precise ci provengono dalla dottrina ippocratica degli umori che prevedeval'utilizzo dell'elleboro come purgante, onde liberare il corpo degli "umori nocivi".D'altro canto l'espressione "elleborizzare" faceva ormai parte del linguaggio corrente.Si distinguevano due varietà, l'elleboro nero e l'elleboro bianco. Il primo corrispondealla nota "rosa di natale" (Helleborum niger), pianta della famiglia delle Ranunculacee,nel cui rizoma si ha la maggior concentrazione dei due principi attivi, comunque pre-senti nelle altre parti della pianta: l'elleboreina, che irritando la mucosa provoca lo star-nuto e il vomito, e l'elleborina, un cardiotonico. L'elleboro bianco invece è una piantadella famiglia delle Liliacee, nota anche con il nome di veratro bianco (Veratrumalbum); il suo rizoma contiene alcaloidi che provocano energici effetti sulla funzionecardiaca, sul sistema respiratorio, vascolare e nervoso. Usato come farmaco l'elleboroprovoca violente reazioni nel fisico dei pazienti; il rischio di un esito mortale della"terapia" era scongiurato dal vomito, che liberava lo stomaco dal farmaco e quindiveniva recepito solo l'effetto vigoroso del medicamento. È probabile tuttavia che non siavesse sempre chiaro il dosaggio adeguato e quindi la demarcazione fra veleno e rime-dio.Attualmente l'elleboro nero nasce in Toscana sui boschi dell'Appennino oltre i1000 metri, la varietà bianca è tipica dei pascoli.Altra pianta medicinale in uso presso gli Etruschi era il myriophillon o millefolium, il cuisucco, unito a grasso di maiale, formava una pomata efficace per curare le ferite e con-solidare i tendini dei buoi tagliati dal vomere [128] .Ai fiori e alle foglie del millefoglio(Achillea millefolium), erba perenne rizomatosa della famiglia Compostae Asteroideae,si riconoscono oggi anche proprietà antispasmodiche, diuretiche e toniche. Se applica-to localmente è effettivamente cicatrizzante ed è decongestionante delle mucose. Lo sitrova diffuso fino a 2.000 metri di quota.Della pianta del lino (genere Linum) gli Etruschi usavano probabilmente il seme, cheserviva come farmaco con proprietà emollienti e antiinfiammatorie (di solito si faceva-no tamponi di burro di lino destinati ad arrestare le emorragie nasali) [129] . Esso erasicuramente prodotto su scala industriale in alcune città, per la fabbricazione di vesti,vele, reti da pesca, supporti scrittori e, non ultimi, bendaggi [130]. Il lino è attualmentepresente dalla zona marina a quella submontana.Strabone mentre descrive la vegetazione palustre dei laghi dell'Etruria, citando quelli

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del Perugino e del Chiusino, parla della presenza di molte tife, papiri e panicoli [131].La tifa (genere Typha) è una pianta erbacea perenne diffusa in tutto il mondo, tipica deiluoghi paludosi, alta fino a 3 metri, con foglie nastriformi e fiori sporadici.Teofrastoricorda l'uso greco di utilizzare la parte tenera vicina alle radici come nutrimento spe-cifico dei bambini ed è probabile che anche gli Etruschi conoscessero tale pratica[132]. Una rappresentazione figurata della pianta si può scorgere su una parete dellatomba dell'Orco a Tarquinia.Ancora in epoca augustea, Ovidio raccomandava il sementuscum per la cosmesi femminile [133]. Doveva trattarsi probabilmente di Triticumspelta macinato, fornente una farina da usarsi come amido in alcune maschere facciali.Vi è poi una serie di nomi di piante medicinali che la tradizione letteraria antica ricor-da essere state utilizzate dagli Etruschi. La notizia è contenuta all'interno dell'operaMateria medica di Pedanio Dioscuride, medico militare originario di Anazarbe inCilicia, al tempo di Claudio e di Nerone; è molto probabile che gli autori delle operecui Dioscuride attinse, ebbero la possibilità di consultare un erbario etrusco latinizza-to. Un attento studio filologico, utilizzando testi diretti di iscrizioni etrusche, fonti let-terarie latine e greche, tradizione orale tosco-emiliana e laziale-campana, ha isolato, frala quindicina di nomi di piante ricordate da Dioscuride come in uso fra gli Etruschi,quattro che sembrerebbero appartenere ad un sostrato linguistico prelatino [134].La prima pianta medicinale di questo gruppo più ristretto è la nepeta il cui nome nonha corrispondenze in greco o latino ma ha legami con la Nepeta italica, menta origina-ria delle Alpi e l'Appennino, con la città di origine etrusca Nepet e col nome di unaltro tipo di menta, la Neptunia, che lo Pseudo-Apuleio [135] chiarisce essere laMentha pulegium. La coppia nepeta/Neptunia si collega alla divinità fluviale Neptunused è lo stesso Dioscuride a puntualizzare che la Nepeta ama i terreni umidi. Il lessicorurale toscano conserva poi i nomi di nepa, nepe per una ginestra (Ulex europeus)che abbonda lungo le rive dei fiumi e le coste dei mari, comunemente noto col nomedi ginestrone. La nepeta italica della famiglia delle Labiatae Staochideae, pianta erbaceaperenne con rizoma strisciante, presente dal mare alla zona montana nei boschi e neiprati, permette di ricavare dalle sommità fiorite un olio essenziale che stimola la circo-lazione superficiale, favorisce i processi di riparazione dei tessuti cutanei e la digestio-ne. La Mentha pulegium, anch'essa della famiglia delle Labiatae, pianta erbacea perennecon frusti striscianti sul terreno, si trova dal mare alla zona submontana e preferisceluoghi umidi come i fossi; favorisce coi suoi fiori la digestione, stimola la secrezionedella bile e l'attività generale del fegato; la tradizione popolare le attribuisce anche leprerogative di regolare la fase mestruale e di sedare la tensione nervosa. Per usoesterno ha proprietà antisettiche, analgesiche e antipruriginose.Il ginestrone (Ulex europaeus), la seconda pianta ricordata, della famiglia LeguminosaePapiglionatae, è un arbusto con foglie persistenti, lineari, spinose, ed è tipico della mac-chia mediterranea e si usa oggi in infusi lassativi, diuretici, ipotensivi. Segue la cauta ilcui nome è connesso con quello della divinità solare etrusca che compare nel piombodi Magliano [136] , legata dunque all'idea ispiratrice comune del giallo, oro, sole.In generale il motivo del sole raffigurato dal capolino a forma di disco giallo con attorno,disposti a raggio, i fiori periferici, ritorna nella nomenclatura di varie composite (helian-tus, heliochrysos, discus solis, rotula solis, solis oculus, solis sponsa, corona solis) [137] Il terzo nome è mutuka la cui radice mut rimanda a "sporgenza", "affioramento".Questo ha fatto pensare a due piante, il timo e il cisto.Il timo, della famiglia delle Labiatae, è un piccolo arbusto che predilige le zone marine econtiene i suoi principi attivi nelle sommità fiorite. Ha proprietà aromatiche, antisetti-che utili per disinfettare l'albero respiratorio e l'intestino: in pratica viene utilizzato perle proprietà balsamiche, tossifughe, fluidificanti catarrali.

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Del cisto, arbusto della macchia mediterranea la cui sporgenza è denominata "muc-chio", ricollegabile alla radice mut, si conoscono 16 specie; da alcune di esse si otten-gono resine aromatiche.Infine la radia, che non ha paralleli in greco o latino, ma con voci dialettali del tipo raza,raga indicanti cespuglio spinoso, che rimanda ad un elemento linguistico rat-rad indi-cante in origine "acuto". Questo ha fatto pensare ai cespugli del rovo canino (Rosacanina) e al rovo di macchia (Rubus fruticosus). Entrambi sono presenti dalla macchiamediterranea alla zona montana nei boschi radi e in luoghi incolti. I loro frutti e le lorofoglie hanno proprietà astringenti, antiinfiammatorie, diuretiche e servono per curareemorragie interne.Le altre piante ricordate da Dioscoride come utilizzate dagli Etruschi, presentano unaradice linguistica indoeuropea: ciò comunque non ne pregiudica una conoscenza e unutilizzo da parte degli Etruschi che, specialmente nella vita quotidiana, non differivanoin molto dagli usi e costumi delle atre popolazioni italiche.Si tratta della spina alba,calco latino del sinonimo greco,ossia il biancospino, dai cuifiori si ricava un estratto che ha potere sedativo; segue la genziana usata contro il malcaduco [138] ; cicendula (piccola lampada), della faboulënia (in cui è riconoscibile il lati-no faba che in faba suilla traduce letteralmente il greco giusquiamo [139] ), del giga-roum, gigaro, nome di una varietà di aro, che sappiamo, a partire da Plinio (N.H.,XXXIV, 149) fino a tutta la prima metà del 1900, essere servito nelle campagne roma-ne e toscane per avvolgere e conservare la ricotta); ancora ricorderemo l'opioum rani-noum, sinonimo in origine di ranunculus e successivamente passato ad indicare il seda-no. Dioscuride riporta ancora come nomina tusca anche gli equivalenti dell'Asarumeuropaeum surrogato del vero nardo orientale [140], e del giglio.Vi è inoltre una serie di arbusti e piante i cui nomi sono da ricondurre probabilmentead una radice etrusca e che ebbero sicuramente un utilizzo pratico, ma, forse, in alcunicasi, anche medico. Si tratta di tre arbusti denominati alaternus, laburnum [141] eviburnum [142], del vocabolo napurae (funiculi ex stramentis), di sporta [143] (cestinodi sparto), di taminia (uva silvestris) [144], di tamnus (una sorta di vino ottenuto daquest'uva).Le pur frammentarie e disarticolate notizie, sempre di seconda o terza mano, consen-tono di far ipotizzare un'evoluta tradizione farmacologica etrusca, probabilmente siste-matizzata in testi oggi irrimediabilmente perduti, a cui forse Dioscuride attinse; delresto erbe aromatiche e essenze vegetali non saranno mancate nei rituali religiosi cosìpuntuali e particolareggiati, quali ci consente di intravvedere il testo del liber linteusche avvolgeva la cosidetta mummia di Zagabria [145] e alcune notizie incidentali pre-senti in alcuni scrittori.Ad esempio, Macrobio [146] ci riferisce di alcune piante ritenu-te funeste dalla disciplina etrusca: il susino selvatico, la corniola sanguigna, le felci, il ficonero, l'agrifoglio, il pero selvatico, il lauro spinoso, la rosa canina, il rovo. La proibizioneè ben comprensibile, se si pensa, ad esempio, alla tossicità delle bacche dell'agrifoglio edi alcune felci, ai contenuti tannici delle bacche della corniola, e denota una precisaconoscenza del mondo vegetale.Alla componente locale si sommavano inoltre leconoscenze provenienti dai contatti continui con il vicino Oriente ed i Greci da unlato, e le popolazioni italiche dall'altro.Testimoniano l'influenza straniera i numerosissi-mi aryballoi e alabastra, vasetti a corpo globulare e piriforme con beccuccio piccolo,contenenti olii e resine profumate, rinvenuti nelle sepolture etrusche a partire dallametà del VII secolo a.C. e poi imitati nel bucchero locale.Sicuramente avranno avuto il loro peso, peraltro non valutabile allo stato attuale delleconoscenze, anche le opere scientifiche dei medici greci e magnogreci. Summa dellatradizione continentale di fine IV-inizi III secolo a.C. è invece l'opera De re rustica di

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Catone il Censore. Essa dà importanti ragguagli sull'uso di altre piante medicinali, e ingenerale sulla preparazione tecnica dei farmaci in uso nel mondo latino, pratiche sicu-ramente analoghe a quelle dei vicini Etruschi: così veniamo a conoscenza del largo usodel cavolo cotto con sale nei casi di dissenteria e mal di stomaco, oppure per far svani-re i fumi dell'alcool. Contro le ulcere e le piaghe di varia natura erano indicate lamenta, la ruta e il coriandro. Si riteneva d'altro canto pericoloso l'elleboro.Apprezzatierano gli amari come la cicoria, consigliati come stomachici, eupeptici e tonici, nonchénelle malattie del fegato e dell'intestino, data la loro azione tonico-stimolante. Fra isedativi si usavano infusi a base di fiori di camomilla e tiglio. Con funzioni espettorantied emollienti, e come alimento altamente energetico, si usava il miele, ma anche infusicon salvia, rosmarino e finocchio.La preparazione tecnica prevedeva fra i contenitori, oltre ai già citati aryballoi e alaba-stra, ampolle o bottigliette in vetro di forma tronco-conica con fondo circolare, di pre-sumibile fabbricazione fenicia. Una volta raccolte, le erbe medicamentose venivano tri-turate minutamente in un mortaio ed entravano in composizione con altri ingredienti:olio d'oliva e grassi animali per gli unguenti e le pomate; acqua, vino, latte o miele liqui-do per gli infusi. In quest'ultimo caso il composto liquido veniva piano piano versatoattraverso "colatoi" in piccoli boccali o coppe ed offerti al paziente.Tali colatoi, gene-ralmente bronzei, sono provvisti di lungo manico e hanno il filtro incorporato nellavasca o talora il fondo della vasca stessa a forellini [147]. Si sono rinvenuti esemplari intutta l'Etruria, ma forse i più famosi sono quelli scoperti in una tomba di Populonia, poi

denominata Tomba dei colatoi[148].Infine ci soccorrono anche i rin-venimenti paleobotanici e le raf-figurazioni tombali nella rico-struzione del mondo vegetale dicui gli Etruschi si potevano ser-vire con sapienza.Tra le piantesicuramente identificate nell'ar-te etrusca ve ne sono infattimolte che forse erano oggettodi utilizzo medico, tra cui l'acan-to, l'alloro, il biancospino, ilbosso, il calamo aromatico, ilcipresso, il convolvolo, il cornio-lo, l'edera, il giglio, il larice, ilmelograno, il nardo, l'olmo, ilpapavero, il pino, il pioppo, laquercia, il salice, il tiglio, il trifo-glio.

3.2.2.1 Tabella riassuntivaNella tabella seguente sono segnalate in grassetto le piante sicuramente usate a scopoterapeutico dagli Etruschi; in grassetto preceduto da asterisco quelle conosciute graziealla paleobotanica, alle testimonianze archeologiche e alle fonti letterarie ma il cui uti-lizzo terapeutico non è ricordato; in grassetto sottolineato quelle diffusamente sfrutta-te nel mondo latino a fini medici e che probabilmente dovevano essere ben noteanche agli Etruschi [149].

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*Abete bianco (gemme, rametti) Abies alba balsamico, diuretico* Acanto (foglie per infuso) Achantus spinosus antiemorragico, ntidiarroi.co* Acero (corteccia) Acer campestre astringente

Aglio (bulbi tritati) Allium sativum antisettico, espettorante*Alloro (foglie) Laurus nobilis aromatico, digestivo, antiset.Biancospino (frutti) Crategus oxycantha astringente*Bosso (corteccia dei rami, foglie) Buxus sempervirens antidolorifico, sudoriparo*Calamo aromatico (rizoma) Acarus calamus sudoriparo, sedativoCamomilla (fiori) Matricaria chamomilla digestiva, sedativaCanna (rizoma) Arundo donax diuretica, sudoriferaCavolo (foglie) Brassica oleracea digestivo, antinfiammatorioCicoria (radici, foglie) Cichorium intybus eupeptica e tonicaCipolla (bulbo fresco) Allium cepa diuretica, ipotensiva, antiset.*Cipresso (foglie e ramoscelli) Cupressus sempervirens balsamico, tossifugoCisto (foglie) Cistus aromatico, antinfiammatorioCoriandro (frutti) Coriandrum sativum contro ulcere e piaghe* Corniolo (corteccia, frutti) Cornus mas astringente, febbrifugo* Edera (foglie) Hedera helix sedativa, espettorante, analg.Efemero nero (rizoma) Helleborum niger cardiotonicoEfemero bianco (rizoma) Veratrum album antidolorifico* Faggio (corteccia dei rami) Fagus sylvatica astringente, febbrifugo* Felce maschio (rizoma, fronde) Dryopteris filix-mas vermifuga* Fico (frutti secchi) Ficus carica dietetico, digestivo, lassativoFinocchio (radice, frutti) Foeniculum vulgare digestivo, diuretico, carmin.* Frassino-orniello (manna) Fraxinus ornus la manna è un blando lassat.* Frassino (foglie, corteccia, frutti) Fraxinus excelsior lassativo, diuretico, antireumGenziana (rizoma) Gentiana lutea febbrifuga, eupepticaGigaro (infruttescenza) Arum italicum velenoso* Giglio (bulbo cotto in acqua) Lilium candidum emolliente, lenitivo, antinfia.* Ginepro (frutti) Juniperus communis aromatizzante, balsamicoGinestrone (fiori) Ulex europeus lassativo, ipotensivoGiusquiamo (foglie, fiori, frutti) Hyosciamus niger analgesico, antiasmatico,* Larice (foglie e rami) Larix decidua purificante, antisettico, tossifLino (semi) Linum usitatissimum emolliente, antinfiammator*Melograno (frutto in decotto) Punica granatum antielminticoMillefoglio (sommità fiorite) Achillea millefolium antisettico, cicatrizzanteNardo (rizoma) Asarum Europaeum febbrifugo, antispasmodicoNepetella (sommità fiorite) Nepeta italica aromatizzanti, digestive* Olmo (corteccia) Ulmus minor diuretico, antinfiammatorio* Papavero selvatico (semi) Papaver somniferum sedativo* Pino (gemme) Pinus sylvestris balsamico, espettorante* Pioppo (gemme, corteccia) Populus nigra astringente, antiinfiammator.* Pulegio (sommità fiorite) Mentha pulegium cicatrizzante, digestivo* Quercia (corteccia) Quercus robur astringente, antinfiammator.Rosa canina (foglie, falsi frutti) Rosa canina astringente, antiinfiammatorRosmarino (rametti) Rosmarinus officinalis diuretico, balsamico, antisettRovo (frutti freschi, foglie) Rubus fruticosus astringente, antinfiammator.Ruta (foglie) Ruta graveolens digestiva, vasoprotettrice* Salice bianco (corteccia) Salix alba febbrifugo, sedativo, astring.Salvia (foglie) Salvia officinalis digestiva, antinfiammatoriaSedano (radici, frutti) Apium graveolens diuretico, depurativo, digest* Sorbo (frutti) Sorbus domestica dietetico, astringente, antinf.Spelta (cariossidi) Triticum spelta uso cosmetico* Taminia (frutti) Uva silvestris diuretico, emoliticoTifa (rizoma) Typha latifolia nutrimento* Tiglio (fiori) Tilia platyphyllos sedativo, ipotensivo, emollie.Timo (sommità fiorite) Thymus vulgaris digestivo, balsamico, antisettTrifoglio (foglie) Menyanthes trifoliata digestivo, antiinfiammatorio* Viburno (foglie) Viburnum lantana tonico, astringen

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3.3 I riti di sepolturaPer la ricostruzione delle credenze funerarie in periodo etrusco ci avvaliamo di unaduplice serie di fonti: da un lato i dati archeologici, dall'altro la tradizione storico lette-raria relativa agli Etruschi e alle popolazioni coeve, come i Latini, che con essi ebberoaffinità culturali.Era sicuramente comune il concetto che la morte rendeva funesta la casa e la famigliacolpita, facendo derivare a tutta la comunità la minaccia di una contaminazione: perquesto i parenti del morto e tutti coloro che erano stati in contatto con lui dovevanosegregarsi dalla comunità stessa, restando sospesi da ogni attività sociale finché, adem-piuti i riti della sepoltura che sancivano in maniera definitiva la separazione del defuntodalla società dei vivi e la sua aggregazione all'al di là, essi si liberavano dal contagio epotevano far ritorno alle pratiche della vita quotidiana.Durante la fase del lutto la dimora veniva contrassegnata all'esterno da un'alta frascadi cipresso o di altro ramo di foglie o frutti scuri, per segnalare a distanza l'impuritàagli altri membri della comunità.Attraverso il rito crematorio, che potrebbe risalire alla scarnificazione eneolitica, siintendeva distruggere con l'involucro corporeo ogni legame dell'anima con il mondodei viventi: poiché si credeva che, fintanto che non si fosse liberata dal corpo, l'animanon sarebbe potuta penetrare nel mondo ultraterreno. In effetti la condizione deldefunto non era ritenuta completamente incorporea, almeno finché non se ne placaval'anima, ed esso era in grado di esercitare una azione benigna o maligna verso i viviche, in qualche modo, andava placata e controllata. Esistevano anche luoghi di comuni-cazione fra i vivi e i morti, come le sorgenti sulfuree, o il mundus, una fossa che venivascavata al centro delle città, al momento della loro fondazione secondo il rituale etru-sco del sulcus primigenius.Generalmente si riteneva che la morte sopraggiun-gesse nell'individuo quando l'anima lo abbandonava,uscendo dalle labbra come un soffio, assieme all'ul-timo respiro. Si chiudevano gli occhi al defunto e losi chiamava a gran voce, per tre volte. Constatatala sua morte irrompevano le grida di dolore ed ilamenti di parenti e amici, come è facile notare sumolti cippi chiusini. Il corpo era lavato e sparso diunguenti aromatici contenuti negli aryballoi, alaba-stra, e nelle lekytho,i per lo più importate prima daCorinto e poi da Atene. Le analisi delle paretiinterne di tali contenitori hanno restituito traccedi lipidi ed essenze odorose.Il defunto era successivamente vestito (Tomba del Morto a Tarquinia) e composto nelsuo letto, coi piedi rivolti all'ingresso. L'abitazione veniva accuratamente spazzata (lascopa era ritenuta avere un potere apotropaico, che scacciava gli spiriti maligni).Probabilmente accompagnavano il rito, fin dall'inizio, oggetti magici e fumigazioni odo-rose, nonché particolari nenie musicali. Passato il tempo stabilito dall'uso per l'esposi-zione ed il lamento, il morto, nel caso di un rito incineratorio, era portato, probabil-mente di notte, dove era stata preparata la catasta di legna che doveva bruciarlo.E' probabile che venissero utilizzate particolari essenze legnose per coprire l'odoreacre della carne bruciata, come ad esempio il cipresso o altri alberi resinosi.Il corteggio accompagnava il defunto tra alte esplosioni di lamento ed abiti neri (comeè possibile osservare nel famoso corteo della situla della Certosa o su molti affreschi

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di tombe tarquiniesi). Il morto era poi deposto sulla catasta, col suo letto ed accompa-gnato dagli ultimi doni come stuoie, stoffe di lana o di lino, sostanze odorose e fiori,forse anche focacce o altri cibi, oggetti di particolare distinzione.Uno dei parenti poi, voltato all'indietro per non incorrere nella maledizione del defun-to, accostava la torcia sulla catasta. Quando la legna era consumata, spenti con acquagli ultimi tizzoni, si raccoglievano con grandissima cura le ossa in un panno e le si lava-va anche con latte o vino, le si asciugava e le si deponeva nell'urna. Davanti ai resti deldefunto ed alla fossa che doveva accoglierlo (sempre fuori delle mura cittadine, comeprevedeva il rituale del sulcus primigenius) era poi ucciso un animale, una pecora o unacapra, raramente un vitello, spesso un maiale: il sangue caldo placava l'anima del defunto(famoso è l'incontro narrato nell'Odissea fra Ulisse e l'anima dell'indovino Tiresia, episo-dio noto anche agli Etruschi, attratto dal sangue di un capro nero sgozzato).Al banchet-to funebre che seguiva sulla tomba stessa e al quale forse alludono molte scene di ban-chetto delle tombe tarquiniesi, si pensava partecipasse anche l'anima del defunto stesso:per lui erano deposte sulla fossa anche alcune parti di animali arrostiti.Molto significativa anche l'offerta delle provviste che accompagnava il corredo deldefunto: dai cereali, alla frutta (sono attestate ad esempio nocciole, uva, mele, melogra-ne, miele), ad alimenti come latte, vino, formaggi, focacce, budini, minestroni (questi ulti-mi adombranti simbolicamente anche un sacrificio delle verdure che diventano, quasi inuna sorta di rinascita, energia nuova per il defunto).Il banchetto funerario serviva anche a purificare i presenti, che dopo la cerimonia sisottoponevano a fumigazioni lustrali (dalla fumigazione odorosa, per fumum, proviene iltermine "profumo"). Del resto incensieri di molteplici tipologie sono testimoniati sianelle sepolture, come corredi (vedi i numerosi esemplari di Tarquinia o di Vetulonia), siain raffigurazioni, come nel famoso affresco della tomba Golini di Orvieto, come ele-mento essenziale, assieme ai classici servizi di bronzo, dell'apparato relativo ad un ban-chetto funebre.Chiuso il sepolcro dovevano passare ancora nove giorni, seguiva un sacrificio finale e illuogo di sepoltura era definito inviolabile per i viventi. Il banchetto che allora vi si cele-brava, quello definitivo, prevedeva cibi rituali specifici per i morti, come uova, lenticchie,fave, sale. La cena era consumata dai convitati parenti del morto, ormai purificati, chetornavano alla comunità chiudendo l'isolamento [150] .Recenti scoperte da tombe etrusche di Casale Marittimo, in Toscana, hanno dimostratocome sicuramente anche in Etruria era conosciuto, almeno a livello di classi aristocra-tiche, l'incenso, rinvenuto appunto in grani accanto ad incensieri in legno di pero.

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L'incenso, prodotto incidendo i tronchiresinosi di particolari piante del genereBoswellia, che crescono solo in unaristretta area della Somalia e dellaPenisola arabica, era comunemente tra-sportato nell'antichità dai Fenici lungo levie dell'incenso e delle spezie, dal suddell'Arabia e da alcune stazioni litoralidell'Africa orientale. Non è poi chiarocome giungesse in Italia, se cioè diretta-mente trasportato dai Fenici o mediatoda altre popolazioni.Secondo i testi biblici e gli autori classicierano però note nell'antichità anchealtre sostanze profumate, utilizzate pureo in miscele, per scopi rituali o mdeici-nali, come mirra, benzoino, balm, bacche di ginepro).

3.4 Profumi e tecniche di profumazione degli ambientiNumerose fonti letterarie ed epigrafiche ricordano gli incensieri, gli oggetti che servi-vano in sostanza a diffondere il profumo delle essenze odorose nei vari ambienti, per ilmondo greco e romano [151]. Essi sono convenzionalmente indicati, anche per la real-tà etrusca, con il nome di thymiaterion (che vale incensiere, bruciaprofumi ecc.).Sui thymiateria etruschi, generalmente realizzati in bronzo, ma presenti anche in altrimateriali (bucchero, legno ecc.) esistono tre studi fondamentali. Per quelli villanovianiuno studio di Ducati del 1912 [152]; su quelli di periodo orientalizzante, per lo più daPopulonia, quello di Vinattieri [153]; su quelli di periodo orientalizzante e arcaico pro-venienti da Tarquinia quello di Maria Paola Bini [154].Le linee salienti dell'ultimo studio focalizzano l'atttenzione sui contesti di utilizzo deibruciaprofumi in Etruria.Anzitutto essi compaiono in scene di danze e giochi per leonoranze funebri in due pitture, tombali etrusche, rispettivamente la Tomba deiGiocolieri di Tarquinia e la tomba della Scimmia di Chiusi: in entrambe le scene il thy-miaterion è tenuto in equilibrio sulla testa della danzatrice.Tale immagine si ricollegaalla forma classica degli incensieri coevi, generalmente consistenti in un piedistallo cuiè collegato una figurina di cariatide che sorregge il fusto desinente a piattello [155].L'incensiere è collegato anche alla sfera rituale come è attestato dalla rappresentazio-ne di due esemplari di tipo tardo-arcaico, poggiati su are sacrificali, nell'ambito di unascena di banchetto di un rilievo chiusino: si tratta in questo caso di riti collegati alleonoranze funebri.Thimiateria sono collegati anche ad offerte votive, come un esempla-re rinvenuto nella stipe votiva di Montecchio Vesponi, presso Cortona, o un fusto pro-babilmente pertinente a thimiaterion rinvenuto nella Civita di Tarquinia, in un ambientedi carattere sacrale. Su entrambi è incisa un'iscrizione che definisce l'oggetto "offerta"appunto alla divinità Thufltha.L'appartenenza dell'incensiere alla serie degli oggetti più strettamente legati all'usoconviviale è testimoniato in primo luogo dalla rappresentazione del thymiaterion nellescene di banchetto di un cippo chiusino, della tomba Golini I di Orvieto e della tombadel Biclinio di Tarquinia. Di norma gli incensieri sono pertinenti a corredi di deposizionifemminili, legando in tal modo la donna alla sfera del quotidiano e del banchetto.E' attestata anche dalle fonti letterarie la pratica della libanomantica (previsione delfuturo grazie all'osservazione del fumo dell'incenso) da parte dei sacerdoti etruschi.

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_______________________________________Abbreviazioni nel testo del presente capitolo:(Autori greci) ARISTOPH., Plu. =Aristophanes, Plutus ARISTOT.=Aristoteles ATHEN., Deipn.=Atheneus, DeipnosophistaiD.H.,Ant. Rom.=Dionysius Halicarnassensis,Antiquitates Romanarum quae supersuntDIOG. LAERT.,Vitae Phil.=Diogenes Laertius,Vitae PhilosophorumDIOSC., De mat. med.=Dioscurides, De materia medicaD.S., Bibl.=Diodorus Siculus, Bibliotheca Historica ESIC., Lex =Esichius, LexiconESIOD.,Theog =Esiodus,Theogonia GAL.,Temp.=Galenus,TemperamentaGIAMBL.,Vita Pyt =Giamblicus,Vita Pythagorae HIPP., Epid =Hippocrates, EpidemusLICOPHR.,Alex.=Licophrones,Alexandra LUCIAN., Somn.=Lucianus, SomniumPLB., Hist.=Polybius, Historiae PLU., De ed. puer.=Plutarchus, De educatione puero-rumSTR., Geog =Strabo, Geographica TEOPHR., Hist. Pl. =Teophrastus, Historia planta-rumXEN.,Vectig.=Xenophon,Vectigalia(Autori latini) AN. RAV., Itiner.=Anonimus Ravennatis, ItinerariumCAEL.AUREL., Morb. Chron.=Caelius Aurelianus, Morbus ChronicusCASS.,Var.=Cassiodorus,Variae CATO, De agr.=Cato, De agricoltura;Orig.=OriginesCATUL., Ep.=Catullus, Epigrammata CIC., Bru.=Cicero, Brutus; De div.=De divinatio-ne; De leg.=De legibus;Tusc.=Tusculanae disputationesCOLUM., De re r.=Columella, De re rustica FEST., De verb. Sign.=Festus, De verborum significationeFRONT., Strat.=Frontinus, Stratagemata HOR., Epist.=Horatius, EpistulaeIUV., Sat.=Iuvenalis, Saturae LIV.,Ab Urb.=Livius,Ab Urbe condita libriMACR., Sat.=Macrobius, Saturnalia MART., Ep.=Martialis, EpigrammataMART. CAPEL., Nupt. =Martianus Capella, De nuptiis Mercurii et PhilologiaeOR., Sat =Oratius, Saturae OR., Ep.=Oratius, Epodi OV.,Am.=Ovidius,Amores;Med. fac.=Medicamina faciei PERS., Sat.=Persius, SaturaePLAUT.,Aul.=Plautus,Aulularia; Cap.=Captivi; Men.=Menaechmi; Merc.=Mercator;Mil.=Miles gloriosus; Most.=Mostellaria; Poe. Poenulus; Rud.=RudensPLIN., Epist.=Plinius, Epistulae PLIN., N.H.=Plinius, Naturalis HistoriaPORPH.,Vita Pyt.=Porphyrius,Vita Pythagorae PS.- APUL., Herb.=Ps.- Apuleius,HerbariaRUT. NAM., De red.=Rutilius Namatianus, De reditu suoSCR. LARG., Comp. med.=Scribonius Largus, Compositiones medicamentorumSEN., Epist.=Seneca, Epsitulae ad Lucilium SERV.,Ad Aen.=Servius,Ad AeneidemSYMM., Epist. =Symmachus, Epistulae TERT., De an.=Tertullianus, De animaTIBULL., El.=Tibullus, Elegiae VARRO, De agr. =Varro, De agricoltura; De l. l.=De lin-gua latina VAL. MAX., Mem.=Valerius Maximus, MemorabiliaVERG.,Aen.=Vergilius,Aeneis ; Georg.=Georgicae VITR., De arch. =Vitruvius, Dearchitectura

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Note bibiografiche____________________________________[1] I testi del presente capitolo sono stati forniti dall'archeologo-conservatore delmuseo di Cortona, dott. Paolo Giulierini.[2] Altri argomenti ugualmente suggestivi, come ad esempio gli odori relativi alla fusio-ne dei metalli, all'aggiunta di additivi per la loro lavorazione, non sono stati volutamen-te indagati perché più significativi per altre aree, come il territorio compreso fraPopulonia,Vetulonia e Massa Marittima, fulcro dell'attività metallurgica etrusca.[3] Cfr. CASORIA 1988, p. 43 ss.[4] D.S., Bibl., XIV, 113; LIV.,Ab Urb.,V, 33. Per l'evidenza archeologica etrusca in taleregione, cfr. DE MARINIS 1986 e 1989. Sulla dodecapoli campana, cfr. STR., Geog.,V, 4,3. Per ciò che concerne i rinvenimenti etruschi in Campania, cfr. BOTTINI 2000, conbibliografia.[5] Cfr. CATO, Orig., II, 20.[6] Cfr. FORNI 1990, p. 293 ss.[7] Sulla ricchezza dei suoli d'Etruria, cfr. D.S., Bibl.,V, 40 e VARRO, De agr., I, 44 e I, 99.Sulle produzioni delle singole città cfr. CRISTOFANI-GRAS 1984, p. 81 e VITERBO1987, p.41 ss.[8] Cfr. CRISTOFANI-GRAS 1984, p.74.[9] Cfr. BIANCHI BANDINELLI-TORELLI 1986,TAV. 7.[10] D.H.,Ant. Rom., II, 34, 2-5; IV, 12-16; IV, 25, 2; IV 52, 5-8; LIV.,Ab Urb., II, 34; IV, 2; IV,25; IV, 52. È un fatto però che durante il precedente governo dei re etruschi a Romanon si registrino carestie, frutto probabilmente di una attenta politica annonaria.[11] Cfr. CATALLI 1990, p. 70 ss.[12] LIV.,Ab Urb., XXVIII, 45, 14.[13] PLIN., N.H., XVIII, 87.[14] PLIN., N.H., XVIII, 23, 97.[15] Cfr. ERNOUT-MEILLET 1932, p. 545, s.v. puls.[16] PLAUT., Most., 828 e Poe., 54.[17] IUV., Sat., XI, 109.[18] PLIN., N.H., XVIII, 109.[19] PLIN., N.H., XVIII, 30, 117 ss.[20] FEST., De verb. sign. 81 L.[21] Cfr. QUILICI 1979, p. 79 (resti di tali focaccette sono stati ritrovati anche insepolture).[22] Per un inquadramento generale sul primo impianto di vitigni in Grecia e MagnaGrecia cfr. FAILLA-FORNI 1999 e LIUNI 2000, pp. 111-172.[23] Emblematico è il corredo detta tomba Z 1 ? per il quale cfr.TORELLI 2000b, pp.89-90.[24] AGOSTINIANI 2000, pp. 103-108.[25] TORELLI 2000b, pp. 89-100.[26] VITERBO 1987, pp. 61-70.[27] AMPOLO 1980, pp. 31-32.Vinaccioli di uva recentemente scoperti nella tomba Adella necropoli di Casale Marittimo, della metà del VII secolo a.C., si riferiscono a sem-plici grappoli (cfr. ESPOSITO 2001, p. 87 ss.).[28] Cfr. in particolare RIZZO 1990, p. 106, n. 39. Le analisi finora effettuate sulle anfo-re da trasporto prodotte in Etruria meridionale assicurano per la presenza di resineinterne e di tannino che il prodotto trasportato era vino (CRISTOFANI 1985, s.v. agri-coltura).

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[29] Per un'ampia disamina sul tema iconografico di Dioniso e i pirati tirreni cfr. MAR-TELLI 1987, p. 311, n. 130 e fig. 130, p. 176.[30] Per un inquadramento generale sull'evoluzione delle forme della produzione agri-cola ed anche vitivinicola, e sul commercio dei prodotti cfr. CRISTOFANI-GRAS 1984,pp. 73-106.[31] Emblematico il servizio di buccheri della "Camera degli Alari" da Cerveteri, per ilquale cfr. da ultimo TORELLI 2000b, p. 99.[32] BUONAMICI 2000, pp. 79-80.[33] Come, ad esempio, la situla della Certosa, per la quale cfr.VITERBO 1987, p 146,n. 8, con bibliografia.[34] Cfr. in generale CRISTOFANI 1987, pp. 123-132, con bibliografia.[35] VITERBO 1987, p 150, n. 15, con bibliografia.[36] Cfr. da ultimo VANNI 2001, pp. 131-139.[37] VITERBO 1987, p. 79, con bibliografia.[38] VITERBO 1987, p. 185 ss., con bibliografia.[39] D.H.,Ant. Rom, I, 37, 2.[40] D.H.,Ant. Rom., XIII, 10-11[41] LIV.,Ab Urb.,V, 33[42] ATHEN., Deipn., XV, 702.[43] PLIN., N. H., 14, 36.[44] PLIN., N. H., 14, 38 e 14, 35.[45] PLIN., N. H., XIV, 39.[46] PLIN., N. H., XIV, 67-68.[47] MART., Ep., 13, 124.[48] COLUM., De re r., 3, 9, 6.[49] PLIN., N.H., XIV, 39.[50] OR., Sat., 2, 3, 142-144; PERS., Sat., 5, 147; MART., Ep., I, 103, 9; 2, 53, 4; 3, 49.[51] PLIN, N.H., 15, 1, 65.[52] D.H. ,Ant. Rom., XIII, 10-11.[53] Cfr. BOARDMAN 1990, p. 143, n. 212.[54] Cfr.VITERBO 1987, p. 37 ss.[55] D.S., Bibl.V, 40.[56] D.H.,Ant. Rom., XIII, 10-11.[57] HEURGON 1992, p. 157.[58] Cfr.VITERBO 1987, p. 61 ss.[59] ESPOSITO 2001, p. 87 ss.[60] Cfr. FORNI 1990, p.374 ss.[61] Cfr.VITERBO 1987, p. 61 ss. e RENDELI 1993, p. 137.[62] Sui rinvenimenti paleobotanici dell'abitato del Forcello cfr. DE MARINIS 1986,p.183 ss.[63] Sul trattato agronomico di Saserna padre, di cui ci rimangono frammenti tradottiin latino riportati da Columella,Varrone, Plinio il Vecchio, cfr. KOLENDO 1973.[64] Cfr.VITERBO 1987, p. 61 ss.[65] CRISTOFANI-GRAS 1984, p. 81.[66] OV.,Am., III, 14, 13-14.[67] COLUM., De re r.,VI, 1, 2.[68] Per una raccolta sistematica delle fonti letterarie concernenti la prescrizione dinon uccidere i buoi destinati all'aratura cfr.AMPOLO 1980, p. 46. Non sempre però ilprescritto doveva essere rispettato, specialmente tra gli aristocratici; lo si deduce, adesempio, dalla dispensa dipinta all'interno della Tomba Golini di Orvieto, dove è rap-

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presentato un bovino decapitato ed appeso ad un trave, pronto per la macellazione.[69] Sulle fonti letterarie relative all'allevamento cfr. ancora CRISTOFANI-GRAS 1984p. 81 e VITERBO 1987, p. 45 ss. Una bella raffigurazione di una mandria di verri guidatida un porcaro è incisa su una situla d'argento rinvenuta a Chiusi e riferibile al 650 a.C.ora al Museo Archeologico di Firenze. Sui rinvenimenti osteologici di animali allevati incontesti etruschi cfr.VITERBO 1987 p. 61 ss. e RENDELI 1993 p. 144-145.[70] L'apporto alimentare derivante dalla cacciagione sembrerebbe comunque sempremarginale anche fra la popolazione pù umile, almeno a giudicare dai reperti osteologici(cfr. ad esempio BARTOLONI-CIANFERONI-DE GROSSI MAZZORIN 1997, conbibliografia).[71] Per la caccia in Etruria cfr. CAMPOREALE 1984; per la Tomba del Cacciatore, difine VI secolo a.C., cfr.VITERBO 1987, p. 52.[72] Cfr.VITERBO 1987, p. 49 ss.[73] PLIN., N.H., XI, 238.[74] MART., Ep., XIII, 30.[75] Cfr.VITERBO 1987, p. 55 ss.; GIANFROTTA 1988.[76] Cfr. BIANCHI BANDINELLI-TORELLI 1986,Tav. 94.[77] STR., Geog.,V, 2, 6 e V, 2, 8.[78] STR., Geog.,V, 2, 8.[79] COLUM., De re r.,VIII, 16.[80] Cfr. l'alimentazione degli schiavi della villa romana di Settefinestre, vicino a Cosa(CARANDINI 1988, p. 154 ss.). Sulla paleonutrizione e i suoi apporti all'archeologia cfr.GUILLON-METZ 1987, p. 311 ss.[81] Cfr.VITERBO 1987, p. 119 ss.[82] Cfr.VITERBO 1987, p. 126.[83] BARTOLI-MALLEGNI-FORNACIARI 1997 con bibliografia ed altri dati relativi allanecropoli di Pontecagnano.[84] Cfr. la rassegna di 6 coperchi di sarcofagi etruschi con obeso analizzata da TABA-NELLI 1963, p. 70 ss. e TAV.VII.[85] CATUL., Ep., 39. 11.[86] VERG., Georg., II, 193.[87] Sull'obesità nel mondo antico, in generale, cfr. GOUREVITCH-GRMEK 1987.[88] CAEL.AUREL., Morb. chron.,V, 130-131.[89] Cfr. BIANCHI BANDINELLI-TORELLI 1986,TAV. 93.[90] D. S., Bibl.,V, 40.[91] Sull'alcoolismo nell'antichità classica, specie in Grecia, cfr. SOURNIA 1987, conbibliografia precedente.[92] ARISTOT., in ATHEN., Deipn., I, 23 d. Un frammento del malevolo storico grecoTeopompo, di metà IV secolo a.C., riportato in ATHEN., Deipn., XII, 517 d ss., ricorda,a tal proposito, che le dame aristocratiche etrusche erano "forti bevitrici di vino".[93] Cfr. O'BRIEN 1981.[94] Per una sistematica trattazione degli ex-voto poliviscerali cfr.TABANELLI 1962.Cfr. a titolo di esempio le TAVV. XIX-XXI.[95] PLU., De ed. puer., 17; DIOG. LAERT.,Vitae Phil.,VIII, 23; PORPH.,Vita Pyt., 44;GIAMBL.,Vita Pyt., 109.[96] TERTUL., De an., 31.[97] DIOG. LAERT.,Vitae Phil.,VIII, 45; GIAMBL.,Vita Pyt., 189-194.[98] LUCIAN., Somn., 5-6.[99] CIC., De divinat., I, 62.[100] Sulle prescrizioni mediche pro o contro la fava e sul favismo cfr. GRMEK 1985,

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pp. 361-418.[101] HIPP., Epid., II, 4, 3.[102] Casi di favismo si sono genericamente ipotizzati per alcuni inumati delle necro-poli di Pontecagnano (cfr. FORNACIARI 1995, p. 472).[103] Cfr. cap. III.[104] LIV.,Ab Urb., II, 7.[105] LIV.,Ab Urb., XXVIII, 45.[106] IUV., Sat., III, 191.[107] LIV.,Ab Urb., II, 7.[108] LIV.,Ab Urb., IX, 36, 11.[109] FRONT., Start., I, 2; PLB., Hist., II, 27; PLIN., N.H., III, 20.[110] VERG.,Aen.,VIII, 597 ss[111] PLB., Hist., III, 40; LIV.,Ab Urb., XXI, 25.[112] LIV.,Ab Urb., XXIII, 24; FRONT., Strat., I, 6.[113] FRONT., Strat., II, 5.[114] STR., Geog.,V, 2.[115] Una raccolta esaustiva di fonti in BONACELLI 1929, p. 488 ss.[116] RENDELI 1993, p. 131,Tabella 1.[117] Non è ancora stato ben studiato il tipo di impatto sul manto boschivo da partedelle città etrusche e del progressivo estendersi di nuovi insediamenti preposti ad atti-vità agricole (ma anche commerciali o metallurgiche): certamente si sarà trattato diprocessi che avranno implicato notevoli disboscamenti per la messa a coltura o l'occu-pazione di nuove aree.Alcune ipotesi in RENDELI 1993, p. 134 ss.[118] Per un inquadramento fitofaunistico dell'attuale Toscana cfr. MARTINI 1988, p. 35ss.[119] ESIOD.,Theog.,V, vv. 1011-1015.[120] TEOPHR., Hist. pl., IX, 15.A TAV. XVIII è presentata una rassegna delle piantedelle quali si conosce un utilizzo a fini medici da parte degli Etruschi.[121] Varrone (citato in Servio,Ad Aen., XI, 787) e PLIN., N.H.,VII, 2.[122] MART. CAPEL., Nupt.,VI.[123] TEOPHR., Hist. pl., IX, 16.[124] PLAUT., Men., 913.[125] ESIC., Lex., s.v. efémeros.[126] DIOSC., De mat. med., IV, 79.[127] GAL.,Temp.,VI, 2.[128] PLIN., N.H., XXIV, 16.[129] PLIN., N.H., XIV, 2. Da Livio (Ab. Urb.,XXVIII, 45), siamo a conoscenza che gran-de produttrice di lino era la città di Tarquinia, la quale fornì le vele (appunto in lino)per la flotta di Scipione l'Africano alla volta dell'Africa.[130] Da Livio (Ab. Urb., XXVIII, 45), siamo a conoscenza che grande produttrice dilino era la città di Tarquinia che fornì le vele (appunto in lino) per la flotta di Scipionel'Africano alla volta dell'Africa. Per scene di bendaggio a feriti nel mondo etrusco vedioltre.[131] STR., Geog.,V, 2.[132] TEOPHR., Hist. pl., IV, 10.[133] OV., Med. fac., I, 65.[134] Cfr. BERTOLDI 1936.[135] PS.-APUL., Herb., 57.[136] Cfr. PALLOTTINO 1984, p. 330 ss.[137] Forse un collegamento è con la pianta denominata cocla nell'agro piacentino.

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[138] Dalle radici della genziana si ricava anche una droga ricca di glicosidi amari epectine con proprietà febbrifughe e eupeptiche.[139] Il giusquiamo è un'erba annua, velenosa, della famiglia della Solanacee, spontaneanei luoghi ruderali e coltivata per le proprietà medicinali di fogli e semi che, ricchi didiversi alcaloidi (atropina, iosciamina, scopolanina) sono usati per la loro azione analge-sica, antiasmatica, broncosedativa, disintossicante e sedativa.[140] Contentente rizomi ricchi di olio per profumi con odore di muschio.[141] Si tratta del Fraxinus ornus, comune nei boschi dell'Europa meridionale, coltivatoin Sicilia per ricavare la manna che si ottiene dai suoi rami opportunamente incisi; èsimile al frassino comune, ma più piccolo, con fiori raccolti in fitte pannocchie checompaiono sulla pianta prima delle foglie. La manna è usata in medicina come blandolassativo per il suo contenuto in mannite.[142] Il Viburnum lantana ha frutti a drupa nera eduli, foglie e frutti con proprietà toni-che e astringenti.[143] Erba perenne delle graminacee (Lygeum Spartum) comune in zone aride e sal-mastre della regione mediterranea. Ha foglie giunchiformi e fiori singoli in pannocchie.Dalle foglie si estrae una fibra per cordami.[144] Si tratta di un'erba perenne delle Dioscoreacee detta anche "Vite nera", comunenei boschi e nelle siepi delle nostre regioni. Dal suo grosso tubero si sviluppano ognianno fusti sottili e volubili, con foglie cordate alla baste, acuminate. Ha frutti a baccarossa; il tubero nella medicina popolare è usato per le sue proprietà diuretiche, emoli-tiche, vulnerarie.[145] Cfr. PALLOTTINO 1984, p. 446 ss. e 484 ss..[146] MACR., Sat., III, 38, 3. Per la rosa canina e il rovo, delle quali Dioscuride ci ricor-da l'utilizzo, si deve pensare in ogni caso al fatto che le sostanze contenute nelle piantevanno assunte in quantità ben dosate, note allora a pochi esperti.[147] Per alcuni esemplari cfr.TAV. XX a, b. Sulle diverse tipologie di colatoi e sui vasiper filtrare (in terracotta e metallo) cfr.VITERBO 1987, p. 174 n. 66, p. 175 n. 69 e n.73, p. 176 n. 74 e n. 75, p. 177 n. 81, p. 178 n. 83. Di norma l'utilizzo di tale instrumen-tum è legato al consumo di vino, che veniva preparato con l'aggiunta di spezie in grandicrateri per poi essere prelevato e infine filtrato. Ma è chiaro che i colatoi potevanoessere utilizzati anche nella preparazione di infusi e decotti.[148] Cfr. CECCONI-MELANI 1984, p. 86.[149] Parte della tabella rielabora i dati che compaiono in Sterpellone (1990, p. 72 ss.)integrati con le attestazioni paleobotaniche (RENDELI 1993, p. 131), con le raffigura-zioni di piante nell'arte etrusca (PAMPANINI 1930 e 1931) e con le fonti letterarierelative al mondo vegetale in Etruria (cfr. supra e BONACELLI 1929,VITERBO 1987, p.41 ss.). Le caselle in bianco nella terza colonna della tabella indicano che non è cono-sciuto un utilizzo medico della pianta.[150] L. Quilici, Roma primitiva e le origini della civiltà laziale, Roma, 1988.[151] In generale cfr. C. Zaccagnino, Il thymiaterion nel mondo greco, Roma, 1998.[152] P. Ducati, Gli incensieri della civiltà villanoviana in Bologna, in BPI,VII-VIII, 1911-1912, pp. 11-29.[153] E.Vinattieri, Per la forma, la tecnica e la destinazione dei "cosiddetti incensieri ditipo vetuloniese", in STUDI ETRUSCHI, XX, 1948, 99.[154] M. Paola Bini,Thymiateria, in G. Pianu (a cura di), I bronzi etruschi e romani,Materiali del Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia, XIII, Roma, 1955, pp. 299-307.[155] L'altra forma, a cilindro svasato, è più antica.