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3 - 2016 La sanità nell’imbuto Consip: opportunità e rischi... PUNTE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE NELLA GESTIONE DELL’ADI IMMUNODEFICIENZE TRA GESTIONE, INNOVAZIONE E SOSTENIBILITÀ EPATITE C: INTERVISTA A MICHELE EMILIANO, PRESIDENTE REGIONE PUGLIA COLESTERELO FUORI CONTROLLO: FATTORE DI RISCHIO O PROBLEMATICA SANITARIA? MACROREGIONI: INTERVISTA A LUCA CERISCIOLI, PRESIDENTE REGIONE MARCHE PRIMI DATI DELL’OPERAZIONE DISCOSURE DI EFPIA

La sanità nell’imbuto Consip: opportunità e rischi3_16_versione_okWEB.pdf · In copertina: MENO OSPEDALI, PIÙ TERRITORIO Illustrazione a cura di Marco Olivari ... I numeri della

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La sanità nell’imbuto Consip:opportunità e rischi...• PUNTE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE NELLA GESTIONE DELL’ADI • IMMUNODEFICIENZE TRA GESTIONE, INNOVAZIONE E SOSTENIBILITÀ • EPATITE C: INTERVISTA A MICHELE EMILIANO, PRESIDENTE REGIONE PUGLIA • COLESTERELO FUORI CONTROLLO: FATTORE DI RISCHIO O PROBLEMATICA SANITARIA? • MACROREGIONI: INTERVISTA A LUCA CERISCIOLI, PRESIDENTE REGIONE MARCHE • PRIMI DATI DELL’OPERAZIONE DISCOSURE DI EFPIA

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In copertina: MENO OSPEDALI, PIÙ TERRITORIOIllustrazione a cura di Marco Olivari

Il riassetto della rete ospedaliera è di primaria importanza per gli impatti che può determinare sull’adeguatezza delle cure, sui costi per il sistema pubblico e sulle ricadute sociali. L’adozione di un modello Hub & Spoke permette di concentrare servizi sanitari ad alta complessità in un numero limitato di centri hub e la conseguente razionalizzazione del rapporto con i centri spoke nell’ottica di una migliorata efficienza, accessibilità ai servizi e qualità nell’assistenza.Ciò comporta la riduzione del numero di ospedali che non sono in grado di rispettare determinati criteri quantitativi.

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Anno I - N°3 2016

EditoreALTIS Omnia Pharma Service S.r.l.Viale Sarca 22320126 MilanoTelefono +39 02 49538300Fax +39 02 [email protected]

Direttore ResponsabileMarcello PortesiVicedirettoreStefano Del MissierComitato editorialeVincenzo AtellaStefano Del MissierFederico MeretaDaniele PallottaMarco PolcariMarcello PortesiMario SensiniKetty Vaccaro

Autorizzazione Tribunale di Milano n. 318 del 17 novembre 2015.Numero di iscrizione al RoC 26499

IL PUNTOLa sanità nell’imbuto CONSIP: opportunità e rischi. 2TENDENZE E SCENARII numeri della psoriasi. 4RISORSE E SALUTEPunte di eccellenza e innovazione nella gestione dell’ADI. 8MODELLI IN SANITÀCicogne troppo regionali. 10INNOVAZIONE E TERRITORIO

L’importanza della prevenzione per le IPD. In arrivo la legge che garantirà la possibilità di fare screening sin dall’età neonatale. 13Immunodeficienze tra gestione, innovazione e sostenibilità. 14POLITICA & ISTITUZIONIIntervista a Michele Emiliano. Epatite C in regione Puglia tra innovazione, gestione e sostenibilità. 20Intervista a Luca Ceriscioli, Presidente della regione Marche. 23NON SOLO CURAColesterolo fuori controllo: fattore di rischio o problematica sanitaria? 25

IL MONDO ADVOCACYLe geometrie variabili dell’advocacy in sanità. 30TERRITORI D’EUROPAObesità e politiche di prevenzione. 34PILLOLE REGIONALI 37Stampato a Milano nel mese di Luglio 2016

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IL PUNTO

La gara per l’acquisto della “siringa nazionale” è già partita. Quaranta milioni di euro per ottocen-to milioni di pezzi, tra aghi, farfalle e siringhe di tutte le fattispecie, capaci di assicurare almeno il 20% del fabbisogno dell’intero Sistema sanitario nazionale. Da quest’anno gli acquisti centralizza-ti nella sanità sono divenuti di fatto obbligatori, e il governo spinge a più non posso su questi stru-menti per garantire, in perenne ristrettezza di bilan-cio, i risparmi sufficienti a far quadrare i conti. Gradualmente il sistema degli acquisti centralizzati sarà esteso. Dopo la siringa nazionale partiranno le gare per l’acquisto degli stent coronarici, i vaccini, naturalmente i farmaci, poi i servizi: pulizie, ristorazione, lavanderia, smaltimento dei rifiuti sanitari. Il programma del governo è molto ambi-zioso, far transitare per la Consip, la centrale naziona-le degli acquisti, 15 miliardi di spesa pubblica nel giro di tre o quattro anni. Di questi 15 miliardi, il grosso, 12,5 miliardi, riguardano proprio la sanità, che è la più grande macchina di spesa pubblica italiana.

UN PROCESSO COMPLESSOLuigi Marroni, amministratore delegato della società, ex dirigente ed ex assessore della sanità toscana, sussurra a mezza bocca anche un obiet-tivo: la riduzione dei prezzi degli acquisti sanitari

del 20%. Cioè, quanto la Consip riesce in media già oggi a ottenere sugli acquisti effettuati attraver-so la sua piattaforma telematica. L’ultimo acquisto delle macchine per la risonanza magnetica “Total Body” ha fatto segnare un prezzo di 375 mila euro per ciascuna unità, la metà di quello “di mercato”. Fosse così, solo su quei 12,5 miliardi di euro si risparmierebbero 250 milioni. Il risparmio potenziale per il Sistema sanitario nazionale potrebbe aggirarsi sui 4-5 miliardi di euro l’anno. Spuntare prezzi migliori su merci e servizi, secondo l’esecutivo, equivale a ridurre gli

sprechi: se l’Emilia-Roma-gna paga un’insulina due centesimi, non c’è motivo perché il Lazio ne spenda tre. Il ragionamento non fa una piega finché si parla di prodotti a basso contenuto tecnologico. Ma tiene con i farmaci? Le apparecchiature biomedica-li? L’esperienza degli acqui-sti centralizzati, fin qui, ha mostrato luci ed ombre.Le Regioni, ad esempio, già oggi acquistano i farmaci destinati ai propri ospedali attraverso le centrali regiona-li, ma la normativa dispone

che siano aperte delle gare per la fornitura dei principi attivi, non delle specialità farmaceutiche. Ad ogni bando fioccano proteste, lettere, richieste di chiarimenti all’Agenzia Italiana del Farmaco, contenziosi che vedono protagoniste le imprese produttrici dei farmaci “esclusi”. Le procedure che portano ai bandi sono un distillato di burocrazia, tra

LA SANITÀ NELL’IMBUTO CONSIP: OPPORTUNITÀ E RISCHI

Mario Sensini*

* Giornalista Il Corriere della Sera

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commissioni, consulenze e tavoli con le imprese, con le strutture territoriali e le direzioni sanitarie. Dove chi acquista, nonostante questo processo, non sempre s’intende alla perfezione con chi deve soddisfare il fabbisogno di un ospedale.Un sistema, insomma, che ha già messo in luce le forti carenze nella programmazione degli acquisti nel lungo termine da parte delle Regioni. E che ora metterà a dura prova la Consip. Nel giro di pochi anni dovrà strutturarsi in modo tale da poter garan-tire la più ampia disponibilità possibile di conven-zioni con i produttori o i fornitori di servizi per non rischiare di paralizzare l’attività del Sistema, che dovrà obbligatoriamente passare da lì per soddisfare le proprie esigenze. Dovrà, insomma, essere capace di costruire un mercato telematico dove si può trovare di tutto in qualsiasi momento. Il che, ancora una volta, presuppone una capacità di programmazione, e di coordinamento, elevatis-sime. E che potrebbe mettere in secondo piano la ricerca dell’alta qualità nei capitolati d’appalto, se non addirittura la ricerca delle migliori condizioni economiche di acquisto.

FONDAMENTALE LA CAPACITÀ DI VALUTARE I PRODOTTI CHE SI ACQUISTANOAlla Consip minimizzano, ma il problema del rapporto quantità/qualità esiste, eccome. Tanto che la stessa Consip ha deciso di coinvolgere gli opera-tori del settore nelle commissioni di valutazione dei prodotti da acquistare. Così, per la gara degli aghi e delle siringhe, saranno coinvolti gli infermieri, per le apparecchiature i tecnici ospedalieri, e così via. Mentre nei capito-lati di appalto - assicurano - la componente della qualità dei prodotti continuerà ad essere opportuna-mente pesata.Ma non è tutto, perché bisogna considerare anche i problemi dall’altra parte della barricata, cioè quelli dei produttori, che non hanno mai visto di buon occhio la Consip e gli acquisti centralizza-ti. Solo i grandi produttori sono capaci di fornire certificazioni, garanzie, fideiussioni, prezzi e capa-cità di distribuzione richieste. Alla piattaforma del

mercato telematico della pubblica amministrazione oggi sono abilitate solo 45 mila imprese. Non sono poche, ma sono solo il 4% di quelle che operano nei settori merceologici interessati dalle gare Consip. E i piccoli sono stati fatti fuori, deci-mati già prima dal ritardo cronico dei pagamenti della pubblica amministrazione. Un altro problema che le gare centralizzate non risolvono: anche attra-verso la piattaforma Consip i pagamenti continuano ad arrivare alle imprese ben oltre i 60 giorni previsti dalla direttiva Ue.Insomma, c’è il rischio concreto di aver infilato tutto in un imbuto dal quale è difficile capire cosa verrà fuori. Di sicuro la centralizzazione degli acquisti è un’opportunità di risparmio, ma sarà determinante la gestione del processo per evitare che la minor spesa si traduca in una nuova penalizzazione dei servizi.

LA CONSIP

Consip è una società per azioni del Ministero

dell'Economia e delle Finanze (MEF), che ne è

l'azionista unico, ed opera secondo i suoi indiriz-

zi strategici, lavorando al servizio esclusivo della

Pubblica Amministrazione.

La Società svolge attività di consulenza, assisten-

za e supporto nell'ambito degli acquisti di beni e

servizi delle amministrazioni pubbliche.

In qualità di centrale di committenza nazionale,

realizza il Programma di razionalizzazione degli

acquisti nella PA. Sulla base di specifiche conven-

zioni, supporta singole amministrazioni su tutti gli

aspetti del processo di approvvigionamento.

Attraverso provvedimenti di legge o atti ammini-

strativi, sviluppa iniziative che coinvolgono sia le

proprie competenze nel procurement, sia la propria

capacità di gestire progetti complessi e innovativi

nell'ambito della Pubblica Amministrazione.

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Da un’indagine del Censis

I NUMERI DELLA PSORIASIKetty Vaccaro*

Due milioni di persone soffrono di psoriasi – Diagnosi incerta e tardiva, so-prattutto da parte della medicina generale – Il 70% degli intervistati è soddisfatto dell’assistenza ricevuta – Serve più attenzione alla dimensione psicologica – 20,7 i giorni di lavoro persi nell’ultimo anno per ogni paziente

La psoriasi è una malattia complessa, sicuramente poco conosciuta, che colpisce attualmente in Italia circa 2 milioni di persone, dalle molte implicazioni cliniche che rimangono spesso sotto traccia. I suoi segni fisici, anche quando lievi, connotano la condizio-ne dei malati, il loro rapporto con il mondo e possono essere dirompenti sotto il profilo psicologico, perché chiamano in causa il rapporto con il proprio corpo, l’immagine di sé e l’autostima. Conoscere meglio il mondo della psoriasi è per questo una precondizione importante della presa in carico efficace delle persone che ne sono affette e diffondere più informazioni sulla malattia, anche tra le gente comune, può contribuire a migliorare la qualità della vita dei pazienti, grazie alla riduzione dei pregiudizi e della diffidenza ancora diffusi su questa malattia. Che ci sia un problema di informazione e conoscenza emerge anche dai princi-pali risultati di un recente studio del Censis, che ha analizzato la situazione delle persone affette da psori-asi attraverso un’indagine su un campione naziona-le di 300 pazienti con diagnosi di psoriasi (il 62,0% dei quali affetto dalla forma più comune di psoriasi, conosciuta come psoriasi a placche) in cura presso i Centri specialistici ospedalieri che garantiscono la terapia specifica (a loro volta coinvolti in un’indagine ulteriore) o presso dermatologi.

LA DIAGNOSI, UN PERCORSO TORTUOSO CHE RITARDA L’ACCESSO ALLE TERAPIEI pazienti possono anche recarsi subito dal medico, di fronte a sintomi spesso evidenti che suscitano preoccupazione, ma non sempre trovano una rispo-sta immediata ed efficace. Il primo interlocutore, più spesso il medico di medicina generale (MMG), si

mostra non di rado dubbioso e incerto nel riconosci-mento dei sintomi.Ricostruendo il percorso che va dai sintomi alla diagnosi, si è infatti evidenziato che la gran parte dei pazienti si è rivolta al medico subito dopo i sintomi (61,9%) e il 28,7% comunque in tempi brevi (da due a sei mesi), mentre solo il 9,4% si è rivolto al medico trascorsi tempi ancora più lunghi (da un anno a oltre tre anni dalla comparsa dei sintomi).Il primo interlocutore è in qualche modo legato anche alle caratteristiche dell’offerta del territorio di resi-denza: per la quota più ampia del campione è stato il medico di medicina generale (45,1%), soprattutto tra i pazienti del Centro, e, in seconda battuta, il più citato è lo specialista privato (29,2%), soprattutto al Sud, seguito dallo specialista pubblico (22,4%), che prevale come primo interlocutore per i pazienti del Nord (Figura 1).

* Direttore Welfare Fondazione Censis

Figura 1. Intervistati per medici cui si sono rivolti per la prima volta dopo la comparsa dei sintomi, per area geografica (val. %). Fonte: indagine Censis, 2015

• Medico di medicina generale

• Specialista privato

• Specialista pubblico

• Centro ospedaliero/universitario per la psoriasi

Nord Centro Mezzogiorno Totale

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Un terzo dei pazienti ottiene direttamente la diagnosi dal MMG, mentre la restante parte la riceve da uno specialista, e più spesso si tratta di un privato (32,4%). Ma quello che è interessante notare è che circa un paziente su cinque alla comparsa dei primi sintomi era stato già visto da un medico che non aveva però fatto la diagnosi di psoriasi. Gli intervistati segnalano infatti, nel 36,0% dei casi, le incertezze del medico a cui ci si è rivolti per la prima volta; tra questi, in parti-colare, il 70,4% ha dichiarato di essere stato riman-dato da uno specialista ad un altro prima di ottenere una diagnosi di psoriasi, il 20,4% ha invece indicato che i sintomi sono stati associati dal medico ad un’al-tra patologia.Il percorso terapeutico indicato dai pazienti che segue la diagnosi riproduce in larga misura le indicazioni delle linee guida del 2013 per il trattamento della psori-asi. Con riferimento alla terapia seguita al momento dell’intervista, la quota più elevata di pazienti (63,7%) ha indicato di essere attualmente sottoposto alla terapia topica (creme, pomate, unguenti) (Tabella 1).Il 38,7% sta effettuando la terapia sistemica con farmaci biotecnologi, quota che cresce tra chi ha una psoriasi grave (48,9%) mentre il 18,3% indica di essere attualmente sottoposto a terapia sistemica orale o iniettiva convenzionale. Nella valutazione di questo dato è importante considerare le modalità di sele-zione dei pazienti intervistati, che è avvenuta in gran

parte dei casi attraverso la mediazione del Centro ospedaliero da loro frequentato, spesso proprio per la prescrizione dei farmaci.

I FARMACI BIOTECNOLOGICI SOLO DOPO IL FALLIMENTO DI ALTRE TERAPIEDalla ricostruzione del percorso terapeutico si evince che la risposta più ampiamente diffusa, quasi per la totalità dei pazienti, è quella delle terapie topiche, indicate come trattamento di prima scelta nella psori-asi lieve, seguita dalle terapie sistemiche convenzio-nali orali che sono state somministrate a poco più della metà del campione. L’accesso alle terapie con i farmaci biotecnologici si conferma come trattamento che interviene solo dopo l’utilizzo di altre terapie, e quindi più diffuso tra chi ha una più lunga storia di malattia (Tabella 2).

Tabella 1. La terapia seguita attualmente per il trattamento della psoriasi, per livello di gravità della psoriasi (val. %). Il totale è diverso da 100 perché erano possibili più risposte. Fonte: indagine Censis, 2015

Moderata Grave Non sa Totale

Terapia topica (creme, pomate, unguenti) 67,2 61,0 50,0 63,7

Fototerapia (terapia con luce ultravioletta) 10,9 6,4 16,7 9,0

Terapia sistemica orale e iniettiva convenzionale 21,2 16,3 16,7 18,3

Metotrexato per via orale 3,6 1,4 16,7 3,3

Metrotrexato per via iniettiva (o reumaflex) 5,8 5,0 0,0 5,0

Acitretina 0,7 0,7 0,0 0,7

Ciclosporina 5,8 5,0 0,0 5,0

Terapia sistemica con farmaci biotecnologici 26,3 48,9 55,6 38,7

Adalimumab 9,5 15,6 16,7 12,7

Etanercept 8,0 8,5 16,7 8,7

Infliximab 2,9 9,9 11,1 6,7

Ustekinumab 5,8 12,8 5,6 9,3

Golimumab 0,0 1,4 0,0 0,7

Altri farmaci indicati dai pazienti 7,3 4,3 0,0 5,3

Cortisone 3,6 1,4 0,0 2,3

Antistaminici 1,5 0,7 0,0 1,0

Integratori 1,5 0,0 0,0 0,7

Altro 1,5 2,1 0,0 1,7

Non utilizzo attualmente nessuna terapia 2,9 0,0 0,0 1,3

Totale

Terapie topiche (pomate/unguenti/creme) 96,3

Terapie sistemiche convenzionali orali 53,7

Fototerapia 42,2

Farmaci biotecnologici 40,9

Terapie sistemiche convenzionali iniettive 23,3

Tabella 2. Le terapie seguite per la psoriasi (sia nel passato che attualmente) (val. %). Il totale è diverso da 100 perché erano possibili più risposte. Fonte: indagine Censis, 2015

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La mancanza o la perdita di efficacia dei farmaci sono le motivazioni prevalenti per le quali i pazienti indica-no di essere stati sottoposti a più terapie, a testimo-nianza evidente delle difficoltà di trattamento della malattia che i pazienti sperimentano (Figura 2).Nel tempo i pazienti cambiano spesso anche il proprio riferimento nelle cure: oltre la metà (57,1%) dice di averlo fatto e più di una volta, in media quasi quattro specialisti/Centri differenti per paziente.L’interlocutore presso cui si è attualmente in cura più frequentemente citato è lo specialista pubblico (44,6% dei pazienti), il 26,4% indica il Centro ospeda-liero/universitario per la cura della psoriasi e il 22,6% lo specialista privato; solo il 6,4% del campione indi-vidua il MMG come punto di riferimento. Il livello di soddisfazione per l’assistenza ricevuta appare elevato, con oltre il 70% del campione che si dichiara molto soddisfatto, con qualche differenziazione tra le aree del Paese (Tabella 3).

L’ASSISTENZA SANITARIAIl tema dell’assistenza sanitaria a pazienti con psori-asi è stato ulteriormente approfondito chiedendo ai pazienti maggiori informazioni circa i servizi otte-nuti presso i Centri (ospedalieri o universitari) per la psoriasi. Le risposte dei Centri appaiono concentrate sugli aspetti clinici, prima di tutto la prescrizione dei farmaci, mentre solo la metà dei pazienti afferma di frequentare i Centri per effettuare controlli e monito-rare la terapia.Distinguendo per area, se da un lato non si rilevano particolari differenze nelle quote, che sfiorano quasi la totalità, di coloro che si recano nei Centri per otte-nere la prescrizione di farmaci, non si può evidenziare la stessa regolarità nelle altre motivazioni che variano ampiamente sul territorio nazionale: sono più nume-rosi, dal confronto, gli intervistati del Centro Italia che si sono rivolti al Centro per la diagnosi necessaria anche per l’accesso alle terapie tramite Piano tera-

Figura 2. Motivazioni per le quali i pazienti hanno seguito terapie diverse da quella attuale, per tempo trascorso dalla comparsa dei sintomi (val. %) (N=62,5%). Il totale è diverso da 100 perché erano possibili più risposte. Fonte: indagine Censis, 2015

Tabella 3. Livello di soddisfazione per l’assistenza ricevuta dal paziente psoriasico, per area geografica degli intervistati (val. %).Fonte: indagine Censis, 2015

Tabella 4. Motivazioni principali per le quali rivolgersi al Centro per la Psoriasi, per area geografica (val. %)Il totale è diverso da 100 perché erano possibili più risposte . Fonte: indagine Censis, 2015

Nord Centro Mezzogiorno Totale

Molto soddisfatto 84,4 63,3 72,7 71,4

Abbastanza soddisfatto 15,6 34,2 23,6 26,2

Poco o per nulla soddisfatto 0,0 2,5 3,7 2,4

Totale 100,0 100,0 100,0 100,0

Nord Centro Mezzogiorno Totale

Ottenere la prescrizione dei farmaci 98,4 100,0 98,2 99,0

Ottenere la somministrazione dei farmaci 32,8 5,8 29,1 20,4

Ottenere la diagnosi 21,9 63,3 30,9 42,2

È gratis o è meno costoso della visita con il suo medico di riferimento 26,6 15,8 23,6 21,1

È possibile interpellare anche altri specialisti (ad es. lo psicologo) 14,1 7,5 9,1 9,5

È possibile fare gli esami di controllo per il monitoraggio della terapia 68,8 32,5 50,9 47,3

Altro 1,6 3,3 2,7 2,7

• <= 10 anni

• oltre 10 anni

• totale

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peutico (63,3%), così come, tra i rispondenti del Nord, è più frequente il riferimento alla possibilità di effet-tuare presso i Centri gli esami di controllo per il moni-toraggio della terapia (Tabella 4).Diverso appare il quadro dell’offerta descritto dai referenti dei 50 Centri ospedalieri/universitari per la cura della psoriasi intervistati: per la quasi totali-tà dei rispondenti la gamma dei servizi sembrerebbe spaziare dalla diagnosi di psoriasi alla prescrizione dei farmaci, dalle visite dermatologiche ai consulti specia-listici fino all’attività di consulenza psicologica.Quello della dimensione psicologica della malattia e, più in generale delle sue conseguenze sulla condizio-ne di vita, è un aspetto che invece i pazienti ritengono poco attenzionato dai servizi.La psoriasi è una patologia che può presentarsi con intensità differenti, oltre che associarsi a numerose comorbilità e, proprio a causa della variabilità delle forme del suo manifestarsi, può avere diverse riper-cussioni di tipo psicologico e sociale più o meno intense fino a produrre un negativo impatto generale sulla qualità della vita di chi ne è affetto.

L’IMPATTO DELLA PSORIASI SUL VISSUTO QUOTIDIANOChiedendo agli intervistati di fornire una valutazione della propria situazione fisica ed emotiva, in media i rispondenti ritengono che la psoriasi abbia avuto un impatto significativo sulla loro situazione fisica e psichica quantificabile con un punteggio di 7,1 (Fig. 3).

Il vissuto dei pazienti appare sospeso tra il tentativo di vivere cercando di ignorare la malattia e la rasse-gnazione: si convive con la psoriasi, ma anche con la paura della sua evoluzione, con la vergogna per i segni

sul corpo, con quella sgradevole sensazione di essere considerato contagioso da chi si relaziona con te. Un impatto psicologico che sembra ancora più marcato tra le donne, che traspare dalla più alta percentua-le di chi ammette di aver periodi di depressione, ed è legato alle conseguenze della malattia sul corpo e sull’immagine di sé, che finiscono per riverberarsi su tutte le esperienze esistenziali.Una malattia che può rivelarsi condizionante anche sul piano lavorativo: al 37,5% degli intervistati è capi-tato di assentarsi dal lavoro a causa della psoriasi, e sono stati stimati in 20,7 i giorni di lavoro persi per questo nell’ultimo anno.Non stupisce quindi che solo un paziente su quattro si dichiari completamente soddisfatto della propria vita e, nonostante abbia imparato a convivere con la psoriasi, ammette di temere continuamente la ricom-parsa dei sintomi.I bisogni informativi dei pazienti sono spesso lasciati sullo sfondo, se è vero che la metà del campione di persone affette da psoriasi giudica insoddisfacenti le informazioni di cui dispone, sia sulla malattia che sui servizi presso cui cercare una risposta adeguata.Sul piano dell’offerta, infatti, è emersa una certa eterogeneità di situazioni: il modello organizzativo prevalente è quello che prevede un ambulatorio dedi-cato a pazienti con psoriasi, con spazi e tempi definiti, anche se un terzo dei centri di più piccole dimensioni segue i pazienti con psoriasi nell’ambito delle attività del Centro insieme agli altri pazienti.Una certa differenziazione emerge anche a livello territoriale: i Centri che prevedono un infermiere dedicato ai pazienti con Psoriasi sono più presenti al Nord (50,0%), contro le percentuali che oscillano intorno al 30% del Centro e del Sud.Quasi nessun Centro segnala particolari difficoltà, se non organizzative, ma i dermatologi interpellati rico-noscono comunque, in larga maggioranza, che la rete dei Centri per il trattamento della Psoriasi attualmen-te esistente sul territorio nazionale andrebbe ridefi-nita, al fine di garantire un livello di offerta uniforme su tutto il territorio e un percorso di cura ottimale ai pazienti.E sono sempre i dermatologi a riconoscere, in oltre il 70% dei casi, che la psoriasi è una patologia la cui gravità viene sottovalutata: anche per questo allarga-re informazione e conoscenza sulla patologia e sulla condizione delle persone che ne sono affette rappre-senta il primo passo anche per garantire una risposta sempre più efficace e uniforme sul territorio.

Figura 3. Intervistati che indicano con un punteggio da 1 a 10 l’impatto della psoriasi sulla loro situazione psicofisica (val. %, val. medi). Fonte: indagine Censis, 2015

• fino a 5 • 6 - 7 • 8 - 9 • 10

22,0 28,7

26,722,6

Media 7,1

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Sempre più spazi per la medicina del territorio

PUNTE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE

NELLA GESTIONE DELL’ADIStefano Del Missier

Assistenza domiciliare integrata ancora deficitaria in Italia – Nel 2013 sono stati assistiti 732.780 pazienti, con un trend in continua crescita – Variabilità regionale ancora elevata, ma si prospettano nuovi modelli organizzativi

La recente presentazione del Rapporto Osservasalute 2015 ha confermato che le differenti scelte di definizione degli assetti istituzio-nali e organizzativi dei servizi sani-tari nelle nostre regioni ha deter-minato un’eterogeneità che non sempre rappresenta un valore ma, anzi, in alcuni casi denota scenari problematici sia sul piano finanzia-rio che sul piano del diritto.Le regioni del Sud manifestano le maggiori difficoltà, anche se si registrano sempre più spesso casi di best practice su singole prassi o decisioni di policy sanitaria.Uno dei punti in cui si rileva tale paradosso è quello relativo all’as-sistenza territoriale e, più in parti-colare, a quella della cura domi-ciliare dove, pur in un quadro ancora deficitario sul piano dell’or-ganizzazione dei servizi, si trovano esperienze d’eccellenza a livello nazionale, a riprova del fatto che gli elementi per fare un buon lavoro sono ben oltre le norme cui i territori sono sottoposti.

La cura a domicilioLe “cure domiciliari” consistono in un insieme organizzato di trat-tamenti medici, infermieristici e riabilitativi, che vengono program-mati per stabilizzare il quadro

clinico, limitare il declino funziona-le e migliorare la qualità della vita di persone che non sono autosuf-ficienti, in condizioni di fragilità, o con patologie in corso, così come di conseguenze di queste, che non necessitano di cure presso una struttura ospedaliera. Proprio perché rappresentative di più interventi differenziati svolti da più professionisti, in tempi e secondo modalità che dipendono esclusi-vamente dalle caratteristiche del paziente, si definiscono attività di assistenza domiciliare integrata (ADI). Normalmente, le cure domicilia-ri si integrano con le prestazioni di assistenza sociale e di suppor-to alla famiglia, generalmente erogate dal Comune di residen-za della persona (SAD, servizi di assistenza domiciliare): anche in questo si apre la necessità di una integrazione sul caso specifi-co che è sempre molto comples-sa, proprio per la numerosità dei

soggetti da coinvolgere, anche se il caso da assistere non è particolar-mente complesso.Proprio per far fronte a questa necessità di integrazione delle atti-vità, si sono sviluppati strumenti di valutazione multiprofessionale e multidimensionale che consen-tono una presa in carico della persona sempre più “globale”, arri-vando alla definizione di progetti di assistenza individuali (PAI) in grado di rispondere, appunto, in modo integrato al bisogno clini-co-assistenziale del paziente.A seconda della domanda di salute del paziente ed al livello di inten-sità, complessità e durata dell’in-tervento assistenziale, è possibile distinguere tre grossi filoni di cure domiciliari:• Assistenza domiciliare program-

mata (ADP)• Assistenza domiciliare integrata

(ADI)• Ospedalizzazione domiciliare.Pur in una denominazione comune, definita a livello naziona-le nei livelli essenziali di assistenza, con la programmazione sanitaria, le cure domiciliari sono erogate con modalità diverse e con risul-tati molto differenti da regione a regione, da ASL ad ASL, da distret-to a distretto.

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Alcuni dati quantitativiDai dati di Osservasalute 2015 rileviamo che nel corso del 2013, in Italia sono stati complessiva-mente assistiti al proprio domici-lio 732.780 pazienti. Il numero di pazienti trattati in ADI è in conti-nua crescita, con 1.217 casi (per 100.000), il 14,17% in più rispetto al 2012.Non sorprende la notevole varia-bilità regionale dei risultati, riscon-trabile nei seguenti dati:- in generale, si va da un tasso

minimo di 146 persone (per 100.000) che hanno iniziato il trattamento di ADI della PA di Bolzano, ad un valore massimo di 2.850 (per 100.000) dell’E-milia-Romagna, cui seguono Toscana e Friuli Venezia Giulia (rispettivamente 2.834 e 2.182 per 100.000);

- per gli anziani, si passa da 3,3 casi (per 1.000) nella Valle d’Aosta a 111,4 (per 1.000) casi in Toscana,

- per i pazienti terminali, nelle regioni del Nord si registra il tasso più elevato (125,9 per 100.000) rispetto alle regioni del Sud ed Isole e del Centro (rispet-tivamente, 111,2 e 93,2 per 100.000).

Vale la pena notare che, rispetto al 2012, i valori per i pazienti termi-nali permangono in aumento per le regioni del Nord e del Meridione (rispettivamente, +41,8% e +7,6%), mentre si registra una sensibile flessione per le regioni del Centro (-10,0%).Va da sè che tali differenziazio-ni si registrano sulla base degli assetti istituzionali e organizzativi dei singoli sistemi regionali, che danno luogo a diverse organizza-zioni dei servizi territoriali da parte della singola ASL.

Nuovi modelli organizzativiLa domanda centrale sull’efficacia di un modello organizzativo, in

fondo, è molto semplice: “Il sistema ADI permette una reale presa in carico integrata dei bisogni della persona?”. Ed è altrettanto eviden-te che il processo venga declinato in modo diverso nelle differenti prassi locali. Il modello più diffuso integra la semplice presa in carico amministrativa del caso con la presa in carico tecnica di bisogni clinici specifici.Certo è che le pure esigenze amministrative, così come quelle cliniche, andrebbero collegate al più generale tema della presa in carico della persona fragile, una presa in carico globale, integrata dei diversi bisogni della persona stessa. Riuscire a gestire questa differenziazione di bisogno defini-sce la qualità e l’efficacia della rela-zione fra cittadini e servizi di cura, sia sociali che sanitari. Infatti, un conto è intervenire sui bisogni di una persona robusta, circondata da una famiglia solida e ben strutturata; mentre, a parità di bisogni, altro è ovviamente inter-venire su una persona fragile e socialmente vulnerabile, costretta in un contesto abitativo inadegua-to.Un moderno servizio di ADI, attualmente, adotta un modello operativo ad elevata integrazione di differenti tipologie di risorse, e cioè organizzative (la pianificazio-ne interdisciplinare e personaliz-zata definita intorno al paziente), professionali (con un team multi-disciplinare, esperto, fortemen-te motivato e coeso in grado di rispondere con elevata qualità professionale a bisogni comples-si della persona) e tecnologiche (utilizzando una piattaforma infor-matica che consenta la gestione completamente informatizza-ta di tutte le attività del servizio, con accesso semplice e sicuro, garantendo la sistematicità delle registrazioni in tempo reale ed

il passaggio di consegne, così da ridurre il rischio di errori e lacune ed assicurare la costante disponi-bilità dei dati clinico-assistenziali del paziente a tutti gli operatori coinvolti nel percorso di cura).

ConclusioniL’efficacia delle politiche regio-na-li nell’ambito della cosiddetta “Primary care” necessità di un salto culturale che sposti l’atten-zione sulla gestione dei casi più che sull’organizzazione dei servizi.È abbastanza evidente che anche i più organizzati ed efficienti sistemi di ADI si trovino nella necessi-tà di superare una logica di tipo “prestazionale” caratterizzata dal rispondere in maniera puntuale ad una specifica richiesta di assi-stenza, anche se svolta nell’am-bito della medicina del territorio. Nell’attuale modello di offerta, che segue logiche di risposta del tipo “qui ed ora”, si è sempre meno in grado di accogliere un bisogno sanitario o socio-sanitario complesso e duraturo nel tempo come quello espresso da pazienti cronici e/o non autosufficienti. Come riporta l’Osservasalu-te 2015, “… questa logica, che è attualmente ancora la più diffusa a livello nazionale, deve essere superata in favore di una logica di “presa in carico”, intesa come garanzia di accesso ai servizi sani-tari e continuità dell’assistenza sia a livello di comunità, residente in una determinata giurisdizione geograficamente definita, che dei singoli individui che ad essa appar-tengono”. In questa nuova prospettiva, quindi, va rilanciata una nuova progettazione e programmazione dell’ADI, utilizzando tutti gli stru-menti di conoscenza, di manage-ment e di tecnologia a disposizio-ne.

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Aggiornamento sulla rimborsabilità della procreazione medicalmente assistita

CICOGNE TROPPO REGIONALI

Federico Mereta

La normativa che disciplina la procreazione medicalmente assistita è ancora frammentaria e a macchia di leopardo – La conseguenza è che l’accesso alle prestazioni non è paritario in tutto il Paese

Apparentemente la situazione demografica di un Paese in cui il rapporto tra decessi e nascite è di gran lunga a favore dei primi dovrebbe giocare al meglio le sue carte per invertire la tenden-za. Tralasciando gli aspetti sociali ed economici, tuttavia, pare che per le coppie che hanno difficol-tà a procreare la risposta che il sistema sanitario offre sia non solo complessa da comprendere, ma anche estremamente fram-mentaria, con ampie disparità di accesso ai centri e alle cure farmacologiche per consentire l’ovulazione multipla. Lo scollamento tra gestione centrale della situazione e iniziati-ve regionali che disegnano un’Ita-lia a macchia di leopardo appare chiaro semplicemente esaminan-do ciò che recita la delibera di AIFA del 2010 e le recenti decisio-ni di varie Regioni, che possono risultare estensive o, più spesso, comprimere gli spazi operativi consentiti dalla delibera stessa. Ma andiamo con ordine. La Nota 74 dell’Agenzia Italiana del Farmaco definisce i confini entro cui si considera rimbor-sabile la prescrizione dei tratta-menti per favorire l’ovulazione:

in sintesi, questi sono ammessi e a carico del Sistema Sanitario Nazionale in donne di età non superiore ai 45 e con valori di ormone follicolo-stimolante (FSH) prefissati. Ovviamente, per poter ottenere questi trattamenti occorre una diagnosi ed un Piano Terapeutico redatto da strutture specialisti-che e su indicazioni di uno specia-lista per il settore. Questo tipo di

approccio ha un significato limi-tante le prescrizioni, nella logica dell’appropriatezza. Attenzione, però: nella stessa delibera si segnala come questa indicazio-ne vada poi “gestita” localmente in base a modalità studiate dalle singole Regioni. Questo tipo di approccio viene poi anche impiegato per i casi in

cui l’infertilità di coppia sia legata ad una problematica di ipogona-dismo maschile.

Una offerta sanitaria disomogenea da regione a regioneIl percorso, così definito, pare in realtà semplice da applicare. Ma è a questo punto che si realizza-no alcune peculiarità tipiche del nostro Paese. Innanzitutto, l’of-

ferta dei trattamenti di procrea-zione medicalmente assistita si può considerare, a spanne, assi-curato per metà da centri pubblici e per l’altra metà da centri privati, alcuni dei quali sono poi conven-zionati dalle diverse Regioni. Come se non bastasse, l’Italia è il Paese europeo che ha il numero di strutture specialistiche più

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elevato, di gran lunga maggio-re rispetto alle altre nazioni. Nonostante questo, il nostro paese sta diventando sempre più “terra di conquista” per strutture straniere che puntano a inserirsi in un mercato che, in prospettiva appare sempre più interessante. A fronte di questa situazione generale, che forse imporreb-be un’unitarietà nell’offerta dei servizi per la coppia e nella rimborsabilità dei trattamen-ti che favoriscono l’ovulazione (questi rappresentano la quota di spesa più elevata nell’ambito di questo approccio sotto l’aspet-to terapeutico), nel nostro Paese le diverse Regioni si muovono in modo curiosamente “libero”.

Chi estende e chi restringeProviamo a fare qualche esempio, partendo dal nord e scendendo verso il Meridione. In Veneto nel marzo 2016 si è messa a punto una delibera che prende in considerazione non solo i centri pubblici, ma anche quelli privati e prevede di consen-tire la rimborsabilità del tratta-mento secondo le indicazioni AIFA con un “contigentamento” delle quote destinate alle diverse classi di gonadotropine disponi-bili. In particolare, il 60 per cento dei medicinali deve essere di origine estrattiva e il 40 per cento ricom-binante, con una quota all’interno di questa percentuale che deve essere per il 75 per cento assi-curata dai biosimilari. Il tutto con un ampliamento dei limiti d’età entro cui la donna può avere accesso alle cure. Scendendo al centro Italia, in Lazio si è affrontata la situazione in un altro modo. L’autorizzazione alla compilazione del Piano Terapeutico, e quindi al possibile accesso al rimborso dei farmaci

da parte dei cittadini che fanno riferimento ai centri specializza-ti, è stata attribuita ad una serie di strutture pubbliche, tagliando fuori invece le strutture private. In questo elenco, peraltro, mancano ancora alcune entità da tempo impegnate in questi trat-tamenti e anche i centri privati si stanno muovendo per ricuperare per i loro specialisti la possibilità di prescrivere farmaci a carico del servizio sanitario nazionale. La sensazione, insomma, è quella di una situazione in cui orientarsi diventa difficile e che potrebbe modificarsi nel tempo. Passando alla Sicilia, infine, si assiste ad un’interpretazione delle indicazioni di AIFA ancora più specifica. Ad esempio, anche per frenare il possibile “turismo” sanitario, la Regione non sostiene i costi dei trattamenti effettuati al di fuori di essa. Come se non bastasse, addirittu-ra si arriva a togliere la possibilità di rimborsabilità anche per i trat-tamenti effettuati al di fuori dalla provincia di residenza.

A fronte di tutto questo, in una sorta di modello autarchico, si sono convenzionati tutti i centri privati con contributi regionali e addirittura si punta alla realiz-zazione di una grande struttura pubblica a Palermo che possa rispondere ai bisogni dei residen-ti per la procreazione medical-mente assistita.

Quali possibili soluzioni?Come dimostrano questi semplici esempi, per la PMA la situazione italiana è ancora estremamente complessa e dai contorni frasta-gliati. A porre chiarezza in un settore così ampiamente “diffi-cile” da decodificare avrebbe dovuto pensare la Conferenza Stato-Regioni, chiamata in causa dopo il lavoro di un’apposita Commissione voluta dal Ministro della Salute Beatrice Lorenzin nel momento della definizio-ne dei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza. Purtroppo, al momento non si hanno ancora le applicazioni dei risultati definitivi di quel lavoro e nemmeno si sono trovate contro-misure adeguate e razionali per evitare l’eccessiva “decentralizza-zione” delle scelte da parte delle Regioni. Questa situazione, ovviamente, amplifica le discrasie nell’accesso ai trattamenti (per la parte che riguarda le possibilità di rimbor-so delle terapie farmacologiche) da parte dei cittadini residen-

ti in aree diverse del Paese. Il tutto in un panorama globale che ancora vede la componente scientifica riflettere sui reali passi avanti legati alla revisione della Legge 40. È vero che finalmente si è presa in esame la situazione legata alla fecondazione etero-loga, normando un ambito che richiedeva maggior chiarezza da

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parte delle Istituzioni. Ma è altrettanto innegabile che, sul fronte della scienza, ci sono molti aspetti ancora da limare nell’impianto della norma, se non addirittura da riscrivere in toto. In un dedalo così complesso, quindi, appare di grande importanza

riportare alla gestione centrale le possibilità di rimborso per quanto riguarda i farmaci più ampiamen-te impiegati nella gestione dell’in-fertilità che, stando alle inda-gini appare sempre più diffusa nel nostro Paese. Sicuramente, l’appropriatezza terapeutica e il

contenimento della spesa devono rappresentare i valori guida, ma anche una fruizione “paritaria” su tutto il territorio nazionale di questa opportunità di procre-are deve essere nella mente, e soprattutto negli atti, di tutte le Istituzioni.

Le Regioni e la PMA: complessità da risolvere

Tre domande a Filomena Gallo, Avvocato esperto in biotecnologie in campo umano e segretario dell’Associazione Luca Coscioni

Quali sono oggi le principali criticità nel settore della Procreazione Medicalmente Assistita in Italia?

In termini generali esistono due problematiche fondamentali. Da un lato ci sono Regioni che non hanno

recepito il documento Stato-Regioni e quindi non offrono la fecondazione eterologa nelle strutture pubbli-

che, dall’altro esistono Regioni che hanno introdotto un limite di età per l’accesso ai tentativi di fecon-

dazione assistita. Nel primo caso la problematica si concentra soprattutto nelle Regioni del Meridione, e

coinvolge Calabria, Basilicata, Puglia e Sardegna. Per quanto riguarda il problema dell’età sembra si sia

dimenticata la naturale differenza tra età anagrafica ed età biologica. Mentre la Legge parla di età poten-

zialmente fertile per la donna che si può sottoporre al trattamento, si sono posti limiti definiti che portano

l’età “ammissibile” tra i 41 e i 43 anni per poter effettuare tre tentativi nel settore pubblico. Si tratta di una

contraddizione al senso della Legge, che invece indica nello specialista chi deve “scegliere” se una donna,

indipendentemente dall’età, può avere o meno accesso alle cure. Se a questo si aggiungono le liste d’attesa…

Che cosa intende?

Nel settore pubblico spesso si assiste a richieste non esaudite, visto che si possono attendere anche un anno

o addirittura 18 mesi per poter accedere al trattamento nel pubblico dal momento della prima visita. Se

una donna supera l’età “identificata” in questo lasso temporale, evidentemente si trova fuori dalle possi-

bilità di poter essere sottoposta alle cure. Su scala regionale, peraltro, anche grazie al convenzionamento

da parte del pubblico di strutture private ci sono aree che raccolgono un grande numero di coppie, come

Lombardia e Toscana, che hanno anche saputo generare nel tempo un sistema capace di offrire un insieme

di tecniche e che possono offrire trattamenti che vengono poi rimborsati dalle regioni di provenienza delle

donne.

Ci sono casi eclatanti che avete rilevato in questo panorama così complesso?

Poco tempo fa abbiamo inviato una diffida alla regione Campania perché non è stata recepita la fecon-

dazione eterologa da offrire nell’ambito del servizio pubblico. Addirittura si è ancora fermi alle linee guida

regionali del 2003 e i cittadini non possono nemmeno accedere a trattamenti di fecondazione assistita

ed eterologa in altre regioni viste le difficoltà economiche imposte dal Piano di rientro. Anche in Puglia la

situazione è complessa: in pratica non è previsto un rimborso per le cure, né nella stessa Regioni nei in altre

in cui eventualmente la coppia decidesse di andare.

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IMMUNODEFICIENZE PRIMARIE E SECONDARIE TRA COMPLESSITÀ TERAPEURICHE, INNOVAZIONE E

SOSTENIBILITÀ

L’IMPORTANZA DELLA PREVENZIONE PER LE IPDLaura Bianconi*

In arrivo la legge che garantirà la possibilità di fare screening sin dall’età neonataleCinquemila. Tante sono oggi in Italia le persone, tra giovani e meno giovani, che sono afflitti dalle IDP. Con tale acronimo s’indicano le immunodeficienze prima-rie, quel gruppo di oltre 200 malattie rare che compor-tano un deficit a livello di anticorpi con conseguente suscettibilità, per chi ne è colpito, a infezioni, disordini autoimmunitari, linfomi e altre neoplasie.Seppur curabili, le IDP necessitano di trattamenti specifici e personalizzati in relazione al quadro clinico: per le forme più gravi l’unica soluzione è rappresenta-ta dal trapianto di midollo osseo; per quelle patologi-che associate a una carenza anticorpale il trattamento privilegiato è la cosiddetta “terapia sostitutiva”, ossia la somministrazione periodica di immunoglobuline. I costi totali per la cura di queste patologie variano tra 13 e 15 milioni di euro annui, rappresentando un vero aggravio per le casse del Sistema Sanitario Nazionale. Senza calcolare le disparità di accesso alle cure, tra Regione e Regione, e il ritardo diagnostico che finisco-no per complicare ulteriormente la vita dei pazienti.Viste le evidenti difficoltà nei processi di cura, non c’è alcun dubbio che nei confronti delle Immunodeficienze primarie sia necessario un nuovo approccio meto-dologico. La prevenzione deve diventare il punto di partenza per ogni valutazione medico-scientifica, sin dalla giovanissima età. Autorevoli ricerche scientifiche confermano come il 70% degli individui colpiti da IDP abbia età inferiore a 20 anni. Riconoscere presto le IDP significa, inoltre, garantire un tasso di sopravvivenza che nei primi mesi di vita supera il 95%, dando una prospettiva di vita futura altrimenti insperata senza gli appropriati esami

diagnostici.Proprio in merito alla prevenzione un contributo importante è arrivato dalla politica italiana, grazie al DDL sugli screening neonatali che a breve diventerà legge dopo la terza e ultima lettura prevista nelle pros-sime settimane in Senato. Il provvedimento renderà obbligatoria, con l’inserimento nei Livelli essenziali di assistenza, l’effettuazione dello screening neonata-le per la diagnosi precoce di patologie ereditarie, già previsto dall’articolo 1, comma 229, della Legge di stabilità 2014.Lo screening neonatale esteso rappresenta un inve-stimento per la salute e un beneficio non solo per il paziente ma anche per il sistema sanitario pubblico: avviare un percorso di cura prima dell’insorgenza dei sintomi, è meno oneroso rispetto alla gestione di un paziente con alto rischio d’invalidità conseguente al ritardo diagnostico. Un provvedimento legislativo innovativo che ambisce a garantire il raggiungimento e l’esecuzione del test al 100% della popolazione di riferimento, nel rispet-to della tempistica che deve fornire precisi e definiti percorsi clinici. Il DDL in via di approvazione, prevede inoltre la creazione di un Centro di coordinamento sugli screening neonatali – da istituire presso l’Istitu-to Superiore di Sanità –, volto a favorire la massima uniformità nell’applicazione sul territorio nazionale della diagnosi precoce neonatale. Prevista anche la definizione di un Protocollo, della cui predisposizio-ne si occuperà il Ministero della Salute, attraverso cui definire le modalità di presa in carico dei pazienti risul-tati positivi agli accertamenti e le modalità di accesso alle terapie. Per la copertura finanziaria degli oneri derivanti dall’attuazione delle predette norme, verran-no erogati 25.715.000 di euro l’anno.

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* Vicepresidente Gruppo Area Popolare (NCD-UDC) e Componente 12a Commis-sione Igiene e Sanità

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Le immunodeficienze primarie (IDP) costituiscono un gruppo eterogeneo di malattie rare causate da un difetto di geni implicati nei normali meccanismi della risposta immunitaria e gravate da aumentata suscettibilità a infezioni – gravi e recidivanti –, disordi-ni autoimmunitari, linfomi e altre neoplasie, che in un paziente su quattro sono spesso un segno d’esordio determinante nell’orientare in seguito alla diagnosi. Le IDP sono causate da un difetto ereditario di geni impli-cati nei normali meccanismi della risposta immunita-ria. Le immunodeficienze secondarie (IDS) sono pato-logie acquisite molto più comuni e caratterizzate da compromissione, in genere temporanea, del sistema immunitario dovuta all’insorgenza di una patologia in un individuo precedentemente sano.

Lo scenario epidemiologicoL’esatta incidenza globale delle IDP non è nota e i riscontri ufficiali sono molto prudenti e sottostimati rispetto al reale: le informazioni, infatti, sono fram-mentarie e non è ancora completa la conoscenza delle cause e dei quadri sintomatici. Si ritiene in ogni caso che in Italia a soffrire di IDP siano circa 5.000 pazienti tra bambini e adulti.

Tra le forme estremamente diffuse e meglio caratte-rizzate rientra il deficit selettivo di IgA (1:500, 1:700 nella popolazione generale). Al secondo posto si colloca l’immunodeficienza comune variabile (CVID), che rappresenta il difetto anticorpale sintomatico più frequente nell’età adulta (l’età media alla comparsa dei sintomi è di 35,5 anni). Nella maggior parte dei casi la CVID si presenta in maniera sporadica, mentre in meno del 10% dei pazienti si osserva familiarità, prevalentemente con ereditarietà autosomica domi-nante. Talvolta la CVID rappresenta l’evoluzione di un deficit selettivo di IgA, a dimostrazione del fatto che le due patologie, oltre a coesistere, possono condividere un’eziologia genetica comune.Forme più rare sono l’agammaglobulinemia di Bruton o agammaglobuninemia X-recessiva (XLA, 1:100.000) e l’immunodeficienza grave combinata o SCID (1:50.000). La prima è caratterizzata dall’assenza dei linfociti B circolanti e di conseguenza dall’incapacità di produrre anticorpi. La tipologia più frequente (85-90% dei casi) colpisce i soggetti di sesso maschile. La SCID è caratte-rizzata dall’assenza dei linfociti T periferici e raggruppa diversi fenotipi immunologici.Il 70% delle IDP sono in ogni caso caratterizzate da una difettosa sintesi di anticorpi. I dati del Jeffrey Modell Centers Network sottolineano che il 62% delle IDP si verificano al di sotto dei 20 anni d’età e registrano una prevalenza più elevata nel sesso maschile (57%). Alcune manifestazioni, per lo più di natura infetti-va, si possono definire veri e propri campanelli d’al-larme (riassunti nel box della pagina seguente), che devono sollevare un primo sospetto clinico e sugge-rire l’opportunità di esplorare la funzione immunita-ria con indagini mirate. Tuttavia, come sarà ulterior-mente evidenziato in seguito, la vera questione è la tempestività del riconoscimento delle IDP. Appare infatti evidente che, quanto più tardiva è la formula-zione della diagnosi, tanto maggiore è la probabilità di insorgenza di danni irreversibili a organi e apparati dovuta a infezioni ricorrenti, per lo più a carico dell’ap-parato respiratorio e digerente (infezioni croniche dei seni paranasali, otite media, bronchiti, polmoniti), con sviluppo nel tempo di interstiziopatia polmonare e

Le immunodeficienze primarie (IDP): aspetti essenziali

• Sono un gruppo eterogeneo di malattie (oltre 200)

• Possono comparire da sole o come parte di una sindrome più complessa

• Sono causate da un difetto di geni implicati nei normali meccanismi della risposta immunitaria (spesso è coinvolto un solo gene)

• I difetti conducono ad un’aumentata suscettibilità a infezioni ricorrenti e persistenti

• Si manifestano tipicamente nell’infanzia/adole-scenza

• Circa il 70% degli individui affetti ha età inferiore a 20 anni

• L’ereditarietà è legata al cromosoma X e spiega la maggiore incidenza nei maschi

• Se la diagnosi è tardiva o erronea, il sistema immune rimane compromesso conducendo a malattie ricorrenti, perdita di produttività, riduzio-ne della qualità della vita per i pazienti e le fami-glie e morte

Va da sé che per migliorare l’approccio alle IDP servirà anche altro, come una completa formazione da impar-tire ai medici per far conoscere loro diagnosi e cura di patologie talvolta poco conosciute dallo stesso perso-nale sanitario, nonché i centri specialistici cui indirizza-re i pazienti.

Non meno importante sarà la definizione di Registri di patologia, sul modello americano, fondamentali per determinare incidenza, patogenesi, complicanze, trattamenti delle malattie. Solo lavorando in siner-gia saremo in grado di dare risposte soddisfacenti ai nostri concittadini malati e alle loro famiglie.

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ipertensione portale non cirrotica di tipo irreversibile. Inoltre, questi pazienti sono spesso soggetti a disre-golazione del sistema immunitario e in questo senso esposti a malattie autoimmuni, patologia granuloma-tosa, malattie infiammatorie gastrointestinali, iperpla-sia linfoide e neoplasie.La Commissione Europea ha assegnato alle malat-tie rare un posto di rilievo nel programma della Comunità sulla Salute Pubblica ed è fiera di svolge-re un ruolo primario nello sviluppo di una politica in questo settore. Le IDP sono state per la prima volta riconosciute come un problema di salute pubblica nel Community Action Program stabilito nel 1999. Da allora assegni di ricerca dell’UE hanno permesso la realizzazione di un registro europeo di pazienti con IDP, collegando centri di riferimento in Europa per la condivisione dei dati, la descrizione di nuove malattie, il coordinamento delle terapie e il miglioramento della comprensione dei meccanismi della malattia.Va, tuttavia, osservato che spesso negli adulti i campa-nelli d’allarme non vengono percepiti in tempo cosic-

chè, nonostante i notevoli progressi nella caratterizza-zione molecolare nelle forme pediatriche, le IDP sono tutt’oggi sottodiagnosticate o, come già accennato, diagnosticate con ritardo (in media 7,5 anni in Europa e 9 anni in Italia), il che si ripercuote negativamen-te sull’aspettativa e sulla qualità di vita. Un esempio è la comparsa di pneumopatia cronica e complican-ze polmonari infettive, che si possono verificare in genere quando il livello sierico di IgG scende al di sotto di 4 g/l, con maifestazioni cliniche la cui gravità è direttamente correlabile al ritardo delle diagnosi, e determinante per l’avvio della terapia sostitutiva. Una problematica, infine, che riguarda sempre la popo-lazione adulta è che in Italia, benchè i centri di riferi-mento per le immunodeficienze siano all’avanguardia, rimane tuttora difficile il passaggio dal medico di base all’immunologo clinico.

La diagnosi e lo screeningIn caso di gravi immunodeficienze combinate, il rico-noscimento precoce della IDP è fondamentale durante i primi tre mesi di vita, per evitare le complicanze e per pianificare prontamente l’esecuzione del trapianto di cellule staminali: in questo periodo, infatti, il tasso di sopravvivenza supera il 95% rispetto al 60-70% rile-vato nei pazienti sottoposti al trapianto in epoca più tardiva. L’analisi su oltre 2,5 milioni di bambini che hanno avuto accesso allo screening neonatale per IDP negli Stati Uniti ha mostrato anche significativi benefici economici per il sistema: un neonato affetto da IDP non individuato alla nascita, infatti, già nel primo anno di vita, determina un costo di circa 2 milioni di dollari tra ricoveri per infezioni e interventi; inoltre, su circa 100.000 nati si attendono tre neonati positivi, per un costo totale di cura di circa 6 milioni. Lo screening di massa costerebbe invece 4,25 dollari a neonato, per un totale di circa 425.000 dollari, e la terapia per i tre neonati risultati positivi circa 960.000 dollari, ovvero 1,385 milioni di dollari complessivi. Va segnalato che in Toscana è stato sviluppato e brevettato qualche anno fa dai ricercatori dell’AOU Meyer e dell’Università di Firenze un test dal costo irrisorio che con la goccia di sangue prelevata dal tallone del neonato al momento della nascita consente di effettuare lo screening neonatale per IDP con la tecnica della spettrometria di massa. Oggi, con la stessa goccia di sangue e tecniche di biologia molecolare, è possibile arrivare a diagnosti-care oltre il 95% delle immunodeficienze. L’esperienza toscana mostra che il costo addizionale è contenuto, circa 4-5 euro per neonato, in linea con l’esperienza statunitense, utilizzando apparecchiatu-re (spettrometria di massa e biologia molecolare) già

I dieci campanelli d’allarme nel bambino1. Otto o più infezioni nel corso di un anno2. Due o più gravi infezioni sinusali nel corso di un

anno3. Due o più mesi di cure antibiotiche effettuate

con scarso effetto4. Due o più polmoniti nel corso di un anno5. Il bambino non aumenta di peso o non cresce

correttamente6. Ascessi ricorrenti nel derma o negli organi7. Afte persistenti nella bocca o in altre parti del

corpo dopo il primo anno di età8. Necessità di ricevere gli antibiotici per via

endovenosa per eliminare le infezioni9. Due o più infezioni profonde come: meningite,

osteomielite, cellulite (infezione del tessuto sottocutaneo), sepsi

10. Presenza nella stessa famiglia di casi di immunodeficienza primitiva

I dieci campanelli d’allarme nell’adulto1. Più di due otiti in un anno2. Più di due sinusiti in un anno, in paziente non

allergico3. Almeno una polmonite l’anno per più di 1 anno4. Diarrea cronica con perdita di peso5. Infezioni virali ricorrenti (raffreddore, herpes,

verruche, condilomi)6. Frequente necessità di antibiotici per via

endovenosa7. Ascessi ricorrenti della cute e degli organi

interni8. Candidasi orale o cutanea persistente9. Infezioni da Micobatteri atipici10. Familiarità per immunodeficienza primitiva

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esistenti e lo stesso campione prelevato per lo scre-ening neonatale: un costo annuo incrementale che, esteso a tutto il Paese, ammonterebbe a circa 2,6-3 milioni di euro. Anche in Italia il trend delle IDP è in crescita: da 1,11/100 mila abitanti nel periodo 2006-2008 la prevalenza è infatti salita a 1,77/100 mila abitanti nel 2012.

L’importanza dei registriI registri di patologia sono essenziali per determina-re incidenza, patogenesi e cause molecolari, compli-canze, trattamenti e outcome. Il primo è stato inau-gurato negli USA dalla Immune Deficiency Foundation (IDF), finanziato dal National Institutes of Health per raccogliere informazioni sulla malattia granulomato-sa cronica e ha consentito di accelerare l’impiego del trapianto di midollo osseo negli USA e in Europa. Oggi ne esistono svariati in diverse nazioni (per esempio, il Registro USIDNET-IDF, il registro della Jeffrey Modell Foundation e il database europeo ESID, che è uno dei più ampi e raggruppa 126 centri e circa 20mila pazienti: l’Italia, con il suo contributo di 1185 pazienti, si è collo-cata nel 2014 al terzo posto tra tutti i paesi afferenti) e si sta lavorando per unirli in più grandi database per creare un pool di pazienti sufficiente per identificare trend altrimenti non evidenziabili nei registri locali.Secondo la Direttiva europea 2011/24/UE concernente l’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assisten-za sanitaria transfrontaliera, la creazione di un sistema di reti di riferimento europee (ERN) è fondamenta-le per garantire un’assistenza sanitaria di qualità ed economicamente accessibile a tutti i pazienti europei. La creazione di reti di riferimento europee è partico-larmente significativa e importante per le persone affette da malattie rare in tutta Europa, in quanto garantisce loro la possibilità di accedere alle risorse che non possono essere disponibili entro i confini del

proprio Paese di residenza.In linea con tale orientamento, nell’ambito del proget-to finanziato dal Ministero della Salute nell’ambito del Bando per la Ricerca Finalizzata “Development of innovative diagnostic and therapeutic approaches for primary immunodeficiencies”, oltre allo sviluppo di terapie geniche per le IDP e all’identificazione dei geni associati ad esse, è prevista la realizzazione di un regi-stro di patologia per le forme severe e combinate delle immunodeficienze primarie (SCID, CID) come pure l’in-clusione del programma di screening neonatale.A livello nazionale è in particolare da segnalare la rete IPINET (Italian Primary Immunodeficiencies Network), che si propone di formulare raccomandazioni diagno-stiche e terapeutiche per le immunodeficienze primi-tive da applicare sul territorio nazionale, coordinare progetti collaborativi e di ricerca, nonché aggiornare i registri nazionali di malattia.

Il trattamentoLe immunodeficienze sono patologie oggi curabili e il trattamento deve essere necessariamente perso-nalizzato in considerazione sia dell’eterogeneità delle condizioni cliniche anche nell’ambito di una stessa entità nosologica, sia dell’ottimizzazione della dose (e frequenza) terapeutica e della qualità di vita. Per le forme più gravi di malattia l’unica soluzione è il trapianto di midollo osseo, ma per le forme patologi-che associate a una carenza anticorpale, il trattamento d’elezione è rappresentato da un apporto continuativo di immunoglobuline meglio noto come “terapia sosti-tutiva”. Le immunoglobuline possono essere sommini-strate sia per via endovenosa sia per via sottocutanea. Il trattamento endovenoso deve essere effettuato presso una struttura ospedaliera, ogni 3 o 4 settima-ne, sotto supervisione medico-infermieristica.Poiché i fenotipi clinici sono altamente variabili non è possibile generalizzare un livello protettivo di IgG sieri-che efficace per tutti i pazienti. Va inoltre ricordato che nelle IDP la somministrazione di immunoglobuline non è una terapia sostitutiva con trasferimento passivo di anticorpi, concettualmente assimilabile a quella dell’e-mofilia: al contrario, essa svolge anche un ruolo attivo nel regolare le risposte auto-immuni e anti-infiamma-torie, modulando la funzione dei linfociti B indipen-dentemente dal dosaggio impiegato. Il dosaggio viene deciso sulla base del peso (o massa corporea reale) del paziente mentre l’aggiustamento della dose e degli intervalli tra le somministrazioni possono dipen-dere dalla risposta clinica, dai livelli di IgG raggiunti e dal metabolismo delle stesse immunoglobuline. La terapia delle IDS non è ad oggi standardizzata. Nuove

pazientiAgammaglobulinemia 179Chronic Granulomatous Disease 83Common Variable Immunodeficiency 488Transient hypogammaglobulinemia of infancy 117Wiskott-Aldrich syndrome 74DEL 22 syndrome 213Atassia Teleangectasia 42

Le IDP in Italia

ipinet November 1999 - September 2010

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linee guida sono in corso di elaborazione e sembre-rebbero indicare la necessità di una terapia sostituti-va solo nei casi con aumentata frequenza e gravità di infezioni batteriche e virali.

I vantaggi della via sottocutaneaLa terapia sottocutanea rappresenta una delle innova-zioni terapeutiche che permettono di migliorare sensi-bilmente la vita dei pazienti affetti da queste patologie in quanto consente al paziente (o, in caso di età pedia-trica ai suoi familiari) di organizzare a domicilio e in maniera indipendente le sedute di terapia, a differen-za di quanto possibile con le IG endovenose.La somministrazione di immunoglobuline sottocute (SCIg), disponibili a diverse concentrazioni (16 o 16,5 e 20%), prevede un programma di addestramento del paziente o del caregiver propedeutico alla successiva gestione domiciliare della terapia.Il limite della via sottocutanea risiede nella quantità di Ig che è possibile infondere per ciascun sito di infu-sione (max 25-50 ml/sito); pertanto, per mantenere livelli circolanti adeguati di IgG le SCIg, si richiedono molteplici punti di infusione per seduta e un numero maggiore di sedute di somministrazione che possono essere effettuate con intervalli che vanno da un giorno (piccole quantità giornaliere di IG, rapid push) fino a un massimo di 15 giorni. Una caratteristica delle SCIg rispetto alle IVIg è il fatto che le prime consentono, tramite somministrazioni settimanali o quindicinali, di raggiungere uno uno stato di equilibrio (“steady state”) di IG circolanti con minime oscillazioni (5-10%), mentre con le IVIg ogni somministrazione (ogni 3-4 settimane) comporta, tra concentrazione minima e massima di IgG, una fluttuazione di circa il 50%.Va sottolineato che la possibilità di deospedalizzare la terapia tramite uso delle SCIg a domicilio compor-ta due ordini di vantaggi strettamente intercorrelati: innanzitutto, il risparmio dei costi legati alle prestazio-ni del centro ospedaliero; in secondo luogo, consen-tendo una maggiore autonomia del paziente nella gestione della malattia, essa favorisce l’aderenza al regime terapeutico, migliora la qualità della vita e riduce anche i costi vivi sostenuti dal paziente (viaggio, tempo speso per il day hospital) e la sua necessità di assentarsi dalla scuola o dal lavoro. Inoltre, rispetto all’infusione endovenosa, la somministrazione sotto-cutanea si associa a un’incidenza significativamente inferiore di effetti collaterali sistemici.Una novità è rappresentata dalla infusione sottocuta-nea facilitata (fSCIg), che prevede la somministrazio-ne sequenziale prima di ialuronidasi umana ricombi-nante altamente purificata (rHuPH20) e subito dopo

di immunoglobuline al 10%, ogni 3-4 settimane. La rHuPH20, degradando in maniera temporanea e rever-sibile l’acido ialuronico presente nella matrice extra-cellulare, permette l’infusione di un dosaggio necessa-rio a coprire le esigenze terapeutiche di 3-4 settimane e anche una maggiore biodisponibilità delle SCIg (il profilo farmacocinetico risulta paragonabile a quello delle IVIg). In questo modo si minimizzano gli effetti avversi e si riduce considerevolmente il numero delle somministrazioni, permettendo al paziente di autoge-stirsi a casa propria, anche durante le ore notturne.

Sostenibilità e valutazione economica delle immu-noglobuline sottocutanee facilitateDiversi studi di valutazione economica nazionali e internazionali hanno evidenziato che, a parità di effica-cia, la terapia SCIg comporta un costo minore rispetto alla terapia IVIg. È stata intrapresa una revisione siste-matica della letteratura scientifica nel periodo 2006-2016 con particolare riguardo al contesto nazionale con l’obiettivo di caratterizzare in maniera più appro-fondita l’epidemiologia delle IDP che richiedono l’uso di Ig – nella fattispecie agammaglobulinemia X-linked (XLA) e immunodeficienza comune variabile (CVID) –, stabilire i costi medi annui per paziente in base al tipo di somministrazione (IVIg o SCIg) e, infine, stimare i costi medi annui sostenuti dal servizio sanitario nazio-nale per la cura di tali patologie. Il costo delle procedu-re diagnostiche è stato calcolato facendo riferimento al Tariffario regionale della Regione Toscana e attualiz-zato al 2015 tramite l’indice di rivalutazione dei prezzi al consumo ISTAT, con un’ipotesi di variazione del 15% per riflettere la variabilità regionale.Una stima basata sui registri europei ha determina-to circa 886 pazienti (di cui 772 con CVID e 114 con XLA; i soggetti d’età inferiore a 18 anni erano il 17% e il 43% rispettivamente per CVID e XLA), dei quali 576 trattati con Ig (328 SCIG e 248 IVIg). Il trattamento

Sottocute e endovena: pro e contro

SCIG IVIG

Trattamento con SCIG Trattamento con IVIG

Permette l’autosomministra-zione a domicilio da parte del paziente stesso.Non richiede accesso venoso.

Pros

Permette un’infusione una volta al mese.Permette la somministrazione di un ampio volume di IG in un unico sito d’infusione.

Richiede somministrazioni più frequenti, 1-2 volte a settimana.Più siti d’infusione.E associato ad effetti collaterali locali (gonfiore, arrossamento, ecc.)

Cons

Deve essere somministrato in ospedale da personale specializzato (medico, infermiere, ecc.).Rischio di effetti collaterali sistemici (cefalea, nausea, ecc.).Richiede un accesso venoso.

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SCIg ha un costo medio annuo inferiore rispetto alla somministrazione IVIg di circa € 3.000 e il costo medio per paziente trattato è risultata di circa € 23.365 per un paziente CVID e € 19.508 per un paziente XLA. La spesa per costi diretti sanitari riconducibili al tratta-mento con IG in Italia ammonta a € 12,63 milioni, di cui 11,29 per CVID e 1,35 per XLA. Si evince pertanto

che da un punto di vista economico lo switch da IVIg a SCIg si associa a un risparmio in termini di spesa sani-taria, che per quanto riguarda la fSCIg, rispetto alla SCIg convenzionale, è ulteriormente sostenuto da altri vantaggi, quali la riduzione dei siti di infusione e della frequenza delle sedute di somministrazione (1 seduta /mese anziché 2 o 4 sedute/mese) e il minore spreco

Costo del farmaco per paziente per tipo di somministrazione e dosaggio

Prodotto Prezzo €/g FonteQuantità media

annua per pz CVID

Quantità media annua per pz XLA

Quota di consumo CVID*

Quota di consumo XLA*

SCIG (16%) € 50,40 Gazzetta Ufficiale 405 mg 307 mg 34% 34%

SCIG (16,5%) Gazzetta Ufficiale 405 mg 307 mg 13% 13%

SCIG (20%) Gazzetta Ufficiale 405 mg 307 mg 53% 53%SCIG 30,5% 33,5%

IVIG (5%) 47,88 Gazzetta Ufficiale 410 mg 310 mg 12% 12%

IVIG (10%) 49,80 Gazzetta Ufficiale 410 mg 310 mg 88% 88%IVIG 69,5% 66,5%

* al netto dei plasma derivati da Contract Manufacturing

Costo delle procedure diagnostiche per pazienteUtilizzo delle procedure diagnostiche per il follow-up del paziente in base al protocollo utilizzato dalla SOD immunodeficienza. Ogni

singola prestazione è stata valorizzata facendo riferimento al Tariffario regionale della Regione ToscanaParametri clinici Base-caseg Min Max DISTRIBUTION ALPHA BETA

Costo medio per procedure diagnostiche € 272 € 231 € 312 307 mg GAMMA € 171 € 2* costo attualizzato al 2015 tramite l’indice di rivalutazione dei prezzi al consumo ISTAT, ipotesi di variazione del 15% per riflettere la

variabilità regionale.

Costo medio annuo per pazienteXLA IVIG 5% IVIG 10% SCIG 16% SCIG 16,5% SCIG 20%

Costo totale medio annuo per terapia

€ 20.225(€ 7.280-€39.666)

€ 20.856(€ 7.485-€40.957)

€ 17.825(€ 5.452-€37.394)

€ 17.825(€ 5.452-€37.394)

€ 17.825(€ 5.452-€37.394)

Costo totale medio annuo

€ 20.781(€ 7.461-€40.805)

€ 17.825(€ 5.452-€37.394)

Differenza € 2.956 (€2.009-€3.411)

CVID IVIG 5% IVIG 10% SCIG 16% SCIG 16,5% SCIG 20%Costo totale medio annuo per terapia

€ 23.934(€ 8.584-€47.014)

€ 24.715(€ 8.841-€48.604)

€ 21.703(€ 6.370-€46.264)

€ 21.703(€ 6.370-€46.264)

€ 21.703(€ 6.370-€46.264)

Costo totale medio annuo

€ 24.623(€ 8.811-€48.417)

€ 21.703(€ 6.370-€46.264)

Differenza €2.920 (€2.153-€2.441)

Costo della somministrazione IVIGTempo totale dell’infermiere per paziente (ora) Fonte

IVIG 5% 4,0 Matucci et al 2008Tempo totale del medico per paziente (ora)

IVIG 5% 0,5 Matucci et al 2008Costo (ora) personale medico-infermieristico

Medico € 50,6 Matucci et al 2008Infermiere € 23,8 Matucci et al 2008

Costo medio per somministrazione personale medico-infermieristico € 121Costo annuo personale ospedaliero € 1.809

Durata della somministrazioneOre 4,0 Matucci et al 2008

Costo orario ambulatorio terapeutico € 40,07 Matucci et al 2008Costo medio dell’utilizzo dell’ambulatorio terapeutico per somministrazione € 160

N° somministrazioni anno 15 Bonilla et al 2008; S. Jolles et al 2015; Stonebraker, Farrugia 2013

Costo annuo per utilizzo dell’ambulatorio XLA € 2.404Per il costo del personale infermieritico, medico e l’affitto dell’ambulatorio terapeutico è stata ipotizzata una variazione del 15% per

riflettere la variabilità regionale.

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di prodotto stimato (11,7 ml anziché 22,98-23,81 ml, grazie al minor numero di iniezioni praticate al pazien-te e alla conseguente riduzione del farmaco normal-mente “perso”).

Il ruolo di AgenasL’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) non esplica attualmente un ruolo nell’ambito delle malattie rare, ma svolge una funzione di suppor-to tecnico al Ministero e alle Regioni: non interferisce sui ruoli istituzionali già esistenti, ma, in qualità di organo nazionale di supporto e indirizzo, vede quale settore importante la rete. Il DM 70 riguarda l’assi-stenza ospedaliera per acuti e definisce la necessità di operare attraverso reti di specialità definendo prio-rità di intervento e un ruolo per Agenas. In un conte-sto evolutivo come quello dell’attuale sanità italiana, orientata all’integrazione ospedale/territorio e alla creazione e al coordinamento di sinergie e servizi, va chiarito che Agenas ha il compito di promuovere, coordinare le attività di revisione e definizione di linee guida per il funzionamento delle reti e nel corso del 2016 questa attività dovrà concretizzarsi in maniera operativa. Anche nel caso di reti consolidate, come per esempio quella delle malattie rare e la rete associata a terapia del dolore e cure palliative, emerge spesso uno stato di sofferenza nella governance dei collegamen-ti. Il tipo di intervento che Agenas intende realizzare coinvolgendo necessariamente anche la rete delle malattie rare nelle sue varie articolazioni sarà pertan-to mirato a definire criteri operativi, finalità, sistema di finanziamento (che non coincide con il pagamen-to delle singole prestazioni) e integrazione tra livello sociale e mondo sanitario.

L’impegno del Servizio sanitario nell’immediato futuro tra bisogni assistenziali e necessità di aggiornamento delle malattie rareRiflessioni del prof. Walter RicciardiI pazienti affetti da IDP devono essere sottoposti per tutta la vita alla terapia sostitutiva con immunoglo-buline e, anche escludendo i costi dovuti agli accer-tamenti ed al trattamento delle numerose possibili complicazioni – infettive e non – hanno un gravoso impatto economico per il Servizio Sanitario Nazionale. Prendendo in considerazione, come esempio, le tariffe delle prestazioni di assistenza ospedaliera della Regione Lazio (DGR 971/02) il rimborso di un singolo accesso in Day hospital per deficit immunitario non gravato da complicanze è di €290,98, che aumenta a €376,62 in caso di immunodeficienza complicata. Al costo del ricovero va poi aggiunto quello della terapia

sostitutiva, determinato dalla dose e dalla frequenza delle somministrazioni. In una logica di contenimen-to della spesa si rende opportuno prevedere strategie che permettano di mantenere invariato il follow-up dei pazienti con il monitoraggio delle eventuali complican-ze e la protezione assicurata dalla terapia sostitutiva: per esempio il ricorso alla via sottocutanea permet-terebbe di ridurre i costi di staff e ambulatoriali. Tra le criticità che si possono evidenziare in una prospet-tiva di assistenza centrata sul paziente rientrano il problema della continuità assistenziale nel transito dal centro di riferimento pediatrico a quello dell’adulto, il ritardo della diagnosi, che rappresenta un’altra voce di costo a carico del SSN, e l’esigenza di standardizzare e uniformare l’accesso alle cure, che purtroppo registra-no forti disomogeneità sul territorio nazionale. A tale riguardo un aspetto di particolare importanza e attua-lità è l’approvazione dei nuovi LEA (Livelli Essenziali di Assistenza, che di fatto non vengono aggiornati dal 2001), auspicata entro fine anno, che prevedono l’aggiornamento della lista delle patologie rare esenti per un aumento di spesa di circa 10 milioni di euro insieme all’aggiornamento dell’assistenza protesica ad elevata tecnologia, così come dell’assistenza domi-ciliare, territoriale, semiresidenziale e residenziale. I LEA attuali, infatti, prevedono il riconoscimento della completa gratuità dei servizi soltanto per un ristretto elenco di malattie rare, escludendo un ampio venta-glio di patologie rare che, per quanto disabilitanti, non sono in grado di comportare un livello di invalidità civile tale da assicurare l’esenzione da ticket e il diritto a un assegno mensile.

Il punto di vista dell’Associazione Immunodeficienze Primitive (AIP) OnlusIl paziente dovrebbe essere il fulcro dell’attenzione di istituzioni sanitarie e decisori politici, ma purtroppo la sua centralità rimane ancora più un concetto teorico che non una realtà operativa. È fondamentale che egli possa accedere ai tavoli di lavoro per decidere il proprio futuro: il paziente di oggi, infatti, è cambiato, si documenta e si aggiorna attraverso le molteplici vie di comunicazione, è in grado di valutare la terapia e non può essere messo di fronte soltanto a questioni di efficientamento e risparmio. L’accesso alle cure è purtroppo diverso da una regione all’altra ed è auspicabile una legge nazionale che possa consentirlo in maniera univoca sull’intero territorio nazionale. Spesso, non viene percepita l’importanza di un farmaco salvavita in una storia di malattia complessa e la qualità di vita viene talvolta circoscritta in un contesto che non tiene conto dell’effettivo impatto, in termini di risparmio costo, di terapie che possono essere gestite autonomamente dal paziente al proprio domicilio.

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Intervista a Michele Emiliano, Presidente Regione Puglia

EPATITE C IN REGIONE PUGLIA TRA INNOVAZIONE, GESTIONE

E SOSTENIBILITÀMario Sensini

“Stiamo vivendo una vicenda dram-matica: la ricerca scientifica ci offre improvvisamente, e in modo quasi miracoloso, la soluzione di un problema antico, pesante e gravissimo come quello dell’epa-tite C. Lo fa a prezzi anche accet-tabili, se paragonati a quelli dei trattamenti tradizionali, ma eleva-tissimi. Prendere atto, con la nostra Costituzione, che oggi c’è un certo numero di persone che rischia di non avere questo farmaco perché costa troppo è inaccettabile. Il sistema va rovesciato, bisogna partire dal numero dei pazienti da curare e stabilire le risorse, non il contrario” dice Michele Emiliano, Presidente della Puglia. La sua Regione ha deciso di spingere sull’uso dei nuovissimi farmaci contro l’epatite, anche a costo di sforare il bilancio.“Abbiamo scelto di non contingen-tare gli arruolamenti sulla base del finanziamento nazionale, ma di curare il maggior numero possibile di malati “gravi”, facendoci carico della quota non ripianata”.

La Puglia ha curato moltissimi pazienti con i nuovi farmaci, con esiti terapeutici ottimi, ma con un costo molto elevato.“Noi stavamo uscendo tranquillamente dal piano di rientro, nel quale eravamo caduti per non aver rispettato i vincoli sul bilancio ordinario, non quello sani-tario che era a posto. Era-vamo già nel piano operativo, pronti a tornare alla normalità, quando è arrivata una bolletta sanitaria aggiuntiva da 100 milioni di euro, oltre la metà dei quali dovuti ai farmaci innovativi, in particolare quelli per l’epatite. È stata una mazzata, cui abbiamo fatto fronte con il bilancio ordinario, cioè con le tasse dei pugliesi. Questo dei nuovi farmaci per l’epatite è un problema enorme, rispetto al quale non è stato studiato dal governo nessun partico-lare sistema per venire incontro alle Regioni. È un colpo di cannone sulla sanità che il governo ha sparato e ora finge di ignorare, pur avendo in mano la leva fondamentale della definizione dei prezzi.”

Le trattative tra l’Agenzia del farmaco e le aziende produttri-ci sono andate avanti per mesi. I prezzi spuntati sono alti, ma sembrano in linea con quelli otte-nuti dagli altri paesi industrializzati.“I costi della cura sarebbero anche accet-tabili, se paragonati a quelli dei tratta-menti tradizionali, che non sono riso-lutivi. Ovviamente, questo è anche un argomento, utilizzato in modo distorto,

per giustificare un costo industriale che sarebbe difficile da dimostrare. In molti paesi, le stesse aziende produttrici dei farmaci innovativi riescono a produr-re e a distribuire a prezzi infinitamen-te inferiori rispetto a quelli imposti ai paesi industria-lizzati. Il sistema, così come è definito, oggi esclude la possi-bilità di cura a pazienti che ne avreb-bero bisogno solo perché i farmaci costano troppo. Dovremmo cambia-re il sistema, rivoltando la piramide. Dobbiamo partire dal numero effettivo dei pazienti da curare, con elaborazio-ni attendibili, non come quelle su cui si è basato il governo, e stanziare i fondi. Ma si è scelto di andare in un’altra dire-zione.” Le risorse sono limitate, l’econo-mia è in crisi, e il bilancio pubblico deve fare i conti con i vincoli imposti dall’U-nione Europea. L’esecutivo sostiene che in realtà i fondi a disposizione della sanità sono aumentati. “Nella sanità stiamo vedendo qualcosa di incredibi-le. Un anno fa abbiamo firmato con il governo il Patto della salute, indivi-duando i criteri per adeguare i costi della sanità ai prezzi; invece, siamo entrati in uno strano gioco. Il governo centrale effettua i tagli semplicemente non riconoscendo gli aumenti, inevi-tabili, dei costi. E tra questi, quelli dei farmaci innovativi sono l’elemento di maggior drammaticità. Sono costi aggiuntivi, che quando si realizzano ci mandano direttamente in piano di rientro, o ci costringono a ridurre i servizi in altri settori. Mentre l’esecutivo ha le mani libere”.

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Accusa il governo di scaricare su di voi i costi del risanamento del bilancio?“Non è solo questo: i tagli alla salute sono stati il modo attraverso il quale il governo centrale è riuscito a finanziare le sue politiche. L’abolizione dell’Imu sulla prima casa è stata fatta a spese della sanità. Il Jobs Act e gli sgravi fiscali per le assunzioni sono stati finanziati con l’Fsc, il Fondo per il Mezzogiorno. Ora, poi, abbiamo davanti un’altra situazione paradossale. Roma sfrutta la flessibilità sui conti pubblici conces-sa dall’Europa, ma solo per sé stessa, mantenendo su di noi l’obbligo del pareggio. Noi quest’anno avremo una disponibilità finanziaria di 100-120 milioni, una bazzecola se si pensa che il bilancio della città di Venezia è di 700-800 milioni di euro. Noi, con i comuni, siamo diventati il serbatoio finanziario del governo. È in atto una ricentralizzazione, non più burocra-ti-coprefettizia, ma finanziaria: siamo collegati a un tubo dell’ossigeno che il governo pesta col tallone a seconda delle sue esigenze. Così, ad esempio, lo Stato definisce quale deve essere il modello sanitario delle regioni, e lo ha fatto con il decreto ministeriale 70, che riguarda gli ospedali, con la riduzio-ne dei posti letto, le emergenze, tutte cose che impattano direttamente sul territorio. A mio parere, questo è parte di una deliberata politica unitaria: le infrastrutture, le bonifiche, le azioni di coesione sociale, il Fsc definisco-no nella sostanza la totale abolizione del finanziamento nazionale al Sud, sostituito con i fondi europei finché ci saranno. Il recupero della deprivazio-ne, che è l’elemento di costo più impor-tante per noi, la vera questione meri-dionale, non viene affrontato in nessun modo. E guardate bene che i luoghi di maggior degrado sociale sono proprio quelli dove l’epatite C è più diffusa. La scarsità dei presidi, la mancanza di strutture attrezzate fanno in modo che la malattia continui a diffondersi”.

Come avete affrontato il proble-ma, quando sono arrivati i nuovi farmaci? Si sono messe in moto nuove dinamiche di relazione tra Regione e Ospedali?“La popolazione pugliese è il 6,7% della popolazione italiana, mentre i malati di epatite C pugliesi sono l’11% del numero dei malati italiani. Abbiamo una trentina di centri di prescrizione con una buona distribuzione territo-riale. È un sistema che abbiamo eredi-tato dall’amministrazione precedente e che funziona. C’è stata una forte regia centrale nell’operazione, sia per garan-tire la stretta osservanza e il continuo monitoraggio dei meccanismi regola-mentari che danno diritto al rimborso da parte ministeriale, che per rispettare i criteri di eleggibilità al trattamento e gli obblighi di compilazione dei registri AIFA da parte dei medici prescrittori. Gli adempimenti, poi, si sono trasformati in opportunità, facendo emergere l’au-torevolezza clinica di quei centri che per volumi ed esperienza hanno una marcia di eccellenza professionale su questa patologia. Ad oggi abbiamo curato con i farmaci innovativi per l’epatite C circa 4.400 pazienti, esat-tamente il 10% del totale naziona-le; siamo stati al passo, anche se ci è costato molto.”

La Puglia è forse la Regione con la maggior incidenza dell’epatite C in Italia, ma è fondamentalmente una regione povera rispetto alla media, e sta sperimentando serie difficoltà economiche, anche nel sistema industriale. Le disponibili-tà finanziarie della Regione, come Lei ricordava, sono molto ridotte ed i vincoli di bilancio molto alti. Come pensate di gestire il futuro?“Il problema dei farmaci ad alto costo, trattandosi di spesa corrente, incide in modo drammatico su Regioni come la nostra che hanno un’alta incidenza della malattia e minor forza finanzia-ria. Questo non è però solo un proble-ma della Puglia. Io temo che, alla fine,

anche il processo di emersione dell’e-patite, che in moltissimi casi non viene diagnosticata, venga in qualche modo trattenuto, rallentato”.

In effetti, il piano per l’epatite C non prevede iniziative concrete per la prevenzione e l’informazio-ne su questa malattia. Si curano i casi più gravi, ma non c’è un vero progetto per la sua eradicazione, che oggi sarebbe possibile.“È una sorta di complesso freudiano. Se non si trova un altro sistema, tutte le Regioni penseranno che se questo fenomeno si dilatasse ulteriormente, se dovessero emergere troppi malati di epatite C, il loro sistema finanziario salterebbe per aria. Ed è chiaro che a quel punto si fermeranno, rallenteran-no. E l’accesso alle cure sarà più diffici-le nelle regioni più deboli.”

Così c’è il rischio di rafforzare i flussi delle migrazioni sanitarie.“Sta già avvenendo. Chi ha una malat-tia importante, se può, va a Nord. È dura stare qui. Perdiamo talmen-te tanti abitanti che vanno al nord o all’estero, che probabilmente stiamo perdendo anche i malati di epatite C. Se va avanti questo progetto per il Sud, tra poco qui sarà il far west. Invece, se i sistemi sanitari del Sud riuscissero ad abolire mobilità passiva, bloccan-do la domanda nel proprio territorio, il sistema sanitario lombardo, quello emiliano e toscano forse salterebbero per aria. Si reggono anche sulla base dei 280 milioni di euro che gli trasferia-mo noi, i 400 milioni della Campania, risorse che consentono ad esempio all’Emilia-Romagna, a parità di abitan-ti della Puglia, di avere 15 mila addetti in più nella sanità e un budget superio-re di 700-800 milioni.”

La Puglia contesta anche il riparto tra le Regioni del Fondo sanitario nazionale; perché?“Ci sono problemi perché, a prescin-dere dalle differenti politiche sanitarie

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adottate, non mette tutte le Regioni nelle stesse condizioni di garantire il rispetto dei tetti della spesa farmaceu-tica prescritti, e dunque nella stessa possibilità di garantire l’accesso a queste terapie innovative. Se i nostri pazienti vanno a curarsi al Nord queste Regioni hanno l’opportunità di accede-re a condizioni economiche negoziali più vantaggiose sul costo dei farmaci innovativi in virtù degli accordi di prez-zo-volume tra AIFA e le aziende farma-ceutiche. Senza contare che la vicenda epatite C ha messo in luce che, almeno su quella patologia tre regioni del Sud (noi, Campania e Calabria) abbiamo

sostenuto un carico assistenziale esor-bitante e occulto. Vari studi parlano di un rapporto tra i costi della terapia innovativa e costi delle cure tradiziona-li in ragione dell’1 a 5. Quante di queste patologie, magari figlie della disegua-glianza sociale, continuano a rimane-re sui bilanci delle regioni meridionali senza compensazioni di sorta?”

Cosa ne pensa dell’idea di costru-ire un’operazione finanziaria per affrontare i costi delle nuove cure per l’epatite? C’è chi avanza l’idea di emettere sul mercato un prestito obbligazionario, dei veri

e propri bond, per raccogliere risorse ed anticipare oggi la spesa necessaria per curare il maggior numero possibile di pazienti, risparmiando sul costo che invece rappresenterebbero per la sanità nel futuro, se non curati.“Mi pare un’idea formidabile. Se aves-simo la possibilità di spalmare il costo immediato delle cure su quindici o venti anni con un’operazione finanziaria, i risparmi per il sistema sanitario nazio-nale garantirebbero gli interessi e non ci sarebbero sbilanciamenti. Sarebbe davvero una buona soluzione”.

ALCUNE RIFLESSIONI…La recente introduzione di farmaci antivirali ad azione diretta per il trattamento dell’epatite cronica C ha creato uno scenario del tutto nuovo nel panorama clinico e socio-assistenziale riguardante pazienti con una patologia grave ad alta prevalenza in Italia, così come in altri paesi nel mondo. Tale situazione ha indotto alcune Regioni italiane, come la Regione Puglia, a implementare una pianif cazione della cura che ha gene-rato un’esperienza clinica e di gestione della malattia signif cativa, creando accesso alle nuove terapie a un numero di pazienti per Regione tra i più elevati in Italia. La progettualità si è focalizzata su una strategia specif ca che può essere analizzata, nel suo complesso e nelle singole componenti, come possibile modello a livello nazionale. Per contro, la problematica f nanziaria ha offuscato la svolta epocale rappresentata dai nuovi farmaci per la cura dell’epatite C, che hanno dimostrato risultati di guarigione indiscutibili e impatti positivi sulla sostenibilità del sistema sanitario che ancora non riescono ad emergere. L’esperienza della Regione Puglia nella fase d’introduzione e di accesso delle nuove terapie per l’epatite cronica di tipo C è valutabile in base ai risultati ottenuti, innanzitutto dal numero complessivo di pazienti reclutati. Tali risultati sono il frutto di una linea strategica basata sulla costituzione, f n dalla prima fase, di una rete di centri prescrittori estesa e capillare su tutto il territorio regionale, selezionati con chiari criteri di capacity. Inoltre, il reclutamento graduale dei sottogruppi di pazienti per le nuove terapie, basato su criteri condivisi di gravità e rischio, così come stabilito dall’AIFA, è stato il secondo fattore critico di successo di questa classe di farmaci innovativi per una malattia, come l’epatite C, che presenta un carico signif cativo in termini clinici, sociali ed economici. Restano importanti aree di lavoro e di miglioramento, quali l’integrazione dei f ussi informativi e le modalità gestionali; i registri AIFA assicurano il rispetto dei criteri di inclusione, ma da soli non ce la fanno. Il valore positivo dell’esperienza sarebbe di certo maggiore se la Regione Puglia potesse avere uno spazio normativo e contabile di allocazione dei risparmi futuri su altre linee assistenziali nei bilanci correnti, mentre i principi contabili obbligano invece ad attenersi a discutibili tetti di spesa farmaceutica: la possibilità di prevedere dei correttivi dei tetti sulla base di attendibili risparmi futuri, derivanti da accertata eff cacia dei trattamen-ti farmacologici, non è ancora un’opzione di policy sanitaria accettata. Probabilmente questa esperienza potrebbe essere utile per orientare i f nanziamenti per tipologia di spesa con una maggiore attenzione all’innovazione (anche farmacologica), sempre nell’ottica dell’investimento e del risparmio a medio-lungo termine, indispensabile anche per una programmazione nazionale e regionale strutturale.

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Intervista a Luca Ceriscioli, Presidente Regione Marche

LAVORARE CON I VICINI PER COSTRUIRE LE MACROREGIONI

DI DOMANIUna sanità che sia sempre più di prossimità – Quello delle macroregioni è un proces-so irrinunciabile e Marche, Umbria e Toscana si stanno portando avanti con azioni concrete, come nella centralizzazione degli acquisti – Grazie ai recuperi di efficienza riusciamo a mantenere l’equilibrio finanziario – Nuovi LEA chiamano nuove risorse – La politica e le nomine dei primari

Daniele Pallotta

Centralizzare la sanità? No, grazie. Il governatore delle Marche, Luca Ceriscioli, indivi-dua già un nuovo percorso per la sanità del domani che mira ad un’alleanza pacifica tra regioni, che siano magari confinanti fra loro, piuttosto che lascia-re al Governo di occuparsi di “macchine complesse”, come quella della sanità appunto. “I commissari governativi hanno fallito”, dice a Rh+ Ceriscioli che, conti alla mano, sembra aver già superato l’esame tanto da rilan-ciare la sfida: “Anziché aspetta-re che qualcuno disegni dall’al-to le macro-regioni ce le siamo costruite da soli partendo dal basso”.

Nell’ambito del dibattito da tempo in corso circa la necessità di ridi-

mensionare l’attuale decentraliz-zazione della sanità, qual è la sua opinione personale e quella della sua Giunta?Credo sia molto difficile poter governa-re dal centro macchine complesse come quella della sanità. Si parla di grandi ospedali, ma anche di servizi diretti al cittadino come l’assistenza domiciliare, dove la dimensione di prossimità resta una dimensione molto importante. Si è dimostrata illusoria l’esperienza dei commissari governativi che in questi anni anche per dieci, undici, dodici anni hanno retto sempre le sanità regionali e non sono sempre riusciti a imprime-re una svolta al sistema. Anzi, quelle sanità restano commissariate mentre altre, come la nostra, che sono state gestite in maniera decentrata, conti-nuano ad essere autonome e di eccel-lenza.

La creazione di macroregioni – nel caso specifico Toscana, Marche e Umbria – potrebbe rappresentare la giusta via di mezzo rispetto alle correnti di pensiero pro-centraliz-zazione?Quello che noi stiamo facendo con Toscana e Umbria è un’idea di una collaborazione sempre più forte per valutare insieme, dal basso, la costru-

zione di quelle che saranno, potenzial-mente, le macro regioni di domani. Noi siamo i promotori di un percorso che presto dovrà coinvolgere il Paese. È un dibattito, questo, che si è già messo in moto. Anziché aspettare che qualcuno le disegni dall’alto stiamo proviamo a costruirle dal basso. Certo è che questo è un modo per rafforzare sempre di più le ragioni del decentramento.

La recente proposta formale che le tre Regioni hanno inviato al Commissario di Governo per la revisione della spesa, Yoram Gutgeld, per giungere ad una centralizzazione degli acquisti in sanità, può essere considera-ta una sorta di prova tecnica in questa direzione?La collaborazione tra le tre regioni centrali la stiamo costruendo concre-tamente. Il primo passo è stato quello di deliberare un’unica centrale degli acquisti che per esempio inciderà molto in termini di risparmi soprattutto se pensiamo alla spesa sanitaria. C’era un disegno proposto dal Governo che era “astratto” e noi, in forza di quello che stiamo facendo insieme, abbiamo chiesto di essere noi tre i soggetti che mettono insieme l’aggregazione degli acquisti. E su questa scia stiamo lavo-

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rando anche su altri aspetti. Proprio la scorsa settimana abbiamo ufficializ-zato l’ufficio unico a Bruxelles, unicità che non è solo unica sede fisica, essen-doci già da anni, ma fusione di servizi, personale unico qualificato. Un atto che significa anche integrazione e condivi-sione di politiche che possano servire ad intercettare opportunità dalla UE per i territori e dare incisività alle azioni delle Regioni, dal momento che le poli-tiche europee sempre di più entrano nelle programmazioni regionali.

La Regione Marche, nonostante le difficili sfide che obiettivamente la sanità nazionale deve affrontare, è riuscita a mantenere un sostan-ziale equilibrio economico-finan-ziario. Vede pericoli per il prossi-mo futuro? (epatite C e altro)Siamo riusciti a mantenere l’equili-brio finanziario ma siamo su valori di soglia. Se pensiamo che la spesa sanitaria pubblica in Italia è di circa il 6,5% del Pil e che questa percentuale viene ritenuta come limite, è eviden-te che oggi ogni scossone può creare difficoltà. Attraverso l’efficienza interna riusciamo a recuperare margini però è difficile forzare una situazione così a limite.

A fronte dell’irrinunciabile equi-librio economico-finanziario da preservare, qual è la situazio-ne rispetto al Livelli Essenziali di Assistenza? Sono anch’essi in equi-librio o c’è molto da fare ancora?Il lavoro fatto sui Livelli Essenziali di Assistenza, i Lea, per noi è un punto di riferimento su tutta l’attività, faccia-mo di tutto per rimanere in equilibrio. Anche in questo caso la situazione non si può forzare oltre misura. Continuare a introdurre nuovi Lea senza pensare a ulteriori risorse, trova poi un limite in quel rapporto, in quel valore strategico, di cui parlavamo.

Le nomine dei direttori generali delle aziende ospedaliere e delle

aziende sanitarie sono ovviamen-te di pertinenza della Giunta regio-nale, in quanto a queste figure spetta il compito di dare attua-zione alla linea politica in materia di sanità. Quando però si parla di nomine dei primari, quanto la poli-tica si tiene in disparte o distante?Quello che abbiamo voluto fare in questi mesi di governo della sanità regionale è lavorare molto sugli obiet-tivi da far raggiungere ai dirigenti, rendendoli sempre più misurabili e sempre più tangibili. Raggiungere determinati obiettivi significa dare effi-cienza al sistema e soprattutto dare migliori servizi ai cittadini. La scelta dei primari è di competenza dei direttori, non certo della politica. È chiaro che per un dirigente scegliere un primario bravo lo porta anche a raggiungere gli obiettivi. Faccio un esempio. Pensiamo al parametro che va a misurare, nella sanità per acuti, il rapporto fra spesa e produzione. È evidente che sempre più il cattivo costume di mettere primari non all’altezza diventa controprodu-cente per il direttore perché si rischia di compromettere il raggiungimento di obiettivi concreti come l’equilibrio per singola struttura della spesa per acuti. A maggior ragione questo deve orienta-re tutti quanti. Personalmente mi inte-ressa una sanità che funziona e non la nomina dei singoli componenti.

Le Marche, a inizio anno ha approvato – in verità tra le ultime Regioni – la delibera attuativa del decreto legge 70 dell’aprile 2015 sulla definizione degli standard relativi all’assistenza ospedaliera. Come sta procedendo il processo di riorganizzazione che ne deve derivare? È questo un processo che implica costi di natura politica o anche - come è più probabile - economica?Abbiamo approvato la delibera del riordino sul decreto 70 nei tempi previsti, a febbraio. E’ arrivata succes-sivamente ad un altro atto approva-

to negli anni passati che prevedeva un adeguamento in base al Balduzzi. La nostra riforma dunque è stata un adeguamento ulteriore verso quelli indirizzi. Dagli atti ora dobbiamo passare all’attuazione di questi prov-vedimento che comporta, nel nostro caso, importanti accordi con i medici di medicina generale. Finché non vengono raggiunti questi difficilmente si potrà dare sostanza al cambiamen-to perché è difficile costruire una Casa della Salute senza una reale partecipa-zione del medico di medicina generale. Quindi, questo passaggio, che per noi significa passare da ospedali a struttu-re territoriali, ha bisogno del concorso di tutti. Stiamo andando avanti, certo non senza difficoltà, ma noi ci credia-mo tanto e quindi contiamo di poterlo realizzare, completamente, entro la fine dell’anno.

Da tempo è in atto una riorganiz-zazione del sistema ospedaliero marchigiano. È stata annunciata la nascita di nuovi ospedali ma anche definita la riconversione di vecchie strutture. Quale la poli-tica che si vuole attuare? State puntando a un nuovo “modello marchigiano”?Il modello marchigiano non si disco-sta di molto dalle linee guida nazio-nali. Stiamo cercando di concentrare al massimo, anche realizzando nuove strutture, la medicina per acuti che significa meno ospedali, più raggrup-pati e con maggiori livelli di assistenza e qualità. D’altra parte, però, quello che viene tolto in termini ospedalieri viene redistribuito in servizi territoriali. La sanità si concentra per gli acuti ma diventa sempre più vicina al cittadino per quanto riguarda la medicina terri-toriale facendo crescere i servizi di pros-simità, fino ad arrivare a quelli di carat-tere domiciliare. E’ un percorso che quando chiudi un ospedale provoca come prima reazione la sensazione che tutto si stia allontanando ma in realtà tutto si avvicina con forme più corrette.

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COLESTEROLO FUORI CONTROLLO: FATTORE DI RISCHIO

O PROBLEMATICA SANITARIA?Piercarlo Salari*, Marcello Portesi

C’è una consapevolezza, quando si parla di sanità e di spesa sanitaria: quest’ultima non potrà certo aumen-tare nel futuro prossimo e non solo per essere in linea con le dinamiche socio-demografiche che si prospetta-no. A non far presagire un futuro di spesa non è solola complessa congiuntura economica che il nostro Paese sta affrontando, ma anche la difficoltà di poter attingere ad altre poste del bilancio dello Stato. Su questa considerazione sono costretti a concordare politici, economisti sanitari, decisori, caregiver e, più ingenerale, i gestori dei servizi sanitari sul territo-rio. Il problema diventa allora come rispondere alle crescenti necessità imposte dal progressivo invecchia-mento della popolazione e dalle opportunità di cura che la ricerca mette a disposizione. Il tema affrontato in questo dossier merita un momento di riflessione e confronto tra esponenti della comunità medico-scien-tifica, rappresentanti delle istituzioni, economisti sani-tari e decisori per identificare le risposte e le priorità di un ambito sanitario delicatissimo, generatore di enormi costi sanitari e indiretti, che pone sfide diffici-li per migliorare le risposte sanitarie e riequilibrare la spesa. Il sistema deve dunque cambiare poggiando sualcuni pilastri fondamentali: prevenzione, innovazione nei trattamenti ma anche negli assetti organizzativi e nei processi.

L’epidemiologia preoccupa…Il quadro generale dell’ipercolesterolemia e delle conseguenti patologie ischemiche, che trova nel rapporto CORE (Collaborative Outcome Research) importanti dati nazionali di “real world”, desta note-vole preoccupazione. Le cardiopatie ischemiche sono infatti la prima causa di morte in Italia (75.000 decessi/anno) e il colesterolo è in assoluto il primo fattore di rischio, seguito a distanza da fumo, diabete, iperten-sione e obesità. Ben il 35 per cento della popolazione tra i 35 e i 74 anni (11,3 milioni di persone) ne soffre in modo conclamato e viene sottoposto a cure, mentre il 40 per cento non è consapevole di avere livelli di cole-

sterolo superiori alla norma. Ancora oggi, nonostante l’importantissimo ruolo svolto dalle statine nel control-lo dei livelli di colesterolo, tra i pazienti ad alto rischio e quelli a rischio molto alto, rispettivamente il 69,7 e l’85,2%, non riesce a raggiungere il proprio target tera-peutico di colesterolo LDL. La ridotta aderenza alle terapie può essere una causa di questa situazione, ma certamente non è l’unica. A preoccupare in particola-re sono i dati relativi alla prevenzione di un secondo episodio cardiovascolare, che permettono di comple-tare una fotografia sicuramente allarmante: il 53% dei pazienti con un evento cardiovascolare pregresso e il 50% di quelli con ipercolesterolemia familiare non è a target con le terapie attualmente disponibili.

Quanto “pesano” economicamente le malattie cardiovascolari?I costi diretti sanitari per le malattie cardiovascolari ammontano a circa 16 miliardi di euro e quelli rela-

I dati del rapporto CORE in sintesi

• Non è trattato con statine neppure un terzo dei pazienti che ne avrebbero bisogno

• L’aderenza al trattamento con statine è insoddisfacen-te

• Le reospedalizzazioni sono molto frequenti soprattut-to nel primo anno dopo l’evento indice

• Il costo annuo a carico del SSN per un paziente dopo un evento cardiovascolare è elevato e trova nella spesa per i ricoveri il principale cost-driver

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I NUMERI DEL COLESTEROLO

Prevalenza di soggetti con colesterolo totale >240mg/dL nella popolazione generale 35%

Prevalenza di soggetti con LDL-C >115mg/dL nella popolazione generale 65%

LDL-C medio nella popolazione generale 130mg/dL

Ipercolesterolemia: consapevolezza 60%

Ipercolesterolemia: trattamento <70%

* Medico Chirurgo, Milano

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tivi alla perdita di produttività nel 2011 sono stimati in quasi 5 miliardi. I costi delle cardiopatie ischemi-che nel 2009 sono stati di poco inferiori ai 7 miliardi di euro, dei quali i due terzi sono rappresentati dai costi sanitari indiretti. Considerando le prestazioni erogate dall’INPS per gruppi di patologie dal 2002 al 2012 le malattie cardiovascolari rappresentano il 21%, precedute soltanto da quelle oncologiche (pari al 25%) e sono una voce importante di assegni di invalidità, che nel periodo 2001-2012 hanno raggiunto il numero di 318.563. Appare dunque chiaro che, nonostante i progressi degli ultimi anni, si può fare ancora molto per migliorare la gestione del paziente colpito da pato-logie cardiovascolari e attuare una prevenzione più efficace.Non sempre l’ipercolesterolemia, però, è dovuta a cattive abitudini di vita, ma può essere sostenuta da una causa genetica: è il caso dell’ipercolesterolemia familiare che nella sua forma eterozigote si stima colpisca in Italia circa 250mila individui e condiziona il 50% di probabilità di trasmissione alla prole. Va tutta-via rilevato che meno dell’1% di questi pazienti viene correttamente diagnosticato e risulta di conseguenza esposto a un rischio di 20 volte più elevato di sviluppa-

re malattie cardiovascolari precoci.Si dovrebbe perciò quantificare l’impatto di questo scenario e valutare come le nuove strategie di tratta-mento potrebbero ridurre le implicazioni sociosanita-rie della malattia aterosclerotica nei pazienti a rischio. “A tale scopo è stato condotto uno studio utilizzando come modello di riferimento il database della Regione Marche relativamente a prescrizioni farmaceutiche, prestazioni assistenziali specialistiche e ricoveri ospe-dalieri, e ottenendo da qui una proiezione naziona-le” ha osservato Francesco Mennini, Professore di Economia Sanitaria presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. “Ne è emerso che considerando i costi di tutte le ospedalizzazioni per cause cerebro- e cardiovascolari in pazienti affetti da ipercolesterole-mia, la spesa sanitaria supera il miliardo di euro, a cui si aggiungono ulteriori 31,6 milioni di euro per i tratta-menti farmacologici e 9,3 milioni per le spese connes-se ad assistenza specialistica ambulatoriale, correlata alla patologia. L’impatto dell’ipercolesterolemia sul servizio sanitario nazionale può dunque essere quan-tificato in 1,14 miliardi di euro, a cui si aggiungono i costi indiretti relativi alla perdita di produttività e quelli a carico del sistema previdenziale”.

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Ipercolesterolemia: stato del controllo in ItaliaPer ipercolesterolemia lo stato del controllo è ben lungidall’essere adeguato, dato che:- circa il 40% delle persone affette da ipercolesterolemia non è consapevole (ca. 4,6 milioni)- quelli trattati adeguatamente sono solo il 24% degli uomini e il 17% delle donne (ca. 2,3 milioni in totale).

6,39,6

42,5

41,6

Consapevoli non trattati

Non consapevoli

Adeguatamente trattati

Non adeguatamente trattati

5,513,5

38,4

42,6

4

24

39,2

32,8

Uomini ipercolesterolemici

Donne ipercolesterolemiche3,4

17,2

42,1

47,3

Fonti: il progetto Cuore,Centro Nazionale di Epidemiologia,Prevenzione e Promozionedella Salute - Istituto Superioredi Sanità Roma

In Italia la cardiopatia ischemica si configurainoltre come la seconda causa di anni divita sana perduti.

Il valore di tutti gli anni di vita sana perduti per disabilità (DALY) a causa delle cardiopatie ischemiche supera nel 2013il valore di 1,2 milioni di anni, rappresentando il 7,13%della totalità dei DALY.

Prime 10 cause di anni di vita sanaperduti per disabilità (DALY) in Italia, 2013

Fonte: The European House Ambrosetti, Lo scenario delle cardiopatie ischemiche:focus sull’ipercolesterolemia, 2016

Disorders of the back and neckAlzheimer’s diseaseCerebrovascular diseasesAccidentsMigraine

Coronary hearth diseaseDisease of the sense organsLung CancerDepressive disordersCOPD

10,60%

7,13%

4,85%4,45%

4,19%

3,59%

3,38%

3,14%

2,93%2,53%

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L’innovazione può guidare la prevenzione “Ad personam”?Se posta a confronto con Germania e Regno Unito l’Ita-lia spende pro capite rispettivamente il 51% e il 13% in meno per la sanità, alla quale destina il 7,1% del Prodotto Interno Lordo (PIL) contro l’8-9% degli altri paesi. In una proiezione futura le previsioni di cresci-ta del PIL, grandezza macroeconomica di riferimento per ogni paese, sono decisamente modeste: appare quindi inevitabile un’accentuazione del divario nella spesa pro capite per la sanità (le previsioni suggerisco-no che salirà al 61% e al 24% nei confronti di Germania e Regno Unito). In altri termini possiamo immagina-re che lo scenario non sarà molto diverso da quello attuale: a un assetto demografico caratterizzato da un allungamento continuo della vita media si accom-pagnerà tuttavia un peggioramento delle condizioni di vita in buona dovuto all’incremento delle patolo-gie croniche e di malattie nella popolazione anziana, che determineranno costi progressivamente crescenti con l’aumentare dell’età. Queste riflessioni portano a riconsiderare i due pilastri su cui si potrà (e dovrà) sviluppare la sanità: da un lato la prevenzione in tutte le sue forme e dall’altro l’innovazione, intesa come innovazione non soltanto organizzativa (cure territo-riali, modelli organizzativi di integrazione ospedale/territorio e continuità assistenziale), ma anche scienti-fico-tecnologica (nuove terapie e tecnologie). In questo contesto risulta importante:• condividere lo scenario delle patologie cardiova-

scolari e il relativo impatto economico nella realtà attuale e nella prospettiva futura;

• affermare la centralità della prevenzione e del controllo dei fattori di rischio della cardiopatia ische-mica (dall’educazione a stili di vita salutari agli inter-venti di prevenzione secondaria e terziaria);

• individuare approcci innovativi per l’organizzazio-ne e la gestione del percorso del paziente a elevato rischio di cardiopatia ischemica, che è la prima causa di morte nell’ambito delle patologie cardiovascola-ri e, avendo superato il valore di 1,2 milioni di anni, ha rappresentato nel 2013 il 7,13% della totalità dei DALY, ossia gli anni di vita sana perduti per disabilità.

Una formula che descrive la sostenibilità del sistema potrebbe essere così espressa:

P (Prevenzione) + I (Innovazione) = V (Valore)Prevenzione significa individuazione corretta dei pazienti, sulla base dei fattori predisponenti alle malattie cardiovascolari di ordine genetico e ambien-tale; l’Innovazione riguarda il trattamento, la diagnosi e gli assetti organizzativi di monitoraggio e gestione delle patologie; il Valore si estrinseca in un concetto di

guadagno di salute e soprattutto di revisione e riallo-cazione delle risorse disponibili.

La sostenibilità del sistema in una prospettiva europeaPrevenzione e innovazione non vanno però di moda e sono due tematiche costantemente ricorse dal nostro servizio sanitario con svariati tentativi. Il problema della spesa sanitaria e anche quella generata dalle ipercolesterolemie va considerato in una dimensione europea; poiché i margini di ritocco del nostro budget sanitario sono alquanto limitati dobbiamo predispor-ci a un cambiamento dei processi, favorire gli investi-menti in prevenzione e intervenire con aggiustamenti ragionati in modo da non dilatare in maniera espan-siva la spesa sanitaria. L’Unione Europea negli ultimi anni ha compreso che il futuro non è legato solo alla dimensione economica ma anche a elementi valo-riali, come i processi di cambiamento e innovazione sia attraverso l’innovazione tecnologica applicata ai percorsi di diagnosi e cura sia con lo sviluppo dei settori industriali che operano nell’ambito farmaceu-tico e più in generale nella produzione di benessere e salute. La sostenibilità del sistema, in uno scena-rio caratterizzato dall’aumento delle malattie croni-co-degenerative e dall’invecchiamento della popola-zione, impone dunque la capacità di saper coniugare sempre più i progressi scientifici nel mondo pubblico e privato con la rapidità di accesso dei pazienti ai trat-tamenti più innovativi ed efficaci. Potremo vincere questa scommessa a fronte di una collaborazione tra i paesi dell’Unione Europea nella ricerca e autorizza-zione dell’immissione nel mercato dei farmaci inno-vativi, sulla base di un maggior dialogo tra istituzioni, imprese industriali e sistemi assistenziali.Non è inoltre concepibile l’innovazione senza investi-menti: per questa ragione dobbiamo focalizzarci sui risparmi generati dall’introduzione dei farmaci inno-vativi, che non sono da considerare come una spesa aggiuntiva per il sistema sanitario, ma un guadagno in termini di vite salvate, riduzione dei costi assisten-ziali e prospettive di investimento in politiche sociali in un’ottica di trasparenza, obiettività, indipenden-za, correttezza delle procedure, collaborazione tra le singole parti istituzionali e capacità di governance di questi processi.

La patogenesi dell’aterosclerosi: cosa dice la scienzaL’opinione di Francesco Romeo, Presidente della Società Italiana di Cardiologia (SIC)La cardiopatia ischemica è una patologia complessa e multifattoriale, in quanto sostenuta in egual misura da

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fattori di rischio sia genetici sia ambientali (ipercole-sterolemia in primis, come documentato dallo studio INTERHEART, e, in ordine a seguire, fumo, diabete, ipertensione e obesità).Malgrado i buoni risultati ottenuti negli ultimi 30 anni oggi si osserva purtroppo un’inversione di tendenza verso un aumento della mortalità. L’ipercolesterolemia, in particolare, condiziona un rischio di 3,6 volte di sviluppare coronaropatia rispetto alla popolazione sana, è anch’essa in aumento ed è una condizione subdola e spesso sottovalutata, essendo asintomatica fino allo sviluppo di complicanze.Alla luce di queste considerazioni appare dunque chiaro che una prevenzione efficace presuppone una conoscenza analitica delle dinamiche fisiopatologi-che per cui livelli elevati di colesterolo determinano una maggiore probabilità di eventi cardiovascolari. A tale riguardo la ricerca ha richiamato l’attenzione sulla variabilità dell’espressione fenotipica e sul ruolo cardine della suscettibilità. La chiave interpretati-va risiede nei polimorfismi del recettore LOX-1, una proteina di membrana fortemente espressa nelle lesioni aterosclerotiche che possiede una forte attivi-tà nel legare, internalizzare e favorire la degradazione proteolitica delle LDL ossidate, promuovendo disfun-zione endoteliale (e dunque riduzione della sintesi di ossido nitrico) e aumento dell’apoptosi delle cellule endoteliali. Il colesterolo ossidato, una volta penetra-to nel subendotelio, viene captato dai leucociti che si trasformano in macrofagi attivati per poi diventare cellule schiumose (“foam cells”) che rilasciano citochi-ne infiammatorie. Va osservato che il colesterolo ossi-dato non soltanto viene riconosciuto come antigene non self dall’immunità innata ma, con l’intervento delle cellule dendritiche, coinvolge anche l’immunità adat-tativa, mediata dai linfociti T dalla cui risposta, geneti-camente determinata, può configurarsi un quadro di infiammazione acuta, spesso associato a eventi quali angina o infarto miocardico, oppure di infiammazione cronica, caratterizzata da una placca aterosclerotica stabile. Il raggiungimento e il mantenimento di livelli target (tra i 70 e i 90 mg/dl, ma anche meno, secondo la logica “the lower the better”) è la strategia che può fare la differenza nella prevenzione, che può arrivare a incidere per il 60% sulla mortalità, e richiede la scelta e l’adattamento delle opzioni terapeutiche più efficaci nel singolo paziente.

Colesterolo e rischio cardiovascolare: il documento di consenso ANMCO. Il parere di Massimo Michele Gulizia, Presidente ANMCODa poco ultimato e trasmesso al Ministro della Salute e all’AIFA, il Documento di Consensus Intersocietario tra ANMCO (Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri), Istituto Superiore di Sanità e altre 16 società scientifiche dal titolo “Colesterolo e rischio cardiovascolare: percorso diagnostico e terapeutico in Italia” si propone come il primo documento di orien-tamento governativo che, in maniera univoca e condi-visa tra tutti gli specialisti che curano pazienti affetti da malattie cardiovascolari associate a ipercolestero-lemia, permette di identificare le categorie di soggetti a rischio e proporre il percorso diagnostico e terapeu-tico che il paziente con ipercolesterolemia deve asso-lutamente raggiungere in Italia.Si tratta di un lavoro complesso che ha analizzato il ruolo dell’ipercolesterolemia nella genesi della malat-tia cardiovascolare aterosclerotica, con particolare attenzione ai livelli individuali di rischio cardiovasco-lare e ai provvedimenti terapeutici potenzialmente efficaci per ridurre l’ipercolesterolemia e conseguen-temente il rischio cardiovascolare: dalla dieta al movi-mento aerobico, dalla riduzione dei fattori di rischio alla terapia con le statine e con gli inibitori del rias-sorbimento del colesterolo (ezetimibe), fino alla nuova classe di farmaci inibitori della proteina PCSK9, regola-trice del riassorbimento e della degradazione del cole-sterolo LDL, che rappresentano l’ultima innovazione terapeutica per contrastare in modo efficace l’ipercole-sterolemia dei soggetti con forme resistenti agli attuali trattamenti ad elevato rischio cardiovascolare, affetti da gravi forme familiari/non familiari e con intolleran-za o controindicazione alle statine (circa il 35%).L’approccio terapeutico sta forse gradualmente cambiando e denota una maggiore attenzione della classe medica all’ipercolesterolemia anche grazie a studi come l’IMPROVE-IT, pubblicato nel novem-bre 2014, che ha dimostrato come sia vincente la terapia intensiva promossa dalla Società Europea di Cardiologia per raggiungere il target di colesterole-mia di 70 mg/dl. Spetterà ora al governo la decisione in merito alla rimborsabilità del nuovo trattamento al fine di disporre di un intervento più efficace nel controllo dell’ipercolesterolemia in funzione della classe di rischio del singolo paziente. Un algoritmo per la diagnosi di FH che sembra essere accurato ed è stato adattato da numerose linee guida internazio-nali è quello basato sui criteri del Dutch Lipid Clinic Network (DLCN). Tuttavia va riconosciuto che i criteri

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diagnostici della nota 13 sono preferibili per la loro semplicità e il valore normativo insito nelle stesse indicazioni regolatorie dell’AIFA. Per fare un esempio, nel momento in cui le statine, che sono i farmaci di maggiore utilizzo ed efficacia nel trattamento della ipercolesterolemia, sono divenuti farmaci generici e quindi il loro costo si è ridotto in maniera considerevo-le, esistono ancora delle note AIFA che limitano l’utiliz-zo estensivo di alcune di esse. Tutto questo si traduce in un maggiore rischio cardiovascolare e, in definitiva, in un aumento dei costi diretti e indiretti, perché un soggetto che ha un infarto costa alla comunità molto di più della prevenzione.

Gli obiettivi per il futuroNumeri, percentuali e soprattutto oneri relativi all’i-percolesterolemia che richiedono attenzione e l’attiva-zione di una serie di azioni e decise scelte di politica

sanitaria, partendo da alcune considerazioni di base:- concordare sullo scenario generale delle patologie

cardiovascolari e sugli impatti economici presenti e soprattutto futuri;

- ribadire la centralità della prevenzione e del control-lo dei fattori di rischio delle cardiopatie ischemiche (stili di vita, interventi di prevenzione secondaria e terziaria)

- identificare metodi innovativi per l’organizzazione e la governance dei processi e per la gestione del paziente ad elevato rischio di cardiopatia ischemica.

Il tutto sotto l’ombrello di una considerazione che deve essere alla base della sostenibilità del sistema sanitario: l’investimento in prevenzione e innovazione genera valore. Tutelare lo stato di salute della popola-zione migliorando le prestazioni del servizio sanitario non potrà che essere il presupposto per una maggiore sostenibilità e crescita economica in futuro.

L’innovazione nel trattamento delle ipercolesterolemie

Una nuova classe di medicinali, anche nei casi più complessi, potrebbe consentire di ridurre i valori di colesterolo al target desiderato nei pazienti ad elevato rischio. Si tratta di anticorpi monoclonali che agiscono su una specifica proteina chiamata PCSK9. Essa regola i livelli di colesterolo LDL circolante in quanto si lega ai recettori specifici per queste proteine, causandone la degradazione. La conseguenza è una minore disponi-bilità di recettori per le LDL sulle cellule del fegato, che hanno il compito di legarsi al colesterolo cattivo trasci-nandolo fuori dal sangue. I farmaci in questione agiscono proprio inibendo l’azione della proteina PCSK9, aumen-tando quindi i possibili “punti d’attacco” delle molecole di colesterolo LDL che sono presenti nel sangue e favo-rendo quindi l’accaparramento da parte delle cellule del fegato, che provvedono a eliminare il grasso.

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Possibili sistemi di governance dell’appropriatezza dei nuovi inibitori di PCSK9 individuati dal panel di esperti della Consensus

1. Prescrizione limitata agli specialisti (cardiologo, interni-sta, lipidologo)

2. Istituzione di un registro web di semplice compilazione per valutare l’appropriatezza prescrittiva e l’efficacia/sicurezza del trattamento nei primi 6 mesi di utilizzo (il registro deve avere durata limitata, non più di 2 anni, o fino alla disponibilità dei dati su eventi clinici)

3. Popolazione target:(a) FH (utilizzando lo score per la definizione di proba-

bilità della malattia);(b) pazienti a rischio molto elevato non a target per

C-LDL con una terapia ottimizzata di riduzione del C-LDL;

(c) pazienti a rischio molto elevato, dopo la prima reci-diva;

(d) meccanismo di price-volume nel caso in cui le previsioni relative alla dimensione della popolazio-ne target venissero superate;

(e) dispensazione farmaceutica per conto

Punteggio

Storia familiare

Parenti di primo grado con CHD premature (<55 anni negli uomini, <60 anni nelle donne)oParenti di primo grado con colesterolo >8 mmol/l (±310 mg/dl) (o >95° percentile)

1

Parenti di primo gradocon xantomi tendinei e/o arco cornealeoFigli <18 anni con colesterolo >6 mmol/l (±230 mg/dl) (o >95° percentile)

2

Storia clinica

Soggetto con CHD prematura (<55 anni negli uomini; <60 anni nelle donne) 2

Soggetto con malattia vascolare cerebrale o periferica prematura (<55 anni negli uomini; <60 anni nelle donne)

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Esame obiettivo

Xantoma tendineo 6

Arco corneale in un soggetto con <45 anni 4

Livelli ematici di colesterolo LDL

>325 mg/dl 8

251-325 mg/dl 5

191-250 mg/dl 3

155-190 mg/dl 1

Mutazione causative nota nei geni 8

Stratificazione Punteggiototale

Diagnosi FH certa ±8

Diagnosi FH probabile 6-7

Diagnosi FH possibile 3-5

Diagnosi FH improbabile 0-2

CHD, malattia coronarica; FH, ipercolesterolemia familiare; LDL, lipoproteina a bassa densità.

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Come cambia la tutela dei diritti dei pazienti

LE GEOMETRIE VARIABILI DELL’ADVOCACY IN SANITÀ

Stefano A. Inglese*

Raccontare come sta evolvendo il profilo delle organizzazioni di tutela in Europa, con un occhio all’Italia, è alquanto complicato. La ricchezza della materia, il peso del contesto e la sua fluidità richiedono un approc-cio quanto meno prudente. Tuttavia, alcuni elementi, inevitabilmente filtra-ti attraverso la lente del background di chi scrive, possono essere isolati. Storicamente, nel contesto europeo siamo stati abituati a misurarci, nell’ambito dell’advocacy in sanità, con soggetti molto forti e riconosciu-ti, che si occupano prevalentemen-te della tutela di pazienti e familiari colpiti da una particolare patologia, le cosiddette single issue organiza-tion. Al contrario di quanto è acca-duto nel nostro Paese, nel quale le organizzazioni più forti e consolida-te sono generaliste. Questo quadro trova conferma ancora oggi, per grandi linee, nella gran parte dei Paesi europei, con qualche cambiamento per l’Italia.

Un presidio importante nel territorioSe il ruolo delle sue organizzazioni storiche resta, infatti, indiscutibile, si registra anche qui da noi la crescita non irrilevante del peso delle organiz-zazioni monotematiche (riguardanti, per esempio, la tutela dei pazienti con Parkinson, Alzheimer, epilessia, SLA, solo per citare alcuni esempi). La presenza di queste organizzazioni si è sviluppata significativamente a livello territoriale, dove esercitano piena-mente le loro funzioni di supporto a pazienti e familiari. È a questo livello,

per lo più, che esse si sono trasforma-te in una fonte insostituibile di compe-tenze nei confronti dei singoli così come delle strutture del Servizio sani-tario. C’è in questa crescita il segnale evidente del riconoscimento delle funzioni svolte, di aiuto, supporto e sostegno, ma anche tutto il bisogno di condivisione, di appartenenza, di non isolamento che derivano dalla fragi-lità alla quale espone una patologia, per la sua gravità o per la sua rarità. Il mondo, vastissimo, e con esigenze mutate e crescenti, delle patologie croniche e rare è stato il serbatoio che ha alimentato, in gran parte, questa tendenza. Cambia di volta in volta lo strumentario di riferimento, in rela-zione alla storia della organizzazione e ai bisogni ai quali cerca di garantire risposte. Ma, nel complesso, si tratta di un mondo caratterizzato da un tratto omogeneo, il riconoscimento da parte di pazienti e familiari, così come delle Istituzioni ai diversi livelli, della sua utilità. Queste organizzazioni, nate per garantire a pazienti e a familiari risposte concrete a bisogni altrettan-to concreti e quotidiani, arrivano alla relazione con i decisori, generalmen-te, dopo aver maturato sul campo la consapevolezza che alcune risposte possono essere trovate solo attraver-so la relazione diretta con le diverse sedi decisionali.

Verso una tendenza federativa nel Vecchio ContinenteL’Europa, che ci ha abituati alla forza delle single issue organization, pur conservando questo tratto distinti-vo sembra orientarsi a un percorso inverso, con processi di aggregazio-

ne che senza cancellare le specificità delle competenze sulle singole patolo-gie avvicinano queste organizzazioni a questioni e problematiche di carat-tere più generale. Così sono nati una serie di soggetti federativi, per macro area di riferimento (malattie neuro-logiche, autoimmuni, cardiologiche, ecc.), trasversali, o ispirati comunque a forme che valorizzano i benefici della appartenenza a reti. La possi-bilità di usufruire di servizi comuni, per esempio attività formative, così come l’accesso a partnership assai più estese e la maggiore visibilità e forza di un soggetto collettivo, soprattutto nel policy making, sono gli argomen-ti più utilizzati da un marketing che riscuote un successo crescente. Ma l’argomento più convincente a soste-gno di questa tendenza risiede nella esperienza, maturata dalle organizza-zioni più piccole, dello scarso rilievo rivestito nei processi di policy making e nel rapporto con le Istituzioni, al di là di dichiarazioni di principio in favore della uguaglianza di accesso a queste istanze per tutti. E nella consapevolez-za di dover contrastare un fenomeno per cui, paradossalmente, l’apertura a tutti del confronto sulle decisioni rischia di rendere più forte chi è già forte, e più debole chi è piccolo.E in Italia? Anche da noi si sono svilup-pati, via via, alcuni soggetti di tipo federativo, o aggregazioni tematiche per aree di riferimento. Ma l’investi-mento da parte delle singole organiz-zazioni appare ancora decisamente inadeguato, tanto rispetto ad obiettivi e mission dichiarati che, soprattutto, a ciò di cui avremmo effettivamente bisogno.

* Componente del Consiglio Direttivo Associazione Italiana Malattia di Alzheimer

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IL VALORE DELLA PHARMATRASPARENZA

Federico Mereta, Marco Polcari

Il 30 giugno è scattata l’ora X. Le aziende farmaceutiche hanno resi noti i trasferimenti di valore effet-tuate nei confronti dei medici. In questo modo i rapporti tra i professionisti sanitari e le imprese del farmaco diventano pubblici e liberamente consultabili, in quella che è stata definita “Operazione Disclosure”. Cosa cambia? Il codice che regola questa situazione impone a tutte le aziende che fanno parte della Federazione europea delle industrie farmaceutiche (Efpia) e a quante fanno parte di associazioni che ad essa aderiscono di rivelare i trasfe-rimenti di valore a operatori e orga-nizzazioni sanitarie. Le società farmaceutiche devono rivelare i nomi degli operatori sani-tari e delle organizzazioni che hanno ricevuto pagamenti o altri trasfe-rimenti di valore da loro. Inoltre, hanno l’obbligo di rendere noti gli importi totali per tipo di attività, che potrebbero consistere, ad esempio, in una borsa di studio, in una `fee´ per una relazione a un convegno, nel pagamento di un viaggio o nelle tasse di registrazione per parteci-pare a un congresso di formazione medica. I dati disponibili sono rela-tivi ai pagamenti effettuati nel 2015. Le informazioni possono essere visionate in Italia sul sito web delle diverse società o, in alcuni Paesi, su un portale che aggrega le informa-zioni relative ad aziende diverse.Secondo Efpia, il codice permette di rilevare pubblicamente la collabora-zione tra l’industria e gli operatori sanitari a beneficio dei pazienti. Il valore di questo rapporto è mostra-to dai passi avanti che la medicina

ha compiuto grazie all’interazione tra esperti del settore e industria, sotto forma di farmaci resi disponi-bili negli ultimi anni.

Una tipologia di rapporti molto variegataL’industria e gli operatori sanitari collaborano in una serie di attivi-tà di ricerca clinica, di condivisione delle migliori pratiche cliniche e di scambio di informazioni su come le nuove medicine si devono adattare al percorso del paziente. Sia chiaro: la lista dei rapporti tra medici (e vanno considerate anche le organiz-zazioni sanitarie, come le Università o le Asl) e industria comprende rela-zioni di tipo diverso.Si va dalla ricerca, considerata negli studi clinici, fino ai cosiddetti “Investigator Meeting” per giungere fino alle informazioni sulla farma-covigilanza. La situazione è quindi estremamente variegata, anche

considerando che i medici che non avranno acconsentito a rilasciare il permesso relativo alla propria privacy saranno compresi in una lista aggregata ed anonima in cui saranno compresi i trasferimenti di valore, ovviamente non identificabili in chiave personale.Questo è forse il punto più debole dell’intera “operazione traspa-renza”. Scrive Michele Musso sul portale HealthDesk. “La normativa sulla privacy, infatti, impone alle imprese di acquisire preventiva-mente il consenso del professio-nista per poter rendere pubblici i rapporti (anche) economici che con lui ha avuto. Se il consenso viene negato, le singole aziende dovranno pubbli-care i dati sui propri siti in forma aggregata, cioè indicando il numero dei professionisti che non hanno dato il consenso e il totale dei contributi elargiti. In questo caso

Quali dati sono pubblici?

I dati relativi ai medici, pubblicati nel pieno rispetto della normativa italia-na sulla privacy, riguarderanno i singoli professionisti che hanno f rmato il consenso e, in forma aggregata, tutti gli altri.

La collaborazione tra imprese del farmaco e medici, già da tempo molto ben regolata, si articola in diversi ambiti di attività:

1. ricerca e sviluppo di nuovi farmaci attraverso gli studi clinici svolti negli ospedali, nelle università e nelle strutture sanitarie pubbliche e private;

2. consulenze scientif che;3. seminari e convegni scientif ci, che offrono informazione e aggiorna-

mento;4. supporto ai congressi e corsi ECM (Educazione continua in medicina)

organizzati da strutture pubbliche, università, società scientif che e provider accreditati ECM.

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sarà pertanto impossibile distingue-re un finanziamento dall’altro e a chi è stato dato”.Insomma: un passo avanti verso l’obiettivo trasparenza è sicura-mente stato fatto. La cosa impor-tante sarà comprendere quanto questo possa essere migliorato.

Rileva ancora Musso che occor-rerà comprendere ad esempio “se l’acquisizione del consenso verrà chiesto di volta in volta per ogni singolo evento oppure per l’intero anno di riferimento; sono procedu-re che possono non essere “neutre” rispetto al risultato finale”. Le asso-

ciazioni, da Farmindustria all’Ordine Nazionale dei Medici e degli odonto-iatri, sposano in pieno la linea della trasparenza. Occorrerà capire come questa dichiarazione d’intenti sarà poi effettivamente seguita da un percorso che consenta di compren-dere appieno quanto accade.

Paolo ZambonardiManaging Director Ferring

Francesco Di MarcoAmministratore Delegato Amgen

L’interazione tra comunità medi-co-scientifica e aziende farmaceu-tiche è stata sicuramente gene-ratrice, negli ultimi anni, di forte accelerazione per quanto riguarda l’innovazione. Quanto il codice di trasparenza potrà comprimere o scoraggiare questo tipo di colla-borazione e, se sì o no, per quale ragione?

La mia convinzione è che coloro che già hanno collaborato con serietà e con orientamento scientifico con l’in-dustria del farmaco, siano essi istituti universitari, strutture ospedaliere o singoli professionisti, continueranno a farlo anche in futuro nella consapevo-lezza che avere rapporti professionali all’insegnaì della trasparenza non può che portare positività a tutto il com-parto.Come imprese siamo convinti che questa nuova disciplina possa favorire e rafforzare la collaborazione tra pub-blico e privato.Potranno certamente verificarsi casi, io credo rari, di riluttanza verso queste nuove regole per motivi di riservatez-za, ma coloro che vedono la propria collaborazione in chiave di contribu-to all’innovazione hanno in genere rapporti con le multinazionali già da tempo basati su questi nuovi principi di trasparenza. Del resto, quello della trasparenza è ormai un elemento irri-nunciabile del nostro settore, in Italia e all’estero, e non potrà che produrre benefici e vantaggi per tutti.

L’adozione in Italia del Codice di Auto-regolamentazione di EFPIA è stata una straordinaria opportunità per tutto il comparto farmaceutico di rafforzare il vincolo fiduciario con i suoi interlo-cutori e far finalmente comprendere, anche ai cittadini e ai pazienti, che non vi è nulla da nascondere nei rapporti tra industria e personale sanitario. Am-gen ha ottenuto una percentuale di consensi del 90%, un tasso che spicca rispetto alla media italiana del 70% e anche rispetto alle altre affiliate euro-pee della nostra Azienda.Un consenso così elevato è indicativo del fatto che i medici italiani hanno colto pienamente il senso di questa importante operazione di trasparenza e l’hanno sposata senza incertezze. Questo ovviamente mi fa ben sperare.Sono convinto che tutto ciò che aiuta a lavorare in modo trasparente incen-tivi lo scambio di sapere necessario tra industria e medici e contribuisca ad accelerare quell’innovazione farmaco-logica che è fondamentale per combat-tere malattie una volta incurabili. Non dobbiamo sottovalutare il valore della formazione, a cui Amgen ha destinato nel 2015 4,8 milioni di euro; questi mo-menti di aggiornamento sono vitali per il progresso delle cure perché i medici acquisiscono importanti informazioni che possono migliorare l’appropriatez-za prescrittiva, e quindi la qualità della cura del paziente. Dall’altro noi, come azienda, ricaviamo una serie di infor-mazioni che derivano dall’esperienza clinica dei medici che sono fondamen-tali per il corretto sviluppo e utilizzo delle terapie. Tutto ciò si è sempre svolto in linea con i codici e le norma-tive che regolano il nostro settore, ed è in questo solco che si inserisce il Co-dice EFPIA, a cui le industrie farmaceu-tiche italiane hanno volontariamente aderito.

IL PUNTO DI VISTA DEL PHARMA

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I PRIMI DATI DELL’OPERAZIONE DISCLOSURE RELATIVI ALL’ANNO 2015Il 70% dei medici hanno espresso il proprio consenso

AMGENIl 90% dei medici hanno espresso il proprio consenso5,9 milioni di euro in R&D1,8 milioni di euro per consulenze ad operatori sanitari

PFIZERIl 90% dei medici hanno espresso il proprio consenso5 milioni di euro in R&D1,2 milioni di euro per consulenze ad operatori sanitari

SANOFIOltre il 70% dei medici hanno espresso il proprio consenso4,6 milioni di euro in R&D7 milioni di euro per ricerca farmacologica, informazione e aggiornamento dei medici

Qual è l’opinione sua e della sua azienda rispetto al fatto che nel caso i medici non dovessero ac-consentire a render noti i dati che li riguardano, questi ultimi con-fluiranno in una lista aggregata e anonima che lascia spazio ad aree grigie?

Premesso che EFPIA e Farmindustria non possono imporre alle singole aziende di adottare provvedimenti specifici, penso che molte aziende possano definire l’adesione al codice come conditio sine qua non per con-cedere collaborazioni e, in questo sen-so, ci sono già chiari segnali di orien-tamento.

Nel nostro caso, solo un numero mar-ginale di medici ha preferito non sigla-re il consenso alla pubblicazione dei dati. È stata una scelta individuale che rispetto, ma non condivido.In generale, penso che un individuo abbia il diritto di scegliere se vuole rendere pubblico un dato personale, come d’altronde prevede la legge sulla privacy, senza che questa cosa sia vi-sta necessariamente come il tentativo di nascondere qualcosa. Le lancio una piccola provocazione che, però, vuole essere uno spunto di riflessione: nel nostro rapporto sono circa 150 i me-dici che hanno negato il loro consen-so per valori che corrispondono a 280 mila euro. Crediamo veramente che si annidino funeste aree grigie di corru-zione in importi di questo tipo?

Questa operazione disclosure è a suo avviso perfettibile rispetto ai punti che ancora restano da chia-rire, e come?

Credo che il passo successivo sia quel-lo di abolire il contenitore di dati ag-gregati relativo a coloro che rifiutano la disclosure e di estenderlo anche alle attività di ricerca che, fino ad oggi, sono disponibili solo in forma aggre-gata. Sicuramente, siamo in una fase di transizione e, come in tutte le cose nuove, all’inizio serve un po’ di rodag-gio per trovare nuovi equilibri. Sono, però, fiducioso che le cose si asseste-ranno e che tutto il comparto ne trar-rà beneficio

Il Codice di Autoregolamentazione di EFPIA è un’operazione di valore e il sistema industriale e scientifico lo sta metabolizzando bene. A livello della Federazione Europea si sta discutendo se rendere la trasparenza un obbli-go, come avviene negli Stati Uniti e in Francia. A me piace pensare che una trasparenza che si basa su una coer-cizione abbia un valore minore nel percorso di costruzione di una fiducia collettiva. Ritengo sia di gran lunga pre-feribile lavorare sul consenso.Amgen, in questi anni, si è molto ado-perata per stabilire con la comunità scientifica un rapporto basato su va-lori condivisi e sul rispetto delle nor-me. Continueremo su questa strada, e spiegheremo ancora di più ai medici incerti perché per noi è fondamentale adottare politiche come quelle del Co-dice di Autoregolamentazione di EFPIA.

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Secondo l’Institute for Health Metrics and Evaluation (2013), in Europa le malattie non trasmissibili, quali le patologie cardiovascolari, i tumori, i problemi di salute mentale, il diabete mellito, le malattie respirato-rie croniche e le patologie muscolo-scheletriche, sono responsabili della stragrande maggioranza delle morti e della spesa sanitaria. Tra queste, le malattie cardiovasco-lari costituiscono la principale causa di decessi e sono responsabili di circa la metà di tutte le morti in Europa. Le malattie del cuore e gli ictus rappresentano, altresì, la principale causa di morte nei 52 stati membri dell’Unio-ne Europea. A causa dell’invecchiamento della popola-zione, si stima che nel 2030 ci saranno ben 25 milioni di persone che moriranno per cause cardiovascolari e circa 13 milioni per tumori.Relativamente all’Europa, circa il 60% del peso imposto da queste malattie in termini di DALY (Disability Adjusted Life Years) può essere attribuito a sette prin-cipali fattori di rischio: pressione alta (12,8%), fumo (12,3%), alcool (10,1%), livelli alti di colesterolo (8,7%), sovrappeso (7,8%), ridotta assunzione di frutta e verdura (4,4%) e scarsa attività fisica (3,5%). Un altro aspetto importante è che i fattori di rischio spesso si sommano tra di loro: ad esempio, il diabete si somma alla lista dei fattori di rischio nel caso delle malattie cardiovascolari.A livello globale, circa l’80% degli anziani sono affetti da almeno una malattia cronica, e il 50% ha due o più malattie croniche (ad esempio malattie cardiovascolari, ictus, cancro o diabete di tipo 2). Questi problemi sono poi aggravati dalla attuale epidemia di obesità, in cui l’eccessiva adiposità è associata all’aumento del rischio di sviluppare diabete di tipo II, malattie cardiovascolari, tumori e, più in generale, disabilità.

L’epidemia di obesitàSin dal XVIII secolo la popolazione mondiale ha fatto registrare, come effetto di un trend di miglioramento

delle condizioni di vita, reddito e istruzione, incrementi sia in termini di altezza che di peso. Questo andamento positivo è però degenerato nel momento in cui il peso ha cominciato a crescere troppo, rendendo la popolazione sovrappeso o obesa. La massima accelerazione del tasso di crescita dell’obesità si registra dal 1980, quando in alcuni paesi i tassi di obesità sono triplicati rispetto agli anni precedenti. Prima del 1980, i tassi di obesità nei paesi OCSE erano stabili intorno al 10%, mentre oggi, in più della metà dei paesi OCSE, oltre il 50% della popolazione è sovrappeso o obesa. Oggi, sovrappeso e obesità rappresentano uno dei più importanti problemi di sanità pubblica, che coinvolgono tanto lo stato di salute dei singoli individui, quanto i conti pubblici. L’obesità rappresenta uno dei maggiori fattori di rischio per una vasta gamma di malattie croniche e incide, facendoli aumentare, sui tassi di morbilità e mortalità.In termini clinici, l’essere obeso equivale a un processo d’invecchiamento dell’organismo umano. È stato dimo-strato che un maschio giovane gravemente obeso può maturare un’anticipazione del decesso di circa 13 anni.Inoltre, le problematiche legate all’obesità portanoa una qualità della vita decisamente inferiore. Numerosi studi indicano che il peso corporeo è positivamente correlato con più alti tassi di disabilità. In alcuni paesi Europei, la probabilità di raggiungere una condizione di disabilità è quasi due volte maggiore tra le persone obese rispetto a quelle normopeso. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che i fenomeni di sovrappeso e obesità siano responsabili di una perdita compresa tra l’8 ed il 15% dei DALYs in Europa e negli Stati Uniti.I tassi di obesità variano molto nel mondo, con gli Stati Uniti, il Messico, la Cina e la Gran Bretagna che rappre-sentano alcuni degli esempi più clamorosi. Inoltre, l’incidenza dell’obesità sembra essere molto diversa in termini di sesso, stato socio-economico e provenienza etnica dei malati. Il più importante nesso, sottolineato in numerosi studi, è quello tra l’obesità e le condizio-ni socio-economiche, soprattutto nei paesi sviluppati.

OBESITÀ E POLITICHE DI PREVENZIONE: COSA SI È FATTO E SI PUÒ FARE

Vincenzo Atella

L’obesità è uno dei maggiori fattori di rischio per numerose malattie croniche e incide sui

tassi di mortalità – Il 55,6% degli uomini e il 36,8% delle donne in Italia sono in eccesso di

peso – È necessario promuovere politiche incisive di prevenzione

Un problema di salute e di finanza pubblica

* Direttore CEIS Tor Vergata

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L’OCSE stima che più di un terzo degli stati membri presenta delle forti diseguaglianze sociali nei tassi di sovrappeso e obesi, in particolare nel caso delle donne e dei bambini. In generale, le persone obese hanno meno probabilità di far parte del mercato del lavoro, sia per scelta loro, che per i meccanismi discriminatori dei datori di lavoro. Inoltre, vari studi rilevano una penalizzazione in termini di salario, ma anche una minore produttività e un maggiore numero di assenze al lavoro da parte degli individui obesi.

L’obesità in italia: un problema in crescitaIl problema dell’obesità in Italia era pressoché inesisten-te fino a pochi decenni fa. Infatti, la dieta mediterranea e le corrette abitudini nutrizionali hanno sempre contrad-distinto gli italiani nel panorama internazionale. A ciò si aggiunga un sistema produttivo che richiedeva maggio-re attività fisica. Le ultime decadi hanno, però, portato importanti cambiamenti nelle abitudini degli italiani, con gli stili di vita che sono diventati sempre più sedentari e i cibi consumati più calorici. Negli ultimi vent’anni i tassi di obesità hanno subito un forte aumento. L’obesità Italiana è un fenomeno molto sottovalutato, specialmen-te in alcune realtà regionali.Le statistiche sulle prevalenze di obesi e sovrappeso in Italia sono rilevate da vari studi con metodologie diverse. Secondo l’ISTAT l’obesità tra gli adulti l’Italia si colloca nella parte più bassa della graduatoria tra i paesi Europei, ma il fenomeno è in aumento, soprattutto tra i maschi (da 8,7 % nel 2001 a 11,6% nel 2013). La quota di uomini e donne adulti in sovrappeso è molto più elevata e sostan-zialmente stabile nel tempo, ma la differenza tra uomini e donne è molto più pronunciata. Sono complessivamen-te in eccesso di peso il 55,6% degli uomini e il 36,8%

delle donne. Tali dati sono però soggettivi, riportati dagli individui, quindi probabilmente mal misurati, con una potenziale sottostima del reale BMI.Secondo gli ultimi dati rilasciati dall’indagine PASSI, in Italia più di quattro adulti su dieci sono o in sovrappeso o obesi, e un adulto su dieci è obeso. L’essere in eccesso ponderale è una caratteristica più frequente al crescere dell’età, fra gli uomini rispetto alle donne, fra le persone con molte difficoltà economiche e fra le persone con un basso livello di istruzione.Anche il gradiente geografico è chiaro e mostra quote crescenti di persone in sovrappeso o obese dal Nord al Sud Italia. Campania, Basilicata, Sicilia e Molise sono le regioni con la maggiore prevalenza di persone eccesso ponderale (circa 1 persona su 2) (Figura 1). Le analisi temporali non mostrano significativi cambia-menti nella quota di persone in eccesso ponderale; tutta-via questo è il risultato di differenti andamenti delle due componenti, soprappeso e obesità nelle tre ripartizio-ni geografiche: la quota di persone in sovrappeso non si modifica nel tempo e nello spazio, ma l’obesità si riduzione al Centro e aumenta, seppur solo nell’ultimo biennio, nel Sud Italia. Le persone in sovrappeso o obese sembrano essere poco consapevoli del loro stato di eccesso ponderale e non si percepiscono tali: fra le persone in sovrappeso solo la metà ritiene troppo alto il proprio peso corporeo; fra le persone obese c’è maggiore consapevolezza, tuttavia non è trascurabile il numero di persone (1 su 10) che ritiene il proprio peso non troppo alto. Generalmente le donne sono più consapevoli del problema rispetto agli uomini e l’essere consapevoli del proprio eccesso ponde-rale favorisce l’adesione alla dieta.

Eccesso ponderale per regione di residenza - Passi 2012 - 2015Figura 1

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L’obesità infantile in ItaliaUn discorso a parte merita il problema dell’obesità infantile. Secondo il Ministero della Salute, dal 2008 a oggi il numero di bambini di età tra 8 e 9 anni in sovrap-peso e diminuito leggermente, ma l’Italia resta ai primi posti d’Europa per l’eccesso ponderale infantile. Sono, però, ancora troppo frequenti tra i piccoli le abitudini alimentari scorrette, come pure i comportamenti seden-tari, anche se aumentano, sia pur di poco, i bambini che fanno attività fisica.Nel 2012 risulta che il 22,1% dei bambini di 8-9 anni è in sovrappeso rispetto al 23,2% del 2008/09 (-1,1%) e il 10,2% in condizioni di obesità, mentre nel 2008/09 lo era il 12% (-1,8%). Complessivamente, dunque, nel 2012 l’eccesso ponderale riguarda il 32,3% dei bambini della terza elementare (-2,9% rispetto alla prima rileva-zione). Le percentuali più elevate di sovrappeso e obesità si riscontrano nelle regioni del Centro-Sud: in Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Basilicata l’eccesso pondera-le riguarda più del 40% del campione, mentre Sardegna, Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige sono sotto il 25%.Circa il 50% degli adolescenti obesi con indici di massa corporea pari o superiore al 95° percentile tende a diven-tare un adulto obeso. Inoltre, i fattori di rischio per le malattie degli adulti che sono associati con l’obesità nei bambini e negli adolescenti persistono in età adulta o aumentano in termini di prevalenza se aumenta il peso. Questo è, ad esempio, il caso dei livelli di co-morbidità (oltre il 20 % dei bambini obesi rischiano di portare uno o più indicatori di rischio di co-morbidità) che hanno implicazioni significative per lo sviluppo dei servizi pediatrici in paesi dove l’obesità infantile è già molto diffusa o rischia di diventarlo.

Quanto costa l’obesità al SSN italianoData la dimensione e l’importanza del fenomeno per la sanità e la finanza pubblica in generale, il problema dell’obesità deve essere affrontato tempestivamente e con le modalità più efficaci possibili. L’esatta e traspa-rente quantificazione dei costi attribuibili al fenomeno dell’obesità è quindi indispensabile per elaborare effica-ci linee guida e per determinare gli interventi da appli-care in un’ottica di costo-efficacia. L’obesità rappresen-ta un grosso problema non solo per la salute dei singoli individui, ma anche per la finanza pubblica, in virtù della possibilità di avere sistemi sanitari finanziariamente sostenibili. Pertanto, lo studio delle conseguenze econo-miche dell’aumento dell’obesità è un argomento che di recente è stato analizzato da molti ricercatori.

La letteratura internazionale suggerisce che, a livello individuale, le persone obese generano un differenzia-le in termini di costi medici diretti che varia da paese a paese, ma non è mai inferiore al 25%. Relativamente all’Italia, il costo dell’obesità in Italia è in linea con le stime di altri studi condotti in altri Paesi, dimostrando che la spesa sanitaria totale dei sovrappeso è circa il 4% in più rispetto al individui di peso normale, mentre per gli obesi, i gravemente obesi e i molto gravemente obesi la spesa aumenta, rispettivamente, del 18%, 40% e il 51% rispetto ai normopeso.Per risolvere il problema dell’obesità in Italia sono necessarie politiche e strategie che non saranno neces-sariamente limitate a interventi nel settore sanitario. Al contrario, sarà necessario effettuare interventi che promuovano e consentano ai cittadini italiani di vivere una vita sana, attiva e indipendente sino a tarda età. Il nuovo paradigma dovrà quindi ambire a spostare risorse economiche e umane dalla cura delle malattie alla preven-zione. Questo imporrà di dover “re-ingegnerizzare” l’in-tero SSN, essendo essenziale formare una nuova classe di professionisti della salute preventiva e trasformare, mettendole in rete, le strutture già esistenti sul territo-rio (es. strutture sanitarie, scuole alberghiere, scuole primarie e secondarie, palestre pubbliche) per educare attivamente i cittadini alla tutela della propria salute. A scuola si dovrebbe insegnare a conoscere gli alimenti, a cucinare e alimentarsi in maniera sana ed equilibra-ta, a fare attività fisica in maniera corretta e regolare, e a evitare l’esposizione a sostanze nocive per la salute. Inoltre, potrebbe essere auspicabile introdurre sistemi di incentivi per i cittadini che mettono in pratica le strategie preventive (riducendo, ad esempio, la circonferenza vita e i fattori di rischio cardiovascolari e tumorali), favoren-do in tal modo comportamenti virtuosi.Sarà, però, necessaria una decisa inversione di tenden-za nell’allocazione dei fondi per la sanità in Italia, che con una quota inferiore all’1% della spesa complessiva, si colloca tra gli ultimi posti nella classifica dei Paesi OCSE per l’investimento in prevenzione. Aspettare che i cittadini, in seguito a anni di stili di vita poco salutari (es. eccessivo introito calorico e proteico, malnutrizione, vita sedentaria, alcol, fumo), si ammalino e si rechino in pronto soccorso o in ospedale è una strategia perdente e costosissima. È imperativo invertire la rotta e promuo-vere politiche incisive di prevenzione e promozione alla salute. È facile credere che questa strategia sia realizza-bile e sia vincente.

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PILL

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AMMODERNAMENTO OSPEDALI

MICROCITEMICO E ONCOLOGICO:

STANZIATI 14 MILIONI DI EURO

La Giunta regionale della Sardegna

ha stanziato circa 14 milioni di euro

per l’ammodernamento di tecnologie

e macchinari e per la riqualificazio-

ne dei locali di Medicina nucleare e

Radiologia dell’ospedale Businco e

delle strutture esistenti dell’ospedale

Microcitemico. “Con questa rimodu-

lazione rispettiamo gli obiettivi defi-

niti nell’ambito del processo di rior-

ganizzazione della rete ospedaliera

regionale: – ha spiegato l’assessore

Arru – si tratta di risorse del Fondo di

sviluppo e coesione 2007-2013 che

riguardavano i due ospedali allora in

capo alla Asl 8 e ora accorpati nell’A-

zienda Brotzu”.

UN PROGRAMMA PER

RILANCIARE LE DONAZIONI DI

SANGUE

Adozione di un adeguato piano di co-

municazione per sensibilizzare i nuovi

donatori, riorganizzazione delle reti

aziendali della raccolta del sangue,

estensione dell’orario di funziona-

mento anche al pomeriggio e nei gior-

ni festivi dei centri raccolta, poten-

ziamento dei servizi di chiamata dei

donatori e della rete dei mezzi mobili.

Son queste le misure che la Regione

Abruzzo ha deciso di mettere in atto

per rilanciare le donazioni di sangue.

In questa, come in altre regioni d’I-

talia infatti, dopo anni di crescita si è

registrato un certo rallentamento. Le

azioni sono state presentate dall’as-

sessore regionale alla Programma-

zione sanitaria, Silvio Paolucci, dal di-

rettore del Centro regionale sangue,

Pasquale Colamartino, dal direttore

del Dipartimento salute e welfare,

Angelo Muraglia, e da Stefania Mele-

na, dirigente del Servizio prevenzione

della Regione. I numeri del calo sono

presto detti: nel 2012 le donazioni

totali erano state 66.150, nel 2015

sono scese a 63.439, con una riduzio-

ne di circa il 4 per cento. Si è cercato

di compensare con le importazioni,

passate dalle 797 del 2012 alle 2.212

del 2015. “Eppure l’Abruzzo ha una

lunga esperienza e tradizione nella

donazione del sangue, ha sottolineato

Colamartino, e, ad esempio, il nostro

sistema di chiamata dei donatori è un

benchmark nazionale, preso a model-

lo da molte altre Regioni italiane”.

UNA CAMPAGNA SOCIALE PER LA

PREVENZIONE ODONTOIATRICA

Cure dentistiche, apparecchi e protesi

dentarie gratuiti per i meno abbienti

che risiedono in regione e avvio di una

massiccia campagna di prevenzione.

Ma anche potenziamento della rispo-

sta alle urgenze legate alle diagnosi

e cura delle malattie del cavo orale

con l’attivazione del Pronto soccorso

odontoiatrico in cinque sedi regionali.

Sono questi solo alcuni degli obiettivi

del programma di odontoiatria sociale

che l’amministrazione regionale friu-

lana metterà in atto, a partire dal 1°

settembre, grazie ad una apposita de-

libera approvata dalla Giunta. Come

spiegato dall’assessore Maria Sandra

Telesca, “questa norma va a definire

in maniera chiara le regole per le cure

dentistiche in Friuli Venezia Giulia

rendendo omogenee l’attività di pre-

venzione e di cura per i minori, miglio-

rando ed aumentando il servizio per

chi si trova in situazione di svantag-

gio”. L’obiettivo del progetto, coordi-

nato dalla Clinica Odontoiatrica e Sto-

matologica dell’Università di Trieste, è

quello di prendersi carico dei pazienti

vulnerabili sociali e sanitari e dei ra-

gazzi fino ai 14 anni e di intercettare

le malattie più diffuse, quali le carie e

la parodontite. Il programma di odon-

toiatria sociale erogherà due tipi di

prestazioni: le prime sono quelle che

devono essere assicurate dalle Azien-

de per l’assistenza sanitaria e dalle

Aziende sanitarie universitarie inte-

grate nell’ambito del finanziamento

annuale a loro garantito. Fanno parte

di questa categoria il Pronto soccor-

so odontoiatrico che, a regime, entro

il 1° gennaio 2017, verrà garantito in

cinque sedi regionali; le strutture sa-

ranno aperte al pubblico dal lunedì al

venerdì dalle 9 alle 16 e il sabato dalle

9 alle 13. Sempre in questo primo am-

bito di intervento vengono garantite

anche le prestazioni odontoiatriche

ai minori di età compresa tra 0 e 14

anni e sono comprese anche le visite

dedicate alla diagnosi precoce delle

neoplasie dal cavo orale, nonché le

prestazioni odontoiatriche a favore

dei pazienti con vulnerabilità sanitaria

o sociale. Rientra invece nella seconda

categoria, e rappresenta una novità

a livello regionale, l’estensione delle

prestazioni odontoiatriche a favore

di specifiche categorie di pazienti più

ampie di quanto previsto dalla norma-

PILLOLE REGIONALI A cura di Daniele Pallotta

Friuli Venezia Giulia

Sa

rdegna

Ab

ruzzo

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tiva nazionale: in particolare il tratta-

mento dei pazienti “non collaboranti”,

quelli affetti da patologie croniche che

non rientrerebbero nella vulnerabilità

sanitaria e gli interventi di chirurgia

orale. Per queste prestazioni sono

previste diverse partecipazioni alla

spesa. Si va dalla gratuità per coloro i

quali hanno un Isee minore o uguale a

6 mila euro al 100 per cento del valo-

re tariffario per chi invece supera i 25

mila euro. È prevista, inoltre, l’appli-

cazione degli apparecchi ortodontici

per i giovani fino ai 14 anni. Grande

attenzione, infine, sarà posta alla

prevenzione primaria, anche a livello

scolastico, vero caposaldo della salute

orale, con una campagna regionale in

collaborazione con la Commissione

degli Albi degli Odontoiatri regionali

ed i liberi professionisti del Friuli-Ve-

nezia Giulia.

INTERRUZIONE VOLONTARIA

DELLA GRAVIDANZA: SI

SPERIMENTA UN MODELLO

ASSISTENZIALE DISTRETTUALE

La Regione Marche sperimenterà un

modello assistenziale di interruzione

volontaria farmacologica della gravi-

danza (IVG) - simile a quello delle Re-

gioni Piemonte, Emilia Romagna, To-

scana e Umbria – privilegiando il day

hospital rispetto al ricovero ordinario,

ma con una maggiore integrazione

con il territorio attraverso il coinvolgi-

mento la valorizzazione e dei Consul-

tori. Il percorso di interruzione pre-

vede un primo accesso al Consultorio

familiare per confermare la gravidan-

za, verificare i criteri di ammissione e

l’assenza di controindicazioni al trat-

tamento farmacologico con la RU486,

prenotare il day hospital e prendere in

carico la paziente anche dal punto di

vista psicologico. Successivamente, al

primo accesso, viene aperta la cartella

clinica e si procede alla somministra-

zione del farmaco con le prescrizioni,

le informative e le segnalazioni neces-

sarie. A distanza di 48 ore viene pro-

grammato un secondo accesso, con

visita ecografica per valutare se l’a-

borto è stato completato (con conse-

guente dimissione) o non avvenuto (in

questo caso si procede alla seconda

somministrazione del farmaco). Dopo

due settimane è previsto il secondo

accesso al Consultorio familiare dove

verrà effettuata la visita di controllo

e l’ecografia per verificare la comple-

tezza dell’aborto o, in caso di aborto

incompleto, verrà programmato il

successivo percorso chirurgico presso

il presidio ospedaliero di riferimento.

Con la nuova sperimentazione, che

partirà dal Distretto di Senigallia, si

darà avvio anche nelle Marche a un

modello assistenziale innovativo che

associa appunto il day hospital al Con-

sultorio e garantisce la presa in carico

delle pazienti, accompagnandole per

tutta la durata del percorso.

PAZIENTI CRONICI E LISTE

D’ATTESA, PARTE LA CAMPAGNA

DI COMUNICAZIONE

La “presa in carico” dei pazienti croni-

ci e la “cura giusta al momento giusto”

sono i temi delle prime due campagne

di comunicazione sulla sanità che la

Regione Marche ha deciso di avviare

prima di una terza campagna, dedicata

ai programmi di screening gratuiti per

la prevenzione, che partirà comunque

a breve. “La sanità cambia e il primo

cambiamento è quello di comunicare

di più – ha detto il Governatore delle

Marche, Luca Ceriscioli, presentando

l’iniziativa. La sanità è un patrimonio

di tutti, spesso appare quasi relegato

agli addetti ai lavori. Invece, proprio

perché parliamo di salute, per far bene

le cose serve il coinvolgimento di tutti.

Useremo di più la comunicazione per

far diventare partecipi e protagoni-

sti i cittadini”. Per quanto riguarda la

cosiddetta presa in carico essa farà

riferimento a quattro patologie cro-

niche primarie e ai malati oncologici.

Un numero verde permetterà ai cit-

tadini di segnalare le disfunzioni. Il

Governatore Ceriscioli è tornato poi

a dichiarare guerra alle liste di attesa:

“Ancora oggi circa metà delle prescri-

zioni che hanno bisogno di un rico-

noscimento in termini di priorità non

vengono segnalate. Questo ci mette

in difficoltà sulla programmazione

delle risposte perché per metà di

queste prescrizioni non sappiamo se

rientri nei parametri ottimali. Attra-

verso questa campagna informiamo i

cittadini che possono chiedere al loro

medico di indicare, per ogni prescri-

zione, se è urgente, differibile o pro-

grammata, in modo che si raggiunga

il cento per cento di ricette segnate”.

La migliore assistenza ai malati cronici

(quelli affetti da cardiopatie, tumori,

diabete, patologie renali e neurologi-

che) verrà programmata direttamente

dallo specialista attraverso la “presa

in carico”, cioè la pianificazione delle

prestazioni, senza che sia il cittadino a

doverlo fare.

PILLOLE REGIONALI A cura di Daniele PallottaM

arche

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MENO ACCESSI AI PRONTO

SOCCORSO E PIÙ ASSISTENZA:

LE CASE DELLA SALUTE CHE

PIACCIONO

Sono 81 le Case della salute in Emi-

lia-Romagna, ne arriveranno altre

42. La loro attivazione ha significato

meno accessi ai Pronto soccorso e più

assistenza domiciliare. I codici bian-

chi sono calati mediamente del 26%,

l’assistenza a casa è invece aumentata

del 50%, per quanto riguarda gli infer-

mieri, e del 7%, per quanto riguarda

i medici di medicina generale. Per il

presidente della Regione, Stefano Bo-

naccini, si tratta di “una realtà di pro-

mozione del benessere più vicina al

luogo in cui vive il cittadino”. “Le Case

della salute rappresentano anche una

scommessa culturale – ha ribadito

l’assessore regionale alle Politiche per

la salute, Sergio Venturi – Dobbiamo

lavorare per spiegare sempre di più

l’importanza di questo cambiamento,

di questa nuova modalità organizza-

tiva dei servizi territoriali all’interno

dell’evoluzione complessiva del siste-

ma sanitario, e perché le Case rappre-

sentino realmente la porta d’accesso

alla sanità”. Dall’approvazione, da

parte della Giunta regionale (febbraio

2010) delle indicazioni per le prime

Case della salute a oggi, le strutture

funzionanti sono, come detto, 81: 50

tra medie e grandi (il 61%), 31 piccole

(39%). 42 quelle programmate per i

prossimi anni, di cui 22 hanno già un

finanziamento previsto.

CON IL PROGETTO DI

COOPERAZIONE “HEALTH FOR

ALL” LA TUNISIA È PIÙ VICINA

Toscana e Tunisia più vicine grazie al

progetto di cooperazione sanitaria

“Health for all” finanziato dalle Nazio-

ni Unite e dalla Regione e che ha visto

lavorare il Meyer-Centro di salute

globale, Euro-African Partnership (as-

sociazione di Comuni e Province della

Toscana), il Cospe (Cooperazione per

lo sviluppo dei paesi emergenti) e le

associazioni Pontes e Nosotras, con

associazioni partner tunisine su pra-

tiche di dialogo tra migranti tunisini

in Toscana e residenti tunisini verso il

pieno riconoscimento del diritto alla

salute e il miglioramento dei servizi

sanitari nell’ambito della prevenzio-

ne delle infezioni ospedaliere e della

salute materno-infantile. Concluso-

si lo scorso febbraio, il progetto ha

contribuito al rafforzamento delle

competenze degli operatori sanitari

a Kasserine, una delle regioni perife-

riche tunisine al confine con l’Algeria

con cui la Toscana intrattiene da quasi

quattro anni intensi rapporti, grazie

al trasferimento di conoscenze e lo

scambio reciproco di modelli di gover-

nance tra strutture sanitarie.

UN PERCORSO DIAGNOSTICO

TERAPEUTICO PER I MALATI DI

AIDS

La Regione Molise ha approvato un

percorso diagnostico terapeutico as-

sistenziale per i pazienti affetti da Hiv/

Aids. Il documento, sottoscritto dalla

Giunta guidata dal commissario Paolo

Frattura, è stato proposto dal Gruppo

regionale per il monitoraggio PDTA

nel rispetto delle linee guida nazionali

in materia. Gli obiettivi strategici di-

chiarati del percorso sono l’individua-

zione dei soggetti infetti, per ridurre

il rischio di trasmissione dell’infezio-

ne e di progressione della malattia,

l’ottimizzazione della gestione del

paziente, per migliorare l’efficacia dei

trattamenti attualmente disponibi-

li, la validazione dell’efficacia e della

sicurezza dei trattamenti disponibili,

sviluppando indicatori di efficacia e

appropriatezza, l’ottimizzazione e il

coordinamento degli interventi di ge-

stione per ottenere un maggiore con-

trollo sulle cause di generazione dei

costi e per curare al meglio, nei limiti

dei vincoli economici, i pazienti resi-

denti in regione. L’aumento dei malati

è in linea con i dati nazionali: nel 2014

sono stati 11 i casi trattati in Molise, 9

i ricoveri di residenti in strutture fuori

regione. Lo stesso trend è stato man-

tenuto nel 2015 e nei primi mesi del

2016. La scelta di definire il percorso

diagnostico terapeutico del paziente

Hiv è scaturita sia dall’importanza che

tale patologia riveste in termini epi-

demiologici, di salute e di qualità della

vita dei pazienti trattati, sia dall’im-

patto economico che la sua diagnosi

e cura comportano per il servizio sa-

Moli

se

Em

ilia Romagna To

scana

PILLOLE REGIONALI A cura di Daniele Pallotta

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nitario regionale. Obiettivo non meno

secondario è quello di contrastare la

disinformazione e indurre i soggetti

Hiv/Aids molisani, che oggi migrano

verso centri di altre regioni, a rima-

nere in Molise dove esiste una qualità

delle cure esattamente sovrapponibi-

le a quella del resto d’Italia.

NASCE L’AZIENDA LIGURE

SANITARIA

L’assessore regionale alla Salute, So-

nia Viale, ha presentato la proposta

di istituzione di “A.Li.Sa”, l’Azienda Li-

gure Sanitaria e, insieme, gli indirizzi

per il riordino del sistema sanitario

regionale. Con la creazione di “A.Li.

Sa”, in cui confluirà Ars e che sarà pie-

namente operativa dal 1 ottobre, sarà

data una governance unica alle cinque

Asl liguri che saranno tutte mante-

nute per affrontare i problemi delle

comunità con articolazioni più vicine

ai cittadini potenziando il rapporto

ospedale -territorio nell’ottica dell’in-

tegrazione dei servizi sociosanitari.

Compito della nuova Azienda sarà

quello di migliorare la qualità delle

prestazioni attraverso l’appropriatez-

za per generare migliore assistenza ai

cittadini con una risposta pertinente,

eliminando gli sprechi e recuperando

la motivazione degli operatori. Entro

settembre saranno dati indirizzi co-

muni a tutte le Asl su procedure, pro-

tocolli, standard assistenziali, operati-

vi e organizzativi. “A.Li.Sa” consentirà

anche di fare contratti con eventuali

erogatori privati e di definire i rappor-

ti e le convenzioni con Irccs e Aziende

ospedaliere.

CORSO DI FORMAZIONE PER

FARMACISTI IN AIUTO DELLE

DONAZIONI

L’Ordine dei Farmacisti di Torino, in

collaborazione con l’Università di To-

rino e con il Coordinamento regionale

delle donazioni e dei prelievi di organi

e tessuti del Piemonte, ha deciso di av-

viare un percorso formativo per infor-

mare e sensibilizzare l’opinione pub-

blica verso la donazione degli organi.

Le competenze del farmacista non si

limitano alla sola gestione territoriale

dei trattamenti farmacologici ai quali

devono sottoporsi donatori e riceven-

ti (quali immunosoppressori ecc.), ma

anche all’informazione corretta e, se

possibile, esaustiva per il cittadino che

intende diventare donatore. Il corso

“Donazione degli organi” fornisce ai

farmacisti informazioni sui principi

etici, scientifici e normativi che sono

alla base del sistema donazione e

trapianto. In tal modo i farmacisti po-

tranno dare un consiglio competente

per agevolare una scelta consapevole.

Un adesivo con il cuore impacchettato

indicherà in quali farmacie si potranno

ricevere informazioni e materiale di-

vulgativo inerente la donazione degli

organi.

Lig

uriaPi

emonte

PILLOLE REGIONALI A cura di Daniele Pallotta

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