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Università degli Studi di Torino DIPARTIMENTO DI PSICOLOGIA Corso di Laurea Triennale in Scienze e Tecniche Psicologiche Elaborato finale La terapeuticità dell’ambiente: l’Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici (IESA) come percorso di cura e riabilitazione in psichiatria Candidata Relatore Sara Larice Prof. Luciano Sorrentino Matricola: 737183 A.A. 2012/2013

La terapeuticità dell’ambiente: l’Inserimento Eterofamiliare · Scrive Foucault in “Storia della follia”, che tra il Seicento e Settecento con il “grande internamento”

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Università degli Studi di Torino

DIPARTIMENTO DI PSICOLOGIA Corso di Laurea Triennale in Scienze e Tecniche Psicologiche

Elaborato finale

La terapeuticità dell’ambiente:

l’Inserimento Eterofamiliare

Supportato di Adulti sofferenti di

disturbi psichici (IESA) come

percorso di cura e riabilitazione in

psichiatria

Candidata Relatore Sara Larice Prof. Luciano Sorrentino Matricola: 737183

A.A. 2012/2013

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La terapeuticità dell’ambiente:

l’Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di

disturbi psichici (IESA) come percorso di cura e riabilitazione in

psichiatria

Introduzione III

CAPITOLO 1 - Luoghi e metodi di cura del disagio psichico 1

1.1 Il paradigma dell’internamento 2

1.1 .1 La nascita del manicomio e il trattamento morale 2

1.1.2 Un esempio di trattamento non repressivo 3

1.2 Dall’istituzione totale alla deistituzionalizzazione 4

1.2.1 La Milieu Therapy 5

1.2.2 I rischi della deospedalizzazione:

transistituzionalizzazione e cronicizzazione 6

1.2.3 La negazione istituzionale 7

1.3 La psichiatria della riforma 8

1.3.1 Esperimenti internazionali di residenzialità 9

1.3.1.1 Modello dei genitori sostitutivi 10

1.3.1.2 Soteria House 10

1.3.2 L’importanza del Welfare Comunitario 11

CAPITOLO 2 - Dal Patronato Eterofamiliare allo IESA: un’alternativa socio-

sanitaria 12

2.1 Una pratica antica 12

2.2 La diffusione in Italia 13

2.3 Il modello IESA 14

2.3.1 Prinicipi teorico-metodologici 15

2.3.2 Operatività del servizio 16

CAPITOLO 3 - Caratteristiche ambientali dello IESA 20

3.1 Lo spazio terapeutico della quotidianità 20

3.1.1 Quando la vita in famiglia è terapeutica 21

3.1.2 Il ruolo dell’ “ambiente non umano” 23

3.2 Quale terapia per quale paziente? 25

3.2.1 La riabilitazione lavorativa 26

3.3 La mediazione degli operatori 27

3.4 Famiglia d’origine e famiglia IESA 29

Conclusioni V

Bibliografia 31

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III

Introduzione

“Lo sviluppo è strettamente connesso al contesto in cui si propone e si persegue” (Bertini, 2008)

Se è vero che lo sviluppo psico-sociale dell’individuo avviene all’interno di un contesto

bio-psico-sociale, è plausibile che anche la cura del paziente psichiatrico passi

attraverso l’ambiente? Con il termine ambiente, si vuole intendere l’atmosfera

relazionale ed emotiva con cui l’individuo entra in interazione, in cui cresce ed

esperisce la propria vita. È indubbio che le modalità di curare la malattia psichica

dipendono dalla concezione che si ha dell’uomo “sano” e delle sue possibilità di salute

mentale, veicolate dalla specificità di un contesto socio-culturale. Quindi, se si

considera il disagio psichico una manifestazione della sofferenza umana come evento

complesso, dovuto a molteplici fattori e in continuità con la condizione di “normalità”,

non si può fare a meno di considerare la dimensione ambientale del trattamento come

fondamentale. Ma in che modo l’ambiente può essere terapeutico? Nella seguente

trattazione è analizzato come nel modello IESA il contesto ambientale prende

attivamente parte al trattamento terapeutico-riabilitativo, tanto che si può parlare di

“fattori ambientali favorenti” nel trattamento dei pazienti. Il primo capitolo illustra

come secoli di storia sul trattamento della follia hanno evidenziato metodi e luoghi di

cura in cui venivano negati i bisogni primari psico-sociali del malato, considerato

“diverso” ed escluso dalla vita comunitaria: il manicomio come luogo dell’isolamento e

della violenza ne è stato per troppo tempo l’emblema. Con la riforma psichiatrica

cambia la struttura dei nuovi servizi territoriali di psichiatria e lentamente cresce una

maggiore consapevolezza dell’importanza primaria di garantire al paziente un

trattamento in un contesto più umano e che sia proprio questo contesto un mezzo

terapeutico e riabilitativo. Nel secondo capitolo viene presentato il funzionamento

tecnico-operativo del modello IESA, come servizio efficace alternativo alla

deistituzionalizzazione, la sua diffusione nei diversi contesti internazionali e in

particolare in Italia. Viene preso come riferimento operativo il servizio IESA della ASL

TO 3 di Collegno, presso il quale ho svolto attività di tirocinio. Nel terzo capitolo viene

approfondito il tema della terapia ambientale nel modello IESA, teso a promuovere le

capacità personali, relazionali, lavorative ed esistenziali del paziente, evidenziando la

funzione terapeutico-riabilitativa della famiglia, dell’ambiente “non umano” e della

mediazione degli operatori. Viene inoltre illustrato come la sinergia tra risorse di cura

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formali e informali, rende il modello IESA capace di promuovere salute mentale anche

a livello di welfare comunitario.

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CAPITOLO 1 - Luoghi e metodi di cura del disagio psichico

Nella trattazione storica della follia, considerata un’esperienza “altra” rispetto ad una

vita comune e mortale, emerge come il folle fosse sempre stato presente nella vita

sociale e trattato con una certa curiosità. Già i Greci credevano che il folle fosse

“invasato dal dio” (Galimberti, 2009) e che il suo corpo fosse abitato da entità estranee

a sé. Il medico greco Ippocrate può essere considerato il padre della psichiatria

naturalistica poiché individuava nel cervello il “sito” della malattia mentale: la follia era

considerata l’effetto di uno squilibrio degli umori e delle qualità nel cervello e il

trattamento somatico consisteva in salassi, diete, docce fredde, purganti. A partire dal

Medioevo, periodo in cui si scoprirono “le passioni dell’anima” si parlò di follia come

“manifestazione demoniaca”: non si trattava solo di una condizione originante da una

patologia organica, ma anche segno del peccato e della fragilità morale dell’individuo

che andava purificato o punito con riti di tortura e di espiazione della colpa. Si

avviarono così le pratiche di intolleranza verso il disagio psichico (Meccacci, 2012).

Nel ‘600, con l’accentramento del potere civile e politico, la reclusione di folli ed

emarginati era finalizzata a legittimarlo: in un ambiente privo di condizioni igieniche i

trattamenti avvenivano con l’applicazione di metodi punitivi e costrittivi sui corpi dei

malati. Ben presto la terapia della follia non divenne solo un problema medico, ma

anche giuridico e sociale. L’intreccio tra follia, povertà e delinquenza rese complesso il

tema del trattamento dei folli: il medico doveva curare il malato e il giudice decretarne

l’isolamento sociale (Meccacci, 2012). Scrive Foucault in “Storia della follia”, che tra il

Seicento e Settecento con il “grande internamento” per ragioni di controllo sociale, i

“folli”, confusi con mendicanti e delinquenti, furono così chiusi e abbandonati negli

ospedali e nelle prigioni: così si avviarono l’istituzionalizzazione, l’emarginazione e la

restrizione dei malati di mente (Foucault, 1963). Alla fine del ‘700 con la dichiarazione

dei diritti dell’uomo e del cittadino, si presentò l’esigenza di chiudere gli istituti di

segregazione e di progettare ospedali, dedicati solo alla cura dei folli in una determinata

area geografica, da medici con una specifica competenza nella patologia mentale

(Meccacci, 2012). Tra il Settecento e l’Ottocento le nuove acquisizioni dell’anatomia e

fisologia del cervello, secondo le quali “le malattie mentali sono malattie del cervello”

(Griesinger, 1845), influenzarono le concezioni tradizionali della follia, dei suoi luoghi

e forme di cura, tanto che nel 1808 questo nuovo ambito di ricerca, “differenziandosi”

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dalla medicina, fu denominato “psichiatria” dallo psichiatra tedesco J. C. Reil

(Meccacci, 2012).

1.1 Il paradigma dell’internamento

Tuttavia la psichiatria iniziò ad operare quando ancora non aveva sciolto il suo dilemma

epistemologico: qual è l’oggetto di questa nuova scienza? Una questione tutt’altro che

trascurabile, sulla quale si baserà la grande contraddizione del luogo di custodia e di

violenza in cui la malattia del paziente psichiatrico verrà “curata”: il manicomio

(Castelfranchi, Henry, Pirella, 1995). La “storia della psichiatria” divenne ben presto

“storia degli psichiatri, non dei malati” (Basaglia, 2005) poiché in primo piano vi era la

legittimità dell’azione di un potere che tutelava il “sano” e adattato cittadino e che

allontanava il folle in quanto malato e pericoloso. L’appartenenza della psichiatria alle

scienze naturali, pur di essere accreditata come disciplina scientifica, ridusse il folle a

oggetto della scienza, studiabile perché internato e isolato in un luogo recintato da mura,

deprivato della propria soggettività e della possibilità di vivere il suo corpo in relazione

con l’altro (Galimberti, 2009). Così la psichiatria si sottomise alla pratica medica e si

arrese a svilupparsi obbligatoriamente all’interno delle regole istituzionali del

manicomio:

“il problema è che la società (..) incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la follia in malattia

allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere, che è poi quella di far diventare

razionale l’irrazionale” (Basaglia, 1979).

Di qui la legittima domanda: “se la follia è un modo “estraneo” di essere nel mondo,

come si può pensare di guarire applicando una dottrina i cui principi sono un’esatta

riproduzione delle componenti della follia?” (Galimberti, 2009).

1.1.1 La nascita del manicomio e il trattamento morale

Il fondatore del moderno manicomio come istituzione custiodialistica fu il medico

Pinel, che nel 1794 durante la rivoluzione francese, liberò i folli dalle catene negli

ospedali, decretando con questo atto una rivoluzione nel trattamento del malato di

mente. Tale innovazione, che si proponeva come strumento per stabilire un rapporto

umano tra medico e paziente, in contrapposizione al modello organicista della “malattia

del sistema nervoso”, fu denominata “trattamento morale”. In realtà, come sostenne

Foucault: “alla fine del XVIII secolo non si assiste ad una liberazione dei folli, ma ad

una oggettivazione del concetto della loro libertà” (Foucault, 1963). L’obiettivo dello

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psichiatra era infatti quello di osservare “le circostanze dei luoghi, del tempo, del

carattere dell’alienato, della natura particolare dei suoi disturbi, delle varie lesioni delle

facoltà morali” (Pinel, 1987). Vennero introdotti metodi correttivi per il malato

mentale: sedie e letti di contenzione, cinghie di cuoio, manette, collari e camicie di forza

con la finalità di correggere ogni anomalia nelle condotte degli internati che non

rispettassero le norme istituzionali mascherate dall’etichetta di “pratiche terapeutiche”,

quali l’obbligo di lavorare gratuitamente all’interno degli istituti, pratica conosciuta

come ergoterapia (Pirella et al., 1995). Esquirol, allievo e successore di Pinel, sostenne

fortemente il carattere “positivo e curativo dell’isolamento del paziente” (Esquirol,

1982). Il trattamento morale del paziente andava fatto attraverso una relazione costante,

una scrupolosa e ossessiva osservazione:“bisogna vivere con i folli per avere delle

nozioni esatte sulle cause, sintomi, decorso e crisi della loro malattia: bisogna vivere

con loro per apprezzare le cure infinite, i dettagli innumerevoli che richiede il loro

trattamento” (Esquirol, 1982). Il quadro terapeutico implicava quindi il ricovero

nell’asilo, struttura specializzata e disciplinata secondo regole precise: l’ossimoro del

trattamento umano in isolamento era continuamente alternato a interventi fisici coattivi,

costrizioni e minacce (Meccacci, 2012).

1.1.2 Un esempio di trattamento non repressivo

Contro il paradigma della psichiatria istituzionale che nell’Ottocento considerava come

esseri ontologicamente distinti il malato e il sano, lo psichiatra britannico John Conolly

criticò la nettezza di questo confine arbitrariamente attribuito dallo “sguardo clinico”

(Pirella et al., 1995): sentiva l’esigenza di dare risposte razionali ai bisogni della follia,

non solo attraverso la passiva tolleranza del sintomo, ma con l’attiva partecipazione ai

problemi umani della follia, impegnato in una costante ricerca collettiva della soluzione

terapeutica (Conolly, 1856). Nonostante le critiche e il disaccordo degli apparati statali

e di sanità egli introdusse il metodo “non restraint”, della non contenzione, cioè di

modalità non repressive fondate “sulla valorizzazione della libertà dei pazienti, sul

rispetto dei loro diritti e sulla rigorosa ricerca dei fattori di benessere nella gestione

ospedaliera” (Pirella, Casagrande, 1966; Pirella, 1976). L’esperienza innovativa di

Conolly consistette quindi nella conduzione non repressiva del manicomio londinese di

Hanwell dal 1939 secondo i principi della medicina “curativa e riabilitativa” e della

pratica sociale. Conolly riconobbe il debito della sua iniziativa al quacchero William

Tuke, un filantropo che nel 1796 aprì in Gran Bretagna il “Ritiro di York”, gestito dalla

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setta “Società degli amici” come luogo di cura dei malati mentali, alternativo ai già

presenti manicomi che verrà preso come modello di trasformazione degli istituti

(Conolly, 1856). Le principali caratteristiche terapeutiche di quest’opera prototipica di

“privato sociale” improntata su precetti etico-religiosi, erano sicuramente alternative:

porte aperte, finestre senza sbarre, lavoro nei campi, rapporto dialogico tra curanti e

malati (Pirella, 1976).

1.2 Dall’istituzione totale alla deistituzionalizzazione

“L’immagine dell’istituzionalizzato corrisponde dunque all’uomo pietrificato dei nostri ospedali, l’uomo

immobile senza uno scopo, senza futuro, senza un interesse, senza (..) una speranza verso cui tendere;

l’uomo acquietato e libero dagli eccessi della malattia, ma ormai distrutto dal potere dell’istituto.”

(Basaglia, 2005)

Nel ‘900 la pratica dell’internamento si rafforzò a livello quantitativo, isterilendosi

sempre più nelle cure: le diagnosi e i sintomi erano i veri oggetti di una scienza sempre

più polarizzata sulla spiegazione organicista della malattia mentale. I metodi di custodia

e i trattamenti di ordine biologico erano sempre più invasivi e inumani: piretoterapia,

insulinoterapia, elettroshockterapia e interventi di psicochirurgia come la lobotomia

frontale erano utilizzati per sedare la sofferenza psicofisica dei malati. Solo a partire

dagli anni ’40 del ‘900, il paradigma dell’internamento entrò in crisi a causa di

molteplici fattori (Pirella et al., 1995): in primo luogo, gli elevati costi dei manicomi

non erano più sostenibili, dato l’elevato numero di persone che vi ricorreva anche come

soluzione assistenziale; dal punto di vista sociale, l’informazione su ciò che accadeva

all’interno dell’O.P. divenne di dominio pubblico e si prese consapevolezza delle

condizioni tutt’altro che terapeutiche in cui viveva l’internato; dal punto di vista

epistemologico, l’introduzione del paradigma fenomenologico si opponeva alla

spiegazione delle malattie mentali e negava le categorie sano-malato, focalizzandosi

sulla comprensione delle diverse modalità di essere nel mondo dell’uomo; infine dalla

metà degli anni ‘50 vennero introdotti gli psicofarmaci, che avevano l’effetto di

attenuare i sintomi più gravi e di rendere più governabili i momenti di crisi dei pazienti

anche “fuori” dalla struttura psichiatrica. Seppur male organizzati e impregnati della

cultura manicomiale, i principali meriti di queste iniziative furono sia la riattivazione

dell’idea di curabilità e di guarigione del disturbo mentale, sia la possibilità di

superamento del paradigma biologista per cui la sofferenza mentale, essendo dovuta

totalmente ad una disfunzione organica, poteva essere curata solo attraverso il

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trattamento fisico e gli psicofarmaci: si aprì così la strada al trattamento

psicoterapeutico e psicosociale dei disturbi psichiatrici (Pirella, 1995).

1.2.1 La Milieu Therapy

È proprio all’interno dell’ O.P. e in seguito nelle Comunità Terapeutiche, che sono nate

le prime pratiche di “Milieu Therapy”, basata su una concezione di cura psicosociale.

Con il termine Milieu Therapy si intende una modalità di trattamento e di riabilitazione

del paziente attraverso un ambiente supportato, funzionale al soggetto con disturbi

psichici, per cui ogni suo comportamento o evento quotidiano sono utilizzati a scopi

terapeutici (Chiesa, 2002). L’obiettivo di questo trattamento della malattia mentale è

quello di allontanare temporaneamente il soggetto sofferente dal suo ambiente sociale

insoddisfacente e conflittuale, permettendogli di agire nel contesto relazionale

“protetto” i suoi comportamenti disturbanti, contenendo e modificando quelle

dinamiche disfunzionali che compromettono la sua salute (Chiesa, 2002). Nei primi

esperimenti di “apertura” della psichiatria verso nuove modalità di cura e terapia, si

testarono numerosi esperimenti con metodi non costrittivi basati sull’interazione umana.

Alcune delle attività psicoterapeutiche praticate come riabilitative, sono state le terapie

espressive attraverso la grafica o pittorica e la psicoterapia di gruppo, introdotta da

Moreno dal 1923 come “arte della spontaneità”, confluita poi nelle forme di arte terapia

e psicodramma. Anche altri autori, come Bion e Frank collegarono la psicoterapia di

gruppo a programmi di risocializzazione e reinserimento nell’ambiente esterno (Pirella

et al., 1995). Frank (Frank, 1971) introdusse nella cura dei pazienti alcuni fattori non

specifici della terapia psicosociale, comuni a tutti gli interventi come: la presenza di un

contesto-contenitore terapeutico, un rapporto di fiducia con l’operatore e una

spiegazione causale possibile condivisa tra terapeuta e paziente sulla patologia e sulla

terapia. Sostenne anche l’importanza del ruolo delle qualità personali del terapeuta, al

fine di generare aspettative positive nel paziente (Mosher, Burti, 2002). In Francia le

risposte furono la “psichiatria di settore” e il trattamento psicoterapico istituzionale. La

prima consisteva nella divisione del manicomio in unità di cura e ricovero, le quali

ospitavano solo pazienti provenienti da una area geografica e prevedevano che in ogni

settore fossero istituiti servizi psichiatrici, collegati agli OO.PP. di zona: questa

soluzione fallì a causa della “psichiatrizzazione” dovuta al precoce ricovero dei pazienti

in strutture psichiatriche (Castel, 1981). Il trattamento psicoterapico istituzionale

sosteneva che l’ambiente istituzionale fosse una variabile molto importante per la cura

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del malato, così attraverso il principio della patoplastica, cioè la possibilità di

modificare la sintomatologia attraverso un lavoro sull’ambiente, si eliminarono le mura,

le barriere e le serrature, realizzando la libertà di circolazione (Castel, 1980). In

Inghilterra maturava un’idea di “istituzione terapeutica” basata sulle precedenti

esperienze di reparti con porte aperte: tra le più note ci sono il Cassel Hospital di T.F.

Main, che dal 1947 per trent’anni realizzò un modello comunitario psicoanaliticamente

orientato e il modello della comunità terapeutica di M. Jones, nell’ospedale psichiatrico

di Digleton, in cui gli esperimenti di psichiatria sociale portarono nel 1959 al Mental

Health Act, legge per modificare le modalità di ammisioni e dimissioni dei pazienti, con

la quale fu creato un sistema di psichiatria territoriale (Giannichedda, 2005). Anche

queste modalità terapeutico-riabilitative tuttavia, si giocavano non raramente all’interno

di un paradigma stigmatizzante, come sostiene Goffman in “Asylum”. Durante le sue

visite come ricercatore in diversi OO.PP., egli notò che, nel dare risposte durante delle

sedute di psicoterapia di gruppo, il professionista si preoccupava che una certa dose di

conformismo tra le opinioni del gruppo fosse sempre presente (Goffman, 1968). Infatti,

la crescente quantità di pazienti, correlata alla complessità del trattamento in comunità

in grandi gruppi, sollecitò l’introduzione di due figure professionali differenziate e di

due setting clinici: l’amministratore della vita in comunità e lo psicoterapeuta

individuale. Il risultato fu che questo meccanismo prese sempre più piede e sempre un

maggior numero di psichiatri fu introdotto nello staff ospedaliero, con conseguenti

difficoltà terapeutiche (Pirella et al., 1995; Chiesa, 1989; Ploye, 1977).

1.2.2 I rischi della deospedalizzazione: transistituzionalizzazione e cronicizzazione

Secondo lo psichiatra Franco Basaglia, questi tentativi di “apertura delle porte” della

psichiatria e di deospedalizzazione erano inefficienti perché il vero problema era quello

dell’ “istituzionalizzazione”, che per essere eliminato aveva bisogno della distruzione,

da parte della psichiatria stessa, del manicomio come suo baluardo (Giannichedda,

2005). Con il termine “istituzionalizzazione” introdotto da Barton nel 1959, si intende

quella condizione di minaccia della salute e negazione della libertà dell’internato in

istituti, con tutte le sue conseguenze, definita anche “social breakdown syndrome”,

(Gruenberg, Snow, Bennet, 1969) che ha come sintomi principali “l’apatia, la perdita

dell’iniziativa e dell’interesse per eventi e cose, sottomissione, apparente incapacità di

fare progetti e perdita dell’individualità” (Pirella et al., 1995). Alcuni psichiatri

sostengono che una delle cause favorenti la deospedalizzazione sia stata la scoperta

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negli anni ’50 della farmacologia che, attraverso il neurolettico, non imponeva più al

malato di essere curato nelle mura dell’istituzione, dandogli quell’illusoria

riappropriazione della sua libertà attraverso l’eliminazione del sintomo disturbante. Ma

Basaglia ammoniva che anche i farmaci hanno “un potere istituzionalizzante in un clima

seriamente istituzionalizzante: se, in contemporanea all’azione del farmaco l’ospedale

non attua un’azione di difesa della libertà del malato, della cui perdita il malato già

soffre”(Basaglia, 2005). L’effetto fu quello di deteriorare ulteriormente le indebolite

capacità di coscienza dell’uomo malato e di renderlo passivo, sempre più dipendente

dalla terapia, con il conseguente rischio di una “transistituzionalizzazione”, ovvero il

trasferimento del ricoverato dal vecchio O.P. in una nuova struttura residenziale in cui

la necessità di protezione e controllo sulle 24 h non fece che perpetuare quei

meccanismi di autorità, controllo e lontananza tra il malato e assistente (Pirella et al.,

1995). Come rilevato da numerosi studi infatti, “l’aggravante dell’eccesso di controllo e

dell’assistenzialismo” presenti in una tale dialettica servo-padrone ,“è rappresentata dal

fattore di cronicità o “cronificazione” del malato mentale” (Ciompi, 1980; Risso,

Repetti, 1981) che, inghiottito dalla spirale mortifera del “sistema psichiatrico”, vive la

contraddizione di dover accettare un posto letto per non essere abbandonato, con

l’impossibilità di ribellarsi al regime di controllo delle strutture ospitanti, altrimenti

interpretato come agito aggressivo o sintomo psichiatrico.

1.2.3 La negazione istituzionale

Una volta smascherati i meccanismi della “regressione istituzionale” e “identificazione con l’istituzione”

è chiaro il modo in cui si realizza “il lento, graduale, innaturale adattamento” del “perfetto ricoverato,

ben adattato all’ambiente, che collabora con l’infermiere e col medico, si comporta bene con gli altri e

non crea complicazioni e opposizioni” che “in cambio della tutela, ha dovuto rinunciare a sé stesso”

(Basaglia, 2005)

La proposta di Basaglia quindi fu di una vera e propria deistituzionalizzazione intesa

come “insieme delle azioni amministrative, operative, gestionali, interpersonali che

determinano una progressiva modifica dello statuto dell’utente per fargli acquisire un

potere ben diverso da quello che aveva nelle grandi istituzioni totali” (Pirella et al.,

1995; Maccaro, 1978; Misiti, 1978; Tranchina, 1979). Il programma era di trasformare

l’ambiente istituzionale dall’interno e contemporaneamente organizzare una rete di

risorse e risposte sul territorio affinché gli ex degenti potessero vivere in società e non

dentro nuove istituzioni, con la possibilità di ricevere sia un aiuto professionale che non

esperto. A livello pratico dovevano essere previsti progetti di socializzazione, di

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sistemazione in alloggi e di inserimento lavorativo per l’ex degente, per stimolare nel

soggetto la partecipazione nella sua riabilitazione. La prima esperienza che vide

protagonista Basaglia, fu quella di Gorizia, dove lavorò dal 1961 e in cui le modifiche

strutturali e funzionali apportate, in sintesi, furono l’abolizione graduale delle barriere

istituzionali e delle pratiche restrittive: i reparti furono aperti e i pazienti erano liberi di

muoversi nell’ospedale, ma anche nella città; furono abolite le pratiche violente quali

elettroshock, contenzione e isolamento; si incitarono forme parziali di autogestione dei

pazienti e alcuni di questi, partecipavano alle riunioni con gli operatori e organizzavano

attività ricreative (Burti, Mosher, 2002). Si può quindi sostenere che ci fu una differenza

tra il fenomeno epidemiologico della deospedalizzazione e quello di

deistituzionalizzazione, di cui parlava Basaglia. Il primo, rappresentato dalle soluzioni

“open door” della psichiatria di settore, si è rivelato inefficace perché, incapace di

smascherare quell’ “alibi istituzionale” che portò la ripopolazione dei reparti di

psichiatria, attraverso il fenomeno della “porta girevole”. Questo scarto, nell’ottica

fenomenologica di Basaglia, sta nella presa di coscienza da parte dello psichiatra “della

sua personale libertà: il superamento cioè di un rapporto oggettivo con il paziente, nel

quale non può vedere solo un isolato oggetto di studio (..), ma un soggetto in cui può

riconoscere la sua personale soggettività e libertà” (Basaglia, 1979).

1.3 La psichiatria della riforma

In Italia, tra gli anni ’60 e gli anni’70, furono introdotti concetti rivoluzionari quali: la

territorialità, la continuità terapeutica tra O.P. e territorio, il lavoro di equipe,

la formazione finalizzata alla creazione di nuove figure professionali degli assistenti

sociali e psicologi e venne sottolineata l’importanza della prevenzione. Questo avvenne

con la promulgazione della “Legge Mariotti” (431/68) a cui seguì nel 1978, la legge

180, Legge Basaglia, confluita nella Legge 833/78. Quest’ultima sancì l’ istituzione del

Servizio Sanitario Nazionale, con il conseguente passaggio dall’assistenza e della

centralità dell’intervento, unicamente basata sul ricovero in O.P., a una più complessa

organizzazione di servizi territoriali. I tre punti principali di tale legge furono: il divieto

di costruire ospedali psichiatrici e il superamento di quelli esistenti (superamento del

residuo manicomiale), con data fissata al 31/12/1980, anche se il processo si è concluso

nel 1998, lasciando irrisolto il problema del riutilizzo delle strutture; il principio che le

funzioni di prevenzione, trattamento e riabilitazione di persone con disturbi mentali

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siano affidate ai servizi di salute mentale territoriali: le strutture psichiatriche di

ricovero vennero collocate all’interno degli ospedali generali con l’istituzione dei

Servizi Psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC), con non più di 15 posti letto

(Giannichedda, 2005); la disciplina del Trattamento sanitario obbligatorio (Tso),

considerato eccezionale e di breve durata, deve svolgersi “nel rispetto della dignità della

persona e dei suoi diritti civili e politici (..) e deve essere accompagnato da iniziative

volte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte della persona obbligata” (art

n.34 legge 833/78). Da un’indagine Censis del 1984, emerse che dal 1962 al 1984 il

numero dei pazienti ricoverati in Italia passò da 60 000 a 30 000, con una notevole

diminuzione dei ricoveri in alcune zone con servizi extraospedalieri efficienti, i cui tassi

erano di 10 su 100 000 persone (Misiti, Debernardi, Gerbaldo, Guarnieri, 1981).

Tuttavia, l’attuazione della riforma che si realizzò con l’inserimento nella normativa

sanitaria di un elemento civile e costituzionale, non fu né “lineare, né priva di conflitti”,

considerate “le caratteristiche del terreno in cui interviene, dove confluiscono pesanti

pregiudizi culturali e interessi stratificati” (Basaglia, 2005). Le principali difficoltà

infatti, dipesero dalla impreparazione delle strutture alternative, dalla disorganizzazione

delle equipe psichiatriche negli ospedali generali e dalla disinformazione delle famiglie

degli ex-degenti (Giannichedda, 2005). Di fatto le dimissioni furono spesso

indiscriminate e frettolose e i trasferimenti in strutture istituzionali intese

come soluzione abitativa temporanea, non sempre riuscirono ad arginare le iatrogene

conseguenze “dell’abbandono dei malati a sé stessi e alla loro miseria” (Basaglia,

2005). Come confermato dall’indagine dell’Osservatorio per la tutela della Salute

Mentale, in Italia ancora nel 1997 meno del 2% dei pazienti dimessi fu riaccolto nelle

proprie famiglie, poiché il ricovero in O.P. era spesso motivo di conflitto con l’ambiente

familiare di origine, per cui il rientro in famiglia era un’alternativa improponibile.

1.3.1 Esperimenti internazionali di residenzialità

Tra le alternative all’ospedalizzazione che si andavano diffondendo come aspetti

innovativi di psichiatria territoriale, un contributo al paradigma della residenzialità e al

trattamento ambientale è rappresentato dalle esperienze di Polak e Kirby dei “genitori

sostitutivi” e di Mosher di “Soteria House”. Entrambe le due esperienze sottolineano

come sia stato fondamentale anche l’inserimento dei progetti deistituzionalizzanti, in

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una rete sociale extra-clinica, contribuendo alla normalizzazione del rapporto tra utenza

e società.

1.3.1.1 Modello dei genitori sostitutivi

Questo modello, ideato da Polak e Kirby negli anni ’70, si sviluppò nel Southwest

Denver, in seguito al fallimento del servizio di pronto intervento domiciliare di crisi.

Tale progetto sfruttò la “sindrome del nido vuoto” (Mosher, Burti, 2002), per cui coppie

di coniugi pensionati che avevano una o più stanze libere in casa, sulla base di un

compenso economico, ospitavano pazienti con disturbi mentali. L’efficacia di questo

intervento si realizzò per la tempestività dell’intervento dell’equipe necessario in

situazioni di crisi, per il fatto che l’assistenza era offerta nel territorio vicino al cliente,

che il trattamento prevedeva la somministrazione dei neurolettici al paziente e inoltre

per la terapeuticità dell’ambiente familiare (Polak, Kirby, 1976; Polak, Kirby,

Dietchman, 1979). La durata del soggiorno non era regolamentata, ma si aggirò intorno

alle due o tre settimane, permettendo al paziente di andarsene gradualmente. Questa

modalità organizzativa permise al servizio integrato nel territorio di riuscire nell’opera

di deospedalizzazione portando a 1:100.000 la media della proporzione dei letti in O.P.

per ogni cittadino (Polak, Kirby, Deitchman, 1979; Aluffi, 2001), offrendo anche alle

famiglie benefici economici e la possibilità in età avanzata di essere utilizzate come

risorse territoriali extra-cliniche.

1.3.1.2 Soteria House

Il progetto Soteria aprì la sua prima comunità in California nel 1971, chiusasi nel 1983 a

causa della mancanza di fondi (Mosher, Burti, 2002). L’obiettivo alla base del progetto

era quello di dimostrare quanto fosse importante la modalità di terapia ambientale al

primo episodio psicotico per pazienti più a rischio di cronicizzazione cioè giovani, non

sposati e con una diagnosi recente di schizofrenia (Klorman, Strauss, Kokes 1977;

Phillips, 1966; Rosen, Klein, Gittelman-Klein, 1971), con la finalità di ridurre costi per

il ricovero ospedaliero, assistenziali e di farmaci. L’esperimento consistette nella

sperimentazione di una terapia psicosociale senza farmaci attraverso due coorti di

pazienti curati senza neurolettici da operatori paraprofessionali. I risultati indicano che

l’intervento psicosociale era riuscito a produrre una riduzione dei livelli di

psicopatologia sei settimane dopo l’ammissione, paragonabile a quella rilevata nel

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gruppo di controllo trattato con neurolettici. Questo esperimento riuscì a mettere in

discussione la struttura ospedaliera in termini di luogo adeguato per la cura del paziente

psicotico agli esordi della patologia, la necessità di usare un trattamento farmacologico

e che i curanti fossero operatori psichiatrici professionali (Mosher, Burti, 2002),

aprendo a nuove modalità di intendere la cura.

1.3.2 L’importanza del Welfare Comunitario

Quanto già sostenuto da Basaglia sui malati “nei quali il potere istituzionalizzante del

ricovero aveva agito, sovrapponendosi all’originaria malattia, in modo tale da rendere

spesso impossibile stabilire quanta parte del loro stato fosse imputabile all’una o

all’altro”, (Basaglia, 2005) venne ripreso dal suo successore nell’esperienza di Trieste,

Franco Rotelli che elaborò il modello di “riabilitazione della psichiatria”. Con ciò, si

intende far sì che la disponibilità di limitate risorse, (casa, lavoro, denaro, rapporti

sociali) regolamentata da apposite leggi, possa essere resa fruibile attraverso il diritto e

la capacità di accesso a queste, da parte di ogni cittadino. L’ aspetto rivoluzionario che

coinvolge l’intera società nell’elaborazione del modello di riabilitazione

“dell’istituzione inventata”, è quello quindi, di estendere a tutti i cittadini l’accesso alle

risorse sociali affinché l’offerta di opportunità formative e informative, mediato dalle

attività extra-cliniche, renda possibile il perseguimento degli obiettivi, quali autonomia

personale, capacità sociale, acquisizione di potere, capacità d’espressione e produca

benessere (Rotelli, 1987; Pirella et al., 1995). Per evitare il rischio che la cura

nell’istituzione psichiatrica divenga “una semplice, nuova modalità di organizzarsi

dell’assistenza psichiatrica, dove l’elemento difensivo da parte degli organizzatori ha

ancora un gioco determinante” (Basaglia, 2005), una sfida a cui è chiamata la psichiatria

è rappresentata dai “paradigmi deboli della riabilitazione”, in cui si deve “disintegrare il

ruolo del malato emarginato e matto e ridare un ruolo di cittadino, con propri diritti e

doveri” (Castelfranchi et al., 1995). Per far ciò, è indispensabile coinvolgere e

responsabilizzare ogni singolo cittadino.

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CAPITOLO 2 - Dal Patronato Eterofamiliare allo IESA:

un’alternativa socio-sanitaria

In questo capitolo si intende presentare il modello dell’Inserimento Eterofamiliare

Supportato come modalità di risposta efficace alla deistituzionalizzazione (de Girolamo

et al., 2002; Furlan et al., 2005; Aluffi, 2010). L’intenzione di questa trattazione è

evidenziare come la pratica dell’Inserimento Eterofamiliare si sia trasformata da

modalità valida di assistenza filantropica nella società, sorretta da motivazioni etico-

religiose, a modello di cura scientifico in psichiatria, costituendo un’alternativa

terapeutico-riabilitativa.

2.1 Una pratica antica

Le radici storiche dell’Inserimento Eterofamiliare risalgono alla leggenda di Santa

Dymphna ambientata nel VII secolo d.C., nella quale si racconta che Dymphna scappò

dal’'Irlanda, luogo natio, per sfuggire alle incestuose intenzioni del padre, rifugiandosi

in una chiesa della cittadina belga di Geel, dove però il padre la trovò e la uccise: i

cittadini iniziarono così a pregare la martire per la guarigione dalla follia. Così a partire

dal XIII secolo, dopo alcuni miracoli, si avviarono i pellegrinaggi dei folli con i propri

familiari: i risanati tornavano a casa, mentre gli altri in attesa di cure ottenevano

alloggio presso le famiglie del luogo a cui donavano un modesto compenso salariale o

lavorativo (Aluffi, 2001; Goldstein, Godemont, 2003). Oltre a Geel, questa pratica si

diffuse anche nella colonia di Lierneux, dove vi erano villaggi le cui famiglie

ospitavano abitualmente uno o due alienati con la supervisione di medici e infermieri.

Con modalità diverse, l’accoglienza di persone sofferenti in diverse famiglie, si avviò

dalla metà del ‘700 anche in Germania, in Austria e Svizzera con il nome di

“Psychiatrische Familienpflege”, cioè “Assistenza/Cura/Custodia Familiare

Psichiatrica”. Negli Usa e nei paesi anglofoni si parla di “Foster” o “Familiy Care”,

mentre in Francia, dove numerose famiglie accettarono di accogliere delle alienate

provenienti dai manicomi, si parla di “Accueil” o “Placement Familial”, a cui si

aggiunge “Thérapeutique” se è l’inserimento è organizzato dall’O.P. (Aluffi, 2001).

In Scozia gli alienati erano ospitati da piccoli coltivatori, esercitavano il loro mestiere o

ne apprendevano uno; per la scelta ed il controllo delle famiglie esisteva un ispettore ed

una commissione generale degli alienati. Altre esperienze furono anche in Olanda,

Svezia, Norvegia, Russia, Scozia, Polonia, Finlandia e Giappone (Aluffi, 2001).

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2.2 La diffusione in Italia

Uno dei pionieri teorici del “Patronato Eterofamiliare” in Italia fu Serafino Biffi che nel

1854, dopo aver visitato Geel, affermava che le famiglie delle colonie erano il luogo

della “vera cura morale”, in cui c’era spazio per la tolleranza dei comportamenti più

aggressivi e “venivano sperimentate modalità per educare e rinvigorire l’animo del

malato”. La vita in queste famiglie era indicata come metodo parallelo all’internamento

nel manicomio, per gli alienati che non si accontentavano delle “monotone abitudini”

introdotte nelle convalescenze dei reclusi (cit. Aluffi, 2001). In Italia all'inizio del

secolo, esistevano cinque “Società di patrocinio” per i poveri dimessi dai manicomi: la

prima fu quella di Bologna seguita da quelle di Reggio Emilia, Milano, Imola e di

Torino. Tra i sostenitori del “Trattamento familiare dei malati di mente” indicato come

sistema “di mantenimento degli alienati inspirati al concetto fondamentale di procurare

ad essi un genere di vita che rivesta i caratteri vantaggiosi dell'ambiente familiare”,

(Cappelletti, 1903) si ricorda il Dottor Augusto Tamburini, direttore di diversi manicomi

italiani che nel 1903 sosteneva l’importanza delle variabili ambientali di cura,

sostenendo che:

“in alcuni casi di alienazione mentale, il mantenimento al manicomio dell’infermo ritarda la

guarigione e può comprometterla definitivamente (..) in questi casi alla malattia prima, se ne

aggiunge una seconda, cioè una fobia fornita dall’ambiente, la quale (..) si sovrappone alla

prima infermità (..) e ne impedisce la risoluzione” ma “in molti casi la pura assistenza familiare

può bastare” (Tamburini, 1903; Guarnieri 2009).

In Italia molto diffusa era anche la Custodia Domestica Omofamiliare, cioè la presa in

carico del paziente da parte della famiglia biologica, ma tale modello andò incontro a

numerose critiche: l’autorità della famiglia biologica sul malato risultava spesso

inefficiente per la cura del paziente; la famiglia essendo biologica non poteva essere

selezionata sulla base del suo buon funzionamento; un problema era inoltre quello di

vivere il sussidio per l’assistenza come risorsa economica imprescindibile, con il rischio

di cronicizzazione della patologia per finalità economiche (Cappelletti, 1903). Secondo

una Statistica Ministeriale nel 1898, in circa 18 province italiane, vi erano 1417 pazienti

custoditi presso le famiglie con un inserimento di tipo omo o eterofamiliare, circa il 4%

degli alienati (Aluffi, 2001). Con la regolamentazione del Regio Decreto del 1909, fu

posta l’attenzione su condizioni necessarie funzionali all’inserimento: la famiglia

doveva prestare sufficienti cure al malato in termini di tempo e di affettività, mentre

l’abitazione doveva essere salubre e avere un’adatta disposizione degli ambienti per

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favorire la privacy dell’ospite. Secondo la stessa classifica ministeriale sopra citata, nel

1902 erano ben 268 gli inserimenti eterofamiliari nelle province italiane di Firenze,

Reggio Emilia, Modena, Lucca, Perugia, Ancona e Siena (Aluffi, 2001). Appare chiaro

come le forme nascenti di Inserimento Eterofamiliare erano intrise dell’autorità

manicomiale: infatti la necessità che l’abitazione fosse isolata dai centri urbani è

indicativo del fatto che un certo grado di coercizione e controllo sociale fosse

imprescindibile per arginare possibili rischi impliciti in questo modello abitativo.

Malgrado ciò, la legittimazione giuridica e la diffusione del Patronato Eterofamiliare

avrebbero spinto ad interrogarsi in modo più profondo sugli aspetti ambientali favorenti

la cura, nel trattamento terapeutico del malato (Aluffi, 2001). Tuttavia, con

l’approvazione della legge 180 si cancellarono le deboli tracce in materia legislativa del

modello di Patronato Eterofamiliare e non si promulgarono leggi alternative. Le cause

di questa dimenticanza possono essere cercate nel contesto socio-culturale: infatti negli

anni della riforma alcuni movimenti antiautoritari vedevano nella famiglia

un’istituzione coercitiva, da abolire. A questo si aggiunga anche la crisi della famiglia

tradizionale, dovuta alla mobilità socio-occupazionale, in seguito ad un rimescolamento

di ruoli sia generazionali che di genere interni alla coppia. Inoltre non è da trascurare lo

scetticismo diffusosi a livello sociale dell’accoglienza di un membro con disturbi

psichiatrici in famiglia, indotto dal pensiero medico dominante che ha “curato” per

secoli con l’internamento il malato psichico (Aluffi, 2001). Solo negli anni ’90

ricomparve una normativa regionale relativa all’ “affidamento familiare”, codice

inappropriato e fuorviante per definire l’attuale pratica dello IESA (DCR 357-1370 del

1997).

2.3 Il modello IESA

“L’acronimo IESA sta per Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici

e consiste nell’integrazione di una persona in difficoltà presso una famiglia che non è la sua originaria.

In cambio dell’ospitalità offerta, la famiglia riceve un sussidio mensile e viene regolarmente e

professionalmente assistita dagli operatori dell’equipe preposta” (Aluffi, 2001).

Ciò che riguarda i primi due termini dell’acronimo è stato già spiegato nella trattazione

storica del fenomeno. L’aggettivo “supportato” introduce la vera innovazione dello

strumento di cura ambientale del paziente: è l’attività professionale di mediazione

dell’operatore del servizio IESA che entra in gioco come terzo, accompagna e

interviene nella relazione “non professionale” tra ospite e ospitante, venendo a patti con

un setting flessibile (Aluffi, 2010).

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2.3.1 Principi teorico-metodologici

“Lo IESA si pone come alternativa all’istituzionalizzazione in strutture chiuse, complementare e

integrata ad altre modalità abitative e di re-inserimento sociale” (Aluffi, 2004).

È una pratica rivolta ai pazienti maggiorenni presi in carico dal servizio di psichiatria

territoriale. La famiglia ospitante può essere anche composta da un solo membro,

purché risulti idonea sul piano assistenziale come “caregiver”, donatrice di cure. La

differenza principale rispetto alle altre soluzioni istituzionali residenziali o di ricovero

sta proprio nella continuità delle cure fornita dallo stesso “non professional”,

supervisionata dall’equipe, e nel rapporto relazionale 1:1 che si crea con l’ospite (cit.

Aluffi, 2004).

Malgrado l’eterogeneità di questa pratica diffusasi in relazione al contesto storico-

politico, socio-culturale ed economico, sul piano teorico le esperienze di inserimento

eterofamiliare si possono raggruppare in due categorizzazioni.

In base alla classificazione storica di Konrad e Schdmidt-Michel del 1987, (Konrad e

Schdmidt-Michel, 1987; cit. Aluffi, 2001) ci sono varie forme di applicazione

dell’inserimento eterofamiliare per pazienti psichiatrici. In “Colonie di pazienti” o

“Tipo concentrazione” l’inserimento supportato di pazienti sistemati in famiglie avviene

in un solo paese o città. Ne sono esempi già citati Geel e Lierneux in Belgio, Iwakura in

Giappone, le colonie di Dun-sur-Auron e Ainay le Chateaux in Francia. Questa

modalità di convogliare i pazienti in un’unica città o paese rischia però di essere

“transistuzionalizzante”, nel momento in cui il malato non partecipa a quella vita

“normalizzante” poiché vive a stretto contatto con altri malati (Aluffi, 2004).

Nell’inserimento “Indipendente dagli ospedali” o “Tipo dispersione” i pazienti sono

distribuiti presso famiglie sparse sul territorio nazionale. L’assistenza e il controllo sono

affidati a figure non sanitarie. Ne sono esempi la Scozia, Norvegia e Germania. Anche

in questo caso si tratta di “decontestualizzare” il paziente dal suo ambiente d’origine,

principio in opposizione ad un organizzazione territoriale che cerca di rendere più

vicino il paziente al suo ambiente di vita. Nella forma “Centrata sull’ospedale” o “Tipo

appendice” i pazienti dimessi dall’ospedale psichiatrico vengono inseriti in famiglie

situate nella ragione di competenza della clinica, per poter essere seguiti dal personale

medico. Alcuni esempi sono diffusi in Germania, Svizzera, Francia, Usa e Canada

mentre in Italia è presente la modalità di inserimento gestita dal Servizio del DSM. Nel

“Tipo semiprofessionale” i pazienti dimessi vengono assistiti in appartamenti vicini alla

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clinica dagli infermieri in pensione o da persone con competenze non professionali,

come nel caso dei “paesi di cura” in Germania e in Italia del Patronato Eterofamilare di

Reggio Emilia, attivo dal ‘900 (Aluffi, 2004). Inoltre in base alla durata del progetto

sono possibili inserimenti full-time a breve, medio e lungo termine e inserimenti part-

time (Aluffi, 2006). I progetti a breve termine vanno da alcuni giorni a un massimo di

due mesi, a seconda se si tratta di una acuzie sintomatologica, momento di crisi del

paziente o di un bisogno di allontanamento dell’individuo dal suo naturale ambiente di

vita. Costituiscono una risposta alternativa allo stato di disagio del paziente, che

preferirebbe far rientrare la crisi in luoghi diversi dall’SPDC, da cliniche o da istituti. In

Inghilterra e negli USA per accogliere i pazienti in questi casi, si parla di Crisis Home

mentre in Italia, nel piemontese sono attive Crisis Farm gestite da cooperative sociali

(Aluffi, 2004). Due esperienze fondamentali a cui questa modalità di inserimento

rimanda sono quelle di Dane Country, in cui dal 1987 i pazienti, nel periodo critico,

vengono coinvolti nei programmi di cura attraverso l’accoglienza nelle famiglie

abilitate (Aluffi, 2004) e l’esperienza di Denver già citata (vedi 1.3.1.1). Gli inserimenti

a medio termine vanno da alcuni mesi a due anni. Sono inserimenti per giovani per i

quali è previsto un percorso di riabilitazione attraverso il recupero di abilità funzionali e

competenze tali da poter divenire maggiormente autonomi e responsabili. Fondamentale

è in questi casi un’efficiente rete di servizi territoriali con servizi terapeutici e

riabilitativi coordinati, in alternativa al setting chiuso delle comunità o altre istituzioni

(Aluffi, 2004). Nei progetti a lungo termine il periodo di permanenza è previsto per

oltre due anni. Questi inserimenti sono pensati per pazienti anziani lungodegenti, per

pazienti cronici e per persone con disabilità psico-fisiche non autosufficienti. La

famiglia, oltre al compito assistenziale, può far riacquisire un ruolo sociale significativo

all’ospite, in un ambiente affettivamente coinvolgente. L’inserimento a tempo parziale o

part-time, utilizzato in alcuni servizi IESA, prevede che il paziente non viva stabilmente

a casa della famiglia ospitante ma che vi trascorra solo alcune ore o periodi nella

settimana (Aluffi, 2004).

2.3.2 Operatività del servizio 1

Da un’indagine effettuata nel 1999-2000 presso il DSM 5b di Collegno, si evince che il

servizio IESA nei DSM italiani in quegli anni era ancora poco conosciuto. I risultati

1 A causa dell’ eterogeneità operativa dei diversi servizi IESA, la seguente trattazione riguarda il servizio IESA della ASL TO 3 di

Collegno, presso cui ho svolto attività di tirocinio.

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indicano che nel 1999 in Italia sono stati 62 gli utenti inseriti in famiglia presso i servizi

di Collegno, Chieri, Brunico, Lucca, Jesi, Lanusei, Cagliari, Nuoro e Trapani (Aluffi,

2001). Solo a distanza di due anni, nel 2002, altri 14 servizi di inserimento

eterofamiliare supportato si sono sviluppati nel territorio nazionale, mentre in una

ricerca relativa al 2007, i servizi IESA attivi in Italia risultarono 34 con 325 progetti

avviati (Aluffi, 2004; Aluffi, 2010).

Strumenti normativi

Per poter attivare il Servizio nel 1998, è stata fondamentale l’introduzione di due

strumenti normativi per la sua regolamentazione: le linee guida aziendali e il contratto

sottoscritto dal Direttore del Dipartimento, dall’Ospite, dall’Ospitante, dall’operatore

IESA e dall’eventuale tutore del paziente. Le prime definiscono i principi da seguire per

la corretta realizzazione dell’inserimento, mentre il contratto stabilisce la modalità della

convivenza, la durata del periodo di prova e l’entità del rimborso spese mensile. Con

questi strumenti si sottolinea la responsabilità e la progettualità anche dell’ospite come

soggetto che prende attivamente parte al suo progetto di riabilitazione, riappropriandosi

del potere delle proprie scelte. A questi due strumenti si aggiunge un corso di

formazione alle famiglie, attraverso sette seminari informativo-esperienziali, previsto

dal DCR del 1997, riguardante gli standard organizzativi e strutturali del DSM (cfr

DCR n. 375-1370 del 28/01/1997, allegato C). Rispetto a ciò, le varie equipe IESA si

sono interrogate sull’influenza di una formazione al ruolo di caregiver: l’equipe

francese dell’ “Accueil Familial Thérapeutique” tiene dei veri e propri corsi di

formazione, al fine di aiutare le famiglie a rimanere sé stesse anche dopo l’accoglienza

dell’ospite, (Cebulà, 2000) mentre l’equipe “Psychiatrische Familienpflege” di

Ravensburg ritiene che alcune informazioni più specialistiche alle famiglie siano

superflue poiché se l’abbinamento è giusto, l’alchimia tra ospite e paziente mediata

dall’operatore darà i suoi frutti (Franke, 2000). Infatti senza quello “sguardo clinico” la

famiglia ospitante potrà far leva, per instaurare la relazione, sugli aspetti più sani del

“saper fare” dell’ospite (Trautmann, 2006).

L’equipe

La figura professionale dell’operatore è quella di un multiprofessional a cui viene

richiesto di svolgere diversi ruoli in base ai diversi setting in cui opera: reperisce,

seleziona e abbina famiglie e ospiti. Ogni operatore svolge una funzione simile al Case

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Manager, (Rapp, Goscha, 2006) si occupa cioè di tutti gli aspetti della convivenza, quali

la stesura di un progetto IESA individualizzato, dà sostegno psicologico alle famiglie e

amministrativo nella gestione dei rapporti sociali agli ospiti, gestisce contatti con la

famiglia originaria, incentiva l’attivazione di inserimenti lavorativi (Aluffi, 2004). Gli

operatori dell’equipe IESA sono attualmente tre più un sostituto, dipendenti di una

cooperativa sociale. Possono svolgere il ruolo di operatore medici, psicologi, tecnici

della riabilitazione psichiatrica, educatori, infermieri e assistenti sociali e ogni operatore

può seguire un massimo di dieci progetti. L’equipe viene coordinata dal Dirigente

Responsabile del servizio, il dottor Gianfranco Aluffi, psicologo clinico, che si occupa

di formare gli operatori, coordina le loro scelte professionali, supervisiona

settimanalmente l’organizzazione, promuove il servizio, coordina attività scientifiche di

ricerca, ha rapporti con altri servizi territoriali e riferisce alla Direzione del

Dipartimento di Salute Mentale e Patologia delle Dipendenze. Uno strumento

imprescindibile per evitare il burnout nell’equipe e garantire la professionalità delle

prestazioni lavorative, è la supervisione bisettimanale di uno psicoterapeuta esterno sia

sui casi clinici che sull’andamento delle convivenze. Con questa organizzazione del

lavoro a gerarchia orizzontale, è centrale la responsabilità di ogni operatore

nell’eseguire con competenza il proprio intervento: ciò si ripercuote positivamente

anche sull’efficacia dell’intervento professionale e sull’utenza del servizio (Rose, 1985).

Le famiglie ospitanti

Per reperire le future famiglie ospitanti si procede attraverso diverse modalità:

telefonate, mail, annunci su giornali locali, volantini, eventi pubblici, articoli scientifici,

ecc. I requisiti necessari per la candidatura sono la presenza di una stanza in più per

l’ospite, tempo da dedicare all’ospite e regolare permesso di soggiorno se il caregiver è

straniero (Aluffi, 2004). Le famiglie candidate sono poi selezionate attraverso un iter

che prevede tre incontri con l’equipe: nel primo colloquio con due operatori viene

presentata l’iniziativa; nel secondo incontro altri due operatori procedono con

un’intervista semistrutturata e con l’autocertificazione, per approfondire la conoscenza

del candidato rispetto ai suoi dati anagrafici e storia personale, composizione famiglia,

situazione abitativa ed economica, interessi personali, motivazione candidatura,

immagine del paziente psichiatrico, preferenza rispetto ad alcune caratteristiche di

questo, al fine di fare un buon abbinamento con il futuro ospite; il terzo incontro

consiste nella visita domiciliare di due operatori nell’abitazione del candidato, futura

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dimora dell’ospite o, nei progetti Part Time, possibile luogo di ospitalità. Al termine del

percorso di selezione, nella riunione d’equipe di tutti i membri più il coordinatore del

servizio, se non sono emerse criticità, si procede all’abilitazione della famiglia, a cui

segue poi la formazione. In qualsiasi modo o momento si interrompa il percorso di

selezione le famiglie vengono inserite in banca dati, costituendo la vitale risorsa per il

servizio.

Gli ospiti

Il potenziale ospite viene inviato all’equipe del servizio IESA dagli operatori del DSM,

dopo aver informato l’ospite di cosa si tratta e aver ottenuto il suo consenso. Sono

esclusi dal progetto persone che rubano, che fanno uso di sostanze stupefacenti e che

hanno agiti violenti (Aluffi, 2004). Dopo aver raccolto informazioni approfondite sul

paziente con gli invianti, c’è la conoscenza diretta degli operatori dell’equipe del

candidato. A ciò segue, come per le famiglie, un’intervista semistrutturata, per far

esprimere al paziente le sue preferenze sulle caratteristiche dell’inserimento.

Successivamente la riunione d’equipe serve per valutare l’idoneità e la volontà

dell’ospite di avviare la futura convivenza. Se non emergono criticità si procede alla

presentazione del progetto al candidato che, accompagnato dall’operatore del CSM di

riferimento, sceglie di aderirvi o meno. Infine vengono inserite anche le sue

informazioni in banca dati.

Abbinamento e convivenza supportata

Nella riunione dell’equipe IESA si procede all’abbinamento caregiver-ospite secondo le

informazioni in possesso di entrambi i candidati. Elaborata la proposta di convivenza, si

procede verso un percorso di conoscenza graduale e reciproca. Se necessario si aprono i

contatti con la famiglia biologica dell’ospite, si definisce il progetto individualizzato

dell’ospite, con l’equipe, la famiglia ospitante e gli invianti. A questo segue il periodo di

prova di convivenza: se non ci sono incompatibilità si procede alla firma del contratto

tra le parti responsabili del progetto e inizia la convivenza. L’inserimento in famiglia

prevede da parte degli operatori dell’equipe IESA delle visite domiciliari (VD)

periodiche per monitorare la convivenza. Inizialmente la frequenza è di due o più VD a

settimana, per poi arrivare nei momenti in cui la convivenza è ben avviata anche a una

VD al mese, mentre telefonicamente è garantita la continuità del supporto da una pronta

reperibilità dipartimentale 24 ore su 24, sette giorni su sette.

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CAPITOLO 3 - Caratteristiche terapeutiche ambientali del modello

IESA

3.1 Lo spazio terapeutico della quotidianità

“Il ruolo privilegiato della casa non consiste nell’essere il fine dell’attività umana, ma nell’esserne la

pre-condizione e, in questo senso l’inizio.” (Levinas, 1990)

In ogni trattamento terapeutico, ma anche in ogni autentico incontro, la parte più

importante in gioco è il setting, inteso come l’ambiente da cui si dà inizio alla

“riorganizzazione del contesto intersoggettivo tra i (due) partner dell’interazione”

(Tronick, 2008). Nello IESA, il setting principale della relazione quotidiana è la casa,

contenitore delle rappresentazioni delle persone, degli oggetti e delle loro interazioni, di

cui la famiglia è la forma sociale primaria (Scabini, Cigoli, 2000). Uno degli aspetti

peculiari dello IESA è proprio questa possibilità di offrire un’esperienza primaria di

casa, “senza la quale non possono essere poste le fondamenta della salute mentale”

poiché: “senza un ambiente umano e fisico delimitato, una persona non può scoprire

fino a che punto le sue idee aggressive non riescano a distruggere nella realtà, ed in tal

modo non può discernere la differenza tra fatti ed emozioni” (Winnicott, 1975). La

terapeuticità di un ambiente quotidiano, viene discussa anche da Rhon Coleman in

“Guarire dal Male Mentale” (Coleman, 2001), dove illustra che la “recovery”, intesa

come capacità di riabilitarsi alla vita, può essere sviluppata solo se il soggetto è in

relazione all’interno di sistemi affettivi primari che gli offrano “il rispecchiamento e la

conferma di sé” (Kouth, 1986), basi dell’identità. Dai risultati dei suoi studi, Ciompi

sostiene che caratteristiche personologico-sociali e aspetti fenomenici della fase acuta

della malattia, sono statisticamente correlati con l’esito della patologia (Ciompi, 1989).

Riprendendo l’idea di Bleuler secondo cui “ciò che giova alla crescita e maturazione

dell’individuo in generale, giova anche agli schizofrenici e viceversa” (Ciompi, 1994),

egli spiega la continuità tra psicosi e nevrosi attraverso l’ “Affektlogik”, cioè la “fusione

tra affettività e cognizione che agisce nello svolgimento delle funzioni mentali sia sane

che patologiche” (Ciompi, 1994). Il trattamento della schizofrenia come psicosi

affettiva, necessita quindi di una terapia in cui sia enfatizzato l’aspetto affettivo del

setting, oltre che quello cognitivo-strutturale:

“Sembrerebbero molto più funzionali dei piccoli gruppi, flessibili, simili a famiglie, costituiti da persone

sane e comprensive, che si occupino di uno o più schizofrenici per lungo tempo, passo dopo passo, in un

ambiente il più possibile vicino alla vita quotidiana.” (Ciompi, 1994)

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3.1.1 Quando la vita in famiglia è terapeutica

“La fine della presa in carico sembra potersi realizzare tanto meglio quanto più somigliante con

l’adeguata esperienza di separazione dei membri di una famiglia sufficientemente sana. I membri delle

famiglie sane sono capaci di farsi i fatti loro, vivendo a lungo vite separate, facendo decisamente a meno

l’uno dell’altro, ma trovandosi però in altri momenti insolitamente vicini ed intimi.” (Fasolo et al., 2005)

Lo IESA propone come risorsa terapeutica fondamentale la famiglia, intesa come

istituzione primaria naturale, che si contrappone allo stereotipo dell’istituzione

manicomiale, secondo il principio per cui “le case cattive sono migliori di buone

istituzioni” (Bowlby, 1988). Ma quali sono le caratteristiche che questa famiglia deve

avere per poter prendersi cura del paziente? In primo luogo ciò che viene richiesto è la

presenza di un caregiver con tempo a disposizione nella giornata (Kruger, 1989), tale da

poter esercitare le funzioni proprie del “genitore simbolico” nei confronti dell’ospite,

attraverso principi educativi basati sulla tenerezza, proposta e fermezza (Cagnoni et al.,

2004). La tenerezza, considerata associata alla primaria richiesta di soddisfare bisogni di

tipo biologico (Sullivan, 1962), genera salute psichica perché si gratificano bisogni

primari di affetto-amore, accettazione, protezione, appartenenza, sicurezza, stima,

rispetto (Fromm, 1971; Horney, 1981; Rogers, 1970; Maslow, 1982; Allport, 1974), si

rafforzano il riconoscimento e l’accettazione dei tratti autentici del Sé (Watzlawick,

Beavin, Jackson, 1971). Inoltre la tenerezza nella comunicazione fa assumere al

caregiver il ruolo di “base sicura”, facilitando l’interiorizzazione nell’ospite dei

“modelli operativi interni” (Bowlby, 1982, 1989) che rispecchiano il sé in base a come

viene percepito nella relazione: degno di essere accolto e accettato, dando al soggetto

quel sostegno affettivo e pratico di cui ha bisogno per affrontare momenti di difficoltà

(Donati, 1992). Anche la proposta e la fermezza possono aiutare l’ospite a tirare fuori le

proprie potenzialità, favorendo quella “normalizzazione” (Wolfensberger 1970; Mosher,

Burti, 2002) cioè l’aderenza al modus vivendi della famiglia e alle sue regole

responsabilizzanti, misurate sulla persona. La frustrazione dei bisogni patogeni

promuove la crescita, stimolando quella possibilità più autentica di scegliere: ciò che

Konrad e Schmidt-Michel hanno chiamato Nachreifung o post-maturazione (Aluffi,

2001). Un’altra caratteristica che correla con un esito terapeutico del progetto è

l’empatia del caregiver, intesa come capacità di intuire i vissuti emotivi e percepire gli

stati mentali dell’ospite. A tale esperienza di vicinanza, segue la condivisione delle

difficoltà dell’ospite vissute nella quotidianità che si esprime nell’ “essere e nel fare

con” l’ospite piuttosto che “fare per”. In questo modo la percezione della sintonia

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emotiva si attua nell’ottica minimalista della sana interazione a distanza, nella

comprensione verbale e simbolica (Held, 1989; Kouth, 1976): si rispetta il bisogno di

privacy del paziente, consentendogli allo stesso tempo di essere integrato in famiglia

(Mosher, Burti 2002; Cagnoni et al., 2004). La capacità inoltre di non scoraggiarsi, di

progettare soluzioni inedite secondo un’analisi dei problemi concreti, correlano

significativamente con il buon esito del progetto. È fondamentale che l’ospite sia aiutato

a far rientrare nella continuità della sua esperienza anche episodi disturbanti, per

riappropriarsi di parti scisse di sé (McGlashan, Levy, Carpenter, 1975; Soskis, Bowers,

1969; Mosher, Burti, 2002). Secondo Correale, è proprio la rivitalizzazione delle

abitudini nella quotidianità, intesa come “l’insieme dell’esperienze della vita” che

avvengono “con una certa regolarità” (Correale, 1997), che favorisce la riacquisizione

della realtà psichica anche per quei pazienti “cronicizzati” che hanno bisogno di una

maggiore stabilità ambientale (Re, Del Soldato, 2004). Tutt’altro che irrilevante è

quindi la dimensione del conflitto nella nuova famiglia, in cui l’ospite sperimenta che

“senza conflitto non c’è convivenza” e quindi litigare può servire, poiché “il conflitto si

fonda sull’alterità e sta alla base dello scambio e della reciprocità” (Carli, 2003). Così

anche le prime risposte avversive di rabbia e impotenza, bloccate ad uno sviluppo

evolutivo primario, possono evolversi nell’interazione ospite-caregiver, in risposte

strategiche e flessibili, producendo effetti desiderati come piacevole sollievo e senso

d’efficacia (Fossage, 1998). La vicinanza culturale, intesa come facilità comunicativa

indotta dal contesto comune di appartenenza, sia a livello cognitivo che emotivo, può

agevolare la relazione tra ospite e caregiver, secondo il principio di

“contestualizzazione”, per cui la condivisione dello stesso ambiente socio-culturale

promuove un “buon compromesso tra realtà oggettiva, storica, sociale e la realtà del

loro vissuto soggettivo” (Mosher, Burti, 2002). Una sana vita in famiglia come nucleo

affettivo ristretto, contempla che i suoi confini siano flessibili, perciò un buon grado di

integrazione sociale della famiglia (Konrad, Schmidt-Michel, 1993) può costituire una

qualità positiva per l’ospite. L’inserimento e la vicinanza del paziente in una rete socio-

relazionale sana possono incrementare il recupero e lo sviluppo di abilità relazionali

(Aluffi, 2011), benefiche perché destigmatizzanti. In questa dimensione di contiguità tra

follia e normalità, che caratterizza lo IESA come “servizio etico o dialettico”, il marchio

del malato lascia il posto al ruolo di cittadino, mentre nei “servizi clinici o ermeneutici”

in cui si “sancisce una cesura incolmabile tra malattia e disagio psichico” (Galluccio,

2011) questa dimensione spazio-temporale di normalità viene concessa raramente e solo

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con dosi massicce di controllo. L’obiettivo terapeutico dell’inserimento in famiglia

prevede la presenza di modelli identificatori flessibili, che stimolano l’ospite alla

riflessione, alla critica e promuovono trasformazioni nella sua progettualità, nella cura

di sé e nelle relazioni interpersonali contribuendo ad un miglioramento della qualità di

vita (Aluffi, 2011). A tal proposito, la scelta dell’abbinamento tra ospite e famiglia deve

tener conto della differenza tra un ambiente familiare “materno” accogliente e

protettivo, che può favorire nei pazienti con psicosi e ansia acuta un’atmosfera di calma

e di distensione e quello “paterno”, benevolo ma assertivo, che pone limiti flessibili ed è

capace di stimolare pazienti per i quali è concordato un progetto riabilitativo (Ciompi,

1994). Inoltre la presenza di bambini nella famiglia favorisce la terapeuticità

dell’ambiente (Linn, Klett, Caffey, 1980), poiché stimola il paziente ad assumere un

ruolo familiare affettivamente significativo come “nonno/a” , “zio/a” o “fratello/sorella”

maggiore. Questo riveste una grande importanza, poiché la modalità di comunicazione

coinvolgente del bambino fa percepire l’ospite come affettivamente vicino e

responsabile nei suoi confronti. Dopo aver tracciato il profilo di “famiglia ideale”, si

può sintetizzare che un buon esito della convivenza dipende da alcune caratteristiche del

caregiver: “hardiness” o coraggio esistenziale, strategie di coping funzionali e una

grande resilienza della famiglia (Fianco et al., 2012) che deve essere motivata e

coinvolta nel processo di cura. Perciò tra le motivazioni della candidatura dei

caregivers, quella di natura affettiva e quella di natura economica dovrebbero essere

presenti entrambe per gestire quei momenti più difficili della convivenza con una

flessibile disponibilità alle richieste di cura del paziente, rispettando i suoi limiti e

valorizzandone le risorse (Aluffi, 2001; Cagnoni et al., 2004).

3.1.2 Il ruolo dell’ “ambiente non umano”

“Costitutiva dell’esperienza psicotica è la separazione dell’io dal corpo, che non è più corpo vissuto

(Leib), ma corpo-cosa (Körper) che si smarrisce e si perde nel mondo”. (Borgna, 1988)

La cura dell’ambiente in una “dimensione totale” comprende anche elementi non

umani, che possono essere utilizzati terapeuticamente nel trattamento delle psicosi, nella

misura in cui si comprenda l’importanza che rivestono per l’identità del paziente. Se

infatti si considera che nella psicosi una mancata individuazione psicologica si

manifesta come “sovradipendenza inconsapevole dell’individuo dal proprio ambiente”

(Searles, 2004), popolato in modo cospicuo dall’elemento non umano, si può ben capire

che la perdita dell’oggetto-ambiente sia vissuta come perdita del senso del sé

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(Galimberti, 2009). La maggiore sensibilità dello psicotico all’ambiente non umano con

cui spesso si fonde, necessita dell’ “abbellimento” della sua nuova stanza, della

possibilità di scegliere come farlo e di potersi percepire come degno di essere protetto

da una moltitudine di stimoli e oggetti non-sé vissuti come depersonalizzanti e

confondenti:

“la perdita della possibilità di definire i confini del proprio corpo nei confronti (..) del mondo in cui

siamo immersi è la premessa perché le cose del mondo siano vissute come dominatrici e come aggressive

nella loro corsa sfrenata ad allargare e a sommergere il corpo che non ci appartiene più. Corpo

mondanizzato, corpo che si fa cosa del mondo” (Borgna, 2001).

Tenendo conto di questa modalità di esperire sé stessi nel mondo, nello IESA,

differentemente da altre soluzioni residenziali e comunitarie, viene garantito il diritto

all’ospite di possedere oggetti o animali propri da portare con sé durante la convivenza

presso la nuova famiglia. Nella misura in cui riuscirà la differenziazione dall’ambiente,

per l’ispessimento di quella “pelle psichica” (Anzieu, 1987) che funge da contenitore

del sé, con le sue funzioni di protezione e di comunicazione (Ferruta, 2013), questa può

essere considerata un’azione terapeutica. Analogamente, la terapeuticità dell’ambiente

include la presenza nella famiglia ospitante di animali domestici (Held, 1989; Aluffi,

2001). Questo dato è confermato da più ricerche internazionali che rilevano come

attraverso il trattamento di pet-terapy di pazienti psicotici (Barak et al., 2001; Kovaks et

al., 2004; Nathans-Barel et al., 2005), depressi e con vissuti intensi di paura e ansia

(Barker et al., 2003), si ottenga maggiore motivazione a svolgere attività di

comunicazione e di movimento nel tempo libero, nella cura del sé, dell’igiene

personale, nell’area delle attività domestiche con riduzione di ansia, paura e anedonia.

La relazione con un animale attualizzata nel “qui ed ora” aiuta il paziente

nell’integrazione di aspetti affettivi, corporei e relazionali di sé. Ciò avviene perché il

paziente può identificarsi con un diverso essere vivente, proiettandovi fantasie e bisogni

che non riconosce come propri, ma che inizia a sentire sempre più vicini a sé per il

legame empatico che si crea con l’animale. A ciò si somma l’importanza del feedback

di tipo corporeo istintuale che l’animale restituisce nel movimento al paziente che, nel

ruolo di caregiver, viene sollecitato nell’accudimento. Tra i due si sviluppa una

dinamica di dipendenza che stimola una motivazione ad “esserci”, a condividere lo

spazio della relazione come luogo della cura di sé attraverso l’altro-da-sé. Aprendo alla

realtà su un piano concreto e oggettivo, l’animale assume il ruolo di quell’ “oggetto

transizionale” (Winnicott, 2007) attraverso il quale si riattiva quel debole meccanismo

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di separazione-individuazione che stimola un maggiore coinvolgimento nel mondo

affettivo e relazionale umano.

3.2 Quale terapia per quale paziente?

“Abbiamo bisogno di un radicale cambiamento di prospettiva: da un modello centrato sulla collocazione

spaziale del provider (ospedale, ambulatorio, clinica) ad uno centrato sulla dimensione temporale del

cliente. Acuto e cronico sono condizioni,(..) e possiamo immaginare di affrontare disturbi acuti e disturbi

cronici a livello di comunità invece che a livello ospedaliero.” (Saraceno, 2004)

Nello IESA, la proposta di un ambiente familiare terapeutico viene fatta all’ospite sulla

base della “stimolazione ottimale” (Ciompi, 1994) a cui può essere sottoposto: per i

pazienti sensibili e con ridotta capacità di elaborazione, in cui la psicosi acuta è stata

provocata dalla sovrastimolazione, l’ambiente familiare deve essere di piccole

dimensioni, gli spazi piccoli e ben strutturati, si deve favorire un’elevata interazione

dell’ospite con persone sane e coinvolgimento del paziente nelle decisioni; l’accento

sull’autonomia deve essere sostenuto da aspettative positive dei curanti che con

autorevolezza e rispetto focalizzano l’interazione su problemi pratici (Mosher,

Gunderson, 1979). In un’ottica terapeutico-riabilitativa ci si aspetta che questi pazienti

giovani acquisiscano migliori capacità personali, relazionali e socio-lavorative e

ambiscano ad una vita in un’abitazione autonoma. I pazienti che sono inseriti da molto

tempo nel sistema di salute mentale, in cui spesso la patologia si è cronicizzata, sono

stati spesso ipostimolati: per loro sono necessari una chiara definizione dei

comportamenti specifici che richiedono un cambiamento, un programma orientato

all’azione e ben strutturato, aspettative ragionevoli che inducono una graduale

responsabilizzazione, continuità delle cure nel programma terapeutico con le stesse

persone e la costruzione di una rete sociale per stimolare la socializzazione (Paul, 1969;

Paul, Lentz, 1977; Kresky-Wolf et al., 1984; Lamb, Lamb, 1984; Weisman, 1985a-b).

Nella condizione lungoassistenziale l’intervento di cura dello IESA favorisce l’

opportunità di riconsiderazione e di riposizionamento rispetto alla propria esistenza,

“per aggiustare forme proprie o improprie di adattamento, per realizzare

quell’integrazione di contenuti (consci ed inconsci) e di significati della malattia che la

rendono esperienza vitale” (Meneghel, 2006). Oltre a considerazioni cliniche

dell’equipe, anche le preferenze personali dell’ospite vengono prese in considerazione

per l’inserimento in famiglia, a differenza delle strutture residenziali o delle comunità

che sfruttano il troppo spesso inadeguato meccanismo del “posto libero”, per cui la

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scelta del luogo terapeutico non tiene in considerazione della soggettività decisionale

del paziente. Questo aspetto conferma che lo spettro del controllo sociale e dello stigma

agiscono ancora nell’istituzione psichiatrica, celati da programmi che si pongono come

obiettivo principale la riduzione dei sintomi attraverso un’esternalizzazione

(farmacologica) delle cure, causando una iatrogena regressione del paziente. Eppure

sono molte le evidenze terapeutiche a favore di un trattamento che rispetti il diritto della

“negoziazione della cura” tra paziente e curante, che considera fondamentali gli aspetti

interpersonali (Burns, 2007), la qualità di vita (Priebe, 2007) e il funzionamento

psicosociale (Naber et al., 2002; Kozma et al., 2010). L’effetto terapeutico del potere

sulle proprie scelte è di favorire l’empowerment, un’immagine di sé riscattata dalla

dimensione stigmatizzante di malato e una motivazione attiva verso il progetto

terapeutico-riabilitativo. È ben noto infatti che la “compliance è solitamente una

questione di rapporto” (Mosher, Burti, 2002), che la resistenza al trattamento

terapeutico avrebbe quasi sempre anche un significato interpersonale (Wallin, 2007) e

potrebbe essere vista come il risultato della collusione tra paziente e terapeuta per

assicurarsi che non accada nulla di inaspettatato (Fava et al., 2010). Per favorire

l’aderenza alla terapia quindi, è necessario che i pazienti vengano informati e che

abbiano la possibilità di esprimersi sul trattamento cui si sottoporranno (Liorca, 2008;

Kane, 2007), ascoltati e accompagnati nell’accettazione di questo, da figure

affettivamente significative (Emsley, 2010). Tuttavia per stimolare la fiducia dell’essere

aiutati è necessario che si sviluppi una “relazione interpersonale reale” (Gelso, 2002),

fondata sull’autentico incontro nella realtà “del qui ed ora”, che implica la comune

partecipazione e il riconoscimento che ogni persona viene modificata dall’altra

all’interno di questo processo, favorendo quei meccanismi introiettivi che permettono

l’acquisizione di nuove rappresentazioni e capacità personali (Gelso, 2004, 2009). A

conferma di ciò, un effetto significativo realizzato durante il progetto IESA è la

riduzione dell’assunzione di benzodiazepine (Aluffi, 2011), interpretabile come

decremento del bisogno di far proteggere al farmaco quelle parti strutturalmente più

fragili che, attraverso la vita in famiglia, si è appreso a contenere da sé.

3.2.1 La riabilitazione lavorativa

Uno strumento riabilitativo molto spesso utilizzato nella storia della psichiatria come

punitivo e finalizzato ad assorbire in un monotono ciclo il non senso di una non

esistenza, è stato il lavoro, vissuto già nel manicomio con l’ergoterapia e

successivamente nei laboratori protetti (Mosher et al., 2002), pratiche diventate

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emblematiche della dimensione di coercizione, dell’internamento e del controllo

sociale. Nello IESA, la capacità di lavorare viene rivalutata alla luce della “guarigione

sociale” (Castelfranchi et al., 1995): grazie alla disponibilità di cooperative, si da la

possibilità agli ospiti di dedicare parte del loro tempo libero ad imparare una

professione per cui vengono retribuiti. Tra i benefici effetti si hanno miglioramenti sul

piano sintomatologico, sulla qualità di vita e sulla soddisfazione personale (Warner,

2009), con la conseguente acquisizione di competenze strumentali e interpersonali che

incrementano l’autostima e l’autoefficacia (Crowter et al., 2001). Avere una formazione

e un’occupazione lavorativa riduce il rischio di cronicizzazione della psicosi

(Reininghaus et al., 2008; Turner et al., 2009) in relazione al fatto che, attraverso la

gratificazione, si percepisce di avere un maggiore potere sulla realtà e si stimola la

motivazione a migliorarsi anche in altri ambiti (Oasi et al., 2011). È proprio attraverso il

sostegno familiare infatti, che si manifesta l’esistenza di una “interazione dialettica” tra

il sistema motivazionale di attaccamento-affiliazione e di quello esplorativo-assertivo

(Licthenberg et al., 2000). L’aspetto terapeutico per l’ospite, veicolato nella

motivazione a lavorare, potrà quindi essere tanto maggiore, quanto più le esperienze di

successo e di insuccesso sono accolte e partecipate dai caregivers.

3.3 La mediazione degli operatori

“La presa in carico può finire tanto prima e meglio quanto autentico e saldo profondo e disinteressato è

il legame di attaccamento che si è sviluppato col gruppo curante; insomma la presa in carico può finire

solo ed esattamente quando il gruppo curante è stato sufficientemente coeso ed abbastanza a lungo

coerente nella relazione terapeutica con il paziente, con la famiglia e con la comunità locale” (Fasolo et

al., 2005)

Dal punto di vista clinico, la presenza dell’operatore IESA e la sua reperibilità 24 ore su

24 sono fondamentali poiché riducono del 50% l’ospedalizzazione (Hoult, 1986;

Langsley, Pittman, Swank 1969; Mosher 1982; Test, Stein, 1985a-b; Aluffi, 2011) e

sostengono quelle naturali capacità contenitive del caregiver, nella gestione di momenti

di crisi. Questa assicurata presenza del professionista tuttavia, non si traduce in un

necessario e abusato bisogno di intervento, ma piuttosto in un coordinamento e in una

supervisione della relazione tra ospite e famiglia, con i quali si instaura un legame

terapeutico. Nello IESA infatti, si ha una triplice presa in carico dell’ospite, della

famiglia ospitante e della comunità locale: “in questa ottica multicontestuale devono

necessariamente trovare spazio interventi multilivellari in grado di affrontare

complessivamente le contingenze specifiche del fenomeno psicopatologico” (Meneghin,

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2006). È proprio l’“instabilità della clinica” introdotta dalla complessità ambientale, che

necessita di un’aperta equità nella personalizzazione del prendersi cura dei bisogni del

paziente. Ciò significa che il ruolo dell’operatore consiste nell’operazione di decodifica

dei sintomi in bisogni reali, nel profondo rispetto della persona, animata da aspettative

realistiche e positive. Per far sì che ciò avvenga è necessario un lavoro d’equipe in cui

siano condivisi obiettivi e una progettualità nella terapia che implica un intervento non

solamente medico, ma che riconosca un ruolo di fondamentale importanza nella cura

alle famiglie ospitanti. Queste, come risorse informali della società, sono attori

terapeutici secondo il principio guida della “community care” per cui “le persone

bisognose di cure e aiuti nella quotidianità dovrebbero ricevere questi aiuti rimanendo

dentro il perimetro “normale” della loro vita e non in istituzioni ad hoc” (Meneghin,

2006). Il supporto della convivenza da parte degli operatori dello IESA consiste in gran

parte nell’azione minimale di predisporre appoggi concreti, supportando nelle questioni

quotidiane il nuovo nucleo familiare, e di essere affettivamente coinvolti per poter

favorire una regolazione della patologia in un ambiente umano e istituzionale

trasformato, garantendo all’ospite standard minimi di benessere attraverso una “libertà

dalla disabilità” (Meneghin, 2006). Tali tecniche di intervento si oppongono all’

“helping” che si configura come un intervento intensivo di attivismo, tipico della cura

nel reparto ospedaliero, focalizzato ad eliminare i sintomi e il senso esistenziale che

veicolano (Mosher et al, 2002) e al “rapporto tutorio” tra utente e operatore

(Catelfranchi et al. 1995). Questa “seduttiva” modalità di relazione consiste nel

persuadere l’utente che l’operatore lo affianchi per aiutarlo a capire che cosa sia

nell’interesse del paziente, con il rischio di abusare del potere “terapeutico”. Seppure

tale modalità di dipendenza può essere feconda perché alla base di una terapia che si

fonda sull’empatia, diventa pericolosa quando questo meccanismo di “identificazione

proiettiva” è usato con finalità di controllo dell’altro, poiché distorce “da dentro” la

debole auto-percezione soggettiva del paziente, creando confusione tra le sue aspettative

e quelle dell’operatore. Nello IESA, si evita questo meccanismo perverso di relazione,

perché si è consapevoli che “l’abilità è una relazione tra persona e contesto” e “ una

persona è abile o inabile a seconda delle aspettative del contesto” (Catelfranchi et al.

1995). Le aspettative con cui l’ospite si può identificare quindi, non sono solo quelle

degli operatori, ma soprattutto quelle dell’ambiente familiare in cui vive e si sperimenta.

Perciò, per operare in maniera professionale, l’equipe IESA deve favorire anche

un’integrazione tra servizi pubblici e privati, tra interventi formali e informali a partire

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dall’organizzazione e dal coinvolgimento delle comunità locali, costituite da

quell’insieme di persone che partecipano alla vita dell’ospite, supportando quelle

dinamiche comunitarie che vedono le risorse informali come necessarie per il

raggiungimento del “Welfare Sociale” e per l’eliminazione dello stigma del paziente. La

finalità del lavoro degli operatori quindi, include anche la sensibilizzazione al problema

della marginalità sociale, che fa dell’esclusione sociale e relazionale il vero problema

della riabilitazione del paziente psichiatrico (Saraceno, 2004), per cui la pre-condizione

per la cura, è l’inclusione nella cittadinanza.

3.4 Famiglia d’origine e famiglia IESA

Per una completa analisi del modello IESA, non si può non considerare una possibile

difficoltà insita nel modello stesso che, se ben contenuta, migliora l’efficacia

terapeutica. La possibilità del paziente di intraprendere un percorso nell’“altrove” del

nucleo omofamiliare, può indurre un disturbante senso di colpa sia nell’ospite che nella

famiglia d’origine, qualora fosse ancora presente nella vita del paziente, intesa come

luogo inidoneo alla sua salute mentale. Tutto ciò potrebbe incrementare un “conflitto di

lealtà” (Campisi, 2004) verso la famiglia originaria, che rende difficoltosa la

mobilitazione di motivazione del paziente nella partecipazione al progetto. Sarà un

obiettivo della convivenza quello di elaborare questa sofferenza attraverso la

costruzione di affettivi e autentici legami sociali che integrino e trasformino quei legami

biologici disfunzionali, per favorire la crescita del paziente. Accettando che da un punto

di vista psicoterapeutico questa elaborazione è molto difficoltosa e non sempre

realizzabile, da un punto di vista psico-sociale il modello IESA si riscatta, non

istituendo dei surrogati materni e paterni, ma, facendosi promotore del legame sociale,

ridona vigore e significato ai luoghi ordinari dell’esperienza, della sofferenza e della sua

cura, attraverso la scelta di semplici famiglie a protagonisti sociali nella gestione della

sofferenza (Beneduce, 2006). Inoltre, con il riscatto sociale della “famiglia” come luogo

di cura, si afferma implicitamente che anche la famiglia del paziente, seppur mancante

di reali risorse per essere terapeutica, non è per ciò demonizzabile come “la” causa della

malattia. Essendo pur presente una carenza strutturale nella famiglia d’origine, questa è

da ricercare in un terreno intergenerazionale ed appartiene a quel “romanzo familiare”

troppo complesso da decifrare, tanto che non si può più continuare a scriverlo. Tuttavia,

per poterne trarre un significativo senso, necessita di una nuova rilettura intrapsichica e

interpersonale da parte dell’ospite. Per questa ragione nello IESA, il legame biologico

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con la famiglia d’origine non viene né reciso, né colpevolizzato, ma, a partire dalla

volontà e tutela dell’ospite, in maniera residua, entra a far parte di una più estesa

dimensione ambientale terapeutica, proprio nella misura in cui può essere regolato

attraverso gli operatori e bonificato dalla vita nella nuova famiglia.

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V

Conclusioni

“Per rendere possibile una regressione feconda che permetta di liberarsi degli stereotipi imprigionanti,

occorre un contesto favorevole, un terreno sicuro su cui camminare tranquilli, un’aria non inquinata per

allargare il respiro della mente.” (Balint, 1967)

I principi terapeutici ambientali dello IESA prospettano in ultima analisi la tutela del

senso d’identità e la realizzazione di sé del paziente, per riscattare una vita talvolta

costellata di mancanze e sofferenze. La sfida che propone lo IESA è quella di portare

alla luce “la possibilità che è nell’essenza di ogni esistenza: la possibilità della co-

esistenza” (Galimberti, 2009) che richiede semplicemente la presenza partecipata di

qualcuno, secondo il principio terapeutico di “essere riconosciuti per potersi

riconoscere”. Seppure nella pratica realizzazione di un progetto IESA si incontrino

difficoltà di vario tipo legate agli aspetti più distruttivi della patologia, a quelli più

disfunzionali dell’ambiente familiare, a cui si possono aggiungere limiti professionali, il

rischio di provarci è direttamente proporzionale al valore che si vuol dare alla salute

mentale poiché “se la salute diviene un valore astratto sempre raggiungibile non si sarà

più disposti ad accettare il minimo disagio senza cercare un rimedio (..) ma i rimedi

possono essere peggiori del male” (Pullia, 2010). La cura deve essere pensata come un

percorso di cui fanno parte anche gli ostacoli e le rotture degli assetti faticosamente

raggiunti (Ferruta, 2013), attraverso un complesso meccanismo di massicce resistenze e

precarie transizioni. Perciò anche nei progetti non andati a buon fine, non si può parlare

di un fallimento, perché già nella primaria e non professionale forma di accoglienza, c’è

un tentativo terapeutico di avvicinamento all’esperienza soggettiva del paziente.

L’accoglienza è già una dimensione di contatto, di relazione e di disponibilità verso

l’altro che apre alla costruzione di un mondo comune di significati condivisibili. Non

costituisce di per sé la cura, ma è alla base di una buona terapia. Così, con la

diminuzione della distanza tra follia e normalità, lo IESA propone un’alternativa alla

patologia e fornisce speranza al paziente, motivandolo a fare del suo meglio, a ridarsi un

senso, sollecitando la propria recovery. Il coinvolgimento nel progetto terapeutico-

riabilitativo dell’ospite, delle famiglie ospitanti e degli operatori, qualifica il modello

IESA come strumento di trasformazione nella modalità di cura, dal momento in cui

mette a disposizione le conoscenze professionali, estendendo all’intera società la

possibilità di dare un significativo contributo nella gestione della salute mentale,

impegno troppo oneroso per delegarlo solo alla psichiatria. In conclusione, l’alternativa

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VI

dello IESA sta proprio in questo: nella possibilità di condividere l’esperienza di cura in

un contesto sociale e affettivo, favorendo il graduale passaggio da una dimensione

intrapsichica ed esistenziale “simbiotica” ad una “edipica”, plurale e perciò sanificante.

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