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339 Capitolo XI LA PRIMA INDUSTRIALIZZAZIONE RUSSA 1. La Russia zarista: una “periferia” di vivace contraddittorietà… È opinione comune, pur in presenza di un cospicuo numero di studi in senso contrario 1 , che l’industrializzazione russa sia tutta da ascrivere all’età sovietica. Se con ciò si vuole intendere che la Russia geografica, comprendente anche l’Ucraina, divenne una grande potenza industriale grazie alla industrializzazione forzata degli anni Trenta, questo è indub- biamente vero. Tuttavia quel processo industrializzante, con i costi so- ciali che comportò, si innestò su una precedente, e tutt’altro che esigua, prima industrializzazione sviluppatasi, ancorché contraddittoriamente, negli ultimi decenni dell’impero degli zar 2 . La rivoluzione d’Ottobre pog- giò, del resto, su un robusto – ancorché minoritario – proletariato di fabbrica formatosi proprio in quel periodo . Questo capitolo intende ripercorrere, ancorché sommariamente, l’appro- do russo ad una modernizzazione di tipo occidentale che sembrò porre le basi di una “rivoluzione” borghese in grado di mettere la parola fine all’autocrazia zarista. Così non fu, e le timide riforme avviate dagli ul- timi due zar, Alessandro III 3 e il figlio Nicola II 4 , naufragarono di fronte 1 Cfr. sull’argomento The Cambridge Economic History of Europe, ai voll. The Indu- strial Revolution and After e The Industrial Economies: Capital, Labour, and Enterprises , Cambridge, Cambridge University Press, 1965 e 1978 [traduz. italiana: Storia econo- mica Cambridge, voll. 6 e 7, Torino, Einaudi, 1974 e 1980], nonché i riferimenti biblio- grafici in tali volumi contenuti. 2 Dato che in questo capitolo viene usato il termine autocrazia [potere assoluto nelle mani di una sola persona], può essere interessante rammentare la formula con la quale – a partire da Pietro il Grande – iniziavano gli ukase [decreti] degli zar: Io, per grazia di Dio, Imperatore e Autocrate di tutte le Russie3 Alessandro III (1845-1894) regnò dal 1881 al 1894.

La Russia zarista: una periferia”di vivace contraddittorietà… · 2018. 7. 20. · La Russia zarista: una “periferia”di vivace contraddittorietà… È opinione comune, pur

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Capitolo XI

LA PRIMA INDUSTRIALIZZAZIONE RUSSA

1. La Russia zarista: una “periferia” di vivace contraddittorietà…

È opinione comune, pur in presenza di un cospicuo numero di studi

in senso contrario1, che l’industrializzazione russa sia tutta da ascrivere

all’età sovietica. Se con ciò si vuole intendere che la Russia geografica,

comprendente anche l’Ucraina, divenne una grande potenza industriale grazie alla industrializzazione forzata degli anni Trenta, questo è indub-

biamente vero. Tuttavia quel processo industrializzante, con i costi so-

ciali che comportò, si innestò su una precedente, e tutt’altro che esigua, prima industrializzazione sviluppatasi, ancorché contraddittoriamente,

negli ultimi decenni dell’impero degli zar2. La rivoluzione d’Ottobre pog-

giò, del resto, su un robusto – ancorché minoritario – proletariato di fabbrica

formatosi proprio in quel periodo .

Questo capitolo intende ripercorrere, ancorché sommariamente, l’appro-do russo ad una modernizzazione di tipo occidentale che sembrò porre

le basi di una “rivoluzione” borghese in grado di mettere la parola fine all’autocrazia zarista. Così non fu, e le timide riforme avviate dagli ul-

timi due zar, Alessandro III3 e il figlio Nicola II4, naufragarono di fronte

1 Cfr. sull’argomento The Cambridge Economic History of Europe, ai voll. The Indu-

strial Revolution and After e The Industrial Economies: Capital, Labour, and Enterprises,

Cambridge, Cambridge University Press, 1965 e 1978 [traduz. italiana: Storia econo-

mica Cambridge, voll. 6 e 7, Torino, Einaudi, 1974 e 1980], nonché i riferimenti biblio-

grafici in tali volumi contenuti. 2 Dato che in questo capitolo viene usato il termine autocrazia [potere assoluto nelle

mani di una sola persona], può essere interessante rammentare la formula con la

quale – a partire da Pietro il Grande – iniziavano gli ukase [decreti] degli zar: Io, per

grazia di Dio, Imperatore e Autocrate di tutte le Russie… 3 Alessandro III (1845-1894) regnò dal 1881 al 1894.

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ai gravi problemi indotti dalla partecipazione russa alla prima guerra mondiale, e poi dalla rivoluzione bolscevica.

Si può sostenere che il processo di industrializzazione russo, o – meno enfaticamente – la lenta transizione della Russia a forme di trasformazione

manifatturiera di tipo moderno, si avviò a partire dall’emanazione dello

“statuto di emancipazione” che nel 1861, sotto il regno di Alessandro II5, liberò una parte dei contadini dalla loro condizione di servi della

gleba. Si trattò di una sorta di riforma agraria, limitata/limitatissima, che tuttavia consentiva a costoro di lavorare, traendone reddito, in fondi

di cui sarebbero divenuti nel tempo proprietari a tutti gli effetti, anche se

attraverso complicati meccanismi di riscatto. Ciò liberò energie individuali teoricamente disponibili ad indirizzarsi al

lavoro manifatturiero; i fondi assegnati a questi primi ex-servi della gleba

non avevano infatti dimensioni in grado di dare sostentamento a tutti i com-ponenti delle loro famiglie, non pochi dei quali erano perciò costretti a

cercare lavori alternativi. Tra il 1882 e il 1885 il governo di Alessandro III migliorò tale riforma, aumentando il numero di beneficiari, e – soprat-

tutto – consentendo loro di muoversi anche fuori dai territori nei quali

erano sempre vissuti. Fu tra queste persone, libere ormai di spostarsi da un luogo all’altro, che l’industria nascente andò a reclutare i lavoratori di

cui aveva bisogno. Ma la trasformazione di un ex-contadino in operaio

di fabbrica non era così semplice, dato che per il suo addestramento occorreva un periodo di tempo che variava dalle mansioni e dal settore

nel quale veniva impiegato. Cosicché l’utilizzazione di contadini nelle nuove fabbriche fu lento, e graduato nel tempo. Ma di crescente intensità,

anche perché non fu raro che intere famiglie di ex-servi abbandonassero,

cedendone i diritti, le terre loro assegnate, dando impulso a quel fenome-no di inurbamento nei centri industriali già noto nei primi paesi che

sperimentarono il passaggio dalla manifattura tradizionale al “sistema di

fabbrica”. L’emancipazione giocò però – nella prima industrializzazione – un ruolo

che andò al di là del reperimento di una manodopera precedentemente “indisponibile”: essa determinò infatti una capacità reddituale di chi rima-

4 Nicola II (1868-1917), successo al padre nel 1894, fu travolto agli inizi del 1917

Rivoluzione di febbraio che pose fine all’impero zarista. Il governo bolscevico, nato

dalla successiva Rivoluzione d’ottobre, decretò nel luglio del 1918 la sua condanna a

morte, che fu eseguita il 17 luglio 1918. Con lui fu sterminata anche la sua fami-

glia. 5 Alessandro II (1818-1881) regnò dal 1855 al 1881.

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neva nei fondi in grado di alimentare una qualche domanda di manufatti prima inesistente. L’aprirsi di un “mercato contadino” ai beni di consu-

mo, fu un fenomeno che si fece già evidente agli inizi degli anni ‘80 del secolo, da allora ampliandosi, anche se in maniera discontinua.

Bisogna a questo proposito tener presente due elementi. Da un lato il

forte incremento demografico, che portò la popolazione russa a crescere dagli 84,5 milioni del 1870 ai quasi 98 del 1880, per raggiungere i 113

milioni nel 1887, con un incremento durante tutto il periodo di quasi 1,7 milioni di unità all’anno. E dall’altro la natura altalenante del tenore di

vita nelle campagne: le capacità di consumo dei contadini crescevano o

si riducevano bruscamente, fino ad annullarsi, a seconda dell’anda-mento stagionale dei raccolti e del verificarsi o meno di dure carestie, il

che li rendeva per l’industria una clientela in buona parte “irregolare”.

Come dire che le grandi potenzialità d’acquisto di manufatti del mondo agricolo rimasero a lungo inespresse, o – meglio specificando – che quel

mercato rimase a lungo solo aggiuntivo, e marginale, rispetto a quello urbano.

Ciò vale per il fronte delle industrie produttrici di beni di consumo,

che dall’emancipazione trassero beneficio soprattutto nel reperimento di manodopera, e solo parzialmente nel collocamento dei propri manufatti

sull’ancora incerto mercato rurale. Vi furono però attività – e non solo

quelle della grande possidenza agraria nobiliare – che dalla “liberazione” dei servi furono fortemente danneggiate. Fu il caso delle industrie, ad esem-

pio quelle situate negli Urali ed attive nella produzione di ferro e di ghisa, che utilizzavano in maniera quasi esclusiva manodopera servile. Queste

fabbriche – peraltro già penalizzate dall’abbassamento, dopo la disastrosa

guerra di Crimea (1853-56), dei dazi sul ferro d’importazione – pratica-mente si svuotarono dopo la liberazione dei servi. Così fu anche per quel-

le che producevano tessuti per le divise dell’esercito imperiale, di preva-

lente proprietà nobiliare e situate in alcune aree della steppa a 5-600 kilo-metri a sud di Mosca6.

Non fu così per le imprese di manifattura leggera use a lavorare per il mercato civile, come la generalità di quelle tessili, di piccola meccanica

6 Da questo punto di vista, è significativo il caso di Voronež, precoce e vivace città tessile già all’inizio dell’Ottocento. Nel 1856, e quindi prima dell’emancipazione,

erano ancora attive tre fabbriche impegnate nella produzione di tessuti per l’esercito;

nel 1865 non ne esisteva più nessuna! La circostanza è ricordata da R. PORTAL nel

suo saggio L’industrializzazione della Russia, p. 876: Storia economica Cambridge, vol.

6/II, cit.

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o del mobilio, le quali già impiegavano – anche perché insistevano in un ambiente urbano – solo lavoratori salariati, ancorché sottopagati.

2. Creazione di un’industria, creazione di un mercato…

Accanto alle tipologie citate, la Russia zarista aveva peraltro svilup-

pato intense attività manifatturiere nel campo degli armamenti, e su di

esse le élites dirigenti erano convinte potesse crescere un processo indu-

strializzante simile a quello occidentale. Tale ipotesi tramontò sui campi di battaglia di Crimea, come riconobbe lo stesso ministro della guerra del

tempo. Gli impacci e gli oneri di approvvigionamenti militari forniti da produttori inefficienti rivelarono tutto il ritardo dell’economia russa ri-

spetto alla Gran Bretagna, ma anche a paesi come la Francia e gli stati

tedeschi. Gli esponenti “filoccidentali” di tali élites, forti del successo

ottenuto imponendo ad Alessandro II il già citato “statuto di emancipa-

zione”, ritenevano che grazie a ciò il percorso per la modernizzazione del paese potesse più favorevolmente ripartire.

Non era ovviamente così. L’abolizione (parziale) della servitù della

gleba non fu infatti accompagnata da misure rivolte alla creazione di un vero mercato concorrenziale, che si pensava si sarebbe formato spon-

taneamente. Il primo decennio del ‘900 avrebbe clamorosamente di-

mostrato che la Russia era ancora sprovvista degli elementi minimi di un libero mercato. Certo, la combinazione di una piccola-media pro-

prietà contadina, in parte capitalistica, e di grande industria, in lar-ga misura monopolistica, risultava potenzialmente stabile e per certi versi

efficiente, grazie a un mercato della forza-lavoro extragricola ormai

consolidato. Il ruolo dello stato rimaneva però ingombrante. Precedendo la

domanda con la realizzazione di varie infrastrutture, il governo russo aprì e stabilizzò un mercato di vaste dimensioni fisiche e finanziarie.

La costruzione delle ferrovie favori all’interno e all’estero la mo-

bilitazione del capitale – cui il governo assicurava un rendimento mi-nimo garantito – per la creazione di un sistema di comunicazioni

e per lo sfruttamento delle risorse naturali. Fu un periodo tumul-

tuoso, e per lo più caotico, come avvenne nelle costruzioni ferrovia-rie. Ma ad esso seguì una qualche positiva stabilizzazione, in parte

guidata dallo stato, in parte esigenza naturale di una economia che ripartiva.

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La prima industrializzazione russa

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Ai primi avventurosi magnati delle ferrovie si sostituirono presto manager competenti, che seppero approvvigionarsi di risorse sugli emer-

genti mercati finanziari russi; e ciò non tanto facendo ricorso alla Borsa, che non svolse mai un ruolo particolarmente attivo nella crescita di

società azionarie, bensì intrattenendo rapporti molto stretti con le

nuove banche commerciali, spesso banche “miste” improntate all’espe-rienza tedesca del credito a medio-lungo termine. Il tema del credito, è

noto, fu cruciale in tutti i processi di industrializzazione, e quindi an-che in un paese come la Russia dove il capitale di rischio delle società

azionarie era modesto rispetto all’entità degli investimenti nei quali si

impegnavano, da cui il ricorso ad ingenti prestiti bancari. La fragilità di tali strutture societarie favorì le intese tra concorrenti per evitare

dannose guerre commerciali, e avviò una rapida “cartellizzazione”

dell’economia che fu in parte favorita dallo stato di fronte alla depressione del primo ‘900. I cartelli, indubbiamente, rafforzarono

la posizione dell’imprenditoria nazionale, che in misura crescente, e già agli inizi del nuovo secolo, presero il posto di quegli operatori

stranieri che avevano dato avvio alla prima infrastrutturazione in-

dustriale del paese. La crescita dell’industria fu significativa, benché malsicura ed in

termini assoluti poco estesa, come dimostrano le limitate aree in cui

essa avvenne: la città di Mosca e, parzialmente, il suo circondario; le regioni centrali della Russia europea; la capitale San Pietroburgo7; le

città del Baltico ed alcuni territori lungo il corso del basso Don e del Dnepr e le regioni a sud degli Urali. Oltre ad esse conviene ricorda-

re che il governo zarista favorì una qualche industrializzazione an-

che in alcune località della Polonia russa, pur se eccentriche rispetto alle aree forti testé menzionate.

Qualche dato, riferito agli inizi del 1890, può essere di qualche utilità:

- la Russia già possedeva 32.000 chilometri di ferrovie;

- gli operai erano circa 1.400.000, di cui la maggior impiegata nel-l’industria tessile, il che testimonia della fragilità del secondario

russo, peraltro comune ad altri paesi periferici, come ad es. l’Italia.

7 San Pietroburgo, fondata nel 1703 da Pietro il Grande, venne nel tempo correntemen-

te chiamata Pietroburgo, fino a quando – negli ultimi decenni dell’800 – assunse il

nome di Pietrogrado. In queste pagine si userà sempre la denominazione originaria.

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E, tuttavia, la capitalizzazione delle imprese tessili russe risul-tava ben maggiore di quella esistente nella nostra penisola;

- la produzione annuale di carbone era cresciuta del 1200% ri-spetto al 1860, raggiungendo i 6,6 milioni di tonnellate;

- la produzione di ferro e acciaio, sempre rispetto al 1860, risul-

tava più che raddoppiata, con un valore di 2 milioni di tonnellate annue;

- il bilancio dello stato risultava in trent’anni raddoppiato, ma con un peso degli interessi sul debito pubblico di ben quattro

volte maggiore: il che stava a significare che il “servizio” del

debito rappresentava il 28% delle uscite complessive, con ciò compromettendo di molto la possibilità di una politica economi-

ca espansiva che pure era negli obiettivi del governo dell’epoca.

Lo sviluppo dell’industria aveva nel frattempo portato alla nascita di un combattivo proletariato urbano che ben presto, e malgrado le repressio-

ni poliziesche, incominciò ad organizzarsi nei primi sindacati clandestini, entrando in contatto con le idee socialiste e comuniste che si stavano dif-

fondendo in Europa.

Alla fine del XIX secolo i ritardi/contraddizioni di quel processo indu-strializzante sul quale avevano puntato le élites modernizzatrici, e la debo-

lezza di una politica estera che non riusciva a costruire alleanze utili a

favorire una positiva transizione interna, avevano raggiunto proporzioni preoccupanti, tanto che all’interno del governo zarista alla fine passò – pur

non senza contrasti – il duro programma economico del ministro delle Finanze Sergej Witte8, incentrato su un forte indebitamento sull’estero

finalizzato (con il rafforzamento del cambio internazionale del rublo che

sarebbe derivato dall’implementazione delle riserve monetarie) sia ad ag-ganciare la valuta russa all’oro, sia a sostenere la crescita dell’industria

pesante e, soprattutto, l’ambiziosa realizzazione della ferrovia Transiberia-na9: la quale doveva essere segno non tanto immateriale della nuova

8 S. Witte (1849-1915), fu un importante dirigente di imprese ferroviarie, passato

nel 1889 a reggere la Direzione degli Affari ferroviari del governo imperiale. Ebbe

una rapida carriera politica, dato che nel febbraio 1892 venne nominato ministro dei

Trasporti e delle Comunicazioni, incarico che mantenne anche quando nell’agosto

di quell’anno fu posto a capo del ministero delle Finanze dove rimase ininterrotta-

mente fino al 1903. Per un breve periodo, tra il 1905 e il 1906, fu anche Primo

Ministro di Nicola II. 9 La Transiberiana, la cui costruzione fu avviata nel 1891, andò a collegare Mosca

(e quindi la Russia europea con le sue nascenti aree industriali) alle regioni centrali

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Grande Russia. In sostanza, Witte giocò ad un tempo una partita di politica economica e di politica internazionale.

La sua azione portò ad esiti, che se per certi versi fu positiva sul cam-po delle relazioni con gli altri grandi paesi, risultò contraddittoria dal

punto di vista interno. Malgrado la profonda depressione economica che

colpì l’economia mondiale sulla fine del secolo, la produzione russa di carbone, ferro, acciaio e petrolio triplicò nel decennio 1890-1900, men-

tre lo sviluppo delle ferrovie raddoppiò, rendendo la rete ferroviaria se-conda per lunghezza solo a quella del più grande paese industriale del

mondo, gli Stati Uniti. E tuttavia mancò quella crescita della produzio-

ne di grano, che negli intendimenti di Witte doveva innescare un incremento virtuoso delle esportazioni, che invece si contrassero pericolosamente. A

ciò si aggiunse che la crescita del tenore di vita urbano fece lievitare la

domanda di beni di consumo, solo in parte soddisfatta dalla ancora in-sufficiente produzione locale, da cui una conseguente lievitazione delle

importazioni. Talché il risultato fu che il servizio del debito pubblico, ora più oneroso, e il crescente scompenso della bilancia commerciale,

portò a un raddoppio del deficit dello stato: con costi sociali elevatissimi,

dato che si cercò di farvi fronte con una più pesante imposizione fiscale che colpì in modo particolare i contadini, e più in generale tutta l’agri-

coltura. Ma vediamo meglio i singoli aspetti, a partire dall’emancipazione.

3. Mercato del lavoro e infrastrutture

Alla vigilia dell’emancipazione, la manodopera industriale compren-

deva 386.000 servi della Corona nelle fabbriche statali e 230.000 nelle mi-niere dello Stato, 519.000 servi “possessionali” e 59.000 servi “curten-

si”. Molti di meno erano invece i lavoratori salariati, concentrati nelle

della Siberia e all’estremo oriente dell’impero fino al confine cinese. La sua lun-

ghezza, da Mosca a Vladivostock, è di 9.288 km, il che la rende in assoluto la più

grande strada ferrata mai costruita. La grande infrastruttura, che fu presentata

all’Esposizione Universale di Parigi del 1900 ricevendo un premio per la qualità

ingegneristica del progetto, venne completata – ed entrò in funzione – nel 1916. La

forza lavoro impiegata nei momenti di massimo sforzo costruttivo arrivò a contare

circa 90 mila uomini, molti dei quali condannati ai lavori forzati. In migliaia mo-

rirono per le terribili condizioni di lavoro. Il limite dell’opera era tuttavia costituito

dall’essere a binario unico, e fu solo in età sovietica che esso venne raddoppiato.

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produzioni tessili rivolte al mercato, e in poche altre attività sempre di-rette ai consumatori privati. I metodi di gestione dei “servi” erano corri-

spondenti a quelli di reclutamento: coercizione e brutalità erano la norma. Sebbene limitato sino al 1906 dagli oneri di riscatto dei fondi attribuiti

ai servi “liberati”, e dalla lentezza con la quale fu loro consentito il diritto

di potersi muovere dai luoghi di residenza, si può sostenere che fu l’e-mancipazione a consentire la nascita di un vero mercato del lavoro10.

Gli stessi storici sovietici sono concordi nel sottolineare come fu proprio l’emancipazione a creare le precondizioni dell’industrializzazione ca-

pitalistica e un notevole impulso a un moderno sviluppo agricolo.

Anche se – come ricorda M.C. Kaser – lo stesso Lenin aveva sostenu-to che i ceti contadini già prima della riforma avevano iniziato a diffe-

renziarsi in borghesia rurale e proletariato agricolo, pur all’interno

di un protocapitalismo ancora fortemente condizionato dal potere statale11.

Kaser, a questo proposito afferma che, in realtà, anche prima del 1861

«i datori di lavoro (fossero funzionari dello Stato o proprietari privati) avevano preso l’abitudine di ricorrere in parte a manodopera salaria-

ta; di fronte a operai che potevano rifiutarsi di lavorare per loro, o recar-

si altrove alla ricerca di paghe più elevate, essi erano indotti a valutare con attenzione molto maggiore che in passato l’opportunità di sostituire

la forza-lavoro con investimenti di capitale. In breve essi cominciavano

a imparare il mestiere di capitalisti»12. Ed a proposito dell’interventismo statale, egli ricorda come negli am-

bienti intellettuali «il fatto che lo Stato si arrogasse il potere di interve-nire direttamente nel mondo della produzione era oggetto della stessa

ostilità che veniva tributata alla polizia o ai governatori di provincia nel-

la vita politica e sociale. Nel 1857, Herzen13 paragonava un’economia diretta dallo Stato a “Genghiz khan con ferrovie e telegrafi”. D’altra par-

10 Cfr. G. VON RIMLINGER, The Expansion of the Labour Market in Capitalist Russia,

1861-1917, “Journal of Economic History”, XXI, 1961. 11 M.C. KASER, L’imprenditorialità russa, in Storia economica Cambridge, vol. 7/II,

cit., p. 580. 12 Ibidem. 13 Conviene ricordare che il citato Aleksandr Ivanovič Herzen (1812-1870), scrit-

tore e filosofo, è considerato tra i più grandi intellettuali russi dell’Ottocento. Di

origine aristocratica, egli fece della libertà la propria bandiera opponendosi viva-

cemente all’autoritarismo zarista, e battendosi per i diritti dei contadini. Anche per

questo egli è spesso ritenuto uno dei primi pensatori del populismo russo. Morì in esi-

lio a Parigi.

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La prima industrializzazione russa

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te, scontento dei risultati cui aveva dato luogo l’azione pubblica [… e] dopo che la disfatta militare [in Crimea] aveva messo in luce il caos dei

servizi di approvvigionamento e delle industrie di cui era responsabile, il governo desiderava l’instaurazione di un mercato che gli permettesse di

coordinare le proprie attività con quelle di imprenditori indipendenti»14.

Parlare di “coordinamento” come fa Kaser, anche se solo a proposito di un miglioramento nel sistema degli approvvigionamenti militari, è in

realtà riduttivo. Le dimensioni dell’impero degli zar (un sesto delle terre emerse del pianeta, come spesso si usava ricordare) richiedeva indubbia-

mente un potere in grado non solo di coordinare il mondo dei produt-

tori, ma anche di creare davvero un mercato nazionale e di dotarlo di quelle infrastrutture che lo rendesse davvero tale. A partire dalle grandi

vie di comunicazione, il vero tallone d’Achille del gigante russo: basti

pensare alle difficoltà con le quali le derrate prodotte nelle campagne arrivavano nei centri urbani, stante il virtuale isolamento di molte aree

del paese. Per cui uno stato che si fosse limitato, nella situazione di estrema arretratezza sia dell’agricoltura che delle produzioni manifattu-

riere, al solo “coordinamento”, avrebbe fallito l’obiettivo della moder-

nizzazione. L’autocrazia zarista va letta anche in questi termini, tenen-do però presente che essa, più che in capo al sovrano pro tempore, era più

concretamente nelle mani di un variabilmente razionale sistema di go-

verno, nel quale – accanto al ceto nobiliare – cominciò, proprio dopo la disfatta in Crimea, fare la loro comparsa un ceto borghese, senz’altro

minoritario, ma portatore di interessi concreti, che proprio allo sviluppo di una industria degna di tal nome e a un efficace sistema distributivo

poneva attenzione.

Nella partita della infrastrutturazione del paese si giocò, perciò, una sottile e difficile partita di potere che aveva a che fare proprio con la mo-

dernizzazione del sistema-paese. L’unificazione, e l’articolazione, dell’immenso potenziale racchiuso nel

grande paese fu il tratto distintivo di un’azione che iniziò, così si può

sostenere, con l’avvio del business ferroviario, a partire dalla linea di

poco più di 700 kilometri che, completata nel 1851, andò a collegare la

capitale San Pietroburgo a Mosca15. Anche se non mancarono significati

14 M.C. KASER, L’imprenditorialità russa, in Storia economica Cambridge, vol. 7/II, cit.,

p. 580. 15 Si trattava della ferrovia Nikolaevskaja, dal nome dello zar Nicola I (1796-1855)

che l’avviò nel 1843. Il suo regno, iniziato nel 1825, fu caratterizzato da una poli-

tica accentuatamente reazionaria, nella quale l’unico elemento di (una qualche) mo-

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Capitolo undicesimo

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simbolici, il collegamento tra la nuova e la vecchia capitale testimoniava che, ancor prima della svolta post-Crimea, si avvertiva la necessità di

coinvolgere nel progetto di (ancora inconsapevole) modernizzazione del paese quella che ancora era l’unica area manifatturiera russa. Fu il primo

passo di una lunga avventura. Una più equilibrata diffusione spaziale

delle attività economiche, che solo la ferrovia poteva consentire, era in-dispensabile per la valorizzazione di miniere e terre molto lontane. Ma

la creazione della rete ferroviaria poteva essere utile, ce se ne accorse più tardi, per evitare anche le concentrazioni operaie ritenute pericolose dal

potere, disperdendole lungo la rete. La Transiberiana e le linee di Orenburg

e Taskent diedero imoltre luogo a una nuova colonizzazione contadina ovunque le condizioni naturali lo permisero; quanto più i contadini cui

era stata elargita l’emancipazione dalla servitù si fossero trovati lontani

dalle sedi urbane, tanto meno avrebbero potuto contare sui sistemi tra-dizionali di trasporto delle merci ai mercati cittadini o alle fiere me-

diante i loro carri, e tanto più avrebbero dovuto perciò – sostiene Kaser – servirsi delle ferrovie offrendo così nuovi spazi all’intermediazione ca-

pitalistica e incrementando le esportazioni.

Il rinnovamento dei modi di trasporto nel commercio granario fornì un contributo rilevante all’espansione di una moderna intermediazione.

L’approvvigionamento, la commercializzazione e l’esportazione esigeva-

no del resto un livello di investimenti connessi al maggior volume delle transazioni e alle distanze crescenti che finì per emarginare, fino a farli

scomparire, i mercanti tradizionali usi ad operare sui corsi d’acqua. La ferrovia trasportava le derrate non solo più velocemente, ma – soprat-

tutto – a costi unitari decrescenti facendole arrivare, senza costose “rot-

ture di carico”, ai porti del Mar Nero e del Baltico. La costruzione da parte dello stato di vie di comunicazione non rappre-

sentava, in realtà, una novità neanche in Russia. Era dall’epoca di Pietro

dernità fu appunto rappresentato dalla menzionata, e prima, linea ferroviaria del

paese. Linea che, peraltro, implicò costi altissimi e tempi elevati di esecuzione: e fu

probabilmente questo negativo esempio che spinse i governi dei suoi successori ad

affidarsi all’iniziativa privata. In realtà, questa ferrovia fu preceduta, nel 1837, da

un breve collegamento (una trentina di km) che univa San Pietroburgo a Zarskoe

Selo (l’odierna Puškin), una cittadina dove esisteva una prestigiosa residenza estiva

degli zar.

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La prima industrializzazione russa

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il Grande che ciò avveniva16. Ed anche il fatto di garantire alle società fer-roviarie private una determinata redditività del capitale investito, non

era una novità in Europa, salvo che nel caso della Gran Bretagna. Ov-viamente, le erogazioni statali alle compagnie ferroviarie potevano as-

sumere forme diverse, come avvenne in Italia dove ad esse veniva cor-

risposto un contributo monetario per ogni chilometro percorso dai con-vogli ferroviari. La logica era comunque la stessa: dato che gli stati non

avevano, salvo che nella fase iniziale17, le risorse sufficienti per finanziare le costruzioni ferroviarie essi lasciavano presto mano libera alle compa-

gnie private garantendo però loro – sotto forme diverse, ma analoghe

negli effetti – un qualche (proficuo) ritorno degli investimenti. Essen-do la mobilità delle merci e delle persone un interesse primario degli stati,

questi se ne facevano in buona sostanza carico, sovvenzionando di fatto

le tratte non remunerative18. Sergej Witte, il già citato ministro delle Finanze19 di Nicola II, fece

16 Qualche esempio? La Gosudareva doroga [strada Gosudareva] costruita nel 1702

tra il Mar Bianco e il lago Onega, o il successivo canale di Vyssij Volocov che andò

a collegare il Baltico e il sistema Caspio-Volga. 17 Per la Russia fu il caso della ricordata ferrovia San Pietroburgo-Mosca. 18 Ancor oggi accade, e pure in Italia. Le tariffe ferroviarie e del trasporto su gomma,

sia urbano che extraurbano, non sono sufficienti a coprire i costi, cosicché lo stato

interviene con un contributo chilometrico a garantire l’equilibrio economico delle

imprese che gestiscono tale servizio. Nel caso italiano, dove tali imprese sono gene-

ralmente di proprietà pubblica, tale contributo non remunera il capitale limitandosi

a ripianare i costi. 19 Witte è considerato da Kaser – anche se con toni un po’ eccessivi – un personag-

gio che «nella formazione del sistema economico russo, non ebbe paragoni nei secoli

che intercorsero tra Pietro il Grande e Stalin»: M.C. KASER, L’imprenditorialità russa,

in Storia economica Cambridge, vol. 7/II, cit., p. 582. In gran parte ciò è vero: il conte

Sergej Jul’evič Vitte (1849-1915) – ma per i suoi interlocutori occidentali il cogno-

me veniva trascritto come Witte, e tale è rimasto nella nostra storiografia econo-

mica – aveva una visione complessiva dell’economia russa, tutt’altro che riducibile

alla sola questione ferroviaria in cui spesso il suo ruolo viene circoscritto. Fu stu-

dioso di finanza, di questioni fiscali e monetarie (abbiamo ricordato l’arrischiata,

ma alla fine positiva operazione che portò il rublo nel sistema aureo), ma – so-

prattutto, e da questo punto di vista in occidente è stato poco studiato, il vero atto-

re della politica economica pre-rivoluzionaria, giocando abilmente tra l’interesse

primario di favorire l’imprenditoria nazionale e la necessità di attirare/mantenere

la presenza dei capitali stranieri. Da cui una attenzione particolare alla finanza fran-

cese, risultandogli quella tedesca eccessivamente invadente, e comunque poco di-

sponibile a mediazioni cui invece lui, e quindi il governo, non intendevano rinun-

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Capitolo undicesimo

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del controllo statale delle ferrovie uno dei punti centrali della sua poli-tica “interna”. Politica non senza contrasti con le compagnie impegnate

in tali attività, dato che mentre Witte intendeva fossero privilegiati i col-legamenti tra i centri urbani nella convinzione che lì l’economia sarebbe

maggiormente cresciuta, le compagnie puntavano alla più veloce reddi-

tività che ad esse poteva derivare dalla intensificazione delle costruzioni nelle aree di recente industrializzazione (il bacino del Donec20 prima di

tutto, e poi l’area del Baltico). Al di là dei contenziosi di routine, rimane

il fatto che le costruzioni ferroviarie innescarono – attraverso le commes-

se rivolte all’interno – una crescita virtuosa di alcuni settori, invero stra-

tegici. Ne trasse giovamento l’ammodernamento della produzione indu-striale di carbone, acciaio e di manufatti meccanici21; ma il risultato

fondamentale, che potremmo definire “a valle”, fu quello di dare un

decisivo contributo all’unificazione e alla stabilizzazione del mercato dei beni di consumo, grazie a una rete di trasporto-merci le cui potenzialità

eccedevano ampiamente (un’altra contraddizione della crescita russa) la domanda effettiva.

Il governo si era peraltro anteriormente cimentato altresì nel mettere a

punto altre forme di comunicazione, indispensabili alla concretizzazione del mercato nazionale: tema, quest’ultimo, cruciale non solo per paesi

immensi come la Russia ma anche per paesi di molta più limitata di-

ciare. Di fatto, anche se non formalmente, Witte giocò a un tempo il ruolo di mi-

nistro finanziario e – a surroga – quello di capo del governo e di ministro degli Esteri.

Era il suo nome a fare aggio nei rapporti internazionali, e per lungo tempo deter-

minò la politica del paese. Non pochi dei suoi provvedimenti – e in questo rileva

l’annotazione di Kaser, anche se non esplicitata – furono recuperati, e aggiornati,

dalla NEP avviata da Lenin, soprattutto per quanto atteneva la politica agricola. Cfr.

su Witte un testo datato, ma tuttavia illuminante su alcuni aspetti della sua politi-

ca: T.H. VON LAUE, Sergei Witte and the Industrialization of Russia, New York, Colum-

bia University Press, 1963. 20 Il Bacino del Donec, noto anche come Donbass, è il bacino dell’omonimo fiume

che attraversa parte della Russia e dell’Ucraina. Il nome Donbass proviene dalle

miniere di carbone che lì vennero scoperte e messe a frutto. Da questo lungo corso

d’acqua (poco più di un migliaio di kilometri), prese nome la città di Donec’k,

fondata nel 1869 da un uomo d’affari gallese, John Hughes, che costruì uno sta-

bilimento di acciaio, sfruttando altresì nelle vicinanze sia giacimenti di minerali

ferrosi che di carbone. Fu a lungo una città industriale, poi distrutta dai tedeschi

nella seconda guerra mondiale, ancorché se di lì a poco quasi completamente rico-

struita. 21 Ciò, in realtà, riguardò quasi esclusivamente la costruzione dei carri ferroviari,

mentre la maggior parte delle locomotive proveniva dalla Germania e dalla Francia.

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mensione, come già si è avuto modo di annotare per l’Italia. Il sistema po-stale era stato completamente riorganizzato, in parte ispirato a modelli occi-

dentali ancorché in ritardo rispetto a paesi anche molto piccoli22.

il primo francobollo russo da 10 copechi

emesso nel 1858

La riforma postale fu accompagnata dall’avvio della rete telegrafica,

anch’essa tardiva rispetto ad altri paesi, ad esempio gli Stati Uniti dove l’utilizzazione commerciale del telegrafo partì, dopo una sperimentazione

del Post Office federale, già nel 1847. E, tuttavia, la realizzazione di una prima maglia infrastrutturale in Russia fu abbastanza rapida, anche per-

ché la tecnologia di una rete telegrafica richiedeva strutture fisse molto più

leggere, ed economiche, rispetto a quelle ferroviarie. Ma torniamo alle ferrovie. Già abbiamo accennato alla lentezza ed

ai costi di costruzione della Nikolaevskaja da San Pietroburgo a Mosca.

Già abbiamo accennato come quella (negativa) esperienza a spinse i

successivi governi imperiale a delegare le nuove costruzioni all’iniziativa

privata, secondo il modello contrattuale di tipo francese della concessio-ne a “costruire e gestire”, ancorché con la garanzia statale di un interesse

minimo sulla entità degli investimenti. Protagonista di questa nuova sta-

gione fu soprattutto il ministro delle Finanze Reutern, che resse quel di-

22 Uno dei modi di valutare la modernità di un sistema postale è, da almeno un se-

colo, vedere quando fu introdotto il sistema di “affrancamento” della corrispon-

denza, con quanto ciò implicava in termini di organizzazione complessiva del ser-

vizio. Il primo francobollo in assoluto, è noto, fu quello emesso nel Regno Unito

nel 1840, il famoso Penny black. Seguirono Svizzera e Brasile (1843), Stati Uniti

(1847), Francia e Belgio e Baviera (1849), Austria (1850), Regno di Sardegna (1851).

Il primo francobollo russo venne emesso, invece, solo nel 1858. Indubbiamente tar-

di, anche se conviene tenere a mente le enormi dimensioni dell’impero zarista, e le

maggiori difficoltà organizzative che ciò implicò. E, tuttavia, il nuovo sistema non

tardò ad andare a regime, almeno nelle aree più popolate.

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castero dal 1862 al 1878 durante il regno di Alessandro II. Attorno a lui operarono molti dei pionieri delle ferrovie, con i quali

intrattenne rapporti non sempre limpidi. Così successe con P.G. von Derviz, che ebbe tuttavia il merito di collegare efficacemente Mosca a Kozlov (ol-

tre 800 km di tracciato). Alcuni di questi divennero ricchissimi, affiancan-

do presto al business ferroviario altre proficue attività, come capitò a

Samuel Poljakov, che da modesto impiegato postale si fece imprenditore,

realizzando in soli quattro anni e linee Kozlov-Rostov e Kursk-Taganrog (più di 1.000 km la prima, quasi 900 la seconda), e per di più a metà del

costo inizialmente previsto. Si trattò di due ferrovie economicamente stra-

tegiche, dato che misero in comunicazione le regioni cerealicole centrali con i porti del Mar Nero.

Un altro costruttore di spicco fu Ivan S. Blioch che, in particolare, rea-

lizzò la linea Libau-Romny per collegare il Baltico con i centri cerealicoli dell’Ucraina, nonché il tracciato Odessa-Brest. Di origini modestissime,

egli era entrato nel campo ferroviario come subfornitore di materiali, tra-sformandosi poi in imprenditore. All’apice della carriera, diede vita

all’Associazione delle ferrovie sudoccidentali23.

Alquanto diversa fu la carriera imprenditoriale di Savva Mamontov, che proveniva da una cospicua famiglia di grandi mercanti nel settore

delle bevande alcoliche. Uomo di svariati interessi (nel 1885 diede vita a

una società operistica privata per promuovere l’attività di compositori quali Musorgskij, Rimskij-Korsakov e Cajkovskij), egli sviluppò le reti

ferroviarie che, a nord di Mosca, andarono a collegare la capitale con le città di Jaroslavl’, Vologda e Arcangelo. E, tuttavia, la crisi finanziaria che

colpì la Russia tra il 1900 e il 1903, lo travolse al pari di altri grandi co-

struttori.

Lo stato non fu tuttavia del tutto estraneo alle costruzioni ferroviarie,

trovando “stretta” la ricordata pratica delle concessioni a “costruire e ge-

stire” alla quale aveva precedentemente deciso di autolimitarsi. Tra il 1881 e

il 1886, ad esempio, ma poi la cosa si replicò anche per la Transiberiana,

il governo si attribuì nuovamente il ruolo di principale promotore del-

23 Si trattò di una delle prime associazioni imprenditoriali russe, che fu peraltro uti-

le a Blioch per raccogliere i materiali che poi gli servirono per scrivere, e pubblicare

(1878) uno studio di particolare interesse, L’influenza delle ferrovie sulla vita economica

della Russia, ancor oggi molto citato nella letteratura di settore. In questa associazio-

ne lavorarono anche due futuri ministri delle Finanze, Vysnegradskij e il già ricordato

Witte, il che testimonia del legame tra costruzioni ferroviarie ed élites politiche.

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l’industrializzazione, in parte a causa di una caduta nel tasso di crescita.

Nel campo ferroviario, anziché limitarsi a garantire la redditività dei capi-

tali investiti, il Tesoro cominciò a comprare azioni ferroviarie, giungendo

a detenere all’inizio del ‘900 partecipazioni per poco più del 75% del-

l’intero capitale delle varie compagnie, valutato in 4.700 milioni di ru-

bli24.

4. La “infrastrutturazione” giuridica e finanziaria

Vi è una singolarità nella contraddittoria, e se vogliamo ondularoria,

industrializzazione russa; ed è che un paese arretrato si pose presto il problema di dotarsi di istituzioni finanziarie in grado di supportare l’enor-

me stock di investimenti necessario alla modernizzazione di un’economia

arcaica. Certo, ci si arrivò per gradi, ma prima di altri paesi periferici, se solo si pone a mente la difficoltà di riformare la vetusta (e vincolistica)

legislazione sulle società anonime nella pur piccola Italia, o di costruire un qualche sistema bancario degno di questo nome25.

Certo, le costruzioni ferroviarie funzionarono da volano, dato che –

con i capitali stranieri che arrivarono a sostegno delle stesse – giunsero anche investimenti che servirono da abbrivio a un primo sistema di fab-

brica. Permanevano però non pochi remore allo sviluppo di un capitale

di rischio, locale o straniero che fosse, in grado di sviluppare tutte le sue potenzialità. Un primo passo in tale direzione fu rappresentato dalla ri-

forma della giustizia civile e, soprattutto, dei codici commerciali, nel 1864 rappresentò una vera e propria, e per certi versi rivoluzionaria,

“infrastrutturazione giuridica” del paese, che portò decisi cambiamenti

nell’ordinamento normativo riguardante le attività economiche. Cosic-ché il mondo degli affari cominciò a disporre di un «sistema legale in

24 Nel 1912 il valore di tali partecipazioni era sceso al 67%, ma più per gli in-

crementi nell’estensione delle varie reti che per un qualche disinvestimento

da parte dello stato. Per dare un’idea dell’incidenza pubblica nell’investimento fer-

roviario, basti ricordare che è stato calcolato come nel periodo 1890-1900 le nuove

sottoscrizioni azionarie e/o l’acquisto di azioni ferroviarie sul mercato da parte del

Tesoro abbiano comportato un esborso annuo di ca. 120 milioni di rubli. Dati tratti

da M.C. KASER, L’imprenditorialità russa, in Storia economica Cambridge, vol. 7/II,

cit., p. 584. 25 Si veda qualche spunto al capitolo X.

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grado di rispondere alle esigenze proprie delle relazioni e delle istituzio-ni commerciali moderne con imparzialità, flessibilità, prontezza e pre-

vedibilità»26. La “prevedibilità”, anzitutto: elemento fondamentale in un paese nel quale la giustizia era sempre stata aleatoria, o meglio, il più

delle volte, assolutamente discrezionale.

Pur se ancora con qualche incertezza, quell’atto legislativo determinò la nascita di un mercato garantito dalla legge in materia di contratti a

lunga scadenza, e quindi anche di quel particolare “contratto” rappresen-tato dalle emissioni azionarie e dalle transazioni relative ai titoli delle

stesse, favorendo l’afflusso dei capitali stranieri ma anche, e soprattutto,

la ventata di ottimismo, “giuridico” verrebbe da dire, che alimentò una improvvisa propensione del risparmio interno ad indirizzarsi agli inve-

stimenti di rischio27.

E tuttavia ciò non sarebbe stato sufficiente se non fossero contem-poraneamente sorte istituzioni finanziarie in grado di supportare questa

euforia degli investitori. Si può far datare il loro comparire a partire dalla costituzione, nel 1860, di un istituto centrale d’emissione. Pochi

anni dopo (1864) nacque la prima banca commerciale, cui presto

seguirono numerose altre; a San Pietroburgo nel 1875 ne esistevano già 25, e a Mosca ne erano nel frattempo sorte altre 5. Ma, accanto a

queste, si svilupparono presto le Associazioni di mutuo credito

(qualcosa di simile alle banche popolari promosse in Italia da Luigi Luzzatti) e le banche municipali: nel 1875, le prime superavano ormai

la ottantina, mentre le seconde avevano quasi raggiunto le 250 unità. A queste, che muovevano essenzialmente il risparmio urbano, si unì nel

1883 la Banca fondiaria dei contadini che si attivò, con un numero

crescente di sportelli, nella raccolta del piccolo risparmio rurale. La crescita del numero di istituti bancari si rifletté positivamente sullo

sviluppo economico: se fino al 1861 la raccolta delle poche banche

26 W.G. WAGNER, Tsarist Legal Policies at the End of the Nineteenth Century. A Study in

Inconsistencies, “Slavonic and East European Review”, LVI, 1976, p. 393. 27 Qualche dato è, al proposito, significativo, e riguarda le sottoscrizioni azionarie

nelle compagnie ferroviarie. Tra il 1851 e il 1860 dei 178 milioni investiti, quasi 130

venivano dall’estero. Dei 700 milioni di capitale azionario emesso tra il 1861 e il

1870, oltre il 65% venne sottoscritto da cittadini russi, il che testimoniava del clima

di fiducia che la riforma del ‘64 aveva innescato tra i risparmiatori.

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esistenti (si trattava, in genere, delle c.d. Banche di risparmio28) indiriz-zava gli impieghi prevalentemente ai titoli di stato, nel 1876 la situa-

zione appariva molto diversa, stante che l’attivo dei nuovi e numerosi istituti era nella stragrande maggioranza costituito da azioni ferroviarie

e da obbligazioni ipotecarie su fondi agricoli.

Se l’investimento dei singoli investitori, ma più ancora quello delle ban-che, si rivolgeva al mercato azionario, quest’ultimo appariva comunque

ancora arretrato. Certo, esisteva una Borsa, sorta a San Pietroburgo fin dal 1703, ma solo una piccola parte delle transazioni (sia che in merci

che in titoli) passava di lì, la maggior parte avvenendo direttamente tra

“venditori” [le società emittenti, nel caso di titoli azionari] e “compratori”. Pesò a lungo, nel difficoltato decollo di un mercato borsistico maturo, e

quindi impersonale, il ritardo con il quale lo stato rimosse il rigido vin-

colismo sulla formazione e sulla gestione delle società azionarie: non fu, ovviamente, una caratteristica solo russa29, ma pesò qui più che altrove

perché lasciò inespresse molte potenzialità imprenditive. La costituzione di società azionarie, già regolamentata in atti norma-

tivi che risalivano al ‘700, e quindi all’epoca preindustriale, era stata

parzialmente innovata con uno Statuto del 1836, che tuttavia manteneva pressoché inalterato il complesso iter autorizzativo cui, per poter ope-

rare, erano soggette le società private.

Nel 1861 il governo di Alessandro II, premuto soprattutto dai grandi investitori stranieri, decise di procedere ad una radicale riforma degli

istituti societari; ma essa tardò quasi un decennio, dato che fu emanata solo nel febbraio 1870. Il provvedimento, che costituiva una sostan-

ziale abolizione dei vincoli precedenti, rileva perché da esso conseguì,

nel 1874, la regolamentazione (e quindi un’altra “certezza” giuridica) del-l’attività di mediazione e di speculazione borsistica, dando così luogo

alla nascita di un mercato finanziario coerente alle esigenze di un’econo-mia industriale di mercato. Alla Borsa della capitale si affiancarono

presto analoghe istituzioni (ancorché di minore importanza) nei princi-

pali centri russi. Alla vigilia della prima guerra mondiale, se ne conta-vano ben 115, anche se nella maggior parte di esse le contrattazioni

28 Queste erano abbastanza simili per ordinamento, e funzioni, alle Casse di rispar-

mio dell’Occidente europeo, focalizzandosi più alla tutela e modesta remunerazione

dei depositi che non al sostegno delle attività economiche. 29 Rimando al caso italiano descritto nel capitolo X, che parzialmente si intrattiene

sulla lunga battaglia parlamentare dell’industriale laniero (e senatore del regno) Ales-

sandro Rossi che alla fine portò alla liberalizzazione delle società anonime.

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riguardavano principalmente derrate agricole e materie prime (carbone, legname, minerali ferrosi), e solo parzialmente azioni ed obbligazioni.

Pure il sistema fiscale venne aggiornato, ma non sino al punto da po-terlo comparare con i principi in uso nei principali paesi industriali del-

l’Europa occidentale. E comunque si trattò di una riforma molto lenta.

Il testatico, imposta medievale ed odiosa poiché colpiva ogni individuo

per il solo fatto di esistere, venne abolito solo nel 1885, ma bisognò at-

tendere il 1916 perché venisse introdotta, quale misura eccezionale di guerra, la tassazione sul reddito. Nel frattempo, al fabbisogno statale

veniva fatto fronte con una timida tassazione sui patrimoni fondiari e

immobiliari, e con crescenti imposte sui consumi, invero inique quanto il testatico. Fu anche questa una causa della cd. Rivoluzione del 1905,

ancorché originata dalla disastrosa guerra con il Giappone, che costrinse

Nicola II a concedere la Costituzione e ad (almeno teoricamente) ga-rantire alcuni basilari diritti civili. Una prima concretizzazione di tali

diritti fu, comunque, un ulteriore allargamento della libertà di movimento dei contadini, straordinariamente utile in una fase di ripresa del processo

industrializzante dopo la depressione dei primi anni del secolo.

5. Finanza nazionale, e penetrazione del capitale straniero

È indiscutibile la presenza del capitale straniero nella prima industria-

lizzazione russa, peraltro comune a buona parte dei paesi periferici, alla

cui categoria la Russia è indubbiamente ascrivibile. E tuttavia conviene analizzare meglio in quale peso essa si manifestò. A partire da un com-

parto strategico dal punto di vista dell’energia da vapore, vale a dire l’estra-

zione di carbone. Uno storico di prima età sovietica ha valutato che, nel 1913, tre quarti

delle imprese attive in quel settore, erano pressoché totalmente dipen-denti dai capitali di banche straniere, quelle franco-belghe innanzitutto,

seguite da quelle tedesche e franco-tedesche30. Come dire che il capitale fran-

cese, in Russia come in altri paesi periferici – ad esempio in Spagna – è stato cruciale nello sfruttamento delle risorse carbonifere. Con l’av-

vertenza, tuttavia, che non tutta la produzione rimaneva poi nel paese di

produzione, prendendo in parte la via dell’esportazione. Nella storiografia economica, peraltro, è nota (e, per certi versi, anche

30 Cfr. N. VANAG, Finansovyj kapital v Rossii, Moskva, 1925, pp. 123 e 125.

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La prima industrializzazione russa

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condivisibile) la tesi di A. Gerschenkron circa il cruciale ruolo di “sup-plenza” svolto – in carenza di una sufficiente disponibilità di capitali

locali – dagli investimenti bancari dei paesi terzi. Con, tuttavia, una specificazione: la carente disponibilità di capitali nazionali nei paesi

“periferici” non va intesa (come Gerschenkron ha teso invece spesso a

ritenere31) come carenza assoluta di risorse finanziarie, quanto come re-sistenza dei ceti redditieri all’investimento di rischio. Il che sta a dire che,

pur in presenza di uno stock di capitali anche rilevante, solo una parte di

esso era disponibile a mobilitarsi nelle attività produttive, indirizzando-

si piuttosto a un mix variegato di titoli del debito pubblico dei principali

paesi europei e alle obbligazioni ferroviarie, in genere statunitensi. Ciò fu vero in Russia, ma anche in altri paesi di tardiva industrializzazione

come l’Italia. Del resto, Gerschenkron ha utilizzato per Russia e Italia le

medesima argomentazione della mancanza di capitali come freno al pro-cesso di industrializzazione, sottovalutando sia l’entità dello stock di capi-

tale esistente, sia i fattori psicologici che rendevano gran parte di tale massa finanziaria indisponibile all’investimento di rischio.

Non ci furono, comunque, solo le banche straniere nella modernizza-

zione russa. Un ruolo di non poco conto fu svolto dalle banche commerciali di San Pietroburgo e di Mosca, e in particolare da quelle moscovite. La

Banca commerciale di prestiti dell’antica capitale, fondata nel 1856, di-venne presto una delle maggiori del paese, tallonata dalla Banca di

sconto, sua diretta concorrente. In tali istituti, l’azionariato principale

non era finanziario, bensì soprattutto di industriali tessili, e infatti la mag-gior parte degli impieghi furono rivolti alle attività di quel settore, dap-

prima sotto forma di prestiti d’esercizio, poi assumendo partecipazioni

nelle singole imprese. Il fatto che fossero capitali di origine industriale ad essere investiti nelle attività bancarie moscovite contraddice, in parte, la

tesi di Gerschenkron circa la natura necessariamente finanziaria del capi-tale bancario. Certo, la presenza di capitale industriale non fu comune a

tutte le banche, e certamente non in quelle di San Pietroburgo, dove la com-

ponente finanziaria, soprattutto straniera, risultò decisiva. E ciò si rifles-se anche nella modalità di impiego dei depositi: che se a Mosca furono

prevalentemente “a breve” (con dilazioni massime a 9 mesi per il credito com-

merciale), nelle banche della capitale si indirizzarono in gran parte agli in-vestimenti a lungo termine, soprattutto nel settore delle industrie estrat-

31 A. GERSCHENKRON, The Modernization of Enterpreneurship: Id. Continuity in History

and Other Essays, Cambridge (Mass.), 1968, pp. 128-129.

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Capitolo undicesimo

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tive e metallurgiche. La loro funzione nei prestiti di tal tipo, rese più stret-ti di quanto non avvenisse per gli istituti moscoviti i legami col ministero

delle Finanze. Nei periodi di crisi, la Banca di Stato (riformata nel 1897) collaborò – con forti iniezioni di capitale, o meglio giocando il ruolo di

“prestatore di ultima istanza”32 – a garantirne il funzionamento, consi-

derato strategico nel processo industrializzante. Convintisi dell’efficacia del sostegno governativo, gli investitori esteri acquistarono dopo il 1908

quantità crescenti di azioni delle banche russe, cosicché nel 1916 – in pieno conflitto mondiale – risultava in mani straniere quasi la metà del

capitale complessivo delle dieci maggiori società di credito. È indubbio

che l’afflusso di capitali esteri accelerò l’incremento della dimensione me-dia delle banche, in un processo di accentuata concentrazione sia in termini

di proprietà azionaria che nell’entità dell’attivo detenuto dalle principali

banche. Ha osservato Gerschenkron che «pochi fenomeni sono altrettanto

sorprendenti dei grandi cambiamenti intervenuti nei valori, negli atteg-giamenti e nelle regole di condotta degli imprenditori russi nel corso di una

sola generazione, tra il penultimo decennio dell’Ottocento e gli anni che

precedettero la prima guerra mondiale. Ebbe [infatti] luogo uno stupefa-cente processo di modernizzazione, non prima ma proprio durante una

fase di intensa industrializzazione, e quale sua conseguenza diretta»33. Nel

decennio 1889-99, ad esempio, il numero delle società azionarie crebbe da 504 a 1.181, con un capitale complessivo di 1.737 milioni di rubli: di que-

sti, ben 911 erano in capo ad azionisti stranieri (nel 1870 le sottoscrizioni dal’estero ammontavano a soli 27 milioni di rubli, il che testimonia del

progressivo appeal assunto dal mercato russo. Questa fase espansiva nella

formazione di società azionarie si bloccò bruscamente durante la reces-sione dei primi anni del ‘900, e riprese (anche se con minore intensità) solo

a partire dal 1911. L’afflusso di capitale straniero fu perciò cruciale nell’industrializzazio-

ne zarista, e tale era del resto ritenuto dallo stesso ministro delle Finan-

ze, Witte, che nel 1899 così si esprimeva scrivendo allo zar Nicola II: «[Esso costituisce] la condizione sine qua non perché la nostra industria

si ponga in grado di rifornire rapidamente il paese con prodotti abbon-

32 Con ciò assolvendo al compito tipico degli istituti di emissione da tempo in uso

in Occidente, attraverso il meccanismo del risconto sui titoli detenuti dalle banche

onde rifornirle di nuova liquidità. 33 GERSCHENKRON, The Modernization of Enterpreneurship, cit.

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danti e poco costosi. Ciascuna delle nuove ondate di capitale provenienti dall’estero compromette il livello eccessivamente elevato di profitti cui

sono abituati i nostri uomini d’affari monopolistici, costringendoli a ri-cercare profitti altrettanto elevati mediante miglioramenti tecnici tali da

provocare riduzioni dei prezzi»34. Il che sta a dire che Witte affidava agli

investimenti esteri non solo il compito di aumentare lo stock di disponi-

bilità finanziarie utili alla crescita industriale del paese, ma anche quello

(immateriale) di favorire/affinare nell’imprenditoria locale mentalità più moderne e, tutto sommato, meno parassitarie. Mancano studi specifici

sull’argomento, ma è presumibile ritenere che gli stranieri che combina-

rono il possesso di azioni a funzioni manageriali all’interno delle società partecipate, riuscirono a imporre comportamenti tendenzialmente più

affini a quelli in uso nei paesi da cui essi provenivano. Certo, l’agire al-

l’interno di un paese arretrato poteva anche portare in qualche misura ad assimilare la mentalità “predatoria” dei soci russi, ma la maggiore abitu-

dine a confrontarsi con mercati più maturi può aver indotto, secondo le aspettative di Witte, a una qualche (positiva) modificazione nelle moda-

lità operative delle imprese partecipate.

Riservando i finanziamenti o le iniziative dello Stato ai soli investimen-ti in infrastrutture, ferroviarie soprattutto, Wítte lasciò disponibili per gli

imprenditori privati tutte le altre opportunità economiche. Conviene ri-cordare come i due terzi della rete ferroviaria fossero partecipati in mi-

sura maggioritaria dallo stato, mentre scarse erano le risorse finanziarie

da questo direttamente destinate al sostegno di altri comparti. Non manca-rono, tuttavia, episodi di “salvataggio” pubblico di imprese sull’orlo del

fallimento. E ciò non tanto per salvaguardare l’occupazione, quanto per

evitare gli effetti moltiplicativi che il crollo di qualche grande impresa po-teva determinare nel sistema: il tutto con un effetto rassicurante nei con-

fronti degli investitori stranieri, forse il vero obiettivo dell’intervento statale. Esso, comunque, non significò mai la nazionalizzazione delle

imprese in crisi, ma solo un temporaneo, ancorché consistente, aiuto

finanziario. Ma quale fu, davvero, il contributo del capitale straniero all’economia

russa? Possiamo riassumerlo nei quattro punti indicati da J.P. Mckay,

34 Riprendiamo questa argomentazione da M.C. KASER, L’imprenditorialità russa, in

Storia economica Cambridge, vol. 7/II, cit., p. 595, autore del quale siamo peraltro

debitori per parte dell’impianto di questo capitolo.

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uno di principali studiosi occidentali che si sono occupati del tema35: a) presente in Russia ben prima del 1870, tra il 1881 e il 1913 il capitale

estero rappresentò approssimativamente la metà di tutti gli investimenti industriali effettuati in quel paese;

b) esso favorì, anche in misura allo stato non quantificabile, investi-

menti di capitali locali al di fuori del territorio nazionale, in una sorta di internazionalizzazione della finanza russa;

c) diffuse tecniche produttive e gestionali molto più progredite di quelle in uso nelle aziende locali, in particolare in quelle estrattive, metallur-

giche, della lavorazione dei metalli, e della produzione elettrica e chimica,

in buona parte delle quali vennero presto raggiunte strutture di costo para-gonabili a quelle dell’Europa occidentale;

d) incise negli atteggiamenti degli imprenditori locali, in particolar modo

favorendo/imponendo il reinvestimento sistematico di buona parte dei profitti, nonché la formazione dei lavoratori e la rimozione degli ostaco-

li spesso frapposti all’assegnazione di funzioni direttive a personale ebreo o polacco, in particolare nella Polonia russa36.

A proposito dei territori polacchi dell’impero, conviene ricordare che

essi ebbero non solo un ruolo di “colonia” industriale, ma anche di sup-porto finanziario alla modernizzazione economica dell’impero.

Ciò fu dovuto al sorgere in quell’area, in parte grazie a finanzieri ebrei,

di alcune banche d’investimento, e soprattutto della Banca commerciale di Varsavia, che ben presto approdò anche a San Pietroburgo. Nel 1873

il giro d’affari di questa banca a Varsavia e nella capitale non era molto dissimile (414 milioni di rubli a Varsavia, 521 milioni a San Pietroburgo);

35 J.P. MCKAY, Pioneers of Profit: Foreign Entrepreneurship and Russian Industrialization,

1885-1913, Chicago, 1970, pp. 380-83. 36 La Polonia orientale, come è noto, era una sorta di protettorato degli zar, e lì il ca-

pitale russo fu particolarmente attivo, a partire dal settore tessile, ma compartendo

la propria influenza con non indifferenti capitali tedeschi. Esisteva, tuttavia, anche

una vivace imprenditoria autoctona, in parte di religione ebraica, impegnata sia nel

tessile – soprattutto cotoniero – sia nelle attività estrattive e metallurgiche. Il capitale

straniero, tedesco in particolare, era indifferente all’origine etnica dei tecnici e dei

dirigenti dato che li sceglieva unicamente in base alla loro competenza ed efficien-

za. Per gli imprenditori russi le cose erano più complicate, dato che mal sopporta-

vano nei posti di responsabilità personale che non fosse di nazionalità russa, in ciò

appoggiato anche dal governo zarista che aveva nei territori polacchi avviato una

politica di russificazione spinta, soprattutto dopo la rivolta del 1863, peraltro

sedata nel sangue.

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solo tre anni dopo, però, la situazione era mutata radicalmente, superando l’attività nella capitale di quasi tre volte quella a Varsavia. Fu un rappor-

to che tuttavia si invertì a fine secolo, allorché la concorrenza bancaria si fece più aspra in Russia, mentre crebbe considerevolmente la doman-

da di credito in una Polonia nella quale il numero di banche era sensibil-

mente inferiore: nel 1900 la Banca registrava, con le filiali che ave-va nel frattempo aperte in altre aree polacche, un giro d’affari di 1.105 mi-lioni

di rubli, contro i 307 sviluppato nella capitale russa. La Banca commerciale di Varsavia era particolarmente attiva nei pre-

stiti all’industria metallurgica, soprattutto ucraina, nel comparto cotoniero

e nei finanziamenti a vari settori d’attività sviluppatisi nei territori pro-gressivamente aperti alle comunicazioni dalla ferrovia Transiberiana.

Oltre che a evidenti ragioni economiche, l’atteggiamento del governo

che dal giugno 1906 al settembre 1911 resse il paese, quello di Pëtr A.

Stolypin, favorevole a che le nuove iniziative industriali si collocassero

lungo la strada ferrata in costruzione, era dovuto alla preoccupazione di

evitare una eccessiva concentrazione operaia nella Russia europea per

scongiurare il rischio che si potessero determinare pericolosi focolai di sovversione socialista in aree eccessivamente prossime al potere centra-

le. L’azione politica di P.A. Stolypin, la cui vita fu stroncata da un attenta-

to di incerta matrice, non fu tuttavia improntata alla sola repressione dei

fermenti rivoluzionari (prima di assumere la guida del governo, era stato pe-raltro abile, e risoluto, ministro degli Interni), ma – in qualche modo –

anche a una forte azione riformatrice, tanto che lo si può considerare, al

pari di S. Witte, uno dei pochi grandi riformatori d’età zarista. Nel novembre 1906, pochi mesi dopo essere diventato ministro, egli fece

infatti promulgare da Nicola II una nuova legge di riforma agraria che allargava la proprietà privata dei piccoli contadini perseguendola attra-

verso un istituto di credito pubblico, la Banca Agraria dei Contadini.

Questa fu abilitata a comprare, contrattandola al ribasso, una estesa quan-tità di terre inutilizzate mettendole a disposizione dei contadini che

potevano acquistarle a credito grazie a una speciale garanzia del Tesoro statale. Ne usufruì circa mezzo milione di capifamiglia, che entrarono in

possesso di quattro milioni di ettari. Stolypin tendeva a trasformare una

parte dei contadini poveri in piccoli proprietari, nell’obiettivo di fare della Russia una sorta di “federazione” di proprietari, dai più piccoli ai più

grandi; il tutto nell’idea, dal punto di vista di un aristocratico fedele alla

corona quale egli era, di costruire un blocco sociale che si identificasse

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nei destini della monarchia zarista. Esito non scontato, e infatti alla fine non conseguito, anche per le tensioni modernizzanti che attraversavano

non solo la borghesia agraria, ma parte della stessa aristocrazia, ostile ad una visione “conservatrice” della costituzione che Nicola II pure era stato

costretto a concedere.

6. La “cartellizzazione” dell’industria russa

La depressione che esplose all’inizio del ‘900, accelerò la latente car-

tellizzazione dell’industria già emersa negli ultimi due decenni del seco-

lo precedente. Nel 1892 era ad esempio sorto il cd. Sindacato del petro-

lio, che ebbe subito l’appoggio del governo. Il quale favorì successivamente

(1895) la trasformazione di un accordo privato tra i raffinatori di zucchero

in un cartello formale, dando esso stesso origine a un monopolio per la

produzione di bevande alcoliche, in parte strutturato sul modello france-

se della régie des tabacs, in parte sui permessi di distillazione ai produttori

agricoli introdotti – prima ancora dell’unificazione tedesca – dal regno

di Prussia.

Per Witte, ma ciò valse dopo anche per Stolypin, non esisteva «contrap-posizione netta tra l’impresa di Stato e quella privata, sinché ciascuna di

esse si fosse attenuta alla sfera di attività nella quale aveva dato la prova d’essere più efficiente»37. In questa ottica, i cartelli potevano anche formar-

si tra imprese private e imprese pubbliche, al fine di meglio coordinare

le rispettive attività. E Witte incoraggiò sistematicamente le associazioni nazionali e locali di industriali, commercianti e funzionari, più volte

sostenendo che il governo «non avrebbe sollevato ostacoli» se l’industria

«avesse trovato utile di combinare gli sforzi al fine di cercare una via d’u-scita alle difficoltà del momento»38. Il riferimento era, ovviamente, alla

recessione d’inizio secolo. È indubbio che, al di là dell’emergenza di una congiuntura particolar-

mente sfavorevole, la cartellizzazione (che costituiva di fatto un processo

di concentrazione industriale) rispondeva anche ai vantaggi in termini di economie esterne che così potevano essere conseguite. Era del resto

naturale che – in una delle prime fasi dell’industrializzazione e con una

37 R. HARE, Portraits of Russian Personalities between Reform and Revolution, London,

1959, p. 306. 38 LAUE (VON), Sergei Witte…, cit., p. 677.

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ingente quantità di risorse naturali ancora da sfruttare – la possibilità di realizzare, più che economie di scala, economie esterne fosse molto ap-

petibile per le imprese russe. Le quali tendevano inoltre a importare dall’Occidente la tecnologia più avanzata (l’industria russa dell’acciaio

era all’avanguardia all’inizio del xx secolo) e ad applicarla in unità di mag-

giori dimensioni, come avvenne nel bacino del Don dove sorsero officine metallurgiche tra le più grandi del mondo. La disparità tra le economie

di scala interne e quelle esterne rese possibili dalla cartellizzazione do-vette esercitare uno stimolo di particolare vigore, che del resto addirit-

tura si esasperò nelle grandi concentrazioni produttive d’età sovietica.

I primi cartelli, ad esempio quelli già citati del petrolio e dello zucche-ro, non erano tuttavia strutture organizzative eccessivamente rigide. Fu

nella “regione Polacca” fecero la loro comparsa cartelli rigidamente disci-

plinati, dapprima nel settore del cemento (1901) e della metallurgia (1902). Il sindacato del petrolio del 1892, limitato al commercio d’esportazione,

era stato concepito, auspice il governo, per competere con la Standard Oil sui mercati esteri. I campi petroliferi di Baku erano sfruttati in parte

da una gran massa di piccoli produttori, di origine tatara o armena, e in

parte da qualche grande società. Il primo passo verso un rigoroso controllo della produzione sul mer-

cato interno avvenne con l’organizzazione di consultazioni periodiche

nell’ambito delle associazioni di produttori; fu quindi creato un Consi-glio congressuale degli industriali del petrolio di Baku, mentre si formarono

analoghi gruppi per i campi carboniferi o minerari della Russia del Sud, degli Urali e della stessa “regione Polacca”. L’organizzazione degli in-

dustriali petroliferi diede vita nel 1902 ad un’agenzia di vendita asso-

ciata, denominata Prodamet, che giunse nel 1908 a controllare circa il 70% circa di tutta la produzione nazionale. Vennero analogamente

create due agenzie di vendita per prodotti metallici (1902) e per tubi e

vagoni ferroviari (1904): quest’ultima riuscì a praticamente monopo-lizzare il mercato. Un sindacato altrettanto importante, ancorché diver-

so in quanto controllato principalmente da compagnie francesi e belghe, fu quello carbonifero del bacino del Donec (Produgol) creato nel 1906,

che arrivò pressoché subito a controllare il 75% della produzione lì rea-

lizzata. Altri cartelli risultavano di minor dimensione, ma ugualmente importanti, come il Comitato per i metalli e i prodotti metallici degli

Urali (1904) e il Congresso dei costruttori di macchine agricole (1907), i quali – pur organizzati in forme meno rigorose – giunsero tuttavia a rag-

gruppare facilmente i tre quarti della produzione dei rispettivi settori.

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Le associazioni dei produttori tessili non riuscirono invece mai a rag-giungere tali livelli di concentrazione: né l’Associazione dei cotonieri

della regione centrale (che nella sua massima estensione a mala pena riuscì a superare il 40% della produzione complessiva), né tanto meno

quelle degli industriali lanieri e degli industriali linieri. La spiegazione

sta non solo nella estrema frammentazione di quei comparti, ma – più ancora – nella congenita lentezza dei salti tecnologici nei loro proces-

si produttivi, tanto che i tentativi concentrativi nel tessile non erano riusciti nemmeno negli Stati Uniti.

Al vertice della sistema dei cartelli stava una complessa gerarchia di

organizzazioni consultive, a partire dal “Congresso dei congressi dei rap-presentanti del commercio e dell’industria”, costituito nel 1906, che fun-

geva da portavoce presso il governo dell’industria nel suo complesso39.

Ma la generalità (e, per certi versi, genericità) degli interessi di cui esso era patrocinatore, portò al sorgere di rappresentanze più settoriali, come

l’influente “Ufficio consultivo permanente degli industriali del ferro”, che rappresentava l’intera metallurgica russa e che fu presto in grado di effica-

cemente condizionare le scelte politiche che riguardavano i suoi associati.

Un tale fervore associativo, a meno che non si trattasse di cartelli, non

rispose necessariamente a logiche lobbistiche o strettamente economiche,

mirando piuttosto a migliorare l’immagine sociale e l’influenza degli im-

prenditori, in modo da far progredire quella legittimazione dell’iniziati-

va privata alla cui mancanza, fin dai tempi di Pietro il Grande40, aveva

dovuto in qualche modo supplire l’intervento statale41. Questo attivismo

favorì del resto, dopo l’entrata della Russia nel primo conflitto mondiale,

il protagonismo imprenditoriale nella gestione dell’economia di guerra,

della quale le principali organizzazioni (di cartello, o meno) assunsero di

fatto il controllo. Che, tuttavia, si rivelò presto inadeguato, soprattutto

dopo che l’esercito russo subì una grave sconfitta a Galich, città polacca

39 Secondo i critici dell’epoca, l’operato del “Congresso dei congressi” fu spesso

inquinato dagli stretti legami che esistevano da sempre tra gli industriali di San Pie-

troburgo, dove aveva sede tale organizzazione, e i ministeri. Tale opinione è riassu-

mibile in questa frase tranchante, riportata in J.D. WHITE, Moscow, Petersburg and the

Russian Industrialists, “Soviet Studies”, XXIV, 1973, p. 416: «[…] nel perpetuo con-

tatto con la burocrazia sclerotizzata, la rappresentanza dell’industria e del commercio

divenne essa stessa una sorta di burocrazia industriale». 40 Pietro I (1682-1725), detto Pietro il Grande, regnò dal 1696 fino alla morte, con-

notando la sua azione con un forte interventismo governativo in economia. 41 È la tesi di GERSCHENKRON: The Modernization of Enterpreneurship, cit., pp. 128-39.

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ai confini con l’Ucraina42, da dove iniziò l’avanzata nemica in Ucraina.

L’inferiorità del sistema di produzione bellica russa, e dei rifornimenti ali-

mentari alle truppe, apparse allora in tutta la sua gravità, e si corse presto

ai ripari con la costituzione da parte del governo (giugno 1915) di un

Consiglio speciale per il coordinamento degli approvvigionamenti belli-ci, cui presto si affiancarono su iniziativa delle imprese private due distinti

(e tra loro conflittuali) Comitati centrali delle industrie di guerra: uno

nella capitale e l’altro a Mosca, quest’ultimo sorto per il timore degli im-prenditori moscoviti che quello di San Pietroburgo accaparrasse a favore

dei propri associati tutti i contratti di fornitura all’esercito, poi tuttavia

unificandosi. Si sperava così che l’attività coordinata di un’organizzazio-ne non ufficiale portasse ad un superamento della inefficienza governativa,

e in parte fu così. Il comitato unificato di San Pietroburgo e di Mosca comprendeva non solo le imprese, ma anche rappresentanti eletti dai

lavoratori delle fabbriche, ancorché assolutamente minoritari; il loro in-

serimento aveva lo scopo di motivare le maestranze nello sforzo bellico, anche se ciò non evito ricorrenti scioperi e proteste di ordine sia sala-

riale che organizzativo.

L’unificato Comitato centrale delle industrie di guerra trovò in parte il modo di coordinare le proprie attività con gli omologhi comitati gover-

nativi’, ottenendo quattro posti nel ricostituito Consiglio speciale per la difesa (agosto 1915). Quest’ultimo svolse in parte il ruolo di mobilita-

tore/organizzatore dello sforzo produttivo bellico, anche se meno effica-

cemente di quanto non avvenne negli analoghi organismi messi in campo in Inghilterra o in Francia nel medesimo periodo, o anche in

Italia con il Sottosegretariato alla Mobilitazione industriale (1916).

Non ci volle molto perché gli industriali si spingessero ben oltre la semplice attività di coordinamento degli appalti e delle forniture di mu-

nizioni. Essi rafforzarono i cartelli già esistenti, e ne crearono di nuovi in forme più istituzionalizzate e paragovernative, ad esempio il Rasmeko,

un comitato per la fornitura di metalli (novembre 1915), ove erano rap-

presentati su basi paritetiche il governo e il Comitato delle industrie di guerra. I nuovi cartelli, le cui denominazioni erano destinate a perdu-

rare in età sovietica durante il c.d. comunismo di guerra, riguardavano le principali materie prime: nell’autunno del 1916 si arrivò alla costituzio-

ne del Centrougol per il carbone, il Centrochlopok per il cotone, il Centro-

42 Galich è nota, in polacco, come Haliz.

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serst per la lana; cui, nel marzo del 1917, seguì il Centroles per il legna-me.

Queste organizzazioni rimasero formalmente in vita tra la rivoluzione “borghese” del febbraio 1917, e quella bolscevica dell’ottobre, esautorate

però di fatto dai «comitati d’approvvigionamento» locali, controllati sin

dal luglio 1916 da un Comitato centrale di raccolta (Zagotovitel’nyj Ko-mitet) e da un Consiglio economico, il cui braccio esecutivo era costituito

dal Comitato supremo dell’economia. Il che stava a significare la rapida sostituzione dei cartelli, e del loro strapotere, con forme di monopolio

statale, a partire da quello per il macchinario agricolo e per il cuoio

nell’aprile 1917, nonché per il carbone del Donec nel luglio dello stesso

anno.

7. La centralità dello stato indotta dalla rivoluzione bolscevica

Da quel momento in poi nulla più fu come prima: ci si avviava rapi-

damente a quel diretto controllo dello stato sul complesso dell’economia

che se era in quella fase motivata dall’emergenza bellica, divenne poi

carattere essenziale (e permanente) del nuovo potere bolscevico. In realtà, ad una completa nazionalizzazione delle imprese industria-

li, ancorché teoricamente prevista, i bolscevichi non miravano in tempi

brevi. Essi ritenevano infatti obiettivo primario assumere il controllo del-le imprese a totale o prevalente capitale straniero, mirando invece per

quelle nazionali ad intese che garantissero, magari con una qualche parte-cipazione statale, una qualche continuità delle produzioni, essendo il ca-

pitale privato ampiamente compensato e/o controllato dalla presenza

di vivaci organizzazioni sindacali attive un po’ in tutte le grandi con-centrazioni industriali, e in misura anche maggiore nelle ferrovie, da

tempo – peraltro – ad ormai prevalente capitale pubblico.

In realtà, nel periodo intercorso tra la rivoluzione dell’ottobre 1917 e la prima grande ondata di nazionalizzazioni avviata nel luglio 1918, ap-

pariva in qualche modo evidente una certa comunità di interessi tra il governo rivoluzionario e gli industriali più accorti per favorire la ripresa

della produzione43.

Le nazionalizzazioni investirono dapprima alcuni singoli impianti,

43 Cfr., a questo proposito, E.H. CARR, The Bolshevik Revolution, 1917-1923, in The

Economic Order, vol. II, London, 1952, p. 81.

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La prima industrializzazione russa

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soprattutto a causa del loro eccessivo indebitamento nei confronti del Tesoro, e poi intervennero alcune iniziative “anarchicamente” assunte da

qualche Soviet locale, come nel caso delle industrie cotoniere del Tur-kestan. Si proseguì, e questo fu un disegno coerente con la necessità as-

sumere il controllo di gangli vitali dell’economia, espropriando nella

loro totalità alcuni settori, quali le banche, e le aziende che gestivano trat-te cruciali dei trasporti per via d’acqua, nonché le imprese attive nella

raffinazione dello zucchero. Nel dicembre 1917 era stato peraltro istituito il Consiglio supremo del-

l’economia (Vesencha), che fu lucidamente concepito come organo di

pianificazione e regolamentazione dell’intera economia nazionale, dan-do vita a monopoli di stato che andarono via via a sostituirsi alle con-

centrazioni costituite dai cartelli privati, ancorché legittimati ad operare

dal governo imperiale. Il Prodamet e il Krovlja (i cartelli per i prodotti dei metalli ferrosi e per il ferro da costruzione) furono trasformati, con

un decreto del Vesencha del 22 gennaio 1918 nelle «amministrazioni dello stato per la regolazione dell’industria dei prodotti ferrosi, sotto la

sorveglianza del dipartimento metallurgico del Vesencha». Seguirono

poi interventi analoghi, anche se modulati nel tempo, per tutti gli altri vecchi “sindacati” industriali, il tutto in continuità con la politica zarista

che aveva favorito il sorgere di tali cartelli/concentrazioni monopoli-

stici. E, tuttavia, fu una “continuità” che rispondeva a una logica diver-sa dell’intervento statale: se in età zarista questo era di sostegno/sup-

plenza rispetto all’iniziativa privata, quello bolscevico mirava invece ad affermare l’indiscusso primato dell’economia statale rispetto a quella pri-

vata in via di marginalizzazione, e comunque confinata a comparti non

strategici. Le vicende della resistenza “bianca” al potere bolscevico, con la por-

tata dirompente dell’appoggio occidentale di cui essa fruì, accelerarono i

processi di statalizzazione dell’apparato economico. Il cui esito ultimo si

può datare con il decreto del 28 giugno 1918, che sancì l’esproprio di

tutte le società il cui capitale eccedesse il milione di rubli in otto settori

industriali d’importanza fondamentale. Ciò segnò rapidamente la fine del-

l’esperimento di un sistema economico nel cui ambito il controllo era

esercitato congiuntamente dallo Stato e dagli imprenditori capitalisti, e l’i-

nizio del periodo – poi conosciuto col termine di “comunismo di guerra”

– che vide il completamento della nazionalizzazione: un decreto del 29

novembre 1920 espropriò infatti senza indennizzo tutte le imprese con

più di cinque addetti se veniva utilizzata energia meccanica, e con più di

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Capitolo undicesimo

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dieci dipendenti se tutto il lavoro veniva eseguito manualmente. Iniziava

una nuova epoca, e con essa si apriva la strada al più intenso – in termini

sia spazio-temporali che dimensionali – processo di industrializzazione

della storia mondiale.