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La gloria del sangue Libro Primo Il clan della Immanem, l’Immortale

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La gloria del sangue

Libro Primo Il clan della Immanem, l’Immortale

Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o luoghi e/o a persone realmente esi-stenti è da ritenersi puramente casuale.

Giulia Coppa

LA GLORIA DEL SANGUE

Libro Primo Il clan della Immanem, l’Immortale

Romanzo fantasy

www.booksprintedizioni.it

Copyright © 2016 Giulia Coppa

Tutti i diritti riservati

“Se fossi quella che sono, ti porterei via con me,

ma l’alba è giunta e con essa scomparirai, ma mia musa imperitura rimarrai.”

Frida e Aletcsa

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Il prato La bottiglia in vetro trasparente risplendeva alla luce brillante e calda del sole. Maggio era uno dei suoi mesi preferiti, quello che amava di più. L’università arrivava al culmine, con gli esami a giugno e poi ci sarebbero state le meritate vacanze. Al mare o in montagna, all’estero o in Italia, non c’era nessuna differenza; la cosa importante era stare con gli amici e divertirsi, fare tutto ciò che si sognava da un anno. E si aspetta il sorriso magnifico di chi ti sta accanto.

Quante volte avevamo pensato, durante i nostri venerdì sera al bar, alla nostra fantastica meta. Ognuno proponeva luoghi tra i più disparati, ma alla fine avevamo deciso, dopo tanti battibecchi, che saremmo tornati un altro giorno su quel discorso. Spegneva-mo gli asti con un bel torneo a calcetto che tanto faceva esultare quelle come me, una volta campionesse e una volta schiappe sen-za confini.

L’erba umida tra le dita aveva un che di consolatorio e la sua freschezza profumava d’estate. Qualche foglia, anche se ancora nel pieno del suo vigore, cadeva a terra, verde e vitale; se si osser-vava da vicino si potevano vedere i sottili disegni della clorofilla e i contorni appuntiti le donavano un aspetto quasi ostile, ma non abbastanza da non prenderla in mano e farla girare tra il pollice e l’indice, tenendola per il sottile gambo dalle venature rosse. Gli aceri erano veramente belli con i loro colori smaglianti.

Certe chiome erano cremisi come il sangue. Il mio sangue, che sporcava le mie mani, le unghie rotte a forza

dello strisciare sulla terra nera, sul marmo. L’ombra dei vecchi

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aceri dava sollievo ai raggi solari e i passerotti come i merli, cin-guettavano allegri, ignari del mondo al di fuori del loro territorio.

Come immaginare qualcosa oltre, se non un vuoto e nuvoloso periodo senza il suo calore. La sua presenza, quel profumo che mai più potrò annusare e farne il mio elisir di passione. Sfiorarne la pelle olivastra, passare le dita tra i suoi capelli castani, colore del cioccolato più dolce. Ora però fondente e amaro come la bile, immortale e immobile.

Le mie belle unghie, lunghe e affilate, da far venire i brividi a chiunque, ora erano state consumate dal tempo, distrutte e scomparsa la loro bellezza. Era rimasto solo il ricordo, come il suo splendore sparito, solo in me, lo sapevo, avrebbe lasciato una ferita così profonda che non si sarebbe mai rimarginata.

Era quasi accecante il riflesso dei raggi caldi e cangianti sul ve-tro e il liquido denso all’interno mi richiamava accattivante oltre ogni dire; nemmeno il piatto o la bevanda più prelibata avrebbe avuto un effetto del genere su di me. Improvvisamente la mente volò al remoto passato, quello dei libri di storia, ad uno dei vari e molti discutibili, usi degli alcolici. Fosse stato come allora, duran-te le crociate. Lo bevevi fino ad ubriacarti e percepire la gola bru-ciare, ti bagnavano la ferita e poi con una bella lama rovente cau-terizzavano. Purtroppo per il mio dolore non vi era una soluzione semplice come quella. Con me, nemmeno questo avrebbe funzio-nato, la ferita era troppo profonda, immersa negli antri scuri del mio essere.

Puntai gli occhi alla bottiglia. Poco era rimasto al suo interno e contando che le mie serate non erano mai state in nome dell’ubriachezza, avevo superato di gran lunga il mio limite nor-male, ma questo pomeriggio, come il giorno prima e quello pre-cedente, sembrava che il massimo non arrivasse mai. Sempre di più, di goccia in goccia. Eppure solo un gran giramento di testa e calori con sudori freddi, che si intervallavano senza sosta, si sus-seguivano altalenanti.

Il tappo, di un innocuo marroncino chiaro in sughero, con la bella scritta in stampatello, al centro della bottiglia, in bianco come l’albero a farne da sfondo, mi chiamava suadente. Allungai il braccio destro, ancora bianco, senza abbronzatura. Strinsi il collo stretto in vetro con una mano e con l’altra, un po’ tremolan-te, svitai il tappo. Portai la bottiglia alle labbra e bevvi tre lunghi

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sorsi. Il calore lento scese lungo la gola, infuocandola. Mi leccai le labbra, posai a terra ciò che rimaneva. Era quasi finita.

Il senso di colpa e il disprezzo verso il mio comportamento sconsiderato stava scivolando via come quella vodka, la migliore che mia madre teneva nel piano bar di casa. L’avevo presa di pri-mo pomeriggio, prima di saltare in macchina e scappare da quel-la dimora, come avrei voluto sfuggire dai mille ricordi mescolati a pensieri melensi che ronzavano nella mente frastornata e strazia-ta. Mi guardai intorno, con fare interrogativo, poi lo vidi. Per prenderlo mi coricai sul prato e toccandolo con la punta delle dita lo avvicinai, aprendolo e prendendo una di quelle sigarette che in quel periodo tanto bramavo. Più ne fumavo, più percepivo il mio cuore battere; ero dipendente da loro, solo per sentirlo vivo nel mio petto. Presi il filtro tra le labbra e lasciandola sospesa nel vuoto per qualche attimo, la accesi e rimasi distesa sull’erba. Il fumo ristorava. In quei brevi attimi non pensavo a nulla, solo al mio cuore, in balia del gusto e dell’odore dolciastro e caldo. L’aria muoveva ballerina le spire grigie sovrastanti, verso il cielo azzurro e le fronde scure degli aceri.

Mi sentivo tremendamente stupida, ma la mia mente si era ri-dotta a pensieri legati indissolubilmente al dolore, tanto che non avevo più nessuna intenzione di proseguire nulla che prima era importante o minimamente rilevante nella mia vita. Le persone, le odiavo tutte, ognuna di loro era inutile, nessuno di loro mi avrebbe mai potuto dare ciò che andavo cercando, perché ormai era andato perduto per sempre. Come una ragazzina, consideravo amiche due sole cose, la vodka e la sigaretta, perché esclusiva-mente con il loro aiuto percepivo il mio corpo come non ero in grado di fare. Da sobria il calore che lo manteneva in vita era scomparso. Le persone non mi interessavano; non capivano e non volevo nemmeno che comprendessero perché il mio desiderio era stare sola, sentirmi sola, sola con lui.

E poi qualcosa cambiò, forse la natura, quella pace che esplo-deva e cresceva rigogliosa intorno a me, indifferente al bene e al male degli esseri umani. Ero inerme davanti al caos ordinato del mondo, di quel piccolo ritaglio di terra che mi avvolgeva rigoglio-so. Malgrado fosse stupendo, non riuscivo proprio a farmi conta-giare da tutto quel…, no… quella vita. Ah… ecco, adesso ho capi-to.

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La vodka. La testa mi girava in maniera spropositata e il cielo prese le sembianze dell’immagine capovolta e ricca di colori del mondo quando sei sulle montagne russe. Un vuoto di stomaco e quanto più mancava il respiro, più era divertente e adrenalinico. Ma quando sei ubriaca una sensazione simile è avvisaglia di un finale tutt’altro che pulito. Dal limbo dell’erba mi alzai di scatto, corsi in mezzo ad un gruppo di aceri e vomitai. Mi piegai sulle gambe, ma i conati erano così forti che dovetti inginocchiarmi, appoggiare una mano a terra e tenermi i capelli lunghi con l’altra. Sottomessa e piegata da ciò che mi teneva scarsamente in piedi, la dipendenza che mi permetteva di andare inutilmente avanti in questa vita.

Dopo qualche attimo di calma e dolori in tutto il corpo, mi rial-zai. Andai a sedermi dov’ero prima e imperterrita, nel giro di qualche attimo, finii la vodka e accesi un’altra sigaretta. Spostai i fiori, le belle rose bianche e rosse, ancora profumate da due giro-ni prima. Solo grazie al bel tempo avevano retto e i petali erano vellutati e soffici al tocco.

Mi misi a gambe incrociate. La testa mi girava molto ma conti-nuai a voltarmi, fino ad arrivare davanti a lei. Bianca, fredda, con venature chiare, argentee, quasi fossero capelli, ma invece, al po-sto di una donna snella e atletica dai lunghi capelli biondo platino e magari un piccolo tatuaggio su un braccio, c’era una fredda, squadrata e spessa lapide.

Le lettere scritte in bella calligrafia gotica riportavano un nome, “Davide Amirante”; sotto la data di nascita “04-10-1992” e di mor-te “25-05-2016”. Come ultima incisione di perenne importanza, la frase dei suoi genitori, di suo fratello e di sua sorella “con amore, i tuoi cari. La tua famiglia ti ricorderà per sempre”.

Certamente nessuno aveva incluso me. La persona che gli era stata accanto più di qualsiasi altra in questi ultimi anni. Io per lo-ro ero sempre stata una presente distrazione. Lo conoscevo da quando era un piccolo bambinetto di sei anni. Eravamo stati grandi amici di infanzia ma ci eravamo staccati a causa del mio trasferimento. Però, quando tre anni fa ero tornata qui, ci erava-mo subito riavvicinati ed erano sbocciati la passione e l’amore. Invece sul marmo della lapide nemmeno un cenno a me, alla sua ragazza.

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L’incoerenza che mi attanagliava da giorni prendeva di tanto in tanto il sopravvento e dopo pochi attimi quell’epitaffio perse di importanza. Era inutile e anche ipocrita, rappresentava tutta la falsità di una famiglia chiusa e ottusa, di parenti che fingevano, ma in realtà nulla del legame di sangue li univa di fatto. Ogni co-sa ha una fine, ma ciò che rimane perpetuo e vivente perde senso. Lui non si ricorderà più di loro. La sua mente è consumata dalla decomposizione. I vermi mangeranno il mio ricordo. La sua ani-ma volerà via pura e dimentica delle fatiche terrene, senza di me. Lui non c’è più.

La mia mano scivolò sulla lapide gelida, così come la testa, i capelli umidi dal sudore, poi la guancia e il corpo. Il mio intero essere si accasciò a terra. I brividi scesero lungo la schiena dima-grita ma non mi importava. Quello stare a contatto con la terra e con l’erba sotto le quali era sotterrato, toccare, stringere e graffia-re quella maledetta lapide era l’unica cosa che mi rimaneva. Nien-te. Avevo perso il tutto, il mio universo era imploso, spazzando via ogni ragione della mia esistenza. Il buio della morte mi strin-geva in un gelido abbraccio che sapeva ancora del profumo di Davide.

Il cimitero di Rial Mosso era piccolo, recintato come quelli del-le storie del terrore, con un cancello e la bassa recinzione smalta-ta in vernice nera. Le lapidi e le poche cappelle spuntavano in mezzo ai pini e agli aceri rossi, con volute e piastrelle in marmo, pietra o nere, ricoperte di muschio umido e licheni. Nomi e nomi si susseguivano sulle tombe, le scritte dorate o di ottone, erose dal tempo, alcune date recavano ancora l’800 e i primi decenni del 900. Altrimenti e per orrore, si vedevano foto di bambini, giovani madri, padri, figli. Le vite spezzate e sotterrate con i loro corpi, sotto una croce e un vaso di fiori, finti persino. E infine vi erano le terrificanti scritte luccicanti, a simbolo di persone appena con-segnate al limbo dell’eternità. Come quella di Davide.

Il mio Davide. Dopo due anni ero riuscita ad amarlo, ma amar-lo veramente, non quelle stupide storielle da diciottenni, una vera relazione, profonda. Ci conoscevamo bene da bambini, poi quan-do ci eravamo ritrovati capimmo di essere completamente diversi ma perfetti. In tutti gli anni in cui non c’eravamo visti, nemmeno sentiti, rincontrarsi cambiò il corso degli eventi, delle nostre vite intere. Ma dopo divenne tutto più bello, più sporco e forte, carico

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di sentimenti e aspettative. Due lunghi anni, le mie storie durava-no al massimo tre, quattro mesi, nulla di più che solo divertimen-to o semplicemente noia e avere la possibilità di chiamare qual-cuno alle due di mattina e sentire che rispondeva nonostante tut-to. Invece con lui non era successo niente di ciò, ero intimidita e anche solo per un messaggio mi facevo castelli in aria. I pensieri prendevano una forma complessa ogni volta che andavano for-mandosi nella mia mente e capivo qualcosa in più, un’ulteriore conferma alla nostra unione. Se mi arrabbiavo la mattina, la sera morivo dalla voglia di vederlo. Non ho mai capito cosa potesse es-sere, per un po’, ma quando compresi, durante una dei quelle in-terminabili ore di lezione, tra i banchi strapieni di fogli, computer e studenti, non smisi di volergli bene e amarlo oltre ogni dire. An-dava tutto per il meglio, scaramucce, litigate, giorni di amore e scappatelle e corse come ragazzini, la leggerezza della complicità, troppo magari e io che ero sempre stata ottimista, ora mi ritrova-vo senza l’amore della mia vita e senza il minimo senso di sicu-rezza, in nessuno.

Capii in mezzo all’erba, tra lapidi e ricordi bagnati di lacrime. Solo ora abbracciai totalmente la convinzione che nonostante io fossi rimasta il mio punto di riferimento, anche lui era importan-te, fondamentale per me e io lo ero per lui. Ma lui non c’era più, non esistevo più nel mondo in cui era ora. Tremendamente mi mancava. Non capisco più niente. Da due giorni a questa parte sto impazzendo. Mi sento ebbra di dolore, persa, non ho un vuoto nel petto, ma un peso enorme in testa e ogni singolo muscolo vibra, trema, quasi stia per sbriciolarsi. Una folata di vento gelido mi fece venire i brividi e la mente si rischiarò per pochissimi attimi, riti-randosi subito dopo negli antri dell’inesistenza.

Il sole era tramontato e l’aria tiepida che preannunciava l’estate si era tramutata in fredde folate. La maglietta a maniche corte ro-sa e i jeans neri, tutti suoi regali, non bastavano a coprirmi. Mi misi la felpa verde, tirai su la cerniera fino al collo e presi le siga-rette. La bottiglia la lasciai appoggiata alla lapide. Il mio persona-le epitaffio. Che chiunque fosse passato di lì avesse visto una trac-cia di un qualcuno non nominato ma che cercava riconoscenza e poneva un altro segno. Mai. Davide. Mai sarebbe ritornato.

Il prato ormai aveva preso il colore giallino e grigio del tramon-to e gli aceri avevano raggiunto le sfumature nere, pari agli abeti