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La storia dell'Amatori Catania Rugby

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La vera storia dell'Amatori raccontata da Giuseppe Lazzaro Danzusi

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Giuseppe Lazzaro Danzuso

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Giuseppe Lazzaro Danzuso, catanese, 54 anni, giornalista professionista, ha ama-to e ama il rugby dopo averlo lungamente praticato con risultati per nulla commisu-rati al suo impegno (era, per così dire, una mezza calzetta). Di rugby, e in particolare dell'Amatori Catania, ha parlato a lungo in televisione, sull'emittente privata Antenna Sicilia, anche con un programma dal titolo "Rugby Time". Ha poi scritto di incontri nazionali e internazionali per l'agenzia giornalistica Ansa, in cui ha lavorato per quindici anni. Al di fuori dal rugby, ha lavorato come giornalista per diverse testate, ha scritto una ventina di libri, prevalentemente dedicati alla Sicilia, e, da regista, ha realizzato altrettanti documentari. I suoi due figli maschi giocano o hanno giocato al rugby. Si commuove ogniqualvolta vede “Invictus”

Premessa Lo scritto che leggerete deriva dal discorso da me pronunciato il 23 novembre del 2012 nello Sporting club di Catania davanti all’assemblea del Panathon, dove mi ero presentato su invito del pre-sidente Ignazio Russo. In quell’occasione spiegai di essermi chiesto a lungo quale metodo scegliere per narrare le vicende complesse e controverse, epiche e umanissime, dell’Amatori Catania rugby, comprendendo che se avessi imboccato un sentiero razionale, di fatti documentati, dati e cifre – peraltro già presenti in un bel libro di Carlo e Giuseppe Anastasio, “Sua ovalità l’Amatori biancorosso dell’Etna” - avrei in parte tradito la filosofia di questa sganghe-rata e meravigliosa società sportiva. Conclusi dunque la mia introduzione sottoli-neando come dell’Amatori, e in particolare della gloriosa squadra biancorossa che dagli anni Sessanta agli Ottanta fu l’unica autenti-camente amatoriale della serie A, avrei par-lato con amore. O magari, con risentimento, persino con una punta d’amarezza, ma sempre con rimpianto e malinconia. E soprattutto con la gioia del ricordo, attraverso cui si possono far rivivere amici che non ci sono più e che ci mancano terribilmente. A cominciare da Benito Paolone, al quale quella serata del Panathlon era dedicata. La premessa, allora come oggi, è che quando ci si fa guidare dai sen-timenti e non dai numeri e dai freddi fatti, non possono essere conte-state a chi narra fantasie e visioni personalistiche. Il mio racconto sarebbe stata dunque una delle innumerevoli versio-ni di una incatalogabile leggenda, di un mito che vive ancor oggi in tantissimi ragazzi. I quali magari non hanno – o non hanno ancora – piena consapevo-lezza del loro retaggio, della ricchissima ed evanescente eredità rice-vuta, del dono prezioso che si porteranno dentro per tutta la vita e potranno trasmettere ai propri figli. E i figli ai loro figli.

Giuseppe Lazzaro Danzuso

Quella dei Brogna – qui uno dei suoi esponenti - è una delle dinastie della Pescheria di Catania

NB Nel corso della serata furono proiettate delle immagini fotografiche, tutte in bianco e nero, che vi riproponiamo, ringraziando gli autori. Quelle della Pescheria sono della fotografa Monica Laurentini, quelle dell’Etna del giornalista Turi Caggegi, quelle dell’Amatori degli archivi di Pippo Minnella e Pippo Puglisi. Tutte sono state fornite a titolo gratuito, nel più puro spirito amatoriale.

Capitolo primo ‘A Piscaria

a in scena l’Amatori, signori: si comincia. E la scenografia è sontuosa e miserrima, variopinta e grigia, se-gnata da una

nota alta, acutissima. È sempre un canto da muezzin che ti guida, nella Piscaria dei pisciari, in quel tunnel sotto le mura di Carlo V, tra i po-chi relitti rimasti a galla della Catania del 1693, abbattuta da quel disastroso uragano che fu il ter-remoto. Proprio in pescheria, negli anni Sessanta del secolo appena trascorso, quello strano sport in cui il pallone non è rotondo ma ovale e si passa all’indietro, aveva trovato l’humus adatto a svilupparsi. E ora cerche-remo di scoprire per quale motivo. Ma prima attraversiamo questo ambiente, tra richiami e abbanniati: “Vivuvivuvivu!”. “Taliati chi c’è cca’!”. Le urla si incrociano, i soprannomi si intrecciano: Brogna, si chiama, un pisciaru, dal nome della conchiglia usata un tempo come campa-

na, per chiamare a raccolta le genti. Attraversiamo odori, profumi e lezzi, i sapori, ché da queste par-ti l’assaggiassi - per l’assaggiabile - è punto d’onore. E anche il tatto è coinvolto: co-me si fa a non infilzare con il di-to il polpo o la seppia, a conside-rarne la consistenza, valutando-ne così la freschezza ?

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Ma è soprattutto l’occhio a godere, tra i pesci variopinti di tutte le forme e le dimensioni, banconi di legno e marmo, bronzee stadere, mannaie e coltelli, cassette accatastate, frattaglie puzzolenti, vasche d’acqua salata e munnizza, munnizza, munnizza.

Poi, salite due scale - quelle che portano alla fontana del Tri-tone, l’acqua a lin-zolu, eretta sopra l’Amenano, fiume sotterraneo della memoria - ecco il cuore di Catania: la piazza del duomo con l’elefante, il lio-tru, sormontato da un obelisco egizio,

ché, da queste parti, non ci facciamo davvero mancare nulla. E, a dominare su tutto, là, sullo sfondo, immenso, l’Etna.

Se vi chiedete come uno sport chiamato rugby, in cui per andare avan-ti il pallone si passa indietro – immaginate chi traficu! - abbia potuto attecchire in quella Catania considerata la capitale mondiale dell’indolenza la risposta è: grazie all’Etna. Il gigante che è ghiaccio fuori e fuoco dentro, il dio capace di donare terre fertili e distruggere intere città. Come prezzo da pagare per vive-re in uno dei luoghi più belli al mondo.

L’Etna ha insegnato ai catanesi a ricominciare sempre da capo: un’eruzione ti mette in ginocchio mentre stai correndo verso la meta? Proteggi la palla e aspetta i compagni, per una nuova fase di gioco. È stato grazie a questi terribili disastri che un popolo reso profonda-mente individualista dalle continue dominazioni che l’hanno diviso, frammentato, ha scoperto la forza della socialità, della comunità, della squadra.

Capitolo secondo ‘U Villaggiu

’ Amatori, dunque, na-sce all’ombra dell’Etna e ha due patrie: la Pi-

scaria e il Villaggio Santa Maria Goretti. Della prima abbiamo già parlato e parle-remo ancora. La seconda è un grumo di case popolari gettato lì sul margine estre-mo della città. Un posto turistico, lo defini-vano gli abitanti, con l’amara autoironia dei catanesi, non solo per la vicinanza con l’aeroporto, ma per via del meritatissimo soprannome di Venezia etnea: con due goc-ce d’acqua, ancor oggi, le strade del Villaggio si trasformano in canali.

Due immagini che dimostrano come il Villaggio abbia meritato il nomignolo di Venezia Etnea

E i suoi abitanti sacramentano con la stessa dovizia di particolari di quelli della città lagunare. Dove li trovi, avrà pensato Benito Paolone, missionario del rugby, ra-gazzi altrettanto abituati a ricominciare da capo dopo una batosta, un placcaggio duro, un pugno o un insulto razzista?

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Ragazzi che hanno nelle gambe la più veloce fuga dall’autorità costituita. Ra-gazzi che, inconsapevoli dei loro mode-stissimi mezzi fisici, non temono alcuno. Ragazzi pieni di sogni, di voglia di vive-re, di voglia di vincere. In più c’era il fatto territoriale: tra il Vil-laggio e l’aeroporto si trovava il campo in cui l’Amatori giocava: Fontanarossa. Sul malconcio muro di fronte alle tribu-ne stava una scritta zoppicante che in-vitava gli “stranieri” a perdere ogni spe-ranza, ché sarebbero caduti sotto i colpi dei giganti biancorossi, al grido di Arri-ba. Chissà se Gianfranco Puglisi, promotore dell’urlo di guerra, sapeva che era lo stesso della falange spagnola e rischia-vamo tutti l’arresto per tentata ricostitu-zione del disciolto partito fascista. In ogni caso, per chi, come me, vi venne paracadutato dai quartieri alti a quindici anni, Fontanarossa era una specie d’inferno: brutto, sporco, squallido e soprattutto estremamente pericoloso. Ricordo che il terreno di gioco, piuttosto che il prescritto manto erboso, vantava non solo acuminati sassi d’ogni forma e dimensione, ma anche innumerevoli, luccicanti, frammenti di vetro, opportu-namente sparsi per ogni dove. Fu su quel campo in cui la terra aveva il colore della torba del caffè che uno dei miei maestri di rugby e di filosofia mi disse con voce roca: “Placcami!”. E io ebbi un mancamento, perché si trattava

di un incredibile Hulk ante-litteram, un essere leggendario.

Benito Paolone

Capitolo terzo Nino Puglisi e gli altri

ino Puglisi si chiamava – è morto nel 2008 a 62 anni per un infarto – e si narrava avesse divelto a mani nude una panchina di marmo dalla sta-

zione ferroviaria di Frascati. E che l’avesse poi sollevata alta sulla testa per far atto di scagliarla contro un centi-naio di tifosi decisi a far la festa all’Amatori, reo di aver condannato la squadra di casa alla retrocessione. Nino, con i suoi 130 chili di muscoli e raffinatissima tecnica era stato un emblema dell’Amatori. Aveva poi continuato nel Cus Catania, perché qualun-que rugbista degno di questo nome sente il bisogno in-sopprimibile di insegnare ai ragazzi le meraviglie della palla ovale, salvando così la loro vita dalla banalità del calcio. La macelleria di Nino Puglisi fu, tra gli anni Sessanta e Ottanta, il punto dei ritrovo dei rugbisti. Sul muro esterno troneggiava, ingiallito dagli anni e dalle intemperie, un enorme manifesto con il volto arci-gno di Benito Mussolini, a dichiarare una fede che personalmente non condividevo ma rispettavo.

Nino Puglisi in azione con la maglia dell'Amatori, seguito da Vito Grasso, mentre Cicero fa velo

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Nino Puglisi

Il locale era minuscolo, ma c’era la Piscaria, la strada: i banconi di le-gno erano i medesimi per la carne e per il pe-sce. E su quei banconi Nino – un suo solo dito era largo quanto quattro delle mie – inteneriva la carne con micidiali sga-nassoni prima di ta-gliarla.

Una formazione dell’Amatori. Da sinistra in alto: Pippo Puglisi, Casella, Strano, Franco Di Maura, Gullo, Cicero, Cristaudo, Amato. Accosciati: Mignemi, Fusco, Failla, Falsaperla, Lucchese, Elio Di Maura, Luca. Una notazione: guardando la foto e i ceffi, il mio figlio minore, Micio, rugbista in erba, mi ha chiesto come mai quei signori indossassero la divisa da carcerati

Su un tavolo, intanto, la madre si occupava dei “preparati”: polpetto-ni, falsomagri farciti di uova sode e prosciutto, involtini e soprattutto spiedini di vari tipi di carne, oppure di carne e formaggi. La signora Puglisi era abilissima e rapidissima nell’assembleare. Ma voleva, o meglio pretendeva, che qualcuno le tagliasse il formaggio, le sbucciasse le uova sode eccetera. Questo qualcuno avrebbe dovuto es-sere il figlio Nino, che però sarebbe stato così strappato alle consuete dissertazioni. Perché la chianca dei Puglisi era soprattutto un cenaco-lo, un luogo in cui si parlava e si parlava: di politica, filosofia e, natu-ralmente, di rugby.

Da sinistra: Pippo Puglisi con Sergio Pugelli e Nino Amato

Paolo Licandro vola in touche, Nino Puglisi scatta in aiuto, Gemmellaro prende in mano la situazione

La pescheria, allora, brulicava di giocatori di palla ovale. Oltre a Nino c’era suo fratello Pippo Puglisi, uno dei miei amici più cari. C’era Turi Gemmellaro, macellaio noto per gli innumerevoli soprannomi, che dell’Amatori fu anche, per lunghissimo tempo, allenatore.

L’Amatori annata 1964-65. Da sinistra in alto Gemmellaro, Fleres, Leonardi, Pippo Puglisi, Mannani-ci, Gianfranco Puglisi, D’Emanuele, Pugelli. Accosciati: Annino, Roccasalvo, Leotta, Zinna, Mignemi, Paolone

C’erano Tino Maugeri, detto Ti-nu Ova, che aveva una salume-ria – con rivendita di uova - in via Gisira, Tuccio Strano inteso catinella, anche lui macellaio, Loreto Gaeta, morto giovanis-simo, che di un chianchieri della pescheria era figlio. Oltre agli stanziali c’erano poi i frequentatori, a cominciare na-turalmente da Benito Paolone, che fece della Pescheria il suo quartier generale politico. E rispondevano ai nomi – e ai soprannomi – di Turi Pappa-lardo, arriulativi, Santo Masca-li, Franco Pintaldi taralla. C’erano poi l’avvocato Nino Scuderi, il povero Vito Grasso convinto di parlare in francese (talòn, talòn, usci balòn), e an-cora il vichingo Franco Di Mau-ra e suo fratello Elio, Gianni Fi-chera, detto pulici, Mariano Falsaperla – il vero nome pro-prio non lo ricordano più nean-

che i suoi parenti, ma fa-ceva una magnifica imi-tazione di padre Maria-no, capuccino della tv negli anni Sessanta - e Paolo Licandro, anche lui prematuramente scomparso. Ancora bambini erano i fratelli Minio, Puccio e Salvo, cresciuti nella trattoria del nonno, nel cuore del mercato del pesce. E ragazzo Totò Trovato, che tanto

Pippo Puglisi ( a sinistra) con "Mariano" Falsaperla

Fontanarossa: da sinistra si riconoscono Pippo Puglisi, Nino Puglisi, Pio Failla e un giovanissimo Gianni Luca. Sotto, ancora Pippo Puglisi con i caratteristici baffoni alla Sandokan

frequentò la Pescheria da sposare la sorella dei Minio. C’erano poi personaggi straordinari come il compianto Alfio Gullo – detto facc’i prastica, da giacchetta verde, arbitrava con la sigaretta in bocca -, Giovanni Mignemi, il povero Natale Lucchese, Sergio Pugelli ‘u rossu – abbiamo recuperato una foto in cui era magrissimo e con un improbabile at-teggiamento da latin lover -, Carmelo Caponnetto, signo’ senta e Nino Amato, testa di cippu, tallona-tore-ariete. E ancora l’attore Aldo Cicero, detto ba-ra per via di un cappottone militare che lo irrigidi-va come in preda al rigor mortis, Carmelo Casella, Carmelo Brioscia Cristaudo – è peccato, per un trequarti essere moddu, ossia lento - Carlo Guido, Sergio Zinna, Franco Cimino, soprannominato bi-della perché quando Paolone disegnava gli schemi sulla lavagna, gli faceva da assistente. E tanti altri. La seconda generazione sarebbe stata quella di Ezio Vittorio, figlio della gemella di Nino Puglisi e di Foffuccio Vittorio, uno dei pisciari della cosid-

detta cooperativa, e Lorenzo, figlio di Nino. Ma torniamo pro-prio a Nino Puglisi: quando voleva con-tinuare a discutere in santa pace senza incorrere nelle ire nella madre, aveva un’ancora di sal-vezza: i ragazzi del

rugby. Appena ne adocchiava uno ad aggirarsi sfaccendato per la Pescheria, lo arpionava per il cozzu con una delle sue manone e gli appioppava il compito di tagliare il for-maggio.

La cosa funzionava e non funzionava. Nel senso che Nino giudicava accettabile che il ragazzo addetto mangiasse la metà del formaggio o delle uova. Ma finiva per licenziarlo quando, avvisato dalla serafi-ca comunicazione della madre – “Chistu si manciau tutti cosi!” -, si rendeva conto che la voracità del giovinotto era stata eccessiva. Devo confessarvi di esser stato licenziato diverse volte. E in questi casi, Nino, che aveva un cuore grande quanto la pescheria, se non quan-to l’intera Catania, mi prendeva – scon-quassandomi – sotto braccio. E a mo’ di risarcimento mi conduceva a scoprire prelibatezze che fino allora mi erano ignote per via della mia formazione bor-ghese: sanceli, quarumi, mauru, cacuc-ciulìddi spinusi, pane di Napoli e uno straordinario idrogenato di caffè che il vippitaru preparava apposta per lui.

Fontanarossa: Antonio Abdullah Failla esce da una mischia protetto da Pippo Puglisi e Giovanni Balbo

Fontanarossa: un plastico volo di Franco Di Maura, protetto da Tuccio Strano

Capitolo quarto I “ragazzacci di strada”

u così che io, ragazzo dei quartieri alti, grazie al rugby scoprii tutte le leccornie offerte dalla Piscaria e

molte altre cose. Per esempio che i “ragazzacci di strada”, come li chiamava mia madre, del Villag-gio non solo erano molto più veloci e ‘sperti di me, ma, a parte gli atteggiamenti da bullo, avevano un gran cuore. E anda-vano rispettati, anche perché vivevano con grandissima dignità uno stato di disagio materiale inimmaginabile. Scoprii, grazie alla meravigliosa intuizione che portò personaggi come Benito Paolo-ne a mescolare ceti sociali diversi, che l’atteggiamento della mia Catania - quella dei professionisti, dei ricchi -, rispetto ai confinati nelle orride periferie, era cieca e razzista. Perché il pregiudizio nei confronti

degli abitanti di certi quartieri era, allora, ben più forte che oggi. È per questo che voglio rendere onore a questo grande uomo di sport e a tutti coloro i quali condivisero quegli ideali, a comincia-re da Santino Granata, Turi Giammellaro, Pippo Puglisi. Così come a coloro che conti-nuano a perpetrarli, sia nell’Amatori, sia nella mia squadra, il Cus Catania, sia, spe-cialmente nella Librino dei tifosi di calcio assassini. È stato grazie a questi uomini se il pregiudizio nei confronti degli abitanti delle periferie si è ridotto. Quando cominciai a fa-re il giornalista per esempio, mi capitò di parlare ai colleghi della Banda di Santa Ma-ria Goretti. E i cronisti di nera si misero su-bito in agitazione prima che potessi spiega-

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Maurizio Balbo con Nino Sapuppo, due dei biancorossi provenienti dal Villaggio Goretti

Concetto Angelozzi con Maurizio Balbo

L’Amatori Catania era l’unica squadra di rugby al mondo che annoverare tra i propri supporters un’intera, per quanto piccola, banda musicale: quella del Villaggio Santa Maria Goretti

re: si trattava di volenterosi ragazzi impegnati a suonare marcette prima delle partite dell’Amatori. Ma i sospetti restarono. Quando, alla fine degli anni Settanta, cominciai a praticare full time la professione del giornalista, speravo di continuare a giocare almeno le partite in casa. Ma mi meritai, da un tecnico del suono di Antenna Si-cilia, Ino Di Mauro, l’azzeccatissimo soprannome di Lacero Contuso: impegnato in un ruolo complicato come quello del pilone alle 11 del mattino, quando dovevo condurre in studio la trasmissione sportiva a volte non ero propriamente al massimo della forma. Più Lacero Contuso che Lazzaro Danzuso. Così, davvero a malincuore, fui costretto a rinunciare.

Capitolo quinto I sermoni di Paolone

aturalmente continuai a seguire l’Amatori da cronista televisi

vo, sfuggendo, con la scusa di dover andare a montare il servi-zio, ai terribili sermoni post partita di Paolone

Benito, diciamolo, era un po’ futurista, con i suoi bam! Vvvvamm! Fffummm!

Ma nessuno che abbia giocato a rugby a Catania dimenticherà mai quella voce afona e tutta la bruciante passione che c’era dietro. Nessuno dimenti-cherà il suo sogno, in parte, purtroppo, naufragato, di vei-colare il verbo del rugby attraverso decine, centinaia di

docenti di educazione fisica. Ci conoscevamo da tempo, ma diventammo davvero amici litigando per tre mesi di seguito, ogni sera, dal lunedì al venerdì, nella sala dell’Hotel Royal di Palermo. Era il 1988: io ero stato assunto dall’Ansa, lavoravo nella sede paler-mitana dell’Agenzia che era a due passi dal Royal, dove dormivo. E dove stava anche lui, che era a Palermo per la sua attività di deputato regionale. Scoprimmo la coincidenza in una fredda serata di febbraio. E da allo-ra, sera per sera, se si escludeva il fine settimana, ci ritrovavamo dopo cena davanti a una tazza di camomilla – lui diceva che ci permetteva di litigare serenamente – e… dissentivamo su tutto. Divertendoci da matti. Non dimenticherò mai quel suo sorriso birichino da bimbo che stringe il musetto inalberato quando pensava di averti inchiodato con un ra-gionamento stringente.

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La Trimurti: Santino Granata, Benito Paolone e Turi Gemmellaro

Né gli occhi sbarrati e le mani allargate della sua migliore espressione stupefatta quando lo mettevi all’angolo. O il tic di sistemarsi la giacca tirandola dai petti. O ancora il vezzo di farti sentire quanto ancora erano ferrei i suoi ad-dominali: “Tocca qui, tocca qui!”. Il punto focale dei nostri litigi era Pippo Puglisi. Penso che Benito invidiasse la forza della nostra amicizia, nata quan-do avevo quindici anni e lui era il mio insegnante di educazione fisica. “Quello che dice Pippo, per me va bene” affermavo. E lui, con quel sorriso birichino di cui vi dicevo, le sparava grosse, in-ventando storie incredibili. Ma poi rivelava subito che si trattava di uno scherzo. “Pippo vuole i ruoli! – mi urlava in faccia, fingendosi scandalizzato (le prime volte il barman era accorso per intervenire a sedare la lite, poi aveva capito che era tutta scumazza e ci aveva lasciato perdere). “Pippo vuole i ruoli in una società che è un’armata Brancaleone!” Io sostenevo che Puglisi aveva ragione e andavamo a letto restando ciascuno della sua propria opinione. Ma l’affetto, sera dopo sera, cresceva.

E una sera Benito capitolò: “Di ruoli non se ne parla, ma sarei felice di mettermi al servizio di Pippo per fare nuovi ragazzi”. Ci credeva davvero. Voleva bene a Pippo, che ammirava per la sua cor-rettezza. E avrebbe davvero fatto il portatore d’acqua a chiunque lavorasse since-ramente per il rugby. Ma ovviamente non avrebbe

mai avuto il tempo. Direte che era portato a strafare, e forse era così. Ma soltanto a causa della sua grandissima generosità. Ebbi la certezza che mi voleva bene quando, in un servizio su Antenna Sicilia, lo presi in giro per via del megafono che adottò quando lo co-strinsero in tribuna per una squalifica. Litigammo e fece l’offeso per un po’, ma durò davvero poco. Io, nonostante fossi stato assunto dall’Ansa, tornato a Catania conti-nuai, in tv, a cantare le gesta di molti di coloro i quali da ragazzo in-contravo o sull’autobus per raggiungere Fontanarossa oppure in cam-po per le partite di giovanile. E qui parte l’elenco te-lefonico: Luciano Ca-totti, Pippo Minnella, Pippo Signeri, Gio-vanni Petralia, Gio-vanni Di Bella, Alber-to Paolone, Umberto Trebar, Franco Abra-mo, Saro Buscema, Mario Nicolosi, che aveva giocato con me al Cus insieme al po-vero Roberto Maccarrone, Turi Forte, Mario Finocchiaro, detto King (nel senso di Kong), Concetto Angelozzi, Roberto Cafaro, Luciano Bel-laprima, Carmelo Ravidà, Mimmo e Luigi Marchese, Luca Ferlito, i fratelli Nicola e Nino Sapuppo, i fratelli Amore, gli innumerevoli Bal-bo, compreso il generosissimo Giovanni. Gianni Balbo.

Luciano Catotti, Concetto Angelozzi, Pio Failla e Turi Forte

Mario Nicolosi, Salvo Minio, Totò Trovato e Puccio Minio

Gli vidi, una volta, giocare una partita con un braccio solo, ché l’altro se lo era rotto in una mischia. Ma si potevano più effettuale sostitu-zioni e, nonostante il dolore terribile, non vole-va lasciare la squadra con un uomo in meno. Beh, rischiò persino di fare una meta. Era la generosità personificata Gianni Balbo, ma, in anni in cui la vita umana a Catania con-tava pochissimo, venne ucciso. Gli spararono. E si fecero mille, sballate ipotesi, per via del pre-giudizio nei confronti di chi abitava le periferie. Alla fine si scoprì che quel gladiatore indoma-

bile era morto per un motivo banalissimo: aveva contestato il lavoro a un muratore e quello aveva pensato bene di prendere la pistola e am-mazzarlo. Da cronista seguii non solo quell’omicidio così triste e insensato, ma anche, con trepidazione le sorti del fratello minore di Giovanni, Nino Balbo – c’era anche un altro fratello rugbista, Maurizio - , che stava per morire dopo una partita in cui gli si era rotta la milza cadendo sul pallone.

Gianni Balbo Nino Balbo in ospedale

Capitolo sesto L’Amatori e i suoi miti

ono innumerevoli i fatti, un po’ veri e un po’ inven-tati, sui quali si basa il mi-

to dell’Amatori Catania. E pas-sano tutti da personaggi deci-samente fuori dall’ordinario. Uno di questi si chiama Gianni Luca. Qualche decennio fa, con uno pseudonimo, tenevo una rubri-ca semiseria dedicata al rugby su una rivista locale. Una volta scrissi che Gianni, il quale non era certo un omone – ma sop-periva con la grinta: una volta balzò sulle spalle di Mariano Falsaperla per schiaffeggiare il colossale neozelandese Toki -, più che un’ala trequarti pareva un’ala di pollo. Qualche giorno dopo l’uscita del giornale mi telefonò la di-rettrice, terrorizzata dalla visita in redazione di un figuro che cercava Lord Hullabaloo – non scervellatevi, significa baccano, casino, ed era, ovviamente, il nome con cui mi firmavo – pi’ scipparici ‘a testa comu ‘na masculina. La rubrica venne soppressa. Gianni Luca era uno dei miei miti: non so più in che anno, mi pare il 1974, capitò a Catania con la maglia dell’Maa Milano tal Marcello Fia-sconaro, che aveva stabilito nel 1972 un record mondiale indoor dei 400 metri piani e l’anno dopo era stato primatista mondiale anche degli 800. Poi, avendo cominciato, in Sudafrica, come rugbista, era tornato al vecchio amore.

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Marcello Fiasconaro mentre stabilisce il record degli 800

Gianni Petralia vince un pallone in touche. Di Maura, Catotti, Nicolosi e Puglisi accorrono in suo aiuto

A Catania Fiasconaro – la sua famiglia, per la cronaca, era originaria di Castelbuono - dimostrò la sua classe placcando plasticamente pro-prio Gianni Luca nell’area dei Ventidue del Milano. Si involò poi con passo di ghepardo verso la meta dell’Amatori: scartò il primo, il secondo, il terzo, il quarto, accelerò, con quella sua mera-vigliosa falcata e si predispose a lanciarsi in meta, plasticamente, in tuffo. Ma il tempo, incredibilmente, si fermò. Conoscerete il paradosso del calabrone: i principi fisici – forma, peso,

lunghezza delle ali – gli impedirebbero di volare. Ma lui non conosce i prin-cipi fisici. Gianni Luca era ignorante come il calabrone: non leggeva i giornali e il lavo-ro duro che lo impegnava fin dal mattino presto gli impediva di sapere chi dia-volo fosse Fiasconaro. Sa-peva di lui, soltanto, che si era permesso di placcarlo. Turi Forte da una moule apre il pallone a King Finocchiaro

Mario King Finocchiaro affronta un avversario seguito da Luigi Marchese e Pio Failla

Così, ricordandosi che sugli spalti lo chiamavano Kawasaki – moto allora ambitissima in certe zone di Catania per la bruciante ripresa, ideale dopo scippi e rapine -, piombò come un proiettile sul malcapi-tato primatista mondiale, lo sbatacchiò qua e là, gli prese la palla e, fatto dietrofront, s’involò verso la meta del Milano. Sul Fontanarossa l’atmosfera era irreale: nessuno fiatava, come da-vanti a un miracolo – persino i calabroni, per spirito di corpo proba-bilmente, avevano smesso di ronzare - mentre Gianni Luca saettava tra gli avversari imbambolati. E l’urlo di gioia repressa esplose incontenibile solo dopo ch’ebbe piaz-zato l’ovale oltre la linea.

Capitolo settimo Il paradosso del calabrone

ibadisco che gran parte de-gli atleti dell’Amatori di al-lora non aveva affatto il fisi-

co per scontrarsi con i preparatis-simi e nerboruti rugbisti delle squadre del nord. Ce n’era persino uno, Pippo Campagna, che chia-mavano Gamba di legno, perché afflitto da una leggera zoppia. In compenso, quei giovani – tutti, nessuno escluso - avevano ben al-tro: coraggio da vendere, intuito, intelligenza, cuore. E una propensione alla fuga che neanche Houdinì. Erano imprendibili certi trequarti dell’Amatori, si infilavano in ogni buco della difesa avversaria, con rapidissimi cambi di direzione. Alcuni, questa caratteristica, l’avevano addirittura scritta nel proprio cognome. Prendete i fratel-li Failla, ossia faidda, favilla. Cioè quella minutissima, scintillan-te particella che si stacca da un fuoco e s’invola, serpeggiando, velo-cissima e inafferrabile, fino a svanire. Insomma, se davi la palla in mano a quei due, per parafrasare Quasimodo, era subito meta. Ma non era solo gran parte degli atleti dell’Amatori Catania a non avere coscienza delle miserrime condizioni fisiche in cui versavano per altezza e peso. Anche i dirigenti ignoravano – volenti o nolenti – le altrettanto infime condizioni economiche della società. Meravigliosamente incoscienti, ignoranti come calabroni sono stati, negli anni, Pippone Guerrera, Lino Castagnola, Silvestro Stazzone, Wladimiro Della Porta, Edo Ferlito, Giuseppe Catania Dimitriu e tanti altri appassionati sportivi.

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“Puzziddu” Petralia salta più alto di tutti

E in tempi di spending rewiew, uno come Santino Granata ce lo saremmo ritrovato ministro. Un giorno un ex biancorosso di-ventato inviato del Tg1, Nuccio Puleo, sorprese l’Italia dello sport mostrando al Paese la nuova sede dell’Amatori Catania: la fiam-mante Fiat 500 di Granata, per l’appunto, strategicamente par-cheggiata in piazza Trento, allora quartier generale della squadra. In quei tempi al campo si andava con il cambio nelle sporte di ny-lon della Sivad, il primo super-mercato di Catania, ché non era-no tempi da borse sportive firma-te, e le scarpette bullonate veni-vano passate dai più grandi ai ra-gazzi delle giovanili. Non parliamo poi delle maglie,

con ogni genere di rammendo e colori indefinibili. Santino Granata s’industriava e faceva di tutto perché Paolone, con la sua proverbiale generosità, non si riducesse sul lastrico mettendo troppo spesso le mani in tasca. Così organizzava improbabili – e interminabili - trasferte in treno ap-profittando della benevolenza dei controllori di tutt’Italia che chiude-vano tutti e due gli occhi sull’esiguità del numero dei biglietti rispetto a quello dei passeggeri. Quei padri di famiglia avevano imparato ad

amare l’accozzaglia di ragazzi piuttosto male in arnese di cui leggevano le gesta sui giornali: due giorni di viaggio per anda-re a prendere cento punti e un sacco di botte a Treviso, nella neve. Sopportando con pazienza an-che la molesta ironia di noi giornalisti. Eroici guasconi, erano. Che la Sicilia amava e l’Italia del grande rugby sopportava con malcelato disprezzo, lo stesso

Abramo apre la palla, Marculescu vigila

Granata e Paolone in aereo per una trasferta dell’Amatori

delle eleganti e pingui guardie del cardinale nei confronti degli scalci-nati moschettieri. Lo zio Santino Granata per decenni aveva messo al bando l’aereo, marchiandolo come mezzo “innaturale”. Poi però arrivò qualche soldo e l’Amatori si seppe far conoscere e apprezzare anche negli aeroporti di tutt’Italia.

Paolone L’Amatori scopre l’aereo. Da sinistra Mario King Finocchiaro, Turi Forte, Roberto Cafaro, Pio Failla e Concetto Angelozzi

Si deve a loro, ad esempio, l’invenzione degli espositori dei cornetti accessibili solo al barista. (Se non l’avete capita, evidentemente non avete mai giocato al rugby, perlomeno non a Catania) Fu in quegli anni di vitelli grassi che l’Amatori colse il suo miglior ri-sultato di tutti i tempi: il secondo posto a pari merito con Treviso nel primo anno del campionato con poule scudetto e poule retrocessione, il 1981-82. Ricordo ancora la festa: dopo estenuanti trattative lo zio Santino aveva strappato al ristorante Pagano a ma-re un menù da favola – sempre considerando qual era lo stile Amatori – al prezzo di una sporta di panini al prosciutto. L’allegria raggiunse il culmine quando Elio Di Maura, con un tovagliolo a frange in testa a simulare un copri-capo beduino si mise a parlare in arabo e io lo intervi-stai spacciandolo per il nuovo straniero dell’Amatori. Il primo straniero vero, Murray Blandford, ribattezzato Mario Branci-forti, sarebbe arrivato in realtà soltanto quattro anni dopo. Quando già era in squadra l’incredibile Catalin Marculescu, ex nazionale ro-meno naturalizzato italiano.

Pippo Minnella

Si festeggiò il titolo di vi-cecampione d’Italia, dun-que, ma la federazione mandò medaglie da terzo posto, inventandosi la re-gola, prima inesistente, della differenza mete. Una beffa. Granata le restituì, quelle medaglie bugiarde. Perché la dignità è sem-pre stato uno dei punti di forza dell’Amatori. E sulla dignità si costrui-sce, si cresce. Vennero così il nuovo campo di Santa Maria Go-retti, inaugurato con Ita-lia-Russia, il fantastico Seven che rese Catania una delle capitali mondiali della palla ovale, gli altri prestigiosi incontri internazionali. E poi

vennero i grandi stranieri, a cominciare da Johannes Breedt, e gli atleti catanesi che tutti ci invidiavano: Orazio Arancio, Andrea Lo Ci-cero, Mario Privitera. E poi tante altre cose che esaltavano quei ragazzi abituati a partire come emigrati per farsi massacrare di mazza-te e mete sui campi gelati del nord. Oggi, va un po’ meno bene, rispetto ai tempi belli. Ma va infinitamente meglio che all’inizio. Il vero problema è, forse, lo scoramento do-vuto al fatto che i grandi padri non ci sono più. Tocca ai figli. O a chiunque abbia l’animo di farlo. L’ovale è a terra e bisogna impadronirsene. Pronti a prendersi anche le botte. Ogni tanto sento parlare di soldi che non ci

sono. E penso a quando di soldi non c’erano davvero e le cose veniva-no bene lo stesso. Forse meglio.

Concetto Angelozzi si esibisce in un calcio a seguire

Da sinistra: Gemmellaro, Trebar, Paolone, Catotti e Petralia

Certo, c’era Paolone, sempre pronto a mettere le mani in tasca. Sem-pre pronto a inventarsi qualcosa per quei ragazzi che, urlava con occhi brucianti, erano patrimonio di tutti. Ma uno come Benito non si trova certo a ogni angolo di strada. “Giuseppe – mi diceva a volte, ridendo – ma ti rendi conto che con tutto quello che ho speso con l’Amatori avrei potuto essere un princi-pe!”. La conoscevamo entrambi la risposta: è stato ben di più, Benito Pao-lone, per il rugby catanese. È stato un re.

Capitolo ottavo Concludendo…

orrei concludere dicendo che, poche settimane fa, è emerso un dato economico agghiacciante, ma che non mi ha affatto sor-preso: Catania è, sotto il profilo del lavoro, la città più precaria

d’Italia. Viene così certificato che per noi catanesi il destino segue le stesse imprevedibili vie di una palla ovale quando rimbalza a terra. Eppure ce l’abbiamo sempre fatta, tra terremoti, eruzioni, guerre di mafia, corruzione, malapolitica e chi più ne ha più ne metta. Ce la farà anche l’Amatori, quello di oggi.

Che è quello di ieri, quello di sempre. L’Amatori di Max Vinti e Vincenzo Delfino, di Salvo Garozzo e Fabio Borina, di Rosario Di Paola e Johnny Strazzeri. E di tanti altri meravi-gliosi ragazzi della squadra allenata da Ezio Vittorio e Giuseppe Co-stantino. Ce la farà, l’Amatori. Basta che si ricordi della sua storia, così simile al soggetto di un film di Billy Wilder. Basta che gli anziani la raccontino ai più giovani, questa storia. E trasmettano loro l’orgoglio dell’appartenenza a questa leggendaria società sportiva. Basta che tutti tengano sempre bene a mente il paradosso del cala-brone.

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