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Università degli Studi di Padova Corso di Laurea Magistrale in Filologia Moderna Classe LM-14 Tesi di Laurea La fenomenologia del meraviglioso nel libro di Marco Polo Relatore Laureanda Prof. Alvaro Barbieri Sabrina Parolin n° matr.1018907 / LMFIM Anno Accademico 2015 / 2016 Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari

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Università degli Studi di Padova

Corso di Laurea Magistrale in

Filologia Moderna Classe LM-14

Tesi di Laurea

La fenomenologia del meraviglioso

nel libro di Marco Polo

Relatore Laureanda

Prof. Alvaro Barbieri Sabrina Parolin

n° matr.1018907 / LMFIM

Anno Accademico 2015 / 2016

Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari

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PREMESSA

Nel corso del Medioevo, si assistette in Europa ad una proliferazione dei resoconti

di viaggio. La rinascita che iniziò ad interessare l’intero continente europeo all’alba

dell’Anno Mille portò con sé anche una ripresa degli spostamenti che avevano subito una

battuta d’arresto durante il periodo altomedievale e che anticiparono quelle grandi

esplorazioni geografiche che avrebbero condotto alla scoperta del Nuovo Mondo.

In territorio italiano, fu lo spazio veneziano a configurarsi, in questo periodo, come

una delle aree dalla più intensa circolazione di uomini e merci: laici ed ecclesiastici,

pellegrini e diplomatici affollavano le vie terrestri e quelle marittime. Era però l’esercizio

dell’attività commerciale a rappresentare una delle principali motivazioni dei viaggi, cosa

che determinò, per l’appunto, la diffusione degli scritti medievali dei mercanti.

Fu proprio in questa temperie culturale e dalla penna di un mercante veneziano1,

Marco Polo, che venne alla luce il primo grande libro di viaggio della nostra letteratura, Il

Milione.

La rassegna poliana, però, non risulta essere un itinerario di viaggio, o perlomeno

non appare essere solo questo2. Nel Milione, infatti, l’autore mette in campo le sue

1 Ciò detto in senso figurato, dal momento che è nota la collaborazione, il “patto” autoriale tra Marco Polo e Rustichello da Pisa, scrittore medievale che provvide, servendosi con ogni probabilità anche di appunti stilati nel corso del viaggio dallo stesso mercante, a mettere per iscritto il vissuto del veneziano nell’Estremo Oriente. È stato ipotizzato, in proposito, che la fisionomia mescidata del testo in questione sia dovuta, almeno in parte, proprio a questo suo carattere biautoriale (vedi, ad esempio, le considerazioni di A. Barbieri, Dal viaggio al libro. Studi sul Milione, Verona, Edizioni Fiorini, 2004, pp. 137-138). 2 Sulle molteplici interpretazioni di cui, nel tempo, è stato oggetto il Milione a causa dell’eterogeneità dei suoi contenuti (ovvero raccolta di mirabilia, manuale di mercatura, opera celebrativa dell’impero del Gran Khan, trattato geografico), si veda A. Barbieri, op. cit., pp. 157- 158, ma pure Gioia Zaganelli ha riflettuto sulla «difficoltà di attribuire ad esso un preciso statuto di genere» e sposato la tesi che questo livre è «molte cose e cose molto diverse, ma non propriamente un libro di viaggio» (In margine a due recenti edizioni del Milione di Marco Polo, pag. 1026, in «Critica del testo», III/3, 2000, pp. 1023-1032), cosa che non gli ha comunque precluso, ravvisa la ricercatrice, «di funzionare, nell’immaginario collettivo, come testo eponimo di un genere» (Ivi, pag. 1030). C’è sempre da tener presente, inoltre, il fatto che «le scritture odeporiche medievali appartengono a un genere dallo statuto incerto e non conoscono la stabilità testuale propria di altre forme letterarie maggiormente codificate (A. Andreose, La strada, la Cina, il cielo: studi sulla Relatio di Odorico da Pordenone e sulla sua fortuna romanza, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pag.90).

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capacità di osservatore puntuale e vivace al fine di cogliere anche gli aspetti più inconsueti

delle cose. In questo modo, egli dà vita ad un lavoro nel quale prevale il carattere

documentario ma in cui non mancano gli elementi fantasiosi e favolosi.

In effetti, uno dei tratti caratteristici dell’opera del Polo è la sfuggevolezza, la

capacità di sottrarsi all’imposizione di etichette e categorizzazioni, cosa che si evince

anche tenendo conto della varietà dei titoli con i quali il libro è circolato3: accanto al

verisimilmente originale Devisement dou monde, nel ramo francese della tradizione

spiccano, in particolare, i fiabeschi Livre des Merveilles o De mirabilibus mundi4 che

favorirono la percezione dell’opera da parte del pubblico come catalogo di eccezionali

ricchezze e rassegna teratologica5.

Il presente lavoro si fonda proprio sulla considerazione che il resoconto poliano è

stato diffusamente interpretato come una raccolta di mirabilia e si ripropone, perciò, di

studiare quali sono le forme assunte dal meraviglioso nel libro redatto da Marco con

l’aiuto del suo compagno di prigionia, Rustichello da Pisa6.

Dopo un discorso introduttivo atto a sondare le cause della rilevanza raggiunta

all’interno della letteratura di viaggio dal meraviglioso, componente in essa immancabile

per ragioni non solo di carattere esornativo, bensì pure strutturale e fisiologico, verranno

ripercorse le pagine del Milione seguendo le tracce rappresentate delle ricorrenze lessicali

riconducibili alla famiglia di merveille.

In seguito ci si accosterà all’analisi delle modalità con cui l’autore del

Devisement tratta l’esotico, inteso sia come alterazione del già noto, (ossia ciò che del

3 «La fluttuazione del titolo si può leggere come segno delle profonde differenze interpretative che corrono tra i rami più significativi della tradizione manoscritta» (Battaglia Ricci, Milione, pag. 89, in Letteratura italiana. Le opere, volume primo: Dalle origini al Cinquecento, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1992, pp. 85-105). 4 Ivi, pag. 89. 5 Ivi, pag. 89 e Dal viaggio al libro, pag. 157 e nota n.° 3. 6 Come rimarca Zaganelli, che la definisce pure «produttrice del racconto» (Viaggiatori europei in Asia nel Medioevo. Note sulla retorica del mirabile, p. 158, in «Studi testuali», 4, 1996, pp. 157-165), nel Devisement dou monde la meraviglia è «l’intenzione narrativa dichiarata» (Ivi, pag. 157).

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mondo altro ha comunque un corrispettivo comparabile nella realtà di riferimento dei

lettori), che come manifestazione di ciò che è privo di omologhi nel mondo di partenza.

Verranno poi studiati più da vicino i contenuti della relazione di viaggio in esame

che riguardano:

� la descrizione delle città;

� la rappresentazione degli animali;

� le alienità antropologiche;

� la dimensione magico-sacrale.

Mediante il percorso che si snoda attraverso i capitoli di questa dissertazione, si

tenterà di provare che la rappresentazione dell’Oriente restituitaci dal testo è da

considerare come il risultato della commistione tra due componenti: ciò che potremmo

definire “meraviglia razionalizzata”, la quale si manifesta sotto forma di abbondanza,

copiosità, opulenza ed estrema magnificenza della realtà indiana, e la varietà di elementi

esotici irriducibilmente altri , non riconducibili alla razionalità, bensì riportabili a

quell’immagine dell’Asia dei portenti, dei mostri, delle cose, insomma, straordinarie

cristallizzatasi grazie ad una plurisecolare tradizione che affonda le sue radici nel mondo

greco.

Testi di riferimento e formule di riferimento abbreviate

L’opinione di Luigi Foscolo Benedetto, grande conoscitore del Milione cui si deve

una mirabile edizione dell’opera poliana7 pubblicata nel 1928, è che il ms. 1116 della

Bibliothèque nationale de France, risalente agli inizi del secolo XIV8 ed indicato con F, sia

7 Si tratta di un’edizione di F corredata da frammenti attinti da altri testimoni (Barbieri, Dal viaggio al libro, pag. 49). 8 Il “narrativo” nel Devisement dou monde: tipologia, fonti , funzioni, pag. 51, in S. Conte, I viaggi del Milione, Roma, Tiellemedia, 2008, pp. 49-75.

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l’esemplare più fedele alla fisionomia originaria del Devisement dou monde, cioè al testo

frutto dell’incontro, avvenuto tra il 1298 e il 1299, dei concaptivi Marco Polo e

Rustichello da Pisa nelle carceri genovesi9.

Partendo dalla valutazione di F come il testimone più vicino alla stesura primitiva

sia per quanto concerne la veste linguistico-stilistica, che l’articolazione tematica

d’insieme10, si ritiene di dover considerare il relatore unico della cosiddetta redazione

franco-italiana quale riferimento imprescindibile e punto di partenza obbligato per

qualsivoglia indagine sul lavoro del Veneziano.

Ecco poste in luce, dunque, le ragioni per cui si è ritenuto di ricavare gli stralci del

testo poliano da proporre al lettore in quanto funzionali ad avvalorare le argomentazioni

esposte nel presente lavoro, dalla trascrizione del ms. Paris, BnF, fr. 1116 curata da Mario

Eusebi ed edita nel 201011.

I prelievi testuali riportati saranno di volta in volta accompagnati da indicazioni

abbreviate sul modello di

F, CXX, 22

dove:

� F segnala la redazione di riferimento, quella franco-italiana per l’appunto;

� il numero romano si riferisce al capitolo del Devisement dou monde da cui è

desunto il passaggio riportato;

� le cifre arabe rinviano alle righe a cui corrisponde il brano oggetto di analisi.

9 Marco Polo, prima edizione integrale a c. di L. F. Benedetto, Firenze, Olschki, 1928, Introduzione, pp. XI-XXXI. 10 I viaggi del Milione, pag. 51 e Dal viaggio al libro, pag. 48 e nota n.° 2. 11 Il manoscritto della Bibliothèque nationale de France fr. 1116, a c. di M. Eusebi, Roma-Padova, Antenore, 2010.

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L’“India favolosa” nel Medioevo

Per quanto concerne i contenuti del dettato poliano, si può parlare di una

commistione tra materiali frutto della diretta esperienza dell’autore e sapere pregresso

desunto da tutta una serie di scritti dottrinali12 che, come nota Leonardo Olschki, deve

aver rappresentato la sostanza del bagaglio culturale di Marco Polo13.

Ripercorrendo il libro di Marco è possibile individuare gli elementi costitutivi di

quell’immaginario esotico occidentale che è andato formandosi nel tempo e che

contraddistingueva la mentalità medievale14.

Tra coloro che si sono occupati della ricostruzione del processo di formazione del

mito medievale dell’“India favolosa”, isolando i testi più significativi in questo senso15,

spiccano i nomi di Jacques Le Goff, Giuseppe Tardiola e Folker E. Reichert 16.

Pur riconoscendo che è molto complicato stabilire con precisione il periodo nel

quale è nato e si è sviluppato il mito dell’Oriente mirabilis17, il secondo osserva che già

negli scritti di Scilace di Carianda (VI-V sec. a.C.), ammiraglio greco che per incarico di

12 Marcello Ciccuto parla, a proposito del «processo compositivo dell’immagine dell’India entro il Milione», di «combinazione fra realtà autoptica, quadro di astrazione teorica e tradizione erudito-letteraria» (L’India del Milione: sistemazione enciclopedica di una scoperta, pp. 69-70, in L’immagine del testo. Episodi di cultura figurativa nella letteratura italiana, Roma, Bonacci, 1990, pp. 63-102). 13 Ne L’Asia di Marco Polo. Introduzione alla lettura e allo studio del Milione, San Giorgio Maggiore (Venezia), Fondazione «Giorgio Clini», 1957, a pag. 50 l’autore rileva il carattere «fra dottrinale e romanzesco, fra oggettivo e fantasioso» della scrittura del veneziano, sottolineando quanto sostenuto pure da Umberto Eco all’interno di uno dei saggi della sua raccolta dal titolo Sugli specchi, ovvero che Marco Polo «non era uomo di molte letture. Di cose europee non doveva averne lette molte. [...] Ma in qualche modo la cultura delle enciclopedie medievali lo aveva toccato», tanto da non riuscire a «sottrarsi all’influenza di quei libri - magari non letti - che insegnavano cosa avrebbe dovuto vedere» (Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani, 1995, pp. 63-64). 14 «Agli occhi degli europei, l’India fu, da tempo immemorabile, un paese da favola, il paese del meraviglioso e dello stravagante. Opulenza e fertilità, che i Greci immaginavano in Oriente – in Asia – erano qui testimoniati in massimo grado» (F. E. Reichert, Incontri con la Cina. La scoperta dell’Asia orientale nel Medioevo, Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 1997, pag. 24). 15 Sono i testi che Le Goff definisce «scritti fantasiosi, posti sotto l’autorità di qualche grande nome di cui la credulità medievale accettava senza esame né dubbio il patronato» alla pag. 263 del saggio L’Occidente medievale e l’Oceano Indiano, in Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 1977, pp. 257-277. 16 J. Le Goff , op. cit,; G. Tardiola, Atlante fantastico del Medioevo, Anzio (Roma), De Rubeis, 1990, pp. 47-67 (di questi si ricorda anche Le meraviglie dell’India, Roma, Archivio Guido Izzi, 1991); F. E. Reichert, op. cit., con particolare riguardo al paragrafo intitolato Le meraviglie dell’India, pp. 23-38. 17 Atlante fantastico del Medioevo, pag. 49.

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Dario I di Persia compì l'esplorazione dell'Oceano Indiano, del Golfo Persico e del Mar

Rosso, come anche nelle Storie di Erodoto (490/480- 424 a.C. circa) sono presenti

racconti di popoli favolosi, di prodigi e di infinite ricchezze che verranno ritenuti

caratteristiche tipiche dei territori dell’Oriente Estremo fino all’epoca delle grandi

esplorazioni18. Lo studioso sostiene, quindi, che l’inizio della diffusione delle notizie che

concorsero a dar vita al mito dell’“India fantastica” sia riconducibile al periodo

dell’espansione verso Est dell’Impero persiano sotto la guida di Ciro il Grande (590-529

a.C.)19. Detto questo, egli sottolinea, però, come il principale divulgatore della “materia

d’Oriente” in Occidente sia ritenuto Ctesia di Cnido, medico greco alla corte di Artaserse

II (405-359 a.C.), il quale nelle sue compilazioni sulle terre ad est della Persia mescola a

notizie veritiere fantasie riguardanti, ad esempio, Cinocefali ed unicorni20. Se a questo si

aggiunge quel rinnovato interesse per l’India determinato dalle spedizioni militari di

Alessandro Magno, che verso la fine del IV secolo a.C. produce il trattato dello storico

greco Megastene (IV-III sec. a.C.), all’interno del quale trovano spazio vecchie e nuove

meraviglie orientali21, si può affermare, citando Tardiola, che furono i Greci «a trapiantare

in Europa il mito dell’Oriente mirabile»22. Quest’ultimo ebbe però definitiva

consacrazione a Roma, basti pensare alle notizie sull’India contenute nelle Georgiche di

Virgilio (70-19 a.C.), nel perduto De situ Indiae di Seneca (4-65 d.C.), nella Naturalis

18 Atlante fantastico del Medioevo, pp. 49-50, ma pure Reichert rileva che Scilace «aveva comunicato ai suoi lettori stupefatti non solo qualche notizia su geografia, botanica e struttura sociale dell’India, ma ancor più sugli esseri favolosi del paese», quali Sciapodi, Macrocefali, esseri dalle grandi orecchie, con un occhio solo o dalle innumerevoli altre stranezze «delle quali non ci si poteva che meravigliare» (Incontri con la Cina, pag. 24). 19 Atlante fantastico del Medioevo, pag. 50. 20 Ivi, pp. 50-51. Se la moderna ricerca filologica ha qualificato Ctesia come un «paradossografo in cerca di effetti», al quale spesso già nell’antichità non veniva dato credito (Incontri con la Cina, pag. 25), il medico greco rimane comunque un autore che fu molto letto, come testimonia il gran numero di frammenti e citazioni (Ivi, pag. 26). 21 Le Goff sottolinea il significativo apporto dell’opera del diplomatico che, raggiunta Patna come ambasciatore, vi raccolse tutti quei racconti favolosi che contribuirono a fare dell’India «il mondo meraviglioso dei sogni dell’Occidente» (L’Occidente medievale e l’Oceano Indiano, pp. 264-265). Reichert parla di «un vero e proprio museo delle cere di pieveloci, esseri dalle grandi orecchie [...], esseri con un occhio solo, con i piedi all’indietro, senza bocca e senza naso, Pigmei, figure paniche con le teste a punta e formiche cercatrici d’oro, Necrofagi e uomini selvatici» (Incontri con la Cina, pag. 27). 22 Atlante fantastico del Medioevo, pag. 51.

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Historia di Plinio (23-79 d.C.)23 o nella più significativa Collectanea rerum memorabilium

di Giulio Solino (III sec.)24. Dello stesso secolo e del successivo vanno invece ricordate la

Vita di Apollonio di Tiana e la traduzione dell’opera attribuita al greco Pseudo Callistene

che riporta le imprese di Alessandro Magno. Se nella prima, composta da Filostrato

attorno al 217, è possibile incontrare la descrizione di figure immancabili

dell’immaginario occidentale dell’Oriente quali la Fenice e gli Sciapodi25, la raccolta di

gesta tradotta in latino verso il 320 da Giulio Valerio col titolo di Res gestae Alexandri

Macedonis dona una dimensione romanzesca al mito indiano26. Le Goff arricchisce

l’indagine sottolineando l’apporto dei contenuti di quegli “scritti fantasiosi” che, trovando

terreno fertile nella credulità dell’uomo medievale, favorirono la diffusione del mito

dell’Oriente mirabile27; tra questi, vengono citati: la lettera di un certo Fermes

all’imperatore Adriano sulle meraviglie dell’Asia (IV secolo ca.) e tre trattati di analoga

natura, ovvero Mirabilia , Epistola Premonis regis ad Traianum Imperatorem e De

monstris et belluis, collocabili tra i secoli VII e X28. Straordinaria fortuna ebbe poi la

Lettera di Alessandro ad Aristotele sulle meraviglie dell’India, traduzione latina del VI

secolo di un originale greco che si ipotizza perduto29, la quale, accogliendo una sorta di

summa delle informazioni sull’India che avevano circolato fino a quel momento, appare

23 Dove l’autore, fa presente Le Goff, aveva raccolto tutte le favole concernenti l’India, sancendo «l’autorità scientifica della credenza di un mondo indiano rigurgitante di meraviglie» (L’Occidente medievale e l’Oceano Indiano, pag. 263). 24 Quest’opera, pur nella sua mediocrità, consentì al suo scrittore di divenire «grande ispiratore delle divagazioni medievali sull’Oceano Indiano e il suo ambiente» (Ivi, pag. 263). 25 Atlante fantastico del Medioevo, pag. 53. 26 L’Occidente medievale e l’Oceano Indiano, pag. 264 e Atlante fantastico del Medioevo, pag. 53, mentre Reichert pone in luce il fatto che «non solo [...] nell’enumerazione enciclopedica dei fenomeni naturali, ma anche in un romanzo educativo e d’avventura potevano inserirsi opportunamente i racconti delle varietà delle creature» (Incontri con la Cina, pag. 32). 27 L’Occidente medievale e l’Oceano Indiano, pag. 263. 28 Ivi, pag. 263 e nota n.° 25. 29 Atlante fantastico del Medioevo, pag. 49. Questo scritto, assieme ad altri testi che costituiscono quella «letteratura leggendaria costruita intorno al re macedone», sottrae «[...] il Paradiso terrestre, le razze mostruose, la rappresentazione dell’India e quant’altro al capitolo dell’enciclopedia, al libro redatto in latino e rivolto alla sola comunità dei sapienti», trasformando ciò «in un arredamento del mondo non più esclusivo appannaggio dei dotti» (G. Zaganelli, Hic sunt Leones. Miti geografici e immagini dell’altrove dal VII al XVI secolo, pp. 14-15, in Exploratorium: cose dell’altro mondo, a c. di I. Pezzini, Milano, Electa, 1991, pp. 14-21). Il contenuto della lettera è scandagliato da Reichert alle pp. 32-38 di Incontri con la Cina.

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come l’ultima tappa di un percorso inaugurato diversi secoli prima, una tessera in grado di

delineare ulteriormente la favolosa geografia orientale e di contribuire all’irruzione del

meraviglioso in bestiari, erbari, lapidari e poemi didascalici altomedievali. Le Goff fa

notare, a tal proposito, il fatto che nelle opere medievali di carattere enciclopedico fosse

consuetudine rintracciare capitoli dedicati all’esposizione del sapere occidentale in merito

ai portenti indiani, come nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (560 ca. - 636)30, nel De

universo di Rabano Mauro (780/784 ca. - 856), nella Imago mundi attribuita a Onorio di

Autun (1080 - 1154), nella Image du monde di Gautier de Metz (XIII sec.), negli Otia

imperialia di Gervasio di Tilbury (1152 ca. - 1220 ca.), nel De proprietatibus rerum di

Bartolomeo Anglico (XIII sec.), nel De natura rerum di Tommaso di Cantimpré (1201 -

1270/1272), nel Tresor di Brunetto Latini (1220 ca. - 1294 ca.), nello Speculum naturale e

nello Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais (1190 ca. - 1264) e nella Imago mundi

di Pierre d’Ailly (1350 - 1420)31. Lo storico francese sottolinea altresì che non solo lavori

di tipo scientifico quali quelli appena elencati, bensì pure scritti fantasiosi di vario genere

erano soliti attingere a quel bagaglio di conoscenze e credenze sul lontano Oriente che era

andato stabilizzandosi nel Vecchio Continente32.

Rispetto all’evoluzione del mito medievale dell’“India fantastica” in esame, Le

Goff e Tardiola ritengono di porre in aggiunta in rilievo l’importanza dell’iconografia:

mosaici ed immagini di contesti religiosi, ma anche illustrazioni a corredo di carte

geografiche, miniature ed opere scultoree costituivano potenti veicoli della tradizione delle

meraviglie indiane, capaci di raggiungere gli strati sociali più popolari e coloro che non

30 Zaganelli pone in rilievo il valore dell’opera che «raccoglie l’eredità della Naturalis Historia di Plinio e del compendio fattone da Solino» e nella quale il Medioevo «trova [...] una serie di informazioni sulle quali i secoli successivi fonderanno le basi della loro cultura» (Miti geografici e immagini dell’altrove dal VII al XVI secolo, pp. 14-15). Ciò è dimostrato dal fatto che «selettivamente riprese, alcune di queste notizie migrano anche in testi di natura molto diversa, che almeno nelle intenzioni si propongono [...] come resoconti di viaggio» (Ivi, pag. 15), genere nel quale può esser fatto rientrare Il Milione, lo scritto oggetto del presente lavoro. 31 L’Occidente medievale e l’Oceano Indiano, pp. 265-266. 32 Ivi, pag. 265.

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avevano accesso o familiarità coi libri33. La rimarchevole diffusione di tali raffigurazioni,

inoltre, testimonia l’incisività dell’influenza del repertorio delle stupefazioni orientali

sull’immaginazione degli abitanti dell’Europa medievale, tanto che, secondo Le Goff, si

può affermare che fossero miniaturisti e scultori ad essere più abili degli scrittori a

tradurre l’immaginario orientale34.

Queste considerazioni preliminari evidenziano ciò che ha contribuito a far a poco a

poco cristallizzare in Occidente l’immagine di un’“India misteriosa”, la quale non può

essere considerata come un semplice topos letterario, ma che era al contrario ritenuta vero

e proprio locus geografico caratterizzato in senso meraviglioso e mostruoso.

Quanto riassunto fin qui permette, inoltre, da un lato di comprendere quanto fosse

pregna di stupefazione l'idea che i viaggiatori europei che si incamminavano verso Est

avevano delle loro mete35, e dall’altro di rendersi conto di quanto l’influenza di questo

corpus di mirabilia abbia condizionato personaggi quali Marco Polo, Giovanni di Pian di

Carpine o Odorico da Pordenone36, facendo sì che per essi esplorare significasse non solo

scoprire nuove realtà, bensì pure riconoscere ciò di cui avevano letto o sentito parlare37.

33 Atlante fantastico del Medioevo, pag. 66. 34 L’Occidente medievale e l’Oceano Indiano, pag. 267. 35 Come fa notare Le Goff ne L’Occidente medievale e l’Oceano indiano, a pag. 261, i viaggiatori medievali «nutriti in partenza di leggende che ritengono verità, portano con sé i loro miraggi e la credula immaginazione materializza i loro sogni». 36 Cito tali figure, grosso modo contemporanee del Polo, in quanto condividono con quest’ultimo non solo un’esperienza nelle terre d’Oriente, bensì pure il fatto di aver ripercorso il loro viaggio all’interno di un resoconto: mi riferisco all’Historia Mongalorum composta da Giovanni di Pian di Carpine di ritorno dalla sua missione in Mongolia e al racconto, conosciuto col nome di Relatio, degli anni trascorsi da Odorico da Pordenone in Asia. 37 Nelle terre da loro attraversate, Marco Polo e molti altri viaggiatori che lo precedettero e successero, «distribuiscono il succo di ciò che hanno letto nei libri e osservato nei bassorilievi delle cattedrali» (Miti geografici e immagini dell’altrove dal VII al XVI secolo, pag. 16). Interessante, in proposito, l’esempio che porta Eco a pag. 64 di Sugli specchi in merito agli unicorni: «Che gli unicorni ci siano, un uomo del Medioevo non lo mette in discussione. [...] Poteva Marco Polo non cercare unicorni? Li cerca, e li trova. Voglio dire, non può evitare di guardare le cose con gli occhi della cultura», salvo poi precisare che il veneziano «una volta che ha guardato, e visto, in base alla cultura passata [...] si mette a riflettere da inviato speciale, e cioè come colui che non solo fornisce informazioni nuove ma anche critica e rinnova i cliché del falso esotismo».

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“Oriente mirabilis” e retorica dell’Alterità

Il paragrafo precedente ha reso possibile la comprensione del processo tramite il

quale è andata radicandosi nella mentalità medievale l’immagine dell’Oriente quale terra

dei portenti38. Ciò ha avuto ripercussioni anche su di quei prodotti culturali strettamente

legati al racconto di esperienze vissute in luoghi remoti e poco conosciuti, ovvero i

resoconti di viaggio.

Una delle caratteristiche di tale tipo di testi, in effetti, è la presenza di mirabilia.

Bisogna partire dal presupposto che per l’uomo medievale la normalità dell’Altrove era la

meraviglia39: «l’ideologia e gli schemi cognitivi dell’Occidente premoderno concepiscono

l’esotico come un endotico rovesciato, plasmano la realtà dell’altrove come un’anti-realtà

sorprendente, strana, curiosa. L’Alterità orientale si configura nella percezione collettiva

come mundus inversus, ribaltamento assiale dei valori consueti»40. Precisato ciò, si può

arrivare ad affermare che la persistenza del meraviglioso all’interno dei testi di carattere

odeporico fosse dovuta alla necessità dell’autore di rispondere alle aspettative della

ricezione: dato che lo scrittore era portato, in fase di stesura dell’opera, a tener conto

dell’orizzonte d’attesa dei lettori, e considerato che nell’immaginario del pubblico

38 Su tale immagine tipologica dell’Oriente pone la sua attenzione pure Ciccuto, il quale sottolinea che «se la meraviglia è diventata un topos del pensiero etnografico medievale, la costante in un processo di rappresentazione mentale o ideale dell’Altro, è perché i libri di meraviglie ne hanno accreditato ogni possibile declinazione [...] aprendo la via a un’equazione realtà orientale : meraviglia, tanto corrente quanto incline a assimilare come storici e fattuali gli apporti più eterogenei, le più inusitate approssimazioni descrittive, qualsiasi leggendario vaneggiamento sulle regioni lontane del mondo» (Storia e mito del Milione, pag. 165, in Icone della parola. Immagine e scrittura nella letteratura delle origini, Modena, Mucchi, 1995, pp. 147-171). È questo il concetto espresso anche da Zaganelli nel momento in cui parla di una «alterità di origine libresca» e la definisce come «quella che precede l’esperienza dei viaggiatori e che fa coincidere l’Oriente con un teatro rigurgitante di mirabilia» (Viaggiatori europei in Asia nel Medioevo, p. 163). 39 Citando da F. Hartog, Lo specchio di Erodoto, Milano, Il saggiatore, 1992, pag. 204: la meraviglia è «la realtà dell’altro». 40 Dal viaggio al libro, p. 185.

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medievale l’esotismo si riconnetteva al mirabile, i mirabilia divennero elementi

onnipresenti delle produzioni etnografiche41.

Alla luce di questo, si può comprendere come la presenza di meraviglie non

compromettesse l’attendibilità dei racconti di viaggio medievali, bensì concorresse ad

affermarne la verosimiglianza. François Hartog arriva addirittura ad inserire tale

inventario del mirabile nell’insieme, da lui individuato, delle procedure messe in atto

dall’autore per “dire l’altro”42: egli sostiene che per essere considerato un resoconto

fedele, il racconto di viaggio debba contenere una rubrica di meraviglie capace di produrre

un generale effetto di serietà. Hartog spiega, insomma, come il narratore non possa

«astenersi da questa rubrica che il pubblico attende» in quanto, omettendola, «le sue

credenziali crollerebbero di colpo»43.

In ultima analisi, quindi, si nota come la presenza di meraviglie e portenti risulti di

fondamentale importanza all’interno della letteratura di viaggio non solo per ragioni

esornative, bensì pure per questioni di carattere strutturale e “fisiologico”. Ciò vale anche

per l’opera di Marco Polo, il quale non esita ad includerle nel suo Milione non solo con

l’intento di abbellire il suo lavoro rendendolo più appetibile al pubblico44, ma anche in

41 Rinvio nuovamente a Barbieri, Dal viaggio al libro, dove l’autore asserisce dapprima che «un alto dosaggio di mirabilia rientra a pieno titolo nelle convenzioni della descriptio Indiae e rispecchia la consolidata equazione esotico = mirabile, secondo cui l’Alterità orientale è concepita come un anti-mondo sorprendente e inaudito» (pag. 133) e in seguito fa riferimento alla «esigenza di rispondere alle aspettative dei lettori col campionario abituale delle alienità orientali» nelle descrizioni dell’Asia (pag. 186). Andreose, invece, parla di «un pubblico che non appariva disposto a rinunciare facilmente a quell’immagine “onirica” dell’India e dell’Estremo Oriente che la cultura medievale aveva ereditato dal mondo greco-romano» (La strada, la Cina, il cielo, pag. 129). 42 Mi riferisco al contenuto del capitolo intitolato Una retorica dell’alterità (pp. 185-221 del già citato Lo specchio di Erodoto), all’interno del quale vengono annoverate anche le figure retoriche della comparazione, dell’analogia e dell’inversione, ma pure Zaganelli descrive la meraviglia come una «componente fondamentale del sistema retorico della letteratura di viaggio» (Viaggiatori europei in Asia nel Medioevo, pag. 157). 43 Lo specchio di Erodoto, p. 199. Lo studioso precisa inoltre che «tutto accade come se si mettesse in atto il seguente postulato: laggiù, in questi altri paesi, non possono non esserci delle meravigliose curiosità» (pp. 199-200) e aggiunge che «nella misura in cui la sua presenza nel racconto crea un effetto di serietà, o produce un effetto di realtà, [il meraviglioso] è una vera e propria procedura del far credere dispiegata dal racconto di viaggio» (pag. 204). 44 E relativamente a questo non andrà sottovalutato l’apporto del Rustichello scrittore di professione, attento sia a contenuti che a questioni di carattere stilistico-formale.

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virtù della sua volontà di essere «veritiero e senza nessuna menzogna»45 nel narrare quelle

«grandi meraviglie»46 che il lettore medievale riteneva popolassero le terre d’Oriente e

che, avendo lui avuto la fortuna di vederle ed udirle di persona, non potevano mancare nel

suo resoconto.

45 Marco Polo, Il libro di Messer Marco Polo Cittadino di Venezia detto Milione dove si raccontano le Meraviglie del Mondo, ricostruito criticamente e per la prima volta integralmente tradotto in lingua italiana da L. F. Benedetto, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932, pag. 1. 46 Di nuovo dal Prologo del Milione, ed. cit., pag. 2: «[...] è parso a lui troppo gran iattura non far mettere per iscritto tutte le grandi meraviglie vedute od udite per vere, affinché le conoscano anche gli altri che non le hanno né viste né sapute».

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CAPITOLO I

Il lessico della meraviglia nella redazione franco-italiana

del libro di Marco Polo

Come si è visto nel capitolo precedente, i mirabilia Orientis occupano un posto di

rilievo nel Devisement dou monde. Pare, dunque, opportuno intraprendere lo studio delle

modalità attraverso le quali il meraviglioso si manifesta nel testo poliano a partire da

un’analisi lessicologica focalizzata, inizialmente, sulla disamina delle ricorrenze di termini

riportabili alla merveille e al suo campo semantico all’interno del testo franco-italiano47.

Innanzitutto c’è da dire che, come nelle opere in cui ampio spazio è dedicato alla

descrizione di un mondo altro, anche nel Milione uno dei più evidenti e frequenti segnali

della differenza è rappresentato proprio dall’uso della terminologia legata alla

meraviglia48: nel manoscritto fr. 1116 della Bibliothèque Nationale de France se ne

contano, infatti, ben 115 occorrenze49, molte più delle 72 che compaiono nella versione

toscana, come rilevato da Marroni50, e presenti fin dal Prologo.

47 Sergio Marroni, in occasione del Convegno internazionale organizzato nell’ambito delle celebrazioni per il 750° anniversario della nascita di Marco Polo, ha svolto, invece, un lavoro molto interessante relativo al modo in cui viene espressa, a livello lessicale e sintattico, la descrizione della meraviglia nella versione toscana del Milione (l’edizione di riferimento è Il Milione, versione toscana del Trecento, edizione critica a cura di V. Bertolucci Pizzorusso, indice ragionato di G. R. Cardona, Milano, Adelphi, 1975). Tale contributo (intitolato La meraviglia di Marco Polo. L’espressione della meraviglia nel lessico e nella sintassi del Milione) è stato poi pubblicato nel volume, curato da Silvia Conte, che raccoglie gli interventi degli studiosi partecipanti al convegno, ovvero I viaggi del Milione. Itinerari testuali, vettori di trasmissione e metamorfosi del Devisement du monde di Marco Polo e Rustichello da Pisa nella pluralità delle attestazioni. Questo lavoro si rivela un prezioso riferimento anche per Simon Gaunt e la sua disamina del «phenomenon of the marvel in the Devisement» (Marco Polo̓s Le devisement du monde: narrative voice, language and diversity, Cambridge, Brewer, 2013, pag. 116), che occupa il capitolo dal titolo Knowledge, marvels and other religions dell’opera appena citata (Ivi, pp.113-144). 48 Si veda, in proposito, M. Guéret-Laferté, Sur les routes de l’empire mongol. Ordre et rhétorique des relations de voyage aux XIIIe et XIVe siècles, pag. 215, dove l’autrice osserva che «tant dans les textes latins que dans les textes en langue vulgaire, les termes que le voyageur emploie le plus spontanément et le plus fréquemment pour dire la différence appartiennent à la grande famille du merveilleux», aggiungendo che questa non è affatto un’attitudine innovativa poiché, al contrario, «s’inscrit dans la longue tradition du récit de voyage grec». 49 Di qui in avanti relativamente al testo franco-italiano mi riferirò a Il manoscritto della Bibliothèque nationale de France fr. 1116, edizione curata da Mario Eusebi, Roma-Padova, Editrice Antenore, 2010. 50 I viaggi del Milione, pag. 233.

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All’interno di quest’ultimo appare particolarmente significativo l’esordio:

«Seingnors, enperaor et rois, dux et marquois, cuens, chevalers et

borgiois, et toutes gens qe volés savoir les deverses jenerasions

des homes et les deversités des deverses region dou monde, si

prennés cestui livre et le feites lire»

(F, I, 1-4),

nel quale si nota il ripetersi di termini che insistono sull’idea di diversità e che, nella

proposizione successiva, vengono non a caso associati alla parola mervoilles:

«et chi troverés toutes les grandismes mervoilles et les grant

diversités de la Grande Harminie et de Persie et des Tartars et

Indie et des maintes autres provinces, si con notre livre voç

contera por ordre apertemant, si come meisser March Pol, sajes et

noble citaiens de Venece, raconte, por ce que a seç iaus meissme il

le vit»

(F, I, 4-8).

Questo dimostra che la terminologia in questione ha come funzione principale quella di

indicare l’alterità ed infatti viene sfruttata molteplici volte da Rustichello nel momento in

cui egli si trova a trattare del contenuto del resoconto poliano. Nel Prologo, ad esempio,

sia quando sottolinea la straordinarietà dell’esperienza del veneziano, affermando che

«ne fu cristienç ne paiens ne tartar ne yndien, ne nulç homes de

nulle generasion, que tant seust ne cherchast de les deverses partie

dou monde et de les grant mervoilles come cestui messire March

en chercé et soi»

(F, I, 15-18),

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sia quando espone le motivazioni che hanno spinto lui e Marco Polo a collaborare,

adducendo che

«por ce dit il a soi meisme que trop{o} seroit grant maus se il ne

feist metre en ecriture toutes les granç mervoilles qu’il vit et qu’il

hoï por verités, por ce que les autres jens que ne le virent ne sevent

le sachent por cest livre»

(F, I, 18-21),

lo scrittore utilizza mervoilles quasi come una frontiera in grado di marcare lo iato tra il

mondo occidentale e le stupefazioni tradizionalmente attribuite alle terre d’Oriente. A

conferma di ciò, è possibile osservare pure il titolo del capitolo che inaugura la sezione

indiana del Milione, ovvero:

«CI COMANCE LE LIVRE DE INDIE E DEVISERA TOUTES

LES MERVOILLES QUE I SUNT ET LES MAINERES DES

JENS»

(F, CLVII),

e il primo paragrafo dello stesso, nel quale stavolta è all’aggettivo merveois che viene

affidato il compito di preannunciare gli sbalorditivi contenuti della seconda parte

dell’opera:

«Or, puis que nos voç avun contés de tantes provences tereine,

com vos avés oï, adonc nos lairon de tout celle matiere e

comenceron a entrer in Y<n>die por contere toutes les merveios

couses que hi sunt»

(F, CLVII, 1-3).

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L’attitudine autoriale di suggerire che nel lontano Oriente nulla è come nel

Vecchio Continente emerge, peraltro, anche nei paragrafi immediatamente precedenti il

cap. CLVII, dove si legge:

«Et por ce qe nostre livre n’estoit encore conpli de ce qe nos hi

volun iscriure, car il hi faloit toutes les faits de les Yndienz, qe

sunt bien couses de faire savoir a celz qe ne le savent, car il ni a

maintes merveliosses couses le quelz ne sunt en tout les autres

mondes, e por ce fait bien, et est mout buen et profitable a metre

enscrit en nostre livre»

(F, CLVI, 49-54),

concetto poco sotto così ribadito :

«E bien est il voir qe il hi a de si merveliose couse que bien estront

merveillant les jens qe les oiront»

(F, CLVI, 58-59).

Nei passaggi presi in esame, dunque, le parole appartenenti alla famiglia di

merveille risultano associate ad un’idea di differenza che non può non suscitare un

sentimento di stupore nel viaggiatore-testimone, al quale spetta poi il compito di

comunicare tali sensazioni al pubblico. Tra le strategie comunicative messe in atto in

questo senso dai coautori, accanto al ricorso ad aggettivi ed avverbi riconducibili alla

categoria di cui si è detto, come nei casi seguenti:

«CI DEVISE DE LA CITÉ DE CIANDU ET D’UN

MERVELLIEUS PALAIS DOU GRANT KAAN»

(F, LXXIV);

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«Il hi a channe groses et grant merveliosemant»

(F, CXIV, 4-5);

«et tout environ a maint biaus palleis et maintes bielles maison si

merveillosemant faites qe ne poroient estre miaus devisee ne faites

ne plus richemant»

(F, LXXIV, 39-41);

«Et encore vos di qe en milieu dou lac a deus isles, en les quelz a

en cascuns un mout mervelios palais et riches, fait si bien et si

aornees qe bien senblent palais d’enperaors»

(F, LXXIV, 43-46),

si può rintracciare nel testo tutta una serie di espressioni il cui impiego è volto a mettere in

rilievo realtà sorprendenti per il lettore occidentale. Tra queste vanno citate:

� la struttura verbo essere + sostantivo mervoille / mervoie; se nei seguenti

brani essa è sfruttata per veicolare un’idea di smisurata abbondanza:

«Il hi a si grant moutitude d’osiaus qe ce est mervoille»

(F, CIX, 7);

«Il ont si grant abundance de soie qe ce est mervoie»

(F, CXXXIII, 10-11);

«et si voç di qe ceste naville portent au Mangi e por le Catai si

grant abondance de mercandies qe ce est mervoille»

(F, CXXXIV, 16-18);

«Il hi est si grant calor qe ce est mervoie, et por ce vont nu»

(F, CLXXIII, 90);

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«E sachiés que les peisonç que les bestes menuient sunt molt petit

e se prennent de mars et d’avril e de may si grandismes quantités

que ce est mervoille»

(F, CXCIV, 25-27),

in altri casi viene utilizzata per porre l’accento sulla diversità, vale a dire

sulla distanza di quanto descritto rispetto a ciò che è familiare in Europa:

«Il hi a gat paul si deviséç qe ce estoit mervoille»

(F, CLXXX, 7-8);

«Il hi a diverses oisiaus, ce est devisés as nostres, que ce est

mervoille»

(F, CLXXX, 24-25).

� Il costrutto consecutivo si ... que / qe + verbo essere + sostantivo mervoie /

mervoille + a + verbo veoir / oïr; se ne possono elencare molteplici esempi:

«elle laborent les cortines des barons et des granç homes si bien et

si ricamant qe c’est une grant mervoille a veoir»

(F, XXXIV, 11-13);

«<Il hi a> buef sauvajes que sunt grant come olifans et sunt mout

biaus a veoir, car il sunt tout pelous sor le dos et sunt blanc et noir;

le poil est lonc trois paumes: il sunt si biaus que ce est une

mervoie a voir»

(F, LXXI, 12-15);

«Il fait demorer a la garde de cesti osiaus plusors homes, et hi ni a

si grant habundance que ceste est mervoie a veoi »

(F, LXXIII, 63-65);

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«et de cestes deus pelles sunt cestes deus grant sales dou Grant

Sire ovrés et entaillés si sotilmant qe ce est une mervoille a voir»

(F, XCIII, 70-71);

«Et aprés voç di encore qe ceste roi porte...+...belles perles et

autres pieres, si qe mervoie est au veoir»

(F, CLXXIII, 68-70);

«Il ont si divissement bestes et oisiaus des nostres que ce seroit

mervoille a oïr et greingnor a veoir»

(F, CXC, 67-68);

«E por {ce usan} ceste usançe voç di qe andeus ceste jens que

estoient a tieres et atendoient la bataille et le soner des nacar, il

cantoient et sone<n>t si bien qe ce estoit mervoie a oïr»

(F, CXCVIII, 106-108);

«E celz de Toctai n’estoit mie moin biaus ne men riches, mes plus,

car il hi avoit si riches paveilonz e si riches tref qe ce estoit une

mervoille a veoir»

(F, CCXXX, 20-22),

dai quali si evince che l’obiettivo di chi scrive è sottolineare l’unicità di ciò

che appare davanti agli occhi del testimone o che viene da questi udito,

come accade per le varianti che prevedono l’accostamento tra l’aggettivo

merveliose e il sostantivo chouse / couse:

«car je voç di qu’il est merveilose chouse a veoir la grant

solenpnité qe le Grant Sire fait en cest .III . jors»

(F, XCIV, 3-5);

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«et por ce est merveieliosse couse a veoir la mercandie qe por

celle fluns se porte sus et jus»

(F, CXXXIV, 19-20);

«a cest port vient et vait si grant abondance de mercandies e de

pieres qe ce est merveliose couse a veoir»

(F, CLVI, 13-14).

� La costruzione consecutiva si merveilose qe, la quale fa percepire la

difficoltà del viaggiatore nell’esprimere la grandiosità di quanto visto, ma

che, allo stesso tempo, lo aiuta a scalfire la comprensibile incredulità della

ricezione:

«Et encore voç di que les paleis sunt plus de .XM. qe sunt ensi

forni de riches arnois com je voç ai contés, et ce est chouse si

merveilose et de si grant vailance qe a poine se poroit bien conter

ne scrivre»

(F, XCVII, 32-35);

«et si voç di tout voiremant qe le Gran Kaan en a grant rente et si

merveliose qe a poine le poroit croire se ne le veist»

(F, CXLII, 12-14).

� L’espressione sembrare meraviglia / cosa meravigliosa, che dà rilievo alla

straordinarietà di quanto esposto mostrando, anche in questo caso, la

consapevolezza dell’autore in merito alla prevedibile riluttanza a credere

del pubblico:

«Et encore voç dirai une chouse, qui semble mervoille, que auques

fait a conter en nostre livre»

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(F, LXXXIX, 20-22);

«Or vos voil conter la maineres de toutes cestes jens, cascune por

soi, e vos dirai primiermant une cousse qe bien senblera a cascun

merveilliose cousse»

(F, CLXV, 11-13);

«E si voç di encore une cousse que bien voç senblera meravoille,

car sachiés tout voiremant qe lor bestes, ce sunt montonz, buef et

gamiaus et lor ronsinç petit, men<j>uent peisonz, e ce est lor

viande por ce que en tout lor païs ne en tout celz contree ne a erbe,

mes est le plus seche leu dou secle»

(F, CXCIV, 21-25).

Si possono, inoltre, menzionare anche occorrenze del termine mervoille che non

rientrano nelle modalità discorsive appena elencate, come ad esempio:

«Et quant l’en ha descendu celle deus jorné que je voç ai dit,

adonc treve une grandisme plaingne et ao començamant de cel

plain a une cité, qe est apelés Camandi, que jadis fu grant cité et

noble a mervoille»

(F, XXXV, 1-4),

dove si nota l’uso, in senso avverbiale, del sostantivo, volto a mettere in luce la natura

eccezionale della città descritta; o ancora:

«Et en ceste provence naisent les grant colunbres et celes grant

serpanz que sunt si desmesuréç que tous homes en doient avoir

mervoille, et sunt mout ydeuse chouse a veoir et a regarder»

(F, CXVIII, 9-12),

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brano in cui mervoille rientra in un’espressione che serve a Rustichello a delineare il

sentimento provato da chiunque abbia la possibilità di ammirare gli enormi serpenti della

provincia di Carajan; e infine:

«Et san faille ce fu une couse qe molt fu grant mervoilles d’armes,

qe tuit celz qe le veoient en estoient esbaïz, ausi amis come

enimis, car il ne senble homes mes foudre e tenpeste»

(F, CCXXV, 37-40),

righe nelle quali si può, invece, osservare come il lemma venga impiegato, all’interno

della narrazione della guerra tra i Tartari del Levante e i Tartari del Ponente, nel senso

specifico di «impresa eccezionale, exploit straordinario» 51.

Da quanto sin qui esposto emerge, dunque, che i termini che ruotano attorno al

concetto di meraviglia puntano a far convergere l’attenzione dei lettori del Milione su

realtà strane rispetto a ciò che è noto ed ordinario per gli abitanti dell’Europa. È

interessante, però, notare che nel testo si possono talvolta incontrare pure strutture

discorsive che sembrano negare tale meraviglia ma che, a ben guardare, si rivelano delle

espressioni figées, delle frasi idiomatiche52. Queste ultime assumono comunque valore

differente a seconda del contesto.

Da un lato, in effetti, si possono rintracciare passaggi, come i seguenti:

«E quant son pere voit qe cestui ne voloit la segnorie en nulle

mainere dou monde, il ha si grant ire car pou qu’il ne morut de

dol: et ce n’estoit mervoille por ce qu’il ne avoit plus filz de cestui

ne ne avoit a cu’il lasast le roiame»

51 In effetti, anche in italiano si può dire che un grande campione militare ha compiuto autentici «prodigi di valore». Più in generale, a proposito dell’impiego del lessico della meraviglia nell’ambito della descrizione di battaglie nell’opera del Polo, Marroni parla di un uso «rustichelliano», vale a dire «scontato ed esornativo, dello stesso (La meraviglia di Marco Polo, pag. 239, in Conte, I viaggi del Milione). 52 Una breve analisi della funzione della costruzione no è maraviglia + proposizione subordinata all’interno del Milione è stata affrontata da Marroni alle pp. 242-243 dell’intervento citato nella nota precedente.

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(F, CLXXVII, 20-23);

«Il est tartar et seç jens sunt ausi tartar et sunt buen homes

d’armes, e ce ne est pas merveie car il sunt tuit jens costumés de

gere»

(F, CXCVIII, 3-5);

«La bataille estoit si cruel e pesmes qe de male ore fu conmençés,

car grandismes quantités estoient le matin sain et haïtiés qe en celz

batailles furent occis, e mai<n>tes dames estoient mariés qe en

celz bataille furent veves, e ce ne fu pas mervoie por ce qe trop

estoit mauvés bataille»

(F, CCXXXI, 51-55);

nei quali dei costrutti tipo ne + verbo essere + sostantivo mervoille / merveie pare venga

fatto un uso generico, funzionale al procedere del discorso poliano. In altri punti del

resoconto del veneziano, invece, la struttura discorsiva in oggetto si può dire indirizzata a

ridurre quella distanza che potrebbe essere percepita dal pubblico occidentale rispetto ad

usi e costumi impressionanti e finanche incredibili, come ad esempio in:

«Il ne ont letre ne font scripture, et ce ne est mervoille car il sunt

nes en mout desvoiables leus et grant bosces, et en grant

montaignes»

(F, CXIX, 31-33);

«Et nulz se face mervoille se il ha tant de pont, por ce qe je vos di

qe ceste ville est toute en eve et est environ<é> de eve»

(F, CLI, 19-21);

«Et ce ne est pas mervoie se il en a tant qe je vos ai contés, por ce

qe je vos di qe cels chieres pieres et perles se treuvent en son

regne»

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(F, CLXXIII, 73-75);

«Les jens sunt grans e gros. Bien est il voir que il ne sunt pas si

aut por raigon come il sunt gros, car je voç <di> que il sunt si gros

e si menbru qu’il senblent jeiant, e si voç di que il sunt

desmesuremant fort, car il portent carique por .IIII . autre homes, e

ce ne est pas mervoille, que je vos di que il menuie bien viande

a .V. omes»

(F, CXCI, 3-7).

Gli esempi proposti mostrano come questi giri di frasi fatte che impiegano il termine

mervoille precedano subordinate causali che offrono motivazioni in merito a quanto è

stato affermato, ma negli ultimi quattro brani menzionati a richiedere una spiegazione

sono l’analfabetismo di una popolazione, la magnificenza di un’opera architettonica,

un’abbondanza di pietre preziose tale da lasciare a bocca aperta o le formidabili

dimensioni di taluni uomini, ovvero cose che, ognuna a suo modo, risultano palesemente

sbalorditive agli occhi del lettore europeo.

Altrettanto stupefacenti devono essere considerati i racconti di eventi

soprannaturali presenti nel testo odeporico di Marco Polo, all’interno dei quali sovente

vengono impiegati termini riconducibili alla famiglia del meraviglioso. Relativamente a

tale tipo di narrazioni, sostantivi di nostro interesse compaiono:

� nel periodo che introduce il miracolo del monastero di San Leonardo:

«Encore hi a un monester de nonain ki est apelé sant Lionard, qui

a une tel mervaie con je voç contera<i>»

(F, XXII, 25-26);

� in passaggi che si riferiscono al prodigio della montagna di Baldac:

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«DE LA GRANT MERVAILLE, QUE AVINT EN BAUDACH,

DE LA MONTANGNE»

(F, XXV);

«Et encore voç volun conter une grant mervoie qe avint entre

Baudac et Mosul»

(F, XXV, 1-2);

«En cel mainere ala ceste mervoile come il avés oï»

(F, XXVIII, 21-22);

� nell’ambito della narrazione dell’episodio della visita dei re Magi al

bambino Gesù:

«Et quant les trois rois virent cest grant morvoille, il en devienent

tuit esbaïs»

(F, XXXI, 12-13);

� all’interno della descrizione degli abitanti idolatri della provincia di

Kesimur:

«Il sevent tant d’incantamant des diables que ce est mervoie, car il

font parler as ydres; il font por incantamant canger les tens et font

faire le grant oscurité. Il font por l’incanter et por senç si grant

chouses q’el ne est nulz que ne le vist qui le poust croire»

(F, XLVIII, 2-6);

� nella frase che precede il racconto del miracolo di Sanmarcan

(Samarcanda):

«Et voç dirai une grant mervoie que avint en ceste cité»

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(F, LI, 3-4);

� nel brano che parla degli incantatori del palazzo del Gran Kan di Ciandu:

«Et sajés tout voirmant que cesti Bacsi que je voç die de sovre,

que sevent tant des enchantemant, font si grant mervoille con je

voç dirai»

(F, LXXIV, 66-68);

� nella pagina dedicata ad astrologi e incantatori della provincia di Tebet:

«Et encore voç di qu’il ont les plus sajes encanteor et les meior

astroniqe, selonc lor usanç, qe soient en toutes celles provences qe

entor euç sunt, car il font les plus fere encantemant et les

greingnor mervoiles a oïr et a veoir, por ars de diables, qe ne est

pas buen a contere en nostre livre, por ce qe trop se merveileroient

les jens»

(F, CXV, 11-15);

� all’interno del ritratto degli incantatori cristiani dell’isola di Scotra :

«Il sevent faire mant autres encantemant mervuelios, les quelz ne

fait buen raconter en ceste livre por ce que il sunt encantemant que

avegnent chouse que, quant les homes le oïssent, s’en

mervoillirént mout»

(F, CLXXXIX, 39-42).

A tal proposito, è osservabile un altro aspetto: nel trattare di una particolare

categoria di fenomeni prodigiosi, ovvero quella dei miracoli cristiani, Rustichello da Pisa

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si serve in ben sei occasioni della parola miracle53. Come si può vedere qui sotto, essa è

rintracciabile:

� nelle proposizioni che introducono e concludono la narrazione del miracolo

di Samarcanda, ossia:

«Or en avint tel miracle com je vos conterai»

(F, LI, 27-28) ;

«et ce fu tenu et encore est tenue un des grant miracle que

avenisse au monde»

(F, LI, 33-34);

� in diversi punti del capitolo che ruota attorno alla figura di San Tommaso e

ai fatti inspiegabili a lui attribuiti, vale a dire:

«Et encore vos dirai d’une biaus miracle qe hi avint

entor .M.CC.LXXXVIII . an de l’ancarnasion de Crist»

(F, CLXXV, 15-16);

«Et quant ceste baron ot fait enplir de son ris toutes les maisonz de

saint Tomas, de coi le freres en avoient si grant ire, il avint si grant

miracle com je voç dirai»

(F, CLXXV, 24-27) ;

«Et quant meser saint Tomeo oit fait ce, il se parti; et celui baron

bien maintin se leve et fait toutes celes maisonz vuidier, e tout ce

qe li estoit avenu de mesier sant Tomeu dit, qe bien fo tenu a grant

miracle»

53 Marroni fa presente che il termine miracle compare «con riferimento esclusivo a miracoli cristiani» pure nella versione latina Z del Milione (miraculum: sette occorrenze), mentre in quella toscana T l’unico miracolo «è la qualità dei preziosi che il Gran Khan incamera in cambio della cartamoneta» (Conte, I viaggi del Milione, pag. 242 e note).

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(F, CLXXV, 33-36);

«Et si voç di qe autres miracles hi avint asseç tout l’an, qe bien

seroient tenu a grant meraveies, qui les oise conter, et propemant

de guerir cristiens qi sunt estorpiés e gasté de lor cors»

(F, CLXXV, 39-41).

I brani riportati veicolano, dunque, esempi di mirabilia Orientis di matrice cristiana volti a

colpire l’immaginario occidentale, ed emblematico, in questo senso, appare l’ultimo

periodo all’interno del quale, infatti, oltre a miracles, si fa uso pure del termine

meraveies54.

La forma singolare di questo termine capita, poi, di ritrovarla contenuta in costrutti

del tipo il n’a grant mervoille o il se font grant meravoie. Al di là di punti nei quali essi

mirano semplicemente a descrivere una sensazione di stupore provata da personaggi di cui

l’opera racconta, come ad esempio:

«Et quant le legat ot entendu ce ke les deus frers li avoient dit, si

n’a grant mervoie, et li senble que ce soit grant bien et grant honor

de la crestenté»

(F, IX, 8-10),

che ci parla dello stupore del prelato Tebaldo di Piacenza in merito alla curiosa

ambasciata, voluta dal Gran Khan, e che sarebbe dovuta giungere al pontefice tramite

Nicolò e Matteo Polo;

54 Sul rapporto tra il meraviglioso, il magico e il miracoloso come categorie della cultura medievale opera utili distinzioni Le Goff in Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale. In effetti, lo studioso anzitutto suddivide il soprannaturale occidentale dei secoli XII e XIII in tre ambiti, ossia mirabilis magicus miraculosus, e in secondo luogo definisce come: - mirabilis «il nostro meraviglioso con le sue origini precristiane»; - magicus il soprannaturale malefico, satanico; - miraculosus il soprannaturale propriamente cristiano (Ivi, pag. 10).

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«Le roi, quant il voit ce, il en a grant mervoille»

(F, CVII, 32),

che palesa lo sbigottimento del re D’Or di fronte al tradimento di sette suoi valletti; o

ancora:

«Biaus sire Acomat, fet il, vostre nevou Argon se mervoille mot de

ce que voç fait avés: qe li avés tolue sa segnorie, et encore li venés

contre por conbatre a lui en bataille mortiaus»

(F, CCVI, 9-12),

discorso diretto che mette in evidenza la sorpresa di Argon a fronte del comportamento di

suo zio Acomat, pronto a muovergli guerra, si riscontra nel testo l’espressione di una

meraviglia correlata alla necessità di veicolare un senso di stupefazione, ma sulla quale

altre considerazioni possono essere fatte. Si prendano, a questo proposito, i seguenti brani:

«Et quant ces mesajes voit messer Nicolao et meser Mafeo, il n’a

grant mervoille, por ce que jamés ne avoient veu nul latin en celle

contree»

(F, III, 8-10);

«Puis li dit toutes le novités et toutes le coses qu’il avoit veuç en

cele voie, si bien et sajemant qe le Grant Kan et celç tuit qe l’oient

en vint grant mervoie»

(F, XVI, 3-5);

«Et quant il’oit prise, il trove au calif une tor toute plene d’or et

d’argent e d’autre tesor, si que jamés non fu veue tant a une fois

en un leu. Quant il veoit cest grant teçor, il n’a grant mereveie e

mande por le calif et fait il venir davant lui»

(F, XXIV, 21-24);

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«Adonc avrent le busel et il trovent dedens une pieres : il se font

grant meravoie qe ce puet estre»

(F, XXXI, 2-3).

Tali passaggi mettono in luce lo stupore di personaggi diversi:

� di un messaggero di Alau, Signore del Levante, alla vista di due

occidentali, Nicolò e Matteo Polo, in quei territori;

� del Gran Kan nell’udire la testimonianza di Marco relativa alla sua

ambasceria nella contrada di Caragian;

� di Alau, fratello del Gran Re, al momento della conquista della città di

Baldac e del ritrovamento di una torre zeppa di tesori;

� dei tre re Magi nell’aprire il bossolo ricevuto dal bambin Gesù in cui essi

scoprono la pietra fonte del fuoco sacro,

ma pare che le espressioni che contengono il sostantivo mereveie, riferito all’incontro di

due culture così lontane tra loro, all’idea di una terra caratterizzata da usi e costumi

straordinari e da una smisurata ricchezza e ad un evento prodigioso legato alla vita dei

Magi, debbano essere ritenute una sorta di spia linguistica capace di innescare anche nel

lettore il suddetto sentimento di sbalordimento. In buona sostanza, anche le strutture

discorsive appena riportate vanno annoverate tra i mezzi sfruttati dai coautori per

segnalare l’alterità e far sì che in questi racconti il pubblico riconosca quanto fa parte del

suo bagaglio di stupefazioni d’Oriente.

Accanto alla capacità di marcare la differenza tra normalità del mondo occidentale

e straordinarietà della realtà estremo-orientale, che è ampiamente rilevabile dalla

disamina appena conclusa, un’altra cosa si può notare in merito al lessico del mirabile, e

cioè che questi termini, nella loro accezione generica, possono pure svolgere una

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importante funzione discorsiva55. A ben guardare, infatti, l’autore li impiega sovente per

organizzare il testo, vale a dire:

� per anticiparne i principali nuclei tematici, come risulta evidente dai

seguenti brani:

«Et atant se mestrent a la voie con cest mesajes et alerent un an

por tramontaine et por grec avant que il fussent la venu; e trovent

grant mervoilles et diverses coses, les quelç ne voç conteron ci por

ce que messier March, fil de meser Nicolau, que toutes cestes

choses vit ausint, le voç contera en ceste livre avant apertemant»

(F, IV, 2-7);

«Il se mistrent en la mer et najerent bien trois mois, tant k’il

vindrent a une ysle, qui est ver midi, ki a non Java, en la quel ysle

a maintes merveuses couses les quelç voç conteroi en ceste livre.

Puis se partirent de cel isle et voç di qu’il najerent por la mer de

Indie bien .XVIII . mois avant ke il fuissent venus la ou il volient

aler et trovent mantes grant mervoiles qe encore le voç conteron

en ce{l} livre»

(F, XVIII, 14-19);

«Or vos ai montré et devisé apertament les uçance et les costumes

des Tartars, non pas qe je voç ai conté dou grandisme fait dou

Grant Can, ce est le grant sire de{s} tous les Tartars, ne de sa

grandisme enperiaus cort, mes je le voç conterai en cel livre quant

tens et leu en sera, car bien sont merveiloses couses por metre enn

escripture»

(F, LXIX, 111-115);

� all’interno di formule ricorrenti atte a introdurre narrazioni e descrizioni,

quali:

55 È un aspetto messo in evidenza da Marroni in Conte, I viaggi del Milione, pag. 240.

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«et por ce voç conteron autres couses grant et merveiose, si con

voç pori oïr»

(F, XXIV, 42-43);

«Et encore voç dirai un autre merveliose usançe qu’il ont»

(F, LXIX, 96);

«Mes voç dirai avant une mervoille que je avoie demantiqué»

(F, LXXIV, 51-52);

«Or vos vueil comencier a cont{i}er en nostre livre tous les

grandismes fait et toutes les grandismes mervoies dou Grant Kaan

que aorendroit regne, qe Cublai Kaan est apelés»

(F, LXXV, 1-3);

«Et si voç dirai encore une couse de coi voç serés mout

merveiant»

(F, CLI, 96-97);

«Et encore vos di une mout grant mervoie»

(F, CLIX, 41);

«Et encore voç conteron une cousse qe bien fait a mervoilier»

(F, CLXVII, 8-9);

«E si voç di un autre cousse que bien fait a conter por mervoille»

(F, CLXIX, 6-7);

«Or voç ai contés de ce; si voç conterai encore d’autres

merveioses chouses»

(F, CLXXIII, 85-86);

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� quale elemento di connessione tra un capitolo e il successivo, come nel

caso di:

«Or voç laison de ce et vos conteron des grandismes fais et des

merveies dou grandisme seingnor des seingnors des tous les

Tartars, ce est le tres noble Grant Chan que Cublai est apellés»

(F, LXXIV, 25-27);

«Or adonc voç laieron de ceste matiere e voç conteron avant une

grant mervoie de la file au roi Caidu, si voç le porés entendre»

(F, CXCIX, 7-8).

L’abbondare di termini appartenenti alla famiglia del meraviglioso, come quelli

rintracciati tra le pagine del Devisement dou monde e di cui si è cercato di dare conto, è

sintomo del fatto che all’interno di un resoconto di viaggio la differenza è uno degli aspetti

che meritano di essere raccontati. È altresì certo che il lessico del mirabile, pur

rappresentando una spia dell’alterità, non è sufficiente a precisarne il contenuto. In ultima

analisi, quindi, si può affermare che la descrizione di una realtà altra impone al

viaggiatore, nel nostro caso coadiuvato in fase di stesura dell’opera da un coautore, il

ricorso a procedimenti stilistici che non si limitino a segnalare la differenza, ma che si

sforzino pure di darle forma.

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CAPITOLO II

Retoriche dell’esotismo: la rappresentazione

dell’alterità orientale nel Devisement

Nelle pagine precedenti si è detto che il Milione è stato negli anni sottoposto a

molteplici letture, ma un profondo conoscitore del testo poliano, Luigi Foscolo Benedetto,

asserisce che lo scopo di Marco e della sua opera «è quello di dare all’Europa un quadro

complessivo del mondo asiatico, di far sentire agli occidentali che intensa mirabile vita

palpitasse di là dalle steppe e dalle chiostre montuose»56. Se si tiene conto di queste

parole, oltre che delle numerose manifestazioni del lessico del mirabile individuabili nel

Devisement dou monde e di cui si è trattato nel capitolo precedente, si può comprendere la

centralità assunta dal racconto della meraviglia nell’ambito del grandioso ritratto che

dell’Oriente dipingono Marco e Rustichello. Volendo riprendere le affermazioni di

Guerét-Laferté, potremmo dire che la meraviglia è l’unico oggetto del resoconto di

viaggio, giacché solo la differenza merita di essere narrata57 e che la presenza del

meraviglioso, nel dettato poliano come nelle opere di carattere odeporico in genere, è

segno che lo straniero viene percepito essenzialmente come stranezza, distanza,

differenza, ossia come scarto dall’endotico e dal familiare 58.

56 Proemio de Il libro di Messer Marco Polo Cittadino di Venezia detto Milione dove si raccontano le Meraviglie del Mondo, ricostruito criticamente e per la prima volta integralmente tradotto in lingua italiana da L. F. Benedetto, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932, pag. XI. Le parole di M. Guerét-Laferté, la quale sostiene che «chez Marco Polo [...] l’intention principale est de décrire le monde et non de raconter un voyage», (Sur les routes de l’empire mongol, pag. 108), esprimono lo stesso concetto. 57 Sur les routes de l’empire mongol, pp. 222-223 : «La merveille est le seul véritable objet du récit de voyage puisque seule la différence mérite d’être contée». 58 Ivi, pag. 221: «Tant dans les stratégies énonciatives du voyageur-narrateur que chez ceux qui reçoivent son récit, le merveilleux est le signe que l’étranger est essentiellement perçu comme étrangeté».

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Questa idea di stranezza derivante dalla percezione di una difformità è presente

anche nella riflessione che ci offre, a proposito del contenuto di carattere enciclopedico del

Milione, Alvaro Barbieri. Quest’ultimo, infatti, in merito agli elementi che

contraddistinguono la realtà orientale nell’opera di Marco e Rustichello, rifiuta

l’equazione vulgata esotico = straniero in favore di quella, ermeneuticamente più feconda,

esotico = difforme59.

In base a tali indicazioni è possibile, quindi, individuare due tipologie di elementi

esotici presenti all’interno del Devisement dou monde:

a) da un lato abbiamo gli elementi appartenenti al mondo “altro” rispetto

quello di partenza, che non trovano in quest’ultimo omologhi esatti ma che

hanno comunque dei corrispettivi endotici;

b) dall’altro, invece, stanno gli elementi del mondo straniero privi di omologhi

e di corrispettivi endotici comparabili60.

Analizzando la prima categoria di esotico, si possono fare alcune considerazioni.

Innanzitutto, c’è da dire che in questi casi solitamente la differenza è di tipo quantitativo e,

di conseguenza, si può affermare che i brani dell’opera che rientrano in questa tipologia,

come i seguenti:

«Il hi a mantes viles et mantes castiaus, et hi a de toutes chouses

en grant abundançe»

(F, XIX, 3-4);

59 Dal viaggio al libro. Studi sul Milione, Verona, Edizioni Fiorini, 2004, pp. 159-160. 60 Ivi, pag. 160. L'autore precisa che l'esotico può manifestarsi secondo due diverse modalità: a1) nell'alterazione di ciò che è noto; b1) nella novità e nell'alterità irriducibili dell'ignoto.

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«Les viles et les ca{u}staus ont grande abundance de toutes

chouses bones et beles»

(F, XXXIX, 14-15);

«Il ont grant habundance de toutes chouses»

(F, LII, 4);

«Il ont des toutes chouses qe as cors d’omes beiçoingne pour vivre

en grant abondance et grant merchiés»

(F, CX, 18-20);

«Il ont grant abondance de toutes cousses qe a cors d’omes

beiçogne por vivre»

(F, CLV, 20-21);

«Il ont grant abondançe et grant device de toutes couses de coi il

vivent»

(F, CLXXIV,60-61);

«Or sachiés tuit voiremant que ceste provence est mout devisieuse

des toutes couses de vivre»

(F, CXCII, 105-106),

concorrano ad avvalorare quell’idea di smisurata ricchezza tradizionalmente associata alle

Indie dagli abitanti europei. A conferma di ciò, possono essere riportati alcuni passaggi del

Milione coi quali i coautori mirano a metterci a conoscenza delle varie province esplorate

dal protagonista, per esempio:

«Il hi a cités et ca{u}stiaus asseç et la plus noble cité, et celle que

est chief dou regne, est appellés Cotan, ce est le nom de la

provence. Il ha abundance de toutes couses: il hi naist banbace

asseç; il ont vignes et possesion de jardinz assez»

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(F, LIII, 3-6);

«Il hi a villes et cha{u}stiaus asseç, et la plus noble cité, qui est

chief dou reingne, est appellés Pem. Il hi a flum que i se treuvent

pieres que l’en apelle diaspe et calcedoine asseç. Il ont

habundance des couses; il hi naist banbance asseç»

(F, LIV, 2-6).

Come si può notare, ritornano qui le medesime modalità discorsive: chi scrive presenta

anzitutto la provincia della quale andrà a trattare, prima di indicarne la principale città ed

evidenziarne la peculiarità, ovvero le risorse naturali di cui è largamente provvista.

In secondo luogo, possiamo osservare che questa tipologia di esotico è

riconducibile a descrizioni relative a flora, fauna o risorse naturali dei luoghi che Marco

Polo passa in rassegna. Si vedano:

� «Et encore hi se acatent de peres presioses qe in grant abundance i

ci trove»

(F, XXIX, 9-10);

«En cest regne naisent les pieres que l’en apele torchoise, et hi ni a

en grant habundance»

(F, XXXIV, 4-5);

«Et si voç di qu’il ont or en grandismes abondance, por ce qe le or

hi se trovent outre mesure»

(F, CLVIII, 4-6),

relativamente alla disponibilità di materiali e minerali delle terre

attraversate dal viaggiatore;

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� «Il hi naist bambace aseç; il ont abundance de forment et d’ors et

de milio et de pani et de toutes blait, et de vin et de toutes fruit»

(F, XXXII, 26-28);

«Et quant l’en ha chevauchés .VII . jornee por cest plan, adonc

treuve une grandissime montangne et desendant, car ben

chevauche deus jornee toutes foies au declin, et toutes foies

treuvent de maintes faison de fruit en habundance»

(F, XXXIV, 22-25);

«Il hi naist banbaxe aseç»

(F, L, 5);

«Hil hi naist encore pevre en grant abondance»

(F, CLXXIX, 5-6),

che ci danno l’idea della dovizia in termini di prodotti naturali sfruttabili

per l’alimentazione della popolazione oltre che nei traffici commerciali;

� «Peisonz ont il ultre mesure; chachejonç et venesionz de bestes et

de osiaus ont il grandismes quantités»

(F, CXLI, 5-6);

«Il ont leopars e lonces, et lionz ont encore outre mesure; autres

bestes, come sunt cerf, cavriolz, dain et autres senblables bestes

ont il en abondance; venesionz de maintes deverses oisiaus ont il

en moutitude»

(F, CXC, 20-23),

che ci parlano, invece, del popoloso regno animale del lontano Oriente.

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In ultima istanza, c’è da rilevare che l’idea di ricchezza cui si è fatto riferimento si

manifesta nel resoconto del Polo in descrizioni caratterizzate da due tratti che appaiono

talora singolarmente e in altri casi simultaneamente, vale a dire:

1) l’abbondanza;

2) l’ipertrofia61.

L’immagine che ci viene regalata dai racconti che includono il primo dei due

caratteri è quella di un continente indiano:

� traboccante di vita animale:

«Il hi a maintes chachajon de bosces. Il ha pernis et quatornis

aseç, et les merchant que por iluec chevauchent en prenent grant

seulas»

(F, XXXIII, 7-9);

«Et hi a veneison de bestes et de ausiaus otre mesure»

(F, XLIII, 17-18);

«Il hi a grant abondance de toutes sauvagines; il hi a grant

moutitude de mouton sauvages»

(F, XLIX, 16-1);

«Il ont gamaus et bestiames asseç. Il hi{a} naisent fauchons lanier

et sacri asseç, et sunt mout bones»

(F, LXII, 4-5);

«le Gran Kan demore a ceste cité, en cest palais, voluntieres, por

ce qe il hi a lac et rivier asseç, la ou il demorent cesnes assés; et

61 Dal viaggio al libro, pp. 160-161.

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encore il hi a biaus plain es quelz ont grues asseç et faisanç et

perdrices asseç et de maintes autres faisons d’ousiaus»

(F, LXXIII, 43-47);

«Et sachiez qe por mi ceste grant ville vait une grandisime flum

d’aive douce es quelz se preinent poisonz asez»

(F, CXIII, 14-15);

«Il ont grandismes quantités de bestiames, ce sunt gamiaus,

chevaus, buef et berbis et autres bestes»

(F, CCXVI, 17-18);

� quale sorta di cornucopia zeppa di risorse minerali e prodotti della terra:

«Il hi a fer et acer et ondanique aseç»

(F, XXXVIII, 1-2);

«Elle est ville de grant plantee de toutes couses, et vos di qui hi a

les meior melon do monde en grandisme quantité qu’il les font

secher»

(F, XLIII, 11-13);

«Et encore voç di qu’il hi a montagnes de quoi l’en treuve voine

des quelz traient argent a grant plantee»

(F, XLVI, 26-27);

«Ele a maintes belles vignes, des quelz ont vin en grant

abondançe»

(F, CVI, 6-7);

«Il hi a encore grandisme quantité de soie, car il ont moriaus et

vermes qe funt la soie en grant abundance»

(F, CVI, 9-10);

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«Entor cest flum, por la contree, naist gengibre et soie en grant

abundance»

(F, CIX, 5-6);

«Il ont çoie en grant quantité»

(F, CX, 16-17);

«Il ont berçi en grant habondance, do meillor dou monde»

(F, CLXXII, 14-15).

Bisogna dire che espressioni appena incontrate quali il hi a asseç, il ont

grandismes quantités, en grant habondance, a grant plantee o se trovent outre mesure, di

cui il testo analizzato è disseminato, sono altresì funzionali a mostrare dell’Estremo

Oriente aspetti diversi dall’importante disponibilità di risorse naturali, come ad esempio il

clima, che pare anch’esso contraddistinto da una sorta di estremizzazione sconosciuta

all’Europa, o la presenza di accumuli di strabilianti ricchezze, come rilevabile nei passaggi

qui proposti:

«[le Tartar] l’inver ne i demorent pas por la grant froidure de la

nois, q’en i a outre mesure»

(F, XXI, 10-11);

«E si voç di ke il hi trove si grandisime quantité de treçor qe a

poine la peust bien croire se il hoïst contere le no<n>bre de la

vailance»

(F, LXXI, 11-13).

Queste altre due caratteristiche peculiari del continente indiano risultano ben rappresentate

pure in brani quali i seguenti:

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«Et quant il’oit prise, il trove au calif une tor toute plene d’or et

d’argent e d’autre tesor, si que jamés non fu veue tant a une fois

en un leu»

(F, XXIV, 21-23);

«Il hi a grandisme chalor, car le solei<l> hi est mout chaut, et est

enferme tere. [...] Et d’esté demorent le gens pas en le cités, car il

hi a si grant chalor qu’il hi morent tuit; mes vos di qu’il vont

dehors a lor jardinç, la ou i il a riviere et ague asseç; et por tout ce

ne eschanperont se ne fust ce que je voç dirai. Il est voir qe plosors

foies de la stee vent un vent d’enver le sabion, qui est environ cel

plain, qui est si caut desmesuremant qu’il ociroit l’ome, se ne

fust{e} ce qe les homes, tant tost qu’il voient que cel chaut

vien{e}t, il entrent en l’eive, et en cest mainere eschampent de cel

chaut vent»

(F, XXXVI, 17-18; 41-49);

«Et ce fu bien grant conquest, qe en toute le monde ne avoit nul

roiame qe la moitié n’avist de cest, car le roi avoit tant a despendre

qe ce estoit merveliosse couse»

(F, CXXXVIII, 46-48);

«Et sommeemant vos di con tute verité qe l’afer de la provence

dou Mangi est si tres grant couse, et de richese e de rende e de

profit qe n’a le Grant Kan, qe ne est home qe l’oïsse conter e ne le

veïsse qe le peust croire»

(F, CLI, 104-108);

«En ceste isle ha si grant treçor qe ne est home au monde qe le

peust contere ne dire»

(F, CLXII, 10-11);

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che suggeriscono l’immagine di uno sconfinato territorio dal clima eccezionale e celante

tesori inimmaginabili per l’uomo occidentale62.

In molti casi si ravvisa, invece, la volontà autoriale di sottolineare le sorprendenti

proporzioni (tratto 2) di talune specie animali e vegetali o di costruzioni edificate in quelle

terre remote. Si citano in merito:

«Les buef sunt grandismes et sunt tuit blance come nois»

(F, XXXV, 12-13);

«<Il hi a> buef sauvajes que sunt grant come olifans et sunt mout

biaus a veoir, car il sunt tout pelous sor le dos et sunt blanc et

noir»

(F, LXXI, 12-13);

«Il hi a channe groses et grant merveliosemant»

(F, CXIV, 4);

«Mes je voç di ke les homes s’en sevent bien garder, et voç di car

il sunt grandissmes lionz et perilieus»

(F, CXXIX, 16-17);

«Il ont encore bestiaus asseç mout grant»

(F, CXC, 23-24);

«Il ont grandismes ors toutes blances que sunt {que sunt} longues

plus de .XX . paumes; il ont vulpes toutes noir et grant»

(F, CCXVI, 18-20);

62 A proposito di tale sovrabbondanza propria di tutte le sfaccettature del continente indiano, Ciccuto fa presente che questo territorio posto ai confini orientali dell’ecumene, «deve possedere qualità simili a quelle di altre regioni ma in misura maggiore, in modo da ottemperare al criterio della meraviglia» (L’immagine del testo, pag. 74).

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«A chascune de ceste poste a bien .CL. chiens mout grant, pou

moin do <u>n asnes»

(F, CCXVI, 31-32);

«Il est le greingnor que jamés fust veu»

(F, LXXXII, 28)63.

Da queste righe si può vedere:

� come venga reiterato l’uso dei superlativi assoluti grandismes e mout grant,

(ma non va dimenticata neppure l’espressiva variante grant

merveliosemant), i quali paiono talvolta accostati all’inserimento di termini

di paragone capaci di dare al lettore europeo la misura del suddetto divario

dimensionale (buef sauvajes [...] grant come olifans; chiens mout grant,

pou moin do <u>n asnes);

� come si ricorra a proposizioni consecutive che riprendono il costrutto [il

più grande] che sia mai stato visto (le greingnor que jamés fust veu).

Come fa presente Gioia Zaganelli, qui «sono [...] le misure dilatate del mondo a

produrre stupore, ma misure di cose che l'Occidente conosce e che può quindi facilmente

capire solo modificando le proporzioni, non la qualità, del suo modello di riferimento»64.

Altri punti del testo vedono, infine, la comparsa in combinazione dei due tratti di

cui si è fatta menzione:

«il hi a grant moutitude de mouton sauvages qe sunt grandisme»

(F, XLIX, 17-18);

63 La frase è riferita al palazzo del Gran Khan di Canbalu. 64 Viaggiatori europei in Asia nel Medioevo, pag. 159.

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«Je voç di q’il ont un lac qe gire environ bien .C. miles, en quel a

grandisime quantité de peison des meior dou monde: il sunt mout

grant de toute faison»

(F, CXVII, 29-31);

«il hi a peisonz aseç et grant»

(F, CXXXVII, 18);

«Il hi a lionz asez et grandismes et fieres»

(F, CCXVI, 38);

«Et il ont perles en abondance, et sunt rojes, mout bielle e reonde

e groses»

(F, CLVIII, 19-20),

ad esempio, sono porzioni di descrizioni nelle quali sono dovizia ed ipertrofia sommate a

suscitare sbalordimento.

Quelli su cui ci si è appena soffermati sono solo alcuni degli elementi che

contraddistinguono la descrizione poliana di quell'esotico indiano che si rivela

nell'alterazione del già noto65. Approfondendo l'analisi si arriva a circoscrivere altri

espedienti stilistico-formali di cui fanno uso i coautori del Milione nell’atto di raccontare

l'altro66. Mi riferisco a:

1. comparazioni e confronti;

2. parallelismi e analogie;

3. espressioni di carattere iperbolico;

4. superlativi;

5. costrutti di tipo consecutivo;

65 Si rinvia, in proposito, alle precisazioni di pag. 38 e contenute nella nota n°. 60. 66 Nell'ambito, cioè, del lavoro che Hartog definisce di «passatore della differenza» (Lo specchio di Erodoto, pag. 204).

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6. dati numerici.

La comparazione

Per marcare la differenza tra il qui e l’altrove la soluzione più immediata appare,

ovviamente, quella di comparare67. Come dice Hartog, nel resoconto di viaggio il

paragone è per eccellenza il modo di «tenere insieme il mondo che viene raccontato e il

mondo in cui si racconta e di poter passare dall’uno all’altro»68 stabilendo «somiglianze e

differenze tra il “di qua” e il “di là”»69, a condizione che uno dei termini «appartenga al

sapere condiviso tra coloro a cui il narratore si rivolge»70. In effetti, giacché una delle

problematiche cui va incontro un autore nel momento in cui si ritrova a mettere per iscritto

ciò che ha visto, a rendere insomma partecipi i suoi destinatari delle immagini che per lui

rappresentano l'altrove, in un periodo quale quello per noi di riferimento, ossia nel

Medioevo, nel quale i lettori spesso e volentieri hanno una conoscenza limitata del mondo,

è proprio quella di risultare comprensibile ad un siffatto pubblico71.

Ecco allora che accanto a comparazioni commisurate al mondo intero che puntano

a dar conto dell'ammirevole abbondanza in termini di popolazione animale e prodotti

naturali o dell'inarrivabile qualità delle risorse della terra dell'Estremo Oriente, quali:

«Et en ceste plaingn a une generasion d’osiaus que l’en apelle

francolin, que sunt devissé a les autres francolin des autres païs»

67 Un approfondimento in merito all'utilizzo del procedimento del paragone è rintracciabile alle pp. 235-241 di Sur les routes de l’empire mongol facenti parte del capitolo che Guerét-Laferté dedica agli espedienti stilistici di cui chi scrive può valersi per ritrarre una realtà nuova e poco o per nulla conosciuta e che concorre a comporre la sezione intitolata per l'appunto Dire l'autre (pp. 211-282). 68 Lo specchio di Erodoto, pag. 194. 69 Ivi, pag. 195. 70 Ivi, pag. 195. 71 Dei problemi e delle difficoltà legate al racconto dell'altro si è ampiamente occupata Guerét-Laferté nella sezione del suo Sur les routes de l’empire mongol cui si è fatto cenno alla nota n°. 67; a tal proposito, si rimanda nello specifico alle pp. 211-214.

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(F, XXXV, 8-10);

«Je voç di que en ceste provences naist e se fait plus sucar qe ne

fait en tout le autre monde»

(F, CLII, 12-13);

«je voç di qe en ceste isle naisent les nobles et buen robin, ne en

nul{a} autre part dou monde non naisent»

(F, CLXXII, 16-18);

«Et entor lui avoit maint paonç, car sachiés qe en celz contree en

ont plus que part dou monde»

(F, CLXXV, 44-46);

«Il hi a de maintes deverses bestes, devisees a toutes les autres dou

monde»

(F, CLXXIX, 20-21);

«Il ont toutes bestes devisés a toutes les autres dou monde»

(F, CXCI, 15-16),

non è insolito imbattersi nel resoconto del veneziano in passaggi quali:

«Les sien fruit sunt datar et pome de paraïse et pistac et autres

fruit les quelz ne sunt en nostre leu froit [...] Les bestes sunt ausi

divisee, et voç dirai des bué primeramant»

(F, XXXV, 7-8; 11-12);

«Il ha mouton grant com asne»

(F, XXXV, 18-19);

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«hoisiaus hi a, francolin et papagaus et autres oisiaus que ne sunt

senblable as nostres»

(F, XXXVI, 7-8);

«<Il hi a> buef sauvajes que sunt grant come olifans et sunt mout

biaus a veoir, car il sunt tout pelous sor le dos et sunt blanc et

noir»

(F, LXXI, 12-13);

«Il hi a faiçain grant deus tant que celle de nostre païs, car il sunt

de la grandesse de paon, aucun pou moin. Il ont la coe lo<n>ge au

plus .X. paumes, et bienn i a de .VIIII . et de .VIII . et de .VII . au

moin. Il hi a encore des faiçain qui sunt de la grande<sse> et de

faisonz des nostres païs. Des autres hoisiaus hi a de maintes

mainere de mout belles pennes et bien colorés»

(F, LXXI, 32-38);

«Il ont grandismes chenz mastin qe sunt grant come asnes et sunt

mout buen a prendre bestes sauvajes»

(F, CXV, 16-17);

«Et encore hi a une estrange cousse qe bien fait a mentovoir: car je

voç di qe il hi a galine qe ne ont pennes mes ont peaus come gate e

sunt toute noire; elle font ausi oves, come celle de nostre païs, et

sunt mout bones a manger»

(F, CLIV, 30-34);

«En ceste ysle a mout grandismes habundance de treçor e de

toutes chieres especes, e leingn aloé et espi e de maintes autres

especes que unques n’en vienent en nostri païs»

(F, CLXV, 7-10);

«Et encore sachiés qe ceste rengne, et por tout Indie, ont toutes

bestes et osiaus deviséç des nostres, for solemant un oisiaus, e ce

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est la quaie: ceste oisiaus san faile est senblable as nostres, mes

toutes autres couses s<o>nt mout deversemant deviséç des nostres,

car je voç di tout voiremant qe il ont le qief soris, ce sunt les

oisiaus qe volent la nuit e qe ne ont poines ne plume: cesti tiel

oisiaus <s>ont grant come un hostor. Il ont hostor tuit noir come

corbiaus et sunt d’aseç greingnor des nostres, et sunt bien volant e

bien oselant»

(F, CLXXIII, 211-219);

«Il ont gelines devisee a les nostres»

(F, CLXXIX, 27);

«Il ont toutes couses devisee a{s} les nostres et sunt plus belles et

melliors»

(F, CLXXIX, 27-28);

«Lionz e leopars et lonces ont il aseç; et maintes autres bestes ont

il encore moutitude, deviséç a celz de nostres contrés»

(F, CXCII, 109-110).

Nelle righe appena riportate si nota che Marco e Rustichello propongono

accostamenti tra il continente indiano e quello di loro provenienza (nostre leu, nostri païs,

nostres contrés) riguardanti flora e fauna. Accanto a considerazioni che mettono in rilievo

da un lato la mancanza in Europa di svariati tipi di frutti, di animali e di materie prime che

sono invece un vanto per le Indie (autres fruit les quelz ne sunt en nostre leu froit; maintes

autres especes que unques n’en vienent en nostri païs), e dall’altro la dissomiglianza tra

specie viventi autoctone delle terre orientali e del Vecchio Continente (oisiaus que ne sunt

senblable as nostres; bestes et osiaus deviséç des nostres; gelines devisee a les nostres), si

possono osservare rappresentazioni di animali nelle quali i coautori si servono di

riferimenti familiari al loro possibile pubblico, vale a dire: grant com asne; grant come

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olifans; de la grandesse de paon; de la grande<sse> et de faisonz des nostres païs; ont

peaus come gate; font ausi oves, come celle de nostre païs; senblable as nostres; grant

come un hostor; d’aseç greingnor des nostres. La loro scelta è, in buona sostanza, quella

di dare conto dell'altrove e mantenere intatte le specificità di quest'ultimo prendendo come

orizzonte referenziale il mondo conosciuto e condiviso con la ricezione.

L'uso di tale procedimento parrebbe, a prima vista, collidere con la volontà

autoriale di veicolare l'immagine di un Oriente mirabile, obiettivo minato dal rischio di

negare, con la messa in relazione dell'ordinarietà del qui con la straordinarietà del laggiù,

quello scarto capace, di fatto, di produrre la percezione di meraviglia. Questo determina

che la necessità sia quella di far risaltare una sproporzione in favore delle terre lontane e

talvolta inesplorate. Appurato ciò, si può facilmente comprendere perché tra le righe del

Milione l'altrove abbia quasi sempre un qualcosa in più della realtà familiare agli europei,

come è stato possibile evincere dai brani in precedenza trascritti, e perché, di contro, i

paragoni in cui l’altro è meno siano ridotti ad un numero estremamente esiguo di

occorrenze72. Per riassumere potremmo dire, parafrasando Guerét-Laferté, che «le comme

utilisé ici par le voyageur est sans doute destiné davantage à traduire l'écart merveilleux

que la ressemblance»73, affermazione di cui sono rappresentative non solo le frasi, già

incontrate addietro, «Il ha mouton grant com asne»74, «<Il hi a> buef sauvajes que sunt

grant come olifans»75, «Il hi a faiçain grant deus tant que celle de nostre païs»76, «Il ont

grandismes chenz mastin qe sunt grant come asnes»77, «il ont le qief soris [...] grant come

un hostor»78, «Il ont hostor [...] d’aseç greingnor des nostres»79, che mirano proprio a

sottolineare la sovrabbondanza dimensionale di taluni animali incontrati dal Polo nei 72 Lo osserva anche Guerét-Laferté: Sur les routes de l’empire mongol, pag. 236. 73 Ivi, pag. 238. 74 F, XXXV, 18-19. 75 F, LXXI, 12. 76 F, LXXI,12. 77 F, CXV, 32-33. 78 F, CLXXIII, 215-217. 79 F, CLXXIII, 217-218.

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territori del Sol Levante, bensì pure ed in particolar modo la riflessione poliana (relativa al

regno di Coilum, ma che può essere riferita nel complesso al mirabile Oriente) che «Il ont

toutes couses devisee a{s} les nostres et sunt plus belles et melliors»80: questa

considerazione, in effetti, si può dire racchiuda l’idea centrale dell’immaginario

occidentale sull’Oriente, ossia quella di un territorio indiano contraddistinto da elementi

che quando non appaiono meravigliosamente dissimili da quanto è proprio della vecchia

Europa, sono comunque presenti in misura maggiore e risultano di qualità superiore

rispetto a ciò che è familiare al lettore occidentale.

L’analogia

Esistono altresì tipologie particolari di similitudini che prendono forma allorché

intervengono non più due, bensì quattro termini di paragone: si tratta dei parallelismi81.

Queste comparazioni complesse, che seguono la formula a sta a b come c sta a d,

richiedono a chi scrive maggior sottigliezza rispetto alle similitudini elementari del tipo a

è come b, dal momento che implicano un cambiamento di registro82: in effetti, «quando il

primo termine di paragone non ha alcun equivalente diretto nel mondo in cui si racconta,

oppure il mondo in cui si racconta non può funzionare direttamente come riferimento»83,

la traduzione deve farsi trasposizione.

«Ausint con nos avon les dras de laine de maintes maineres, ausint

il ont dras dorés et de soie de maintes maineres»

80 F, CLXXIX, 27-28. 81 Su questa figura retorica nei libri di viaggio si veda Sur les routes de l’empire mongol, pp. 241-244, ma anche Lo specchio di Erodoto, pp. 194-199. 82 Lo specchio di Erodoto, pag. 195. A proposito del parallelismo, si fa presente che nel suo lavoro sulla retorica Mortara Garavelli asserisce che, essendo la sua struttura quella di una proporzione, non si può parlare dell’analogia come di un semplice rapporto di somiglianza, bensì è necessario considerarla come una somiglianza di rapporti (Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 1992, pag. 102). 83 Lo specchio di Erodoto, pag. 195.

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(F, LXXIII, 33-35);

«Je vos di tout voiramant qe il ha un grandisme palais, le quel est

tout covert{o} d'or fin, tout en tel mainer come nos covron nostre

maison de plo<n>be, e nostre yglise; tout en tel mainere est cest

palais covert d'or fin, qe ce vaut tant ch'a poine se poroit conter»

(F, CLVIII, 10-13);

«Encore sachiés que en ceste ysle a arbres de sandal vermoille

ausi grant come sunt les arbres de nostre contree; e ceste arbres

vaudrént asez en autre païs, et il en {en} ont bois come nos avuns

d'autres arbres sauvajes»

(F, CXC, 14-17).

Analizzando i brani citati veniamo a conoscenza del fatto che:

� se in Europa si producono panni di lana di diverso genere, nelle Indie sono

diffusi vari tipi di drappi d'oro e di seta;

� se le costruzioni in Occidente sono rivestite di piombo, il palazzo del

signore dell'isola di Cipangu è ricoperto d'oro;

� come qui si incontrano facilmente foreste di piante selvatiche, laggiù si

estendono numerosi i boschi di preziosissimo sandalo rosso.

Tutto ciò dimostra che pure questa particolare forma di comparazione è funzionale

all'autore a mettere in evidenza l'incredibile ricchezza in termini di risorse naturali

dell'Estremo Oriente84, la quale fa sì che anche nei manufatti creati dall'uomo, siano essi

edifici o beni commerciabili, si ritrovi questa opulenza85.

84 Nello specifico, i brani in oggetto ci raccontano di una copiosità di oro del continente indiano, alla quale dedica qualche riflessione Ciccuto: quest’ultimo, oltre ad osservare che l’oro «non è una semplice costante nel processo di estetizzazione del meraviglioso corrente in epoca poliana», lo definisce come «un mito-guida dell’immaginario medievale e rinascimentale, il simbolo stesso dell’abbondanza indo-orientale» (L’immagine del testo, pp. 75-76). 85 Sur les routes de l’empire mongol, pag. 242: il parallelismo «sert à faire ressortir l'exotisme et la richesse», e mette in luce che «ce qui est chez nous rare et précieux est là-bas ordinaire et banal».

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Una breve parentesi può essere aperta in merito alle analogie che si riferiscono non

a risorse della terra, merci o beni artificiali, bensì ad usi, costumi e credenze popolari. Si

ponga l'attenzione su:

«Encore voç di qe il men<j>uent la char crue de galine et de

monton et de buef et des bufal [...] ausi bien com nos faison la

coite»

(F, CXVII, 31-32; 38);

«Encore vos di que il ardent le oisi dou buef et en font poudre,

puis s'en ongent en plusors leu dou cors con grant reverence, bien

con ausi grant com font le cristiens de l'eive beneete»

(F, CLXXVI, 79-81).

Dalle righe riportate scopriamo che:

� gli abitanti della provincia di Caragian gradiscono la carne cruda tanto

quanto noi la cotta;

� i componenti della setta di religiosi del regno di Lar, chiamati Ciughi, si

cospargono della polvere di escrementi di bue bruciati come i cristiani

fanno con l'acqua santa.

Riconosciuto che le usanze tratteggiate risultano molto distanti da quelle europee,

si possono fare un paio di considerazioni. Nel primo caso sembra che il parallelismo non

venga sfruttato da Marco per suggerire un'idea di barbarie culturale o per condannare le

abitudini alimentari del popolo di cui sono proprie86. La scelta di proporre un'analogia tra

rito brahmanico e rito cristiano, che qualcuno ritiene vada nella direzione di portare il

86 La nota n°. 79 alla pag. 242 di Sur les routes de l’empire mongol parla di «autre forme de civilisation».

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pubblico a trattare con rispetto una pratica per lui quantomeno disorientante87, per quanto

possa essere recepita come scioccante, pare invece emblematica del fatto che il Veneziano

persegua l’obiettivo di registrare riti e costumi religiosi con oggettività e sincero desiderio

di comprensione, ossia senza farsi influenzare troppo da pregiudizi e condanne preventive.

In sostanza, anche parallelismi di carattere ambiguo quali quelli appena presi in

esame, al di là di valutazioni relative alla loro portata critica, si può riconoscere che

ritornino utili a chi scrive al fine di ritrarre scorci di realtà talmente lontana da ciò che è

ordinario agli occhi del lettore europeo medievale da essere reputata incredibile.

Le espressioni iperboliche

Molto utile a chi scrive si rivela pure l'impiego di espressioni dai connotati

iperbolici. L'iperbole è la figura retorica che si basa sull’esagerazione, sia per eccesso che

per difetto, di un concetto oltre i termini della verosimiglianza, e che è funzionale a

veicolare un messaggio e raggiungere con facilità il pubblico88. Osserviamo i seguenti

brani:

«Et a ceste confine dever Jorjens ha une fontane ke sorçe oleo en

grant abundance, si que cent nes hi kargent a une foies: mes il

n’est pas bon a manger, me il est bon a ardoir et a onger les

giamiaus por la rogne et por le farbores; et vienent les homes de

mout loingne por cest{o} olio»

87 Mi riferisco all’interpretazione proposta a pag. 243 di Sur les routes de l’empire mongol secondo la quale un parallelismo tra il qui e l'altrove, allorquando abbracci costumi e credenze popolari, è in grado di favorire presso la ricezione una attitude de tolérance. 88 Mortara Garavelli la definisce come «l’eccesso, l’esagerazione nell’amplificare o nel ridurre la rappresentazione della realtà mediante espressioni che, pur dilatando o restringendo oltre il vero i connotati di ciò che si comunica, mantengono col vero una qualche lontana somiglianza», e riporta le parole di Fontanier, il quale riconosce che per mezzo dell’iperbole «si presentano le cose molto al di sopra o molto al di sotto di ciò che sono, con l’intenzione non di ingannare, ma di condurre proprio alla verità e di imprimere ciò che si deve realmente credere, attraverso ciò che l’ieprbole dice di incredibile» (Manuale di retorica, pag. 180).

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(F, XXI, 19-23);

«Il font poison de ris, et co’ maintes autres boines espices, et il la

laborent en tel mainere et si bien qu’il vaut miaus a boir qe nul

autre vin. Il est mout cler et biaus; il fait devenir le home evre plus

tost qe autre vin, por ce qu’il est mult chaut»

(F, C, 2-6);

«Et si voç di qe les merchanz et autres viandanz qe vont por tel

contree, la nuit, prenent de celes chanes et en font feu, por ce qe

quant elles sunt en feu elle font si grant escroair et si grant

escopier qe les lion et les orses et les autres fieres bestes en ont si

grant paür qu’il fuient tant com il plus puent et ne s’acosterént au

feu por rien do monde [...] Et sachiés qe celui qe ne est costumé

hoïr il en devient tout exbaïes, si orible chouse est a oïr»

(F, CXIV, 7-12; 20-21);

«[les colunbre] le{s} chief ha mout grant et les iaus tielz que sunt

greingnor que un pain; la boce si grant que bien engloiteroit un

home a une foies»

(F, CXVIII, 17-19);

«E si voç di qe en ceste contree a si grant calor et le soleil hi est si

caut que a poine hi poite l’en sofrir, car je voç di, que se voç

meteus un ouf en aucun flum, il seroit coit avant qe voç fuissés

alés gueires longe»

(F, CLXXIX, 12-15);

«il on gat paulz et autre gat maimon, si devisez qe pou s’en faut

{de tiel hi a} qe ne senblent a vix d’omes»

(F, CXCII, 117-119).

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In questi periodi è rintracciabile una esagerazione, evidentemente per eccesso,

volta a mettere in luce sproporzioni attribuibili alla realtà indiana nel confronto, implicito,

con quella europea. Tali sproporzioni, relative a clima, risorse naturali ed esseri viventi,

come è stato in precedenza dimostrato, tendono ad avvalorare l'immagine di un territorio

le cui caratteristiche appaiono stupefacenti al lettore medievale. Ciò è ben visibile:

� nel secondo passo riportato, nel quale veniamo a sapere che nel Catai viene

prodotta una bevanda simile al vino, ma che rende ebbri molto più

velocemente rispetto a qualsiasi altro tipo di vino;

� nel terzo brano, dove scopriamo che le enormi canne che crescono nella

provincia del Tibet quando ardono provocano scoppi così rumorosi da far

non solo fuggire le belve, ma da terrificare pure chiunque non sia avvezzo

ad udirli;

� nel quarto passaggio, che ci dà contezza delle dimensioni dei serpenti

chiamati colubri, talmente grandi da inghiottire un uomo in un boccone;

� nel penultimo passaggio in cui, per dare la misura delle eccezionali

condizioni climatiche del regno di Coilum, il viaggiatore assicura che qui le

calde acque fluviali possono essere sfruttate addirittura per la cottura di un

uovo89;

� nell’ultimo esempio, dove il veneziano garantisce che gattopardi e gatti

mammoni della provincia di Abasce hanno fattezze così singolari da

somigliare a quelle umane.

È però il primo dei brani citati ad essere in grado, parlando di un prodotto del quale

abbonda la provincia di Giorgiania in maniera così significativa che si possono caricare

89 Ciccuto individua, a tal proposito, il «cliché climatologico della rispondenza fra abbondanza e clima torrido» (L’immagine del testo, pag. 76) e asserisce che questa unicità climatica «saldamente sostiene il principio di ammirabilità biologica entro cui è fatta confluire, in modo sistematico, la flora e la fauna dell’India» (Ivi, pag. 74).

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cento navi alla volta, di suggerire in modo immediato alla ricezione un'idea di

impareggiabile opulenza del continente asiatico90.

I superlativi

Dispositivo linguistico che tende in qualche modo all'estremizzazione e che, per

questa ragione, può essere accostabile all'iperbole, è il superlativo. Il superlativo è quel

grado di aggettivi ed avverbi atto a segnalare che la proprietà espressa dagli aggettivi e

dagli avverbi in questione è intensificata al massimo grado, senza confronto alcuno nel

caso del superlativo assoluto, oppure in relazione ad una determinata categoria che

costituisce il secondo termine di paragone nel caso del superlativo relativo.

Come ravvisato da Guerét-Laferté, non solo nel Devisement dou monde i

superlativi si sprecano91, bensì hanno pure un ruolo fondamentale nel resoconto poliano,

giacché contribuiscono alla sua organizzazione testuale92. In effetti, è un comportamento

pressoché sistematico di Marco quello di passare in rassegna le peculiarità dei luoghi che

egli ha visitato e ciò che invece essi hanno in comune con altre realtà, cosa che apre la

strada e giustifica le divagazioni descrittive del suo libro di viaggio. In particolare, è

proprio la propensione del veneziano ad ascrivere a regioni, province e città da lui

90 Anche Faucon parla dell’iperbole, ma lo fa nell’ambito del suo studio sulla descrizione dell’animale nel Milione (La représentation de l'animal par Marco Polo, pp. 103-107). In effetti, nell’esporre i procedimenti narrativi che subisce l’animale nel testo poliano e che permettono all’autore di irradier l’étrangeté, egli cita l’ hyperbole accanto a anthropomorphisme, dérèglement de la nature, topos de la dévoration e valeur thérapeutique. Nello specifico, lo studioso precisa che l’uso di questo espediente: - riguarda, anzitutto, la quantità; per questa ragione, se da un lato l’espressione “moult de” è la più ricorrente nelle descrizioni di animali, dall’altro altrettanto frequentemente si viene informati che la quantità non è misurabile; - nel caso si riferisca a rapporti di grandezza, arriva a sovvertite le conoscenze del lettore in merito alle dimensioni del mondo animale a lui familiare; -dà conto pure della varietà di specie e colori. 91 Sur les routes de l’empire mongol, pag. 245: il Devisement dou monde viene definito una vera e propria collection de superlatifs, di cui l'autrice offre anche una quantificazione numerica affermando che se ne possono contare plus d'une cinquantaine . 92 Ivi, pag. 245.

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attraversate una caratteristica esclusiva che, non trovandosi in nessun'altra parte del

mondo, è in grado di raccordare una sorta di superiorità ai suddetti luoghi, a produrre nel

Milione quella profusione di superlativi cui si è fatto cenno.

I passaggi sottostanti rappresentano una panoramica concernente l'uso che i

coautori del Milione fanno del superlativo:

«il hi se laborent le sovran tapis dou monde et li plus biaus»

(F, XX, 8);

«Elle comance da une cité ki est apelé Arçinga, en la quel se

laborent les meilior bocaran ke sont au monde»

(F, XXI, 1-3);

«Il hi a viles et ca{u}staus ases, et ont soie en grant abondançe, et

hi se laborent dras de soie et dras dorés les plus biaus ke homes

veise unques. Il ha les meillor astor dou monde»

(F, XXII, 19-21);

«Et encore voç di ke sor cel flum entre Baudac et Chisi a une gran

cité que a non Bascra, et tout environ la cité, por les bois, naisent

les meior datal dou monde»

(F, XXIV, 8-10);

«Encore hi a asne, li plus biaus du monde»

(F, XXXII, 11-12);

«Il hi a encore asne savajes mout biaus»

(F, XXXIII, 9);

«Et en les montagnes de cest païs naisent les meilor fauchonç et

les miaus volant dou monde»

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(F, XXXIV, 14-15);

«Et hi se font mireor d’accer mout biaus et grant»

(F, XXXIII, 2-3);

«en cest meisme contree, en une autres montagnes, se treuvent les

pieres des quelz l’en fait le açur, et ce est le plu fin açur et le

meior qui soit ou monde»

(F, XLVI, 22-24);

«<Il hi a> buef sauvajes que sunt grant come olifans et sunt mout

biaus a veoir, car il sunt tout pelous sor le dos et sunt blanc et

noir»

(F, LXXI, 12-13);

«Des autres hoisiaus hi a de maintes mainere de mout belles

pennes et bien colorés»

(F, LXXI, 36-38);

«Et en cest contree naist{i} le meillor mosce et le plus finz que

soit au monde»

(F, LXXI, 18-19);

«Et en ceste cité se font giambellot de poil de gamiaus, les plus

biaus que soient au monde et les meillors»

(F, LXXII, 5-6);

«Et encore sachiés qe a le senestre partie ver levant [...] est la mer

Hosiane, et dou mer Ociane jusque ci en tous les leus se fait le ssal

<en> grandismes quantité, et hi a une cité qe est apellés Cingui,

que mout est grant et riche et noble»

(F, CXLII, 8-11);

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«Il hi a peisons les meior dou monde»

(F, CLXVI, 11);

«Et si voç di qe le roi de cest provence a le plus biaus rubin qe soit

en tout le monde ne que unques fust veu ne qe se doit veoir, e vos

deviserai comant il est fait. [...] Il est le{s} plus espiendent cousse

dou monde a veoir»

(F, CLXXII, 19-22; 23-24);

«Car sachiés qe en ceste reiame se font les meior bocoranç e les

plus biaus et le p<l>us sotil qe soient au monde et celz qe sunt de

greingnor vailance»

(F, CLXXIV, 56-58);

«Il ont bestes aseç e lles greingnor moutonz dou monde»

(F, CLXXIV, 60);

«Il ont encore bocarans aseç, et des plus sotil et des plus biaus de

tout cest monde»

(F, CLXXXII, 27-28);

«Il ont gelines, les plus belles {en} a veoir dou monde»

(F, CXCII, 112-113).

Da tale panoramica è possibile avere conferma di quanto sostenuto da Marroni in

un lavoro già evocato93, vale a dire che uno degli espedienti impiegati da Marco e

Rustichello in quanto teso “a manifestare ammirazione e a sottolineare la straordinarietà

della realtà descritta o narrata”94, è la struttura il più + aggettivo + del mondo. Lo studioso

fa presente che questo tipo di costruzione e le varianti della struttura in esame (mi riferisco

93 Ossia La meraviglia di Marco Polo. L’espressione della meraviglia nel lessico e nella sintassi del Milione. 94 I viaggi del Milione, pag. 243.

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a costrutti del tipo il più + aggettivo + che ci sia al mondo), sono nella maggioranza dei

casi attribuiti «alle ricchezze, ai commerci e alle merci, agli animali, ai vegetali, alle pietre

preziose da cui si può trarre qualche profitto»95, come osservabile nelle proposizioni:

� il hi se laborent le sovran tapis dou monde et li plus biaus96;

� se laborent les meilior bocaran ke sont au monde97;

� Il ha les meillor astor dou monde98;

� tout environ la cité, por les bois, naisent les meior datal dou monde99;

� Encore hi a asne, li plus biaus du monde100;

� en les montagnes de cest païs naisent les meilor fauchonç et les miaus

volant dou monde101;

� ce est le plu fin açur et le meior qui soit ou monde102;

� Et en cest contree naist{i} le meillor mosce et le plus finz que soit au

monde103;

� se font giambellot de poil de gamiaus, les plus biaus que soient au monde et

les meillors104;

� Il hi a peisons les meior dou monde105;

� se font les meior bocoranç e les plus biaus et le p<l>us sotil qe soient au

monde106;

� Il ont [...] lles greingnor moutonz dou monde107;

95 I viaggi del Milione, pag. 243. 96 F, XX, 8. 97 F, XXI, 2-3. 98 F, XXII, 21. 99 F, XXIV, 9-10. 100 F, XXXII, 11-12. 101 F, XXXIV, 14-15. 102 F, XLVI, 23-24. 103 F, LXXI, 18-19. 104 F, LXXII, 5-6. 105 F, CLXVI, 11. 106 F, CLXXIV, 56-57. 107 F, CLXXIV, 60.

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� Il ont encore bocarans [...] des plus sotil et des plus biaus de tout cest

monde108,

nelle quali, appunto, le testimonianze si riferiscono ad animali (astor, fauchonç, asne,

moutonz e peisons), piante (datal e mosce), manufatti e tessuti pregiati (tapis, giambellot e

bocarans) e pietre (açur) caratteristici delle zone del lontano Oriente esplorate dal

mercante veneziano. In tutti i brani riportati, comunque, è verificabile la tesi in oggetto,

dal momento che vengono in essi citati pure dras, mireor d’accer, buef sauvajes, autres

hoisiaus, ssal, cité, rubin e gelines.

Interessante è altresì notare che gli esempi proposti presentano, a ben vedere,

anche strutture più complesse. Si considerino i casi seguenti:

� hi se laborent dras de soie et dras dorés les plus biaus ke homes veise

unques109;

� Et si voç di qe le roi de cest provence a le plus biaus rubin qe soit en tout le

monde ne que unques fust veu ne qe se doit veoir110;

� Il est le{s} plus espiendent cousse dou monde a veoir 111;

� Il ont gelines, les plus belles {en} a veoir dou monde112,

passaggi nei quali il superlativo relativo appare inserito nel contesto di quelle strutture

periodali individuate da Marroni113. Espressioni che in italiano possono essere tradotte

108 F, CLXXXII, 27-28. 109 F, XXII, 20-21. 110 F, CLXXII, 19-21. 111 F, CLXXII, 23-24. 112 F, CXCII, 112-113. 113 I viaggi del Milione, pp. 245-246, dove l'autore identifica, a proposito della versione T del Milione: - strutture comparative di grado, come «Qui nasce più leofanti che in parte del mondo»; - strutture consecutive, come «A la 'ntrata del giardino ave' uno castello sì forte, che non temea niuno uomo del mondo»; -strutture ipotetiche, come «E dicovi più, ché se tutti li signori del mondo, e saracini e cristiani, [fossero insieme], non potrebboro fare tanto tra tutti come farebbe Coblam Kane»; - strutture relative, come «E quando 'l Grande Sire vae per questa via verso il mare Aziano, che io v'ò contato, egli puote vedere molte belle viste di vedere prendere bestie e uccegli; e non à solazzo al mondo che questo vaglia»; - strutture eccettuative, come «Così si truovano i diamanti in questi tre modi, né i luogo del mondo non si ne truova se non in questo reame»,

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con [la cosa più bella] che l'uomo abbia mai visto / che ci sia al mondo da vedere,

sembrano, evidentemente, avere il compito di raggiungere in maniera estremamente

repentina il pubblico, convincendolo della irripetibilità di quanto descritto.

Procedendo con l'analisi si può riconoscere, accanto all'impiego di superlativi

relativi secondo le modalità passate in rassegna, la presenza di superlativi assoluti, ancora

una volta usati per esaltare determinate caratteristiche della realtà indiana. Ecco, quindi,

che chi scrive giunge a servirsi di espressioni quali <en> grandismes quantité, per

sottolineare l'abbondante disponibilità di risorse dei territori dell'Estremo Oriente, o degli

elativi mout biaus, mout biaus et grant, de mout belles pennes, mout grant et riche et

noble per esprimere stupore relativamente a esseri viventi, oggetti e fatti su cui egli si

sofferma.

Prendendo in considerazione le locuzioni elencate, è inoltre possibile riconoscervi

alcuni dei meccanismi semantico-sintattici che, come Marroni evidenzia, sono

diffusamente usati nel Milione per palesare lo sbalordimento del viaggiatore.

Nell'enumerazione stilata dallo studioso, oltre al costrutto il più + aggettivo + del mondo,

rientrano pure espressioni come di grande / maggiore / più valenza / valore / valuta, la

famiglia lessicale di bello, la famiglia lessicale di ricco, la famiglia lessicale di nobile e gli

elativi114. Se sull'utilizzo del primo tipo di struttura e sulla dovizia di superlativi all'interno

del resoconto poliano si è già indugiato, i passaggi seguenti, ossia:

� il hi se laborent le sovran tapis dou monde et li plus biaus115;

� hi se laborent dras de soie et dras dorés les plus biaus ke homes veise

unques116;

� Encore hi a asne, li plus biaus du monde117;

che, essendo finalizzate ad evidenziare l'unicità di quanto trattato, vedono al loro interno i referenti essere equiparati ai corrispettivi del mondo intero. 114 I viaggi del Milione, pag. 243. 115 F, XX, 8. 116 F, XXII, 20-21.

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� Il hi a encore asne savajes mout biaus118;

� Et hi se font mireor d’accer mout biaus et grant119;

� <Il hi a> buef sauvajes que sunt grant come olifans et sunt mout biaus a

veoir120;

� Des autres hoisiaus hi a de maintes mainere de mout belles pennes121;

� Et en ceste cité se font giambellot de poil de gamiaus, les plus biaus que

soient au monde et les meillors122;

� Et encore sachiés qe a le senestre partie ver levant [...] hi a une cité qe est

apellés Cingui, que mout est grant et riche et noble123;

� Et si voç di qe le roi de cest provence a le plus biaus rubin qe soit en tout le

monde ne que unques fust veu ne qe se doit veoir124;

� en ceste reiame se font les meior bocoranç e les plus biaus et le p<l>us

sotil qe soient au monde et celz qe sunt de greingnor vailance125;

� Il ont encore bocarans aseç, et des plus sotil et des plus biaus de tout cest

monde126;

� Il ont gelines, les plus belles {en} a veoir dou monde127,

vanno segnalati anche in qualità di esempi della consuetudine autoriale di inserire termini

riconducibili proprio alle famiglie lessicali di bello (mout biaus / mout belles; li plus biaus

/ les plus biaus / les plus belles), ricco e nobile (mout est grant et riche et noble) ed

espressioni legate alla stima del valore degli oggetti descritti (de greingnor vailance).

117 F, XXXII, 11-12. 118 F, XXXIII, 9. 119 F, XXXIII, 2-3. 120 F, LXXI, 12-13. 121 F, LXXI, 36-37. 122 F, LXXII, 5-6. 123 F, CXLII, 8-11. 124 F, CLXXII, 19-21. 125 F, CLXXIV, 56-58. 126 F, CLXXXII, 27-28. 127 F, CXCII, 112-113.

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Alla luce di quanto emerso, si può avere contezza del fatto che il superlativo

traduca, nel Devisement dou monde, non soltanto il meraviglioso quantitativo128 («en tous

les leus se fait le ssal <en> grandismes quantité»), bensì parimenti il meraviglioso per

così dire qualitativo («se laborent les meilior bocaran ke sont au monde»; «Il ha les

meillor astor dou monde»; «hi a asne, li plus biaus du monde»; «Des autres hoisiaus hi a

de maintes mainere de mout belles pennes»; «le roi de cest provence a le plus biaus rubin

qe soit en tout le monde», ...). Di certo, è innegabile che talvolta l'uso di questo espediente

risulti molto vicino a quello di taluni processi di esagerazione per due ragioni. Anzitutto

perché se ci soffermiamo su affermazioni dell'autore quali «en cest contree naist{i} le

meillor mosce et le plus finz que soit au monde», non possiamo non constatare che in

questa e in asserzioni simili la comparazione, pur venendo presentata come un'operazione

oggettiva, poggia in realtà su una limitata esperienza del mondo del testimone129. In

secondo luogo perché si rende manifesto che l'intento legato all'impiego del superlativo è

puramente iperbolico allorquando Marco attribuisce la stessa caratteristica a due luoghi

differenti da lui visitati130, come nelle descrizioni seguenti:

«Et hi a les plus biaus bangnes et les meiliors d'eive surgent qe

soient au seicle»

(F, XXI, 3-4);

«E si vos di qu'il sunt les plus biaus bagni e les meior et les

greingnor qe soient au monde»

(F, CLI, 78-79),

la prima relativa alla Grande Armenia, la seconda alla città di Quinsai.

128 Sur les routes de l’empire mongol, pag. 244. 129 Ivi, pag. 244-245. Chi scrive non ha, in effetti, le conoscenze necessarie a fornire tale tipo di valutazione, non avendo egli familiarità col pianeta nel suo complesso. 130 Ivi, pag. 246. Guerét-Laferté parla di «superlatifs qui subliment la même réalité».

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Precisato ciò, non si può non ravvisare che il superlativo sia sfruttato, nell'ambito

del Milione, al fine di esprimere l’eccesso meraviglioso che contraddistingue la realtà

orientale131 e non dar ragione a Faucon, il quale rimarca che questa abbondanza di

intensifs traduce «une sorte d'excitation de Marco Polo devant de nouvelles réalités et son

désir de la faire partager par les Occidentaux»132.

Le strutture consecutive

Oltre ai dispositivi fin qui illustrati, emerge che allo scopo di esternare

l'eccezionalità della realtà indiana rappresentata, i coautori del Devisement si avvalgono

con frequenza di specifiche costruzioni sintattiche: si tratta delle strutture di tipo

consecutivo. Dati i brani:

«Et de la cité de Crerman jusque a cest descese ha si grant froit de

yver que a poine eschanpe l’en portant aséç dras et aséç pannes»

(F, XXXIV, 27-29);

«et si voç di q’il sunt [les fauchonç] si volant dismiçureemant

qu’il ne est nul ausiaus qe devant li puise escamper por voler»

(F, XXXIV, 16-18);

«Et si vos di qe en ceste provence naist si grant quantité de

çengibre qe por toute la grant provence dou Catai s’espant et en

ont les homes de la provence grant profit et grant bien»

(F, CXII, 5-7);

131 Sur les routes de l’empire mongol, pag. 247. 132 J.-C. Faucon, La représentation de l'animal par Marco Polo, «Médiévales», 32, 1997, pag. 107.

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«[les colunbres] est si desmesuremant grandismes et fieres que ne

est ne homes ne bestes qe ne les dotent que n’en aient paor»

(F, XXXIV, 19-21);

«Il hi a tant lyonç qe nulz homes ne puet dormir la nuit deors de

maison, car le lionz le mengi<e>roit mantinant»

(F, CXXIX, 11-12);

«a le senestre partie ver levant [...] hi a une cité qe est apellés

Cingui, que mout est grant et riche et noble; et a cest cité se fait

tout le sal, qe toute la provence en <a> asez»

(F, CXLII, 8; 10-12),

si può osservare che costrutti quali quelli riportati (ha si grant froit de yver que; il sunt si

volant dismiçureemant qu’il; naist si grant quantité de çengibre qe; Il hi a tant lyonç qe;

se fait tout le sal, qe) sono funzionali al viaggiatore a far giungere al pubblico la stessa

sensazione di stupore da lui provata di fronte a situazioni dal carattere spiccatamente

singolare di cui egli è stato testimone nel corso della sua esperienza di lontananza e

d’immersione nel mondo orientale. Nello specifico, nei casi in esame si rileva la volontà

di porre l'accento:

� sull’ostico clima della città di Cherman, rigido a tal punto che gli abitanti lo

affrontano a fatica;

� sulla velocità dei falconi che nascono sui monti del regno di Cherman, tanto

rapidi da sopravanzare ogni altra specie di uccelli;

� sulla produzione di zenzero e sale rispettivamente della provincia di

Acbalac Mangi e della città di Cingiu, talmente copiosa da soddisfare

abbondantemente il fabbisogno del territorio;

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� sulle dimensioni dei colubri, serpenti diffusi nella provincia di Caragian e

così enormi da incutere terrore in chiunque;

� sulla proliferazione della popolazione dei leoni della provincia di Ciugiu, la

cui consistenza in termini di numero di esemplari è così considerevole da

risultare altamente pericolosa.

Più interessante appare, però, l'impiego che Marco, coadiuvato da Rustichello, fa di

costruzioni consecutive quali quelle presenti nei passaggi seguenti:

«<Il hi a> buef sauvajes que sunt grant come olifans et sunt mout

biaus a veoir, car il sunt tout pelous sor le dos et sunt blanc et noir;

le poil est lonc trois paumes: il sunt si biaus que ce est une

mervoie a voir»

(F, LXXI, 12-15);

«Il fait demorer a la garde de cesti osiaus plusors homes, et hi ni a

si grant habundance que ceste est mervoie a veoir»

(F, LXXIII, 63-65);

«Il h<i > a sor ceste flum grandismes quantités de cité et de

castiaus. Il hi a si grant naives, ce est si grant moutitude, qe ne est

cor d’omes ne iaus qe ne le veises qe peust croire. Il est si grant la

moutitude et la grant abundance de les grant mercandie que les

mercaant portent sus et jus por cest flum qe ne est homes au

monde qe ne le veisse qe le peust croir. Il ne senble flu<m> mes

mer, tant est large»

(F, CXIII, 18-23);

«Et en ceste provence naisent les grant colunbres et celes grant

serpanz que sunt si desmesuréç que tous homes en doient avoir

mervoille»

(F, CXVIII, 9-11);

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«Il ont si grant abundance de soie qe ce est mervoie»

(F, CXXXIII, 10-11);

«Il font çuchar en si grant abondance qe nulz le poroit conter»

(F, CLV, 12-13);

«Elle est riche isle que nulz poroit conter sa richesse»

(F, CLVIII, 21-22);

«Il ont or en grant abondance, si grant qe nulz le peust croir qui ne

le veist»

(F, CLXIII, 10-11);

«Et si voç di qe le roi de cest provence a le plus biaus rubin qe soit

en tout le monde ne que unques fust veu ne qe se doit veoir, e vos

deviserai comant il est fait. [...] il est de si grant vaillance qe a

poine se poroit accater por monoie»

(F, CLXXII, 19-22; 25-26);

«Et en ceste mainere se pescent les perles, et ce sunt si

grandismes quantités qe ce ne fait a conter»

(F, CLXXIII, 37-38).

Da queste righe è possibile estrapolare una serie di espressioni di carattere

consecutivo, come ad esempio que ce est une mervoie a voir; qe ne est homes au monde

qe ne le veisse qe le peust croir; que tous homes en doient avoir mervoille; qe nulz le

poroit conter; qe a poine se poroit accater por monoie, corrispondenti a quelle individuate

da Marroni nella versione toscana del Milione. Lo studioso, in effetti, elenca, quali tipiche

consecutive sfruttate nel suo libro dal Polo, le seguenti strutture:

� che no si potrebbe credere;

� ch'è una meraviglia / che ciò era meraviglia;

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� che non si potrebbe contare;

� che non si potrebbe iscrivere;

� che non si potrebbe meglio divisare;

� che molto tesoro vorebbe a farne uno;

� che non si potrebbe comperare133.

Osservando i passaggi trascritti, risulta subito evidente il fatto che le costruzioni in

oggetto sono utili al testimone per esprimere un'idea di incredibile grandezza, di smisurata

abbondanza e di stupefacente opulenza del continente indiano da lui attraversato. Essendo

tali realtà inimmaginabili per il lettore europeo, il viaggiatore, nel riferirsi a ciò che si è

presentato davanti ai suoi occhi nell'arco della sua esperienza, è spesso portato a definire

quanto da lui ammirato molto arduo / impossibile da raccontare. Si vedano, in proposito,

la strabocchevole quantità di zucchero prodotta sull'isola di Fugiu e di perle della

provincia di Maabar o l'inenarrabile ricchezza dell'isola di Cipingu.

D'altro canto, nel caso in cui una descrizione venga comunque proposta al

pubblico, l'autore mostra con frequenza di essere consapevole della possibilità che la

stessa non venga creduta proprio a causa della sua straordinarietà. Per chi non ha visto, si

rivela proibitivo reputare veri, ad esempio, lo strabiliante numero di navi e il volume delle

merci commerciate lungo il grande fiume che scorre nella provincia di Sindinfu e

l'incommensurabile quantitativo d'oro proveniente dalla provincia di Lochac.

Senza dubbio, però, sono le consecutive del tipo que ce est une mervoie a voir /

que tous homes en doient avoir mervoille che, contenendo appunto il termine mervoille,

riescono a veicolare al meglio l'immagine di Oriente mirabilis, raggiungendo in maniera

immediata i lettori occidentali.

133 I viaggi del Milione, pag. 251. Marroni fa notare che questo strumento sintattico viene impiegato da Marco Polo soprattutto per esprimere la ricchezza e la potenza del Qubilai e del suo impero, ma in taluni casi anche ciò che di negativo egli incontra lungo il suo percorso (pag. 252).

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In ultima analisi, stabilito che nel Devisement dou monde le strutture consecutive

sono funzionali a trasmettere un'idea di sbalordimento relativa sia a risorse naturali, che ad

animali o tesori del mondo indiano, si può riconoscere come veritiero quanto sostenuto da

Marroni, il quale asserisce che nella relazione poliana «realtà tanto meravigliose da

confinare con l'impossibile, inteso come ineffabile (l'impotenza del locutore) o incredibile

(l'impotenza del lettore), prendono forma quasi sempre nello stampo della consecutiva»134,

affermazione che ci dà la misura della rilevanza del costrutto in questione all'interno del

lavoro del Veneziano.

I dati numerici

Un altro espediente che rientra nel repertorio cui Marco attinge al fine di far

giungere al pubblico un'impressione di stupefazione, è l'utilizzo delle cifre135. Gli aspetti

positivi, a tal proposito, come sottolinea Guerét-Laferté, sono due: in primo luogo, la

minuziosità e la precisione che solo i dati numerici sono in grado di fornire relativamente

alla realtà rappresentata dal viaggiatore136; dall'altro lato, quell'innegabile effetto di

affidabilità e rigore conferito al resoconto di viaggio da tali indicazioni137. Di contro,

bisogna ammettere che il meraviglioso che si intende suggerire alla ricezione pare

accordarsi meglio a formule vaghe ed indefinite piuttosto che al freddo rigore delle cifre,

per quanto eccezionali esse siano138.

134 I viaggi del Milione, pp. 251-252. 135 La sua importanza è al centro di un lavoro di J.-C. Faucon, il quale nota, anzitutto, che «une des nombreuses particularités du Devisement du Monde réside dans son foisonnement de nombres, suggéré d’ailleurs indirectement par le titre italien, évocateur de richesses sans limite» (Examen des données numériques dans le Devisement du Monde, pag. 89, in S. Conte, I viaggi del Milione), e in secondo luogo che «l’usage du quantitatif rattache [...] le texte inclassable de Marco Polo, à trois types d’écriture: l’itinéraire, le récit oral et la merveille» (Ivi, pag. 94). 136 Sur les routes de l’empire mongol, pag. 248. 137 Ivi, pag. 248. 138 Ivi, pag. 248.

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In ogni caso, nel Devisement dou monde i numeri non scarseggiano, anzi139: forse

in virtù di una sorta di deformazione professionale140, Marco Polo con frequenza ci regala

dettagli di carattere numerico. Di certo, si deve riconoscere che può rivelarsi complesso

cercare di capire quando le cifre offerte descrivono in maniera realistica la realtà e quando,

al contrario, l'inserimento di ragguagli numerici viene investito dall'autore di una funzione

puramente iperbolica. In taluni casi la veridicità delle informazioni può emergere dal

raffronto e l'eventuale concordanza tra fonti differenti141, ma quello che si deve ritenere

maggiormente proficuo è indagare il modo in cui il testimone tratta l'uso delle cifre per

evitare di annullare, a causa dell'inserimento del freddo dato numerico, la portata

sbalorditiva di quanto rappresentato.

In effetti, ciò che il veneziano vuole spesso e volentieri ottenere nei punti del suo

libro in cui snocciola dei numeri, non è scandagliare in maniera scrupolosa la realtà, bensì

unicamente suggerirla142. A tal proposito, può esser tenuta presente la categorizzazione

proposta da Faucon, il quale attribuisce ai dati numerici impiegati nel Milione la capacità,

di volta in volta, di caratterizzare una situazione come non ordinaria, di creare un effetto di

indeterminatezza o di suggerire l’idea di una realtà talmente sbalorditiva da non poter

esere espressa in modo adeguato143.

139 La situazione appare ancora più chiara se si pongono a confronto, come fa Guerét-Laferté, più resoconti di viaggio, quali ad esempio il Milione, gli scritti di Giovanni da Pian del Carpine, di Odorico da Pordenone e Guglielmo di Rubruck: «Nos relations [...] ne contiennent pas beaucoup d'indications chiffrées, à l'exception de celle de Marco Polo», il quale è «sans conteste celui qui nous fornit le plus de données numériques», e il motivo è che «compter est une opération qui requiert un travail, une enquête que le voyageur n'est pas toujours prêt à faire» (Sur les routes de l’empire mongol, pag. 248). 140 Lo suggerisce Guerét-Laferté, la quale parla, per l'appunto, di déformation professionnelle du merchand (Ivi, pag. 249). 141 Si vedano le dimostrazioni proposte al riguardo in Sur les routes de l’empire mongol, pag. 249. 142 Ivi, pag. 250. 143 «Trois procédés nous semblent jouer dans cette écriture: l’insolite numérique, l’indétermination du nombre et l’indicibilité du nombre» (I viaggi del Milione, pag. 99).

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Si consideri quanto segue:

«Il ha mouton grant com asne; et ont la coe si grosse et si large

que bien poisse trente livres»

(F, XXXV, 18-19);

«il hi a grant moutitude de mouton sauvages qe sunt grandisme,

car ont les cornes bien .VI. paumes et ao main .IIII . ou .III .»

(F, XLIX, 17-18);

«Il hi a faiçain grant deus tant que celle de nostre païs, car il sunt

de la grandesse de paon, aucun pou moin. Il ont la coe lo<n>ge au

plus .X. paumes, et bienn i a de .VIIII . et de .VIII . et de .VII . au

moin. Il hi a encore des faiçain qui sunt de la grande<sse> et de

faisonz des nostres païs»

(F, LXXI, 32-36);

«Or sachiés tuit voiremant que le Gran Sire a ordree sien .XII M..

baronz, que Quecitain sunt apellés, que vaut a dire les prosimen

feoilz dou seingnor. Il a doné a chascun .XIII . robes, chascune de

color devisé l'une de l'autre, et sunt aornès des perles et de pieres

et d'autres riches chouses mout noblemant, et sunt de mut

grandisime vailance. Il a encore doné a chascuns des cesti .XII M.

baronç une ceinture d'or mout belle et de grant vailance; et

enchore doné a chascun chausemant de camu laboré de fil d'arjent

mout sotilmant qui sunt mout biaus et chieres. Il ont tuit

aornemant si noble et si biaus que bien senble, quant il les ont

vestu, que chascun soit un rois. Et a chascune feste de les .XIII . est

ordree le quelz de cesti vestimenz se doit vestir. Et aisi le Grant

Sire en a .XIII . senblable a seç baronç, ce est de coleur, mes il sunt

plus nobles et de greingnor vaillance et mielz aornés, et toutes

foies se vest d'un senblable com sez baronç.

Or voç ai devisè des .XIII . vestimens que ont les .XII M. baronç da

lor seingnor, qe sunt entre tuit .CLVIM. vestiment, si chier et de

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grant vailançe com je voç ai contés, que vailent si grant moutitude

de treçor qe a poine se poroie conter les nunbres, sanz le centures

et les causement qe ausint vailent treçor asseç»

(F, LXXXIX, 1-19);

«Il hi a channe groses et grant merveliosemant, et voç diviserai

comant elles sunt groses, qe volvent environ bien trois paumes et

sunt louinges bien .XV . pas; elle ont de le un nod a l’autre bien

trois paumes»

(F, CXIV, 4-7).

Le cifre presenti nelle prime tre e nell’ultima delle estrapolazioni trascritte

compaiono nell'ambito di una descrizione per la quale chi scrive si avvale della possibilità

di porre a confronto Vecchio Continente e mondo orientale. In questi casi, i numeri si

riferiscono ad un’unità di misura e sono funzionali a rivelare al lettore europeo la disparità

dimensionale esistente sia tra i fagiani e i montoni a lui familiari e quelli invece

caratteristici del continente indiano, sia tra le canne diffuse in Europa e quelle tipiche del

lontano Oriente. Questi esempi, dunque, sono rappresentativi della capacità dei dati

numerici di concorrere alla descrizione di qualcosa che appaia alla ricezione come insolite,

stabilendo «un pont entre l’habituel et le nouveau»144.

Più rilevante appare l'analisi del secondo brano riportato, estrapolato dal capitolo

LXXXIX e riguardante i baroni designati dal Kublai Khan. Nelle prime righe è possibile

riconoscere alcuni dei procedimenti già sviscerati diverse pagine addietro e anche qui

sfruttati per descrivere l'inavvicinabile magnificenza che contraddistingue tutto ciò che

ruota attorno alla figura del grande sovrano. In effetti, si possono individuare:

144 «L’insolite est d’essence comparative puisqu’il établit un pont entre l’habituel et le nouveau» (I viaggi del Milione, pag. 99).

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� l'uso di lemmi appartenenti alle famiglie ricco (riches chouses), bello (une

ceinture d'or mout belle, chausemant de camu laboré ... qui sunt mout

biaus) e nobile (robes ...aornès ... mout noblemant);

� l'impiego di superlativi assoluti (de mut grandisime vailance,

chausemant ... mout biaus et chieres);

� l'utilizzo di strutture di tipo consecutivo (Il ont tuit aornemant si noble et si

biaus que bien senble ... que chascun soit un rois).

È, tuttavia, il contenuto dell'ultima porzione di testo a dimostrarsi maggiormente

interessante. Qui, dopo che nelle righe precedenti ci ha fatto sapere che il Kublai Khan ha

donato a ciascuno dei suoi dodicimila baroni tredici preziosissime vesti, il testimone

precisa che sono stati in totale elargiti ben centocinquantaseimila capi (ecco la froide

rigueur du chiffre 145!). A questo punto, però, il Polo evita di metterci a parte del reale

valore di tutti questi pregevoli vestimenti, bensì afferma che essi sono «si chier et de grant

vailançe [...], que vailent si grant moutitude de treçor qe a poine se poroie conter les

nunbres, sanz le centures et les causement qe ausint vailent treçor asseç». L'autore, in

buona sostanza, sceglie di rinunciare all'indicazione numerica e, di contro, inserisce una

costruzione consecutiva per comunicare alla ricezione l'eccezionalità del valore del dono

del sovrano, talmente grande che non si può raccontare. Ciò suggerisce, implicitamente,

al pubblico un'idea di ineffabilità non solo delle disponibilità del Kublai, ma pure dei

tesori racchiusi nei palazzi orientali in generale.

In queste righe, quindi, si può asserire compaiano due delle funzioni legate,

secondo Faucon, all’uso delle cifre, quelle, cioè, di esprimere indeterminatezza ed

indicibilità. Da un lato, infatti, sembra che il Veneziano voglia riporre nei numeri che

145 Sur les routes de l’empire mongol, pag. 248.

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snocciola un valore che travalica quello prettamente aritmetico146, cosa che pertiene a

quella dinamica dell’amplificazione individuata da Faucon relativamente a particolari usi

dei dati numerici 147. Dall’altro lato, invece, l’utilizzo dell’espressione poco sopra

considerata, (vale a dire «vailent si grant moutitude de treçor qe a poine se poroie conter

les nunbres»), impiegata con la finalità di cui si è detto, svela di essere in presenza di una

circostanza nella quale il testimone ha preferito non dire, ritenendo limitativa la

quantificazione del valore delle vesti dei baroni del Khan148.

Tirando le somme, quanto appena visto rappresenta un esempio di come Marco e

Rustichello operino con i numeri all'interno del Devisement dou monde, ossia di come essi

mirino ad un uso delle cifre che non attenui la portata meravigliosa di quanto descritto.

Quanto sviscerato fino a qui, come si è visto, si riferisce all’esotico di tipo a)149.

Giunge ora il momento di addentrarsi nella disamina dell’esotico di tipo b), quello che

riguarda l’ignoto, ovvero ciò che è estraneo alla quotidianità occidentale in quanto

appartenente ad una dimensione “altra”.

Una prima manifestazione di questa tipologia di esotico sono senza dubbio quegli

eventi sbalorditivi, descritti da Marco, che presentano connotati soprannaturali.

«En ceste plaingne a plusor castiaus et viles que unt les mur de

tere hautes et groses por defendre{s} elç des Caraunas, ce sunt

beruierç que vont corant les païs. Et por coi s’apellent Caraonas?

Po<r> ce ke lor mere sunt esté indiene et lor pere tartarç. Et cest

gens quant il vuelent corer les païs et rober, il font por lor

encantemant, pour evre diablotique, tout le jor devenir oscur, si

146 «L’indétermination est si souvent utilisé qu’on doit accorder au signifiant une portée autre que son strict signifié arithmétique» (I viaggi del Milione, pag. 100). 147 Ivi, pag. 101. 148 «Le dernier degré de la merveille est marqué par l’indicibilité du nombre, quand l’exprimer limiterait le réel» (Ivi, pag. 101). 149 Si rimanda a pag. 38, nota n.° 60.

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que l’en ne voit loingne se pou non, e ceste oscurité font

durer .VII . jornee a lonc»

(F, XXXV, 21-27);

«<Les> jens sunt ydules, que aorent le idres, et ont langajes por

elz; il sunt brune jens; il savent mult de incantamant et des ars

diabolitique»

(F, XLVII, 2-4);

«Il sevent tant d’incantamant des diables que ce est mervoie, car il

font parler as ydres; il font por incantamant canger les tens et font

faire le grant oscurité. Il font por l’incanter et por senç si grant

chouses q’el ne est nulz que ne le vist qui le poust croire. Et si vos

di qe il sunt chief des autres ydoles et de lor desenderent les

ydres»

(F, XLVIII, 2-7);

«Me si voç di que l’en hi trouve une tel mervoie com je voç

conterai. Il est voir que quant l’en chavauche de noit por cest

deçert et il avent couse qe aucun reumangne et s’eçvoie de seç

conpains por dormir ou por autre chouse et il vuelt puis aler por

jungnire seç conpagnons, adonc oient parlere espiriti en mainiere

qe senblent que soient sez conpagnons, car il les appellent tel fois

por lor nom et plosors foies les font devoier en tel mainere qu’il ne

se trevent jamés, et en ceste mainere en sunt ja mant mort{i} et

perdu. Et encore voç di que, jor meisme, hoient les homes ceste

voices de espiriti, et voç semble maintes foies que voç oiés soner

mant{i} instrument{i} et propemant tanbur»

(F, LVI, 17-28);

«Mes voç dirai avant une mervoille que je avoie demantiqué. Or

sachiés que quant le Grant Kaan demoroit en son palais, et il fust

<p>luie ou niusles ou mau tens, il avoit sajes astronique et sajes

enchanteor qui por lor senz et por lor enchantacion fasoient tous

les nues et tous les maus tens hoster desus son palais, si qe desus

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le palais n’i a maus tens et de toutes autres pars vait le maus tens.

Cesti sajes homes que ce funt sunt apellés Tebet et Quesmur: il

sunt deus generasions de jens que sunt ydres; il sevent d’ars

diabolique e des encantemans plus qe toç homes, et ce qu’il font, il

le font por ars de diabhle, et font croire a les autres jens qu’il les

font por grant santité et por evre de dieu. [...] Et sajés tout

voirmant que cesti Bacsi que je voç die de sovre, que sevent tant

des enchantemant, font si grant mervoille con je voç dirai. Je voç

di que quant le Grant Kaan siet en sa mestre sale a sa table, qui est

aut plus des .VIII . coues, et les coupes sunt emi le paviment de la

sale, longe de la table bien .X. pas et sunt plene de vin et de lait ou

d’autres buen bevrajes, et ceste sajes encanteors que je voç ai dit

de sovre, qe Bacsi sunt només, il font tant por lor encantemant et

por lor ars que celes coupes pleinnes por lor meesme se levent dou

paviment ou elle estoient et s’en vont devant le Grant Kan sanç qe

nulz ne les toucent, et ce font voiant .XM. homes»

(F, LXXIV, 51-75);

«Et si voç di qe toutes cestes provences qe je voç ai contés ne ont

mire, ce sunt Cajan et Vocian et Iacin, mes, quant il sunt malaides,

il se font venir lor magis, ce sunt les enchantaor des diables et celz

qe tient les ydres. Et quant cesti magis sunt venus et les malaides

dient lor les maus qu’il ont, et les magis conmencent maintinant a

soner estrumens et carolent e bailent tant qe aucun de cesti magis

caie tout enverses sor la tere ou sor le paviment, et <a> a la

bouche grant escume et senble mort: et ce est qe le diables hi est

dedens le cor de celui. Il demore{nt} en tiel maineres qu’il senble

mors. Et quant les autres magis, que iluec estoient plusors, voient

qe le un d’elz est cheu en tel mainere com voç avés oï, adonc le

comencent a dir e le demandent qel maladie a cestui malaides. E

cel respont: “Le tielz espiriti le a toucé por ce qe il li fist aucun

desplair”. E les magis li dient: “Nos te{s} prion qe tu li perdoni et

qe tu en prenne por resetorament de son sanc celes couses ke tu

vuois”. Et quant cesti magis ont dites maintes paroilles et ont mult

priés, les spiriti qui est dedens le{s} cors au magi qui est cheü,

respont, et, se le malaide doit morir, si respont en tel mainere et

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dit: “Cest amalaide a tant mesfait a tel espiriti et es si mauveis

homes qe les spiriti ne le vuele pardoner pour couse dou monde”.

Ceste respond ont celç que doient mourir. Et se le malaide doit

garir, adonc respont le spiriti qui est en cors dou magis et dit: ce le

malaide vuelt garir, si prennent .II . mouton out trois; et encore: qe

il fasoient .X. bevragies ou plus, mult chier et buen; et dient qe les

munton aient le chief noir, ou les divisent in autre mainere; et dit

qu’il en face sacrefice a tiel ydre et a tel espiriti, et qe ensi vent

tant magis e tantes dame, de celz qe ont les espiriti et que ont les

ydres, et qu’il facient grant laudes et grant feste a la tiel ydre et a

tiel espiriti. Et quant cesti ont eu ceste respont{e}, les amis au

malaides tout maintinant font ensi come les magis lor devisent.

[...] Or voç ai contés la mianere et les usance de ceste jens et

comant cesti magis sevent encanter les spiriti»

(F, CXIX, 42-71; 92-93);

«Et encore vos di une mout grant mervoie: qe cel deus baronz

pristrent en cel isle plusors homes en un castiaus e, por ce qe il ne

s’avoient volu rendre, les deus baronç comande<n>t qe il fuissent

tuit mors e que il fuissent a tuit tronché la teste. Et il ensi fait, car a

tuit furent tronchés le teste, for que .VIII . homes seulamant. Et a

ceste ne poient fer truncher la teste: e ce avenoit por vertu de

pieres qu’il avoient, car il avoient chascun une pieres en son braç,

dedens entre la té et avoit tel vertu qe, tant come l’en l’aüst soure,

ne poroit morir por fer. Et les baronz, que fu lor dit l’achaison que

cel ne poient morir por fer, il les font amaçer con maque, e celz

morirent mantinant. Puis font il traire de les brace cel pieres e le

tienent mout chier»

(F, CLIX, 41-52);

«Car sachiés tout voiremant qe quant aucun d’elz, ou masles ou

femes, chiet amalaides, et adonc mandent lor parens por les

maguis et font veoir se le malaides doit guarir. Et cesti maguis, por

lor encantament et por lor ydres, sevent se il doit guerir ou morir»

(F, CLXVII, 5-8);

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«E si voç di que les cristienz de ceste isle sunt les plus sajes

encanteor que soient eu monde. [...] E si voç en dirai, de les

encantemant qe il font, aucune couse. Car sachiés tout voiremant

que cesti encanteor font maintes diverses couses et grant partie de

celz que il vuelent, car je voç di que se une nes alest a voille et

aüse buen vent et aseç en sa voie, il li firont venir un autre vent

contraire et la firont torner arere. Et encore voç di que il font

venter celz vent que il velent, il font la mer coie quant il vuelent, il

font grant tenpeste et grant vent en la mer»

(F, CLXXXIX, 25-26; 32-39).

Quelle riportate sono porzioni del testo del Milione il cui vaglio ci restituisce un

quadro delle modalità attraverso le quali il Polo tratta la narrazione di accadimenti

inspiegabili e comportamenti stupefacenti da lui avvicinati lungo il suo itinerario. Accanto

a brani che attribuiscono, senza troppo indugiarvi, la caratteristica dell’idolatria agli

abitanti di talune regioni asiatiche, come nel caso delle righe relative agli incantamenti che

vengono realizzati nella provincia di Pasciai (il secondo dei passaggi proposti), si

incontrano descrizioni che si fanno più particolareggiate. Il primo periodo, ad esempio, ci

mette a conoscenza dei Caraunas, maghi-predoni della pianura di Reobar in grado, per

mezzo delle loro virtù diaboliche, di oscurare il sole così da poter scorrazzare liberamente

e derubare le carovane dei mercanti; il sesto e l’ottavo, invece, si soffermano sulla

possibilità propria dei maghi rispettivamente delle province di Caragian, Vocian e Jaci150 e

del regno di Dagroian di sapere, tramite i loro idoli, se i malati sopravvivranno al loro

morbo o sono destinati a perire, mentre l’ultimo fotografa la maestria degli incantatori

cristiani dell’isola di Scotra nell’influenzare i venti ed il clima marini.

Gli altri passaggi estrapolati dal Devisement dou monde, invece, illustrano con

ancora maggiore espressività:

150 In questo caso la trattazione è assolutamente dettagliata e approfondita.

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� la capacità degli abitanti idolatri della provincia di Chescimur, incantatori

di diavoli, di modificare il clima e di diffondere le tenebre (terzo brano);

� il fenomeno del riecheggiare dei suoni degli spiriti del deserto di Lop che,

simulando la voce dei compagni di carovana, porta i viandanti che

attraversano questo luogo a smarrirsi e trovare la morte (quarto brano);

� l’abilità dei Bacsi, astrologi ed incantatori esperti di arti diaboliche che

dimorano presso il palazzo del Kublai Khan di Ciandu, nell’allontanare il

maltempo e nel porre, senza toccarle, coppe piene di bevande sul desco del

sovrano (quinto brano);

� la magica proprietà di particolari pietre151 di impedire vengano uccisi con la

spada coloro nelle cui braccia sono conficcate (sesto brano).

Nel mettere per iscritto questi fenomeni connessi col soprannaturale, si può notare

che il viaggiatore utilizza in ben cinque occasioni il lessico del mirabile (tre volte

compare, infatti, il termine mervoie e due volte mervoille), che può essere considerato spia

della consapevolezza di Marco della difficoltà a credere a quanto esposto nel suo lavoro da

parte del pubblico occidentale. In questa direzione va altresì l’impiego della costruzione

consecutiva che si individua nel terzo passaggio, dove l’autore, riferendosi agli

incantamenti degli idolatri della provincia di Chescimur, li definisce si grant chouses q’el

ne est nulz que ne le vist qui le poust croire.

Di certo, l’uso di siffatti lemmi e costrutti tradisce, al di là di un naturale

sbalordimento e del comprensibile timore, una sorta di fascino che, esercitato dagli

inspiegabili accadimenti passati in rassegna, viene subito dal Veneziano. Lo si evince

anche dal fatto che Rustichello inserisce all’interno del libro l’ammissione di Marco in

151 Ci troviamo nell’isola di Zorza.

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merito all’esperienza di aver lambito questa dimensione ultraterrena, sfiorata nel lontano

Oriente nel momento in cui riuscì per poco a scampare ai Caraunas:

«Et se voç di que messier March meesme fu {cel} come pris da

celle gens en celle oscurité, mes il escampé a un castiaus qui est

apellés Canosalmi; et de seç conpains furent pris aseç et furent

vendus et de tielz mors»

(F, XXXV, 52-55).

A questo tipo di confessioni al limite del compromettente si contrappongono

luoghi del testo nei quali il mercante sembra tentare di prendere le distanze dal sospetto di

una sua eccessiva confidenza con la sfera del trascendente. I passaggi seguenti lo

dimostrano:

«Et encore voç di qu’il ont les plus sajes encanteor et les meior

astroniqe, selonc lor usanç, qe soient en toutes celles provences qe

entor euç sunt, car il font les plus fere encantemant et les

greingnor mervoiles a oïr et a veoir, por ars de diables, qe ne est

pas buen a contere en nostre livre, por ce qe trop se merveileroient

les jens»

(F, CXV, 11-15);

«Les fais de cestes ydules sunt de tantes deversités et de tantes

evres de diables qu’il ne fait pas a mentovoir en nostre livre, por

ce qe trop seroit mauvés chouse a oïr por les cristienz: et por ce en

laieron de cestes ydres e voç conteron d’autres couses»

(F, CLX, 11-15);

«Il sevent faire mant autres encantemant mervuelios, les quelz ne

fait buen raconter en ceste livre por ce que il sunt encantemant que

avegnent chouse que, quant les homes le oïssent, s’en

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mervoillirént mout; e por ce les laieron atant et ne voç en conteron

plus rien»

(F, CLXXXIX, 39-43).

Che si tratti degli encantemant della provincia del Tibet (primo brano), degli

idolatri delle isole di Cipangu e Zorza (secondo brano), o degli incantatori, per giunta

cristiani, dell’isola di Scotra (ultimo brano), Marco Polo riconosce che non è opportuno

raccontare (ne est pas buen a contere / ne fait buen raconter) o risolve di non poter

indugiare (ne fait pas a mentovoir)152 su fatti che lascerebbero assolutamente attoniti i suoi

lettori, tanto che la scelta dei coautori, nel momento in cui si trovano a doversi riferire a

ciò che sono costretti a passare sotto silenzio, non può che ricadere sull’uso di voci

riconducibili alla famiglia di meraviglia. Si susseguono, così, il sostantivo mervoiles, (les

greingnor mervoiles), l’aggettivo mervuelios (encantemant mervuelios), e due diverse

forme del verbo meravigliarsi (trop se merveileroient / s’en mervoillirént mout). Pure il

termine deversités, rivestendo qui il significato di stravaganze, può essere considerato alla

stregua di una particolare inflessione di questo campo semantico: in effetti, è possibile

affermare che esso viene impiegato proprio con la volontà di indicare un qualche cosa

capace di disturbare il pubblico.

Un altro elemento che si può asserire faccia da contraltare al racconto di questi

fenomeni catalogabili sotto l’etichetta di “stregoneria” sono le narrazioni di episodi

miracolosi153.

152 In merito alla constatazione che il testimone relega alcune delle meraviglie del mondo straniero «nel non detto e nel non raccontato», si può far presente le riflessione di Zaganelli: in tale scelta la studiosa rileva non soltanto «una parziale sconfessione delle dichiarazioni programmatiche», bensì pure l’applicazione di «un criterio di selezione che tende ad attenuare la novità e l’alterità del mondo narrato», e asserisce che ciò che di questo viene passato sotto silenzio è «proprio ciò che ne fonda l’eccesso e dunque la radicale diversità» (Viaggiatori europei in Asia nel Medioevo, pag. 158). 153 Zaganelli nota la presenza di queste «prevalentemente nelle zone musulmane dell’itinerario» e motiva ciò col fatto che, essendo il musulmano «l’altro per eccellenza, il nemico situato al di là di una frontiera non valicabile», non gli si possa che «opporre la meraviglia cristiana a applicargli quella, opposta ma complementare, che ha a che fare con il diabolico e il demoniaco» (Ivi, pag. 160).

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«Encore hi a un monester de nonain ki est apelé sant Lionard, qui

a une tel mervaie con je voç contera<i>. Sachiés q’il hi a un grant

lac d’eve qui vent d’une montagne dejoste le yglise de sant

Lionard, et en cele eive ke vent de cele montagne en tout l’an ne

se trove nul peson ne peitet ne grant, for seulmant ke lo primer

jor{no} de quaresme conmencent a venir et venent cascun jor de

caresme jusque a saba sant, ce est la vigille de Pasche, et en tout

cest termene il se trevent peison aseç mes en toutes autres tens de

l’an ne s’en trovent mie»

(F, XXII, 25-32);

«Et encore voç volun conter une grant mervoie qe avint entre

Baudac et Mosul. Il fu voir ke a les .M.CC.LXXV . anç de

l’incarnasion de Crist avoit un calif en Baudac qe, volent mout

grant maus as cristians, et jor et noit pensoit comant il peuse tuit

cristianç de sa tere fer retorner saraçin ou, se ne, que il les peust

tuit fer metre a mort [...] Or avint que le calif con les sajes [...]

trevent qe en une evangelie dit qe se il fuse un cristienç que avese

tant de foy quant il est un gran de seneve, que por sa priere ke il

feise a son segnor dieu, il firoit jonger .II. montagnes ensenble.

[...] Et adonc le calif mande por tuit les cristienz nestorin et jacopit

que en sa tere estoient, que mout furent grant quantité. Et quant il

furent devant le calif venu, il lor mostre cel evangelie et le fait lor

lire; et quant il l’ont leu, il demande se il estoit ensi verités. Les

cristienç distrent que voiramant estoit il verité. [...] “Donc vos

metrai je un parti davant, fait le calif: puis que voç estes tant

cristians, bien en doit avoir entre vos que aie une pou de foy. Dont

je voç di: ou voç ferés remuer celle montangne que voz la vees

[...] ou je voz firai tuit morir [...] et a ce faire vos done respit de ci

a .X. jors”. [...] Sachiés tout voirmant quel es cristienç estoient tout

jor et tute noite en oracion et prient devotement le Savaor. [...] Or

avint, que endementier que il estoient en cest oracion, qe l’angel

ven en vision pour mesajes de deu a un veschevo qe mout estoiet

home de sante vite. Il dit: “O veschevo, or te vais a tel chabatier

que a un iaus, et a celu dirés ke la montagne se mue, et la se muara

mantinant”. [...] Et les cristiens tuit loerent feissent venir davant

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elz cel çabatier: et adonc le firent venir; et quant il fu venu, il

distrent qe il volent qe il doie prier le segnor deu q’el deust fair

mover la montagne. [...] Il le prient tant ke il dit qu’el fara lor

volunté et fira celle priere a son criatore. Et quant le jor dou

termene fo venu, les cristienç se levent bien por maitin, et masles

et femes, pitet et grant, il alent a lor eglise et cantent la sainte

mese. [...] Et quant toutes cestes gens, cristienç et sarasin, estoient

en cel plain, adonc le çabater s’enjenocle devant la crois et tent seç

mainç ver le cel e prie mout son Salvator que cel montagne se doie

movoir [...] Et quant il oit fait sa preier il ne demore mie guiers

que la montagne conmenç’a deruiner et a mover. Et quant le calif

et les saraçin v<o>ient ce, il n’ont grant mervoie. [...] En cel

mainere ala ceste mervoile come il avés oï»

(F, XXV, 1-5; 9; 10-13; 15-20; 23-26; 27; 30-31; XXVI, 8-10; 13-

17; XXVII, 4-7; 11-12; XXVIII, 1-3; 11-14; 15-18; 21-22);

«Trois jornee plus avant trovent un ca{u}staus qui est appelés

Cala Ataperistan, ce qe vaut a dir en fransois castiaus des les

aoraor do feu, et ce est il bien verité, car les homes de cel castiaus

aorent le fu, et vos dirai le porcoi il le{s} aorent. Les homes de cel

ca{u}staus dient qe jadis ansienemant lor trois rois de cele contree

aloient aorer un profete qui estoit né et aportent trois ofert, or,

encens et mire, por connoistre se celui profet estoit Dieu ou rois

tereine ou mirre [...] L’enfant le prist toites et trois les ofertes.

Adonc puis done lor l’enfant un busel clous. [...] Et quant il ont

chevauchés auques jornee, il distrent qu’il voient veoir ce que

l’infant avoit lor doné. Adonc avrent le busel et il trovent dedens

une pieres: il se font grant meravoie qe ce puet estre. L’enfant

l’avoit lor doné en senifiance qu’il fuissent ferme come pieres en

la foi qu’il avoient conmancé [...] Les trois rois pristrent cel peres

et la getent in un puis, car il ne savoient pas por coi la piere fo lor

doné. Et tant tost que la piere fo getee en puis, descendi dou ciel

un feu ardant, et vient tout droit a<u> puis, la ou la piere avoit

gitee. Et quant les trois rois virent cest grant morvoille, il en

devienent tuit esbaïs, et furent repantu de ce qu’il avoient la piere

gitee, car bien voient que ce estoit grant senifiance et bone. Il

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pristrent maintinant de cel feu et le porterent en lor païs, et le

mistrent en une lor gliese molt belle et riche, et toutes fois le font

ardre et l’aorent come dieu»

(F, XXX, 13-19; 34-35; XXXI, 1-5; 9-17);

«Sanmarcan est une grandisme cité et noble. [...] Et voç dirai une

grant mervoie que avint en ceste cité. Il fu voir qu’il ne a encore

grament de tens que Cigatai, le frere charnaus au Grant Chan, se

fist cristiens, et estoit seingnors de ceste contree et de maintes

autres. Et les critstiens de la cité de Sanmarcan, quant il virent qe

le seingnor estoit cristiens, il enn’ont grant leese et adonc firent en

cité une grant gliese a le onor de saint Johan Batiste, et ansi

s’apelloit celle yglise. Il pristrent une mout belle pieres, qe de

saraisinz estoit, et la mistrent por pilier d’une colone que en milieu

de le yglise estoit et sostenoit la covreure. Or avint que Cigatai

murut, et quant les saraçins virent qe celui estoit mort, et por ce qe

il avoient eu, et avoient toutes foies, grant ire de celle pieres qe

estoit en l’eglise des cristiens, il distrent entr’aus qu’il vuilent

celle pieres por force. [...] Les cristiens distrent qu’il les en volent

<doner> tout ce qu’il vodront [...] La sengnorie estoit a cel neveu

dou Grant Chan. Il font faire conmandamant as cristiens que de

celui jor a deus jors deussent rendre celle pieres as saraçinz. [...]

Or en avint tel miracle com je vos conterai. Sachiés que quant le

maitin dou jor que la pieres se dovoit rendre fu venu, la colonne qe

estoit sor la pieres, por la voluntès dou nostre seingnor Jeçucrit, se

hoste de la pieres et se fait en aut bien trois paumes et se sostenoit

ausi bien con ce la pieres hi fust sout. Et tutes foies de celui jor

avant est ausi demoré celle collune et encore est elle ensint; et ce

fu tenu et encore est tenue un des grant miracle que avenisse au

monde»

(F, LI, 1; 3-16; 19-20; 23-26; 27-34);

«E si sachiés qe il hi a tel mervoie com je vos conterai. Or saquiés

qe les cristienç que vont la en pelegrinajes prennent de la tere dou

leu, la ou le saint cors fou mort, e celle terre aportent en le lor

contree e donent de ceste une pou a boir au malaide quant aüsse

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fevre quartaine ou tersaine ou ceste tiel fevre, et, tant tost qe lle

malaide la be<i>ve, el en guaris. [...] Et encore vos dirai d’une

biaus miracle qe hi avint entor .M.CC.LXXXVIII . an de

l’ancarnasion de Crist. Il fu voir que un baron de celle contree

avoit mout grant qua<n>tité d’une bles qe s’apelle ris, e de cesti

enpli toutes les maisonz qe environ le yglise estoient. Celz

cristiens que gardent l’eglise et le saint cors, quant il virent qe cel

baronz ydre{e}s fasoit ensi l’enplir celz mai{n}sonz e que les

peligrinç ne auront ou erbergier, il en avoient grant ire, et mout le

prient qe il ne le deuse faire. [...] Et quant ceste baron ot fait enplir

de son ris toutes les maisonz de saint Tomas, de coi le freres en

avoient si grant ire, il avint si grant miracle com je voç dirai. Car

sachiés qe la noit après qe cel baronz avoit fait enplenir celz

maisonz li aparoit mesier sant Tomas l’apostre con un forche en

main, et la mist a la gorge dou baron, e li dist: “O tel, {o}se tu ne

fais vuider tantost{o} mes maisonz, il convient qe soies mort de

mauveis mort!” [...] Et quant meser saint Tomeo oit fait ce, il se

parti; et celui baron bien maintin se leve et fait toutes celes

maisonz vuider, e tout ce qe li estoit avenu de mesier sant Tomeu

dit, qe bien fo tenu a grant miracle. [...] Et si voç di qe autres

miracles hi avint asseç tout l’an, qe bien seroient tenu a grant

meraveis, qui les oise conter, et propemant de guerir cristiens qi

sunt estorpiés e gasté de lor cors»

(F, CLXXV, 7-13; 15-22; 24-31; 33-36; 39-41).

I brani trascritti descrivono:

� l’inspiegabile popolamento del lago situato vicino al monastero di San

Leonardo, nel quale normalmente non vivono pesci, nel periodo compreso

tra il primo giorno di Quaresima ed il sabato santo, cioè alla vigilia della

Pasqua;

� il miracolo dello spostamento della montagna di Bagdad, che permise ai

cristiani del luogo, che il califfo voleva uccidere, di aver salva la vita;

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� l’origine del culto del fuoco sacro della provincia di Persia, connessa alla

visita dei re Magi al bambin Gesù e alla pietra da essi ricevuta in dono;

� il portento della pietra su cu cui fu fatta poggiare una delle colonne portanti

della chiesa di San Giovanni Battista a Samarcanda;

� gli eventi prodigiosi legati alla figura di San Tommaso, ovvero le

guarigioni che si verificano nel luogo in cui egli è sepolto e quelle favorite

dalle proprietà taumaturgiche di quella terra e l’episodio dell’intercessione

del santo che, apparendogli in sogno, costrinse quel barone della provincia

di Maabar che le aveva riempite di riso impedendo ai pellegrini la sosta, a

liberare chiesa e case della zona già il mattino successivo.

Analizzando le narrazioni di tali stupefacenti accadimenti è possibile fare alcune

considerazioni di diverso ordine. Da un punto di vista prettamente contenutistico bisogna

avvalorare le osservazioni di Marroni, il quale rileva, anzitutto, che due dei miracoli

narrati dal viaggiatore, vale a dire quello della montagna di Bagdad e quello della chiesa di

San Giovanni Battista a Samarcanda, sono «intesi a dimostrare l’inferiorità

dell’islamismo»154: in entrambi i casi, in effetti, eventi sbalorditivi proteggono cristiani

minacciati nel primo caso dal feroce califfo musulmano di Bagdad155 e nel secondo dalle

imposizioni del Gran Khan sollecitate dalla popolazione saracena di Samarcanda156. Lo

studioso individua, di contro, la rappresentazione di due avvenimenti prodigiosi

contrapposti in maniera unicamente indiretta con le fedi maggioritarie dei luoghi in cui

succedono157, ossia le guarigioni legate alla terra che accoglie le spoglie di San Tommaso

154 I viaggi del Milione, pag. 237. 155 « [...] a les .M.CC.LXXV . anç de l’incarnasion de Crist avoit un calif en Baudac qe, volent mout grant maus as cristians, et jor et noit pensoit comant il peuse tuit cristianç de sa tere fer retorner saraçin ou, se ne, que il les peust tuit fer metre a mort » (F, XXV, 2-5). 156« [les saraçins] avoient toutes foies, grant ire de celle pieres qe estoit en l’eglise des cristiens [...] Il font faire conmandamant as cristiens que de celui jor a deus jors deussent rendre celle pieres as saraçinz » (F, LI, 14-15; 24-26). 157 I viaggi del Milione, pag. 238.

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e l’apparizione, in sogno, dell’apostolo ad un barone «ostile ai cristiani, della cui fede,

però, nulla si dice esplicitamente»158.

Da una prospettiva di tipo linguistico, invece, nei passaggi isolati si evidenzia il

ripetersi del lessico del mirabile. Innanzitutto, ritorna con insistenza il termine meraviglia

(nelle sue diverse forme: mervaie, mervoie, meravoie, morvoille, meraveis), impiegato sia

per introdurre il miracolo che verrà narrato («hi a un monester de nonain ki est apelé sant

Lionard, qui a une tel mervaie con je voç contera<i>»; «voç volun conter une grant

mervoie qe avint entre Baudac et Mosul»; «Et voç dirai une grant mervoie que avint en

ceste cité»; «E si sachiés qe il hi a tel mervoie com je vos conterai»), sia per descrivere la

sensazione di sbigottimento suscitata dai miracolosi fatti in oggetto («Et quant le calif et

les saraçin v<o>ient ce, il n’ont grant mervoie»; «Et quant les trois rois virent cest grant

morvoille»), che per riferirsi agli stessi («En cel mainere ala ceste mervoile come il avés

oï»; «Et quant les trois rois virent cest grant morvoille»)159. Interessante, poi, è notare che

sono molteplici le occorrenze del vocabolo miracolo. Se nel capitolo precedente è stato

sondato l’uso del lessico della meraviglia fatto dai coautori del Milione nell’arco

dell’intero loro lavoro, nelle pagine antecedenti questa l’attenzione si è spostata, nello

specifico, sulle modalità con le quali nel testo sono stati trattati gli eventi di carattere

soprannaturale. Rispetto a tali tipi di analisi, si può dire che il fil rouge sia rappresentato

dalla profusione di lemmi appartenenti alla famiglia di meraviglia introdotti da Marco e

Rustichello nel loro resoconto; di contro, elemento inedito che contraddistingue i racconti

di fatti inspiegabili pare l’utilizzo del sostantivo miracle. Sia che sia inserito allo scopo di

inaugurare la ricostruzione dello stupefacente fenomeno («Or en avint tel miracle com je

vos conterai»; «Et encore vos dirai d’une biaus miracle qe hi avint entor .M.CC.LXXXVIII .

158 I viaggi del Milione, pag. 238. 159 L’opinione espressa da Marroni a partire dalla disamina del lessico impiegato nella versione toscana del Milione nei racconti di eventi miracolosi ed in particolare dei due prodigi narrati per dimostrare l’inferiorità della religione musulmana, è che il «ritorno insistito di meravigl- (cinque volte in totale)» concorra a corroborare l’intenzione polemica dell’autore (Ivi, pag. 237).

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an de l’ancarnasion de Crist»; «il avint si grant miracle com je voç dirai»), sia che sia

impiegato per definire l’evento portentoso («et ce fu tenu et encore est tenue un des grant

miracle que avenisse au monde»; «Et si voç di qe autres miracles hi avint asseç tout

l’an»), chi scrive ricorre a miracle unicamente nel momento in cui allude a prodigi

cristiani, proprio come fatto presente anche da Marroni: «Al soprannaturale F si riferisce

anche con la voce miracle, che compare in tutto sei volte, con riferimento esclusivo a

miracoli cristiani»160. Ciò, indubbiamente, marca la distanza tra gli eventi soprannaturali

di origine “diabolica” e quelli di matrice cristiana, andando implicitamente ad esaltare

questi ultimi e a coinvolgere i lettori nella presa di distanza dai primi161.

L’esotico di tipo b) presente nel Milione riguarda pure la descrizione degli

elementi caratteristici e degli esseri viventi che popolano le remote contrade orientali, non

di rado distanti da quella che era la realtà familiare al pubblico occidentale medievale.

Rispetto a ciò, c’è da dire che prima di poter conoscere in maniera diretta i suddetti luoghi,

gli europei hanno per lungo tempo vissuto avendo in mente le rappresentazioni dell’altro

che erano state elaborate da una dotta, secolare tradizione e sulla base delle quali i

viaggiatori occidentali, nel momento in cui iniziarono a percorrere le strade del mondo

reale, finirono per interpretare ciò che si presentava davanti ai loro occhi nel corso delle

loro esplorazioni162.

160 I viaggi del Milione, pag. 242. 161 A questo concorrono pure considerazioni autoriali quali quella riferita ai Bacsi di Ciandu, ovvero: «il le font por ars de diabhle, et font croire a les autres jens qu’il les font por grant santité et por evre de dieu», che suggerisce lo scarto esistente, agli occhi del testimone e del suo plausibile pubblico, tra incantamenti e miracoli. Tale distinzione sembra richiamare, tra l’altro, la sistemazione di Le Goff relativa al soprannaturale occidentale dei secoli XII e XIII, cui si è già fatto cenno alla nota n.° 54, pag. 30 del presente lavoro. Nel suo Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, lo studioso fa notare come si contrappongano, nella cultura bassomedievale, un meraviglioso cristiano che «si cristallizza nel miracolo» e un soprannaturale di origine satanica, diabolica che pende verso l’illecito o il fallace (Ivi, pag. 17). Egli sostiene, altresì, l’esistenza, tra miraculosus e magicus, di un meraviglioso neutro il quale, pur provenendo da un sistema precristiano tradizionale, il folklore, risulta tollerabile dal cristianesimo (Ivi, pp. 17-18). 162 Zaganelli, Hic sunt Leones. Miti geografici e immagini dell’altrove dal VII al XVI secolo, pag. 14, in Exploratorium: cose dell’altro mondo, a c. di I. Pezzini, Milano, Electa, 1991, pp. 14-21. Anche Leonardo Olschki in L’Asia di Marco Polo. Introduzione alla lettura e allo studio del Milione, San Giorgio Maggiore

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Lo stesso Marco Polo era un «uomo del suo tempo»163: neppure lui ha potuto

sottrarsi all’influenza di quei testi che suggerivano cosa si sarebbe dovuto vedere nel Far

East. Ma nel momento in cui si è immerso nella realtà indo-cinese e ha avuto modo di

toccarla con mano, il veneziano, pur col suo bagaglio di conoscenze e informazioni, si è

calato alla perfezione nel ruolo di testimone oculare e, come ironicamente nota Eco, si è

permesso, sfacciatamente, non di raccontare le cose come dovevano essere, bensì di

descrivere ciò di cui fece diretta esperienza164. Benedetto, studioso dalla lunga familiarità

col testo poliano, parla del Devisement dou monde come di un lavoro «frutto di

un’osservazione imparziale, subordinato ad un questionario concreto, [...] già documento

di geografia positiva»165, che consapevolmente ha tra i suoi fini «quello di sostituire una

verità alle fantasie nebulose ed alle leggende»166 che circolavano nel Vecchio Continente

sui luoghi attraversati dal mercante veneziano.

Appurato, quindi, il fatto che è obiettivo di Marco essere veritiero, senza nessuna

menzogna, come da lui stesso programmaticamente dichiarato nelle righe del Prologo del

suo lavoro167, è possibile circoscrivere luoghi del testo che rientrano nelle «narrazioni a

connotazione esotica»168 e che rappresentano significativi esempi di come vengano

(Venezia), Fondazione «Giorgio Clini», 1957, pag. 39, fa notare che «prima che missionari e mercanti del decimoterzo secolo si avventurassero nell’iterno dell’Asia, ben poco se ne seppe in Europa per tutto il Medio Evo. A quel tempo le scarse nozioni che concernevano le regioni orientali della terra si limitavano a quelle tramandate nei trattati e nei racconti della tarda antichità che conservavano qualche vaga idea e molte favole su uomini e cose di quelle terre lontane». 163 Sugli specchi, pag. 63. 164 Ivi, pag. 62. 165 Il libro di Messer Marco Polo, pp. XV-XVI. 166 Ivi, pag. XVI. Benedetto riconosce, inoltre, in Polo «le più nobili doti» dell’esploratore, dal fascino per i viaggi lontani, al senso delle originalità paesistiche ed etniche, all’amore per tutto ciò che è caratteristico singolare (pag. XVI), e riconosce a Polo il merito di aver dato vita ad un libro che ha aperto, pur con tutti i limiti del caso ma anche per le ragioni sopra esposte, alla moderna letteratura scientifica (pag. XV). 167 Ivi, pag. 1. 168 Bertolucci Pizzorusso, Enunciazione e produzione del testo nel «Milione», pag. 214 (in Morfologie del testo medievale, pp. 209-241).

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smentite dal viaggiatore leggende e dicerie diffuse ed universalmente accettate in

Occidente169.

«Et en ceste montagnes meisme se trouve une voine de la quel se

fait la salamandre; et sachiés que salamandre ne est pas beste,

come ve<n> dit, mes est tes choses con je dirai desout. Il est verité

que voç savés bien qe por nature nulle bestes ne nulz animaus ne

pout vivre en feu, por ce qe chaschu<n> animaus est fait des

quatre alimens. Et por ce qe les jens ne savoient la certance de la

salamandre, le disoient en la mainere qu’il di encore: que

salamandre soit beste: mes il ne est pas verité, mes je le voç dirait

orendroit, car je voç di qe je oi un conpagnons que avoit a nom

Çurficar, que mout estoit sajes, qui demoroit trois anz por le Grant

Chan en celle provence por fair traire celle salamandre et cel

undanique et cel acer. Et toutes foies hi mande seignor le Grant

Chan por trois anz por seingnorejer la provence et por fer la

besogne de la salamandre. Et mun conpains me dist le fait, et je

meisme le vi, car je voç di que quant l’en a cavé des montagnes de

celle voine que vos avés oï et l’en ront et despece, elle se tient

ensemble et fait file come lane. Et por ce, quant l’en a ceste lane,

il la fait secher, puis la fait pistere en grant morter de covre, puis la

fait lavere; et remaint celle fille que je voç ai dit, et la terre gete

que ne vaut rien; puis ceste files, que est semblable a laine, la fait

bien filere et puis en fait fer toaille; et quant les toailes sunt faites,

je voç di qu’elles ne sunt mie bien blances, mes il la mettent en le

feu et le hi laisent une p<i>eces, et la toaille devient blanche come

noif. Et toites foies qe cestes toaille de salamandre ont nulle sosure

ou bruture, l’en la met en feu et la hi lasse une pieçe et devient

blance noif. Et ce est la verité de la salamandre que je voç ai dit, et

toites les autres chouses qe s’en dient sunt mensogne et fables»

(F, LIX, 6-32).

169 I brani che seguono vengono proposti in quanto esempi del fatto che «l’immaginario precostituito della geografia favolosa è messo in discussione, viene sottoposto a un lavoro di critica e demistificazione» nelle pagine del Devisement (Dal viaggio al libro, pag. 164, nota n.°18).

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Oggetto di questo primo brano menzionato è la salamandra. Interessante è il modo

di procedere dei coautori, i quali spiazzano il pubblico che aveva tutt’altre certezze in

merito170 intraprendendo la descrizione di une voine de la quel se fait la salamandre. Dal

momento che svela il fatto che la salamandra non è l’animale in grado di vivere nel fuoco,

bensì il minerale indicato a partire dal XVI secolo col nome di “amianto”171, e che questa

rivelazione “oppone il reale al discorso abituale”172, il Polo è obbligato a fornire una

spiegazione. Dopo aver esposto la tesi che sconfessava la credenza circolante in Europa in

merito alla salamandra (que salamandre ne est pas beste, come ve<n> dit), cosa che lo

porta a contrapporsi alle auctoritates rappresentate dagli scritti di sant’Agostino,

Aristotele e Isidoro di Siviglia173, il veneziano riporta la testimonianza del turco Zurficar,

suo compagno di viaggio attraverso i territori della provincia di Chienchintalas, relativa

all’estrazione del minerale dalla caratteristica incombustibilità. Ad avvalorare la veridicità

delle informazioni circa questa pratica, che Marco non vide in prima persona, concorre

non solo la rispettabilità della fonte (Zurficar fu direttore delle miniere del Kublai Khan!),

ma pure:

� il fatto che il nostro viaggiatore assistette alla lavorazione di questo

particolare materiale, da cui era possibile ricavare fili da tessere (je meisme

le vi [...] que quant l’en a cavé des montagnes de celle voine que vos avés

oï et l’en ront et despece, elle se tient ensemble et fait file come lane [...]

puis ceste files, que est semblable a laine, la fait bien filere et puis en fait

fer toaille);

170 Faucon arriva ad attribuire all’esordio di questa descrizione il carattere di brutalité (La représentation de l’animal par Marco Polo, pag. 108). 171 Ivi, pag. 110. 172 Ivi, pag. 109. 173 Ivi, pag. 109: Marco Polo si oppone «d’un côté à saint Augustin qui utilisait la salamandre comme preuve de la vie possible dans les flammes infernales [...]; de l’autre, au principe de la parité des quatre éléments, issu d’Aristote, principe qui admettait la vie animale dans le feu puisqu’elle existe sur terre, dans l’eau et dans l’air», oltre che alle fantasiose etimologie di Isidoro da Siviglia, il quale «affirme qu’elle [la salamandra] tient son nom de sa résistance au feu».

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� il dono di una tovaglia, fatta pervenire dal Gran Khan al Papa, prodotta

proprio con i filamenti in questione (Et encore vos di que a Rome en a une

toaille que le Gran Chan envoié a l’apostoille por grant present174)175.

In ultima analisi il Polo non nega l’esistenza della salamandra, bensì ne modifica

radicalmente la natura, mettendo in atto un suo passaggio da essere favoloso a prodotto

industriale, insomma un passaggio dal meraviglioso al concreto176, e per ottenere il

convincimento dei lettori rispetto a questa sua argomentazione che ribalta le convinzioni

fino a quel momento date per assodate, chi scrive si serve di espressioni quali il est verité

que / il ne est pas verité, fino a giungere ad asserire, in maniera decisa, che «ce est la

verité de la salamandre que je voç ai dit, et toites les autres chouses qe s’en dient sunt

mensogne et fables», affermazione nella quale spicca, unica occorrenza dell’intero

manoscritto fr. 1116, l’uso del termine fables177, ad accentuare una volta di più lo scarto

tra leggenda e realtà.

«Il ont leofans sauvajes. Et ont unicornes aseç, qe ne sunt mie

guieres moin qe un leofans. Il sunt dou poil dou bufal; les piés a

fait come leofant; il a un cor en mi la front mout gros et noir, et

voç di qe il ne fait maus <con cel cor mes> con sa langue, car il a

sus sa langue l’espine mout longues, si qe le maus qe il fait, <le

fait> con <la> langue; il a le chief fait come sengler sauvajes et

toutes foies porte sa teste encline ver tere e demore mout

voluntieres entre le bue et entre le fang: elle est mout laide beste a

veoir. Il ne sunt pas ensi come nos de ça dion et deviçon, qe dient

q’ele se laise prendre a la pucelle; mes vos di qu’il est tout le

contraire de celz qe nos qui dion qe il fust»

174 Le Devisement dou monde, cap. LIX, pag. 54. 175 La représentation de l’animal par Marco Polo, pag. 109. 176 Ivi, pag. 110. 177 Marroni rileva questo elemento in comune alla redazione francese e a quella toscana, dal momento che anche in quest’ultima si può circoscrivere «un unico rappresentante della famiglia lessicale di favola», e mette in luce che l’uso di tale voce ha lo scopo di ribadire la veridicità di quanto esposto (I viaggi del Milione, pag. 234 e nota n.° 4).

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(F, CLXV, 31-41).

Al centro delle righe or ora trascritte è l’unicorno. Nei confronti di questo essere

vivente, protagonista di numerosi racconti tramandati dagli abitanti del Vecchio

Continente, il mercante si comporta in maniera definita da Eco “spietata”178, come si nota

dal modo di procedere della descrizione del Devisement: Marco riferisce che nel regno di

Basman vivono gli unicorni, precisando che questi presentano poil dou bufal e piés come

leofant, cosa che blocca sul nascere qualsiasi reazione di sbalordimento da parte del

pubblico che il riferimento al mitico unicorno avrebbe eventualmente potuto suscitare179.

Il prosieguo della descrizione, che ci parla di lingua spinosa, corna nere e testa di

cinghiale, spazza via ogni residuo di illusione ancora abitante il lettore. Tutto ciò

preannuncia quanto conclude la trattazione, ovvero che a differenza di quello che si crede

(Il ne sunt pas ensi come nos de ça dion et deviçon) l’unicorno non è la bestia che si lascia

catturare da una giovane vergine: insomma, questo animale è tout le contraire de celz qe

nos qui dion qe il fust.

Possiamo, dunque, dire che l’autore del Milione, guidato dai testi che avevano

grande successo in Europa180, non solo cerca gli unicorni, bensì pure li trova. Dopo che

l’ha sottoposta al suo accurato esame, però, egli è costretto a riferire la reale natura di

questi animali tanto ammirati quanto misteriosi, cosa che conduce alla distruzione del

sistema mitico della bestia «con il corno in mezzo alla fronte»181. In buona sostanza se

l’unicorno esiste, come Marco ha verificato, è necessario riconoscere che esso non è altro

178 Sugli specchi, pag. 64. 179 La représentation de l’animal par Marco Polo, pag. 108. 180 Eco cita in proposito il Fisiologo, che aveva dato vita alla leggenda della fanciulla vergine capace di ammansire l’unicorno, e il Tresor di Brunetto Latini, nel quale la stessa è ripresa (Sugli specchi, pag. 64). 181 La représentation de l’animal par Marco Polo, pag. 108.

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che un rinoceronte e in questo risiede l’opera poliana di rinnovamento di un «cliché di

falso esotismo»182.

«Et si vos vuoil dir et faire conoistre qe celz <qe dient> qe

aportent les petit homes de Yndie, est grande mensoingne e grant

deceverie, car je voç di qe celz qe cil dient, qe sunt homes, se font

en ceste ysle, e voç dirai comant. Il est voir que en ceste ysle a une

mainere de singes qe sunt mout pitetes et ont les vix que senblent

homes. Or les homes prennent celz tiel singes e le pellent toute et

le laisent les poilz en la barbe et au peterin; puis les font secher e

le metent en forme e l’adobent con canfora e con autre couse, en

tiel mainere q’ele senblent qe soient est<r>e home, e ce est une

grant deceverie car il sunt fait en tel mainere com voç avés oï, car

en toute Yndie, ne en autre pars plus sauvajes, ne furent onques

veu nul si peitet homes come celz senblent»

(F, CLXV, 45-56).

Poco dopo aver ultimato la disquisizione concernente l’unicorno, Marco passa ad

occuparsi di altri esseri viventi dalla natura controversa: si tratta dei pigmei, uomini dalle

dimensioni estremamente ridotte, che alcune antiche fonti divulgavano fossero originari

del continente indiano. Anche in questa occasione l’autore del resoconto di viaggio

esordisce con un’affermazione molto schietta: parlando di questi “omuncoli”, che taluni

europei dicevano di aver condotto in Occidente dall’India, il Polo utilizza i termini

mensoingne e deceverie. Egli spiega, poi, che questi petit homes sono in realtà delle

scimmie originarie dell’isola di Basman le quali, somiglianti agli esseri umani, possono

essere spacciate per uomini piccolissimi. Qui come altrove viene a galla la denuncia del

mercante veneziano, che in qualità di testimone oculare ritiene suo compito quello di

portare a termine una ulteriore opera di demistificazione183, in questo caso relativa a

182 Sugli specchi, pag. 64. 183 La représentation de l’animal par Marco Polo, pp. 111-112.

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uomini dalla statura talmente minuta che in realtà en toute Yndie, ne en autre pars plus

sauvajes, ne furent onques veu.

«Et encore sa{c}chiés tout voiremant qe en celes autres ysle, qe

sunt si grant quantité ver midi, la ou les nes ne alent mie

voluntieres por la corent qe cort celle part, {et} dient les homes

que la se treuve{s} des oisiaus grifon, e dient que celz oisiaus hi

aparurent certes estaisonz de l’an. Mes si sachiés que il ne sunt

mie fait ensi come nostres jens de sa cuident e come nos les faison

portraire: ce est que nos dion qu’il est mi hosiaus et mi lyonç; mes

selonc {qe} celz qe le ont veu content, ce ne est pas verité que il

soient mi oisiaus et mi lyon. Mes voç di qe il dient, celz qe le ont

veu, qe il est fait tout droitmant come l’aigle, mes il dient qu’il est

demisoreemant grant; et voç en diviserai de ce que dient celz que

l’ont veu. Et encore voç en dirai ce que je en vi. Il dient que il est

si grant et si poisant que il prenent l’alifant et l’enporte en l’air

bien aut; puis le laise ceoir en tere si que le l<e>ofant se desfait

tuit. Et adonc le oisiaus griffon le bece e manue e se paise sor lui.

Il dient encore, celz que les ont veu, que seç eles ovrent .XXX . pas

e que sez pennes d’eles sunt longues .XII . pas; grosismes sunt

come il est convenable a lor longesse. [...] Celz de celles ysles

l’apellent ruc, et ne l’apellent por autre nom e ne sevent que soit

griffon. Mes noç quidion tot voiremant que por la grant grandesse

que il content de cel oisiaus qu’il soit griffonz»

(F, CXC, 38-55; 69-72).

Un simile comportamento demitizzante dei coautori del Milione, pur con delle

precisazioni da non trascurare, si riscontra anche nelle righe che ruotano attorno alla figura

del grifone. In epoca medievale il grifone, conosciuto come creatura per metà uccello e per

metà felino, dotata di testa, ali ed artigli da aquila e corpo da leone, era un animale la cui

presenza era ricorrente all’interno delle tradizioni popolare e letteraria, un essere le cui

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caratteristiche erano state fatte conoscere, tra gli altri, da Erodoto e Isidoro di Siviglia184.

Nel capitolo dedicato alle isole situate nella zona vicino Zanzibar, Marco prende in

considerazione le voci che collocavano in questi luoghi l’habitat dell’uccello grifone

indicato dagli abitanti dell’arcipelago con l’arabismo ruc185. Immediata è la smentita

poliana in merito all’aspetto di questa creatura che, a detta di chi l’aveva ammirata di

persona, non appariva affatto come gli occidentali la immaginavano e raffiguravano (ce ne

est pas verité que il soient mi oisiaus et mi lyon), bensì poteva essere descritta come un

uccello simile ad un’aquila, ma dalle dimensioni ben più notevoli e tanto forte da essere in

grado di sollevare un elefante (il est fait tout droitmant come l’aigle, mes [...] il est

demisoreemant grant). Certo, rispetto ai precedenti interventi volti a sconfessare tenaci

credenze dell’Occidente, Marco fa mostra qui di un atteggiamento più prudente, come

dimostrato dal sistematico ricorso all’espressione il dient per introdurre le testimonianze

inerenti l’animale in oggetto che, egli mette in rilievo in più occasioni, vanno attribuite a

celz que les ont veu186.

È possibile insomma asserire che il viaggiatore veneziano miri, col suo discorso,

ad interrompere il propagarsi di racconti favolosi, ma che in questa circostanza lo faccia

non spazzando via qualsiasi componente di inverosimiglianza dalla sua revisione, bensì

riconducendo il mondo del mito entro la sfera del possibile o, meglio, del maggiormente

accettabile da parte dei lettori187.

In conclusione, l’analisi svolta dimostra che Marco, grazie alle sue qualità di

osservatore e alla sua volontà di concedere la priorità ai dati derivanti dall’indagine della

realtà, in luogo della loro negazione mette in atto una sovversione delle credenze

occidentali che di volta in volta passano sotto la sua lente, ragion per cui, preso atto del

184 La représentation de l’animal par Marco Polo, pag. 110. 185 I viaggi del Milione, pp. 234-235. 186 La représentation de l’animal par Marco Polo, pp. 110-111. 187 I viaggi del Milione, pag. 235.

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contenuto del resoconto poliano, sarà sempre possibile al lettore credere a salamandra o

unicorno, ma unicamente come ad animali favolosi la cui esistenza è priva di qualsivoglia

ancoraggio al reale, giacché l’operazione del mercante veneziano consiste nello svuotare il

mito della sua significazione188.

Rispetto a quanto sviscerato fin qui in merito alle modalità con le quali Marco Polo

tratta quella sottocategoria dell’esotico di tipo b) rappresentata da dicerie e leggende

sull’Oriente ritenute vere dagli europei, c’è da aggiungere, come nota Faucon, che il

Milione, oltre che a quelle appena viste, non accorda spazio ad altre figure onnipresenti nei

trattati e nelle opere di carattere enciclopedico medievali, quali la fenice, il basilisco o il

drago. Il motivo di ciò risiede nel fatto che l’autore non pretende di fare del suo

Devisement un’opera didattica, bensì semplicemente ambisce a compilare una relazione di

cose da lui viste, avvicinate ed esperite189.

Questo palesa la determinazione del mercante veneziano a non produrre un lavoro

troppo teso verso contenuti di carattere “scientifico”, determinazione che scaturiva dal

timore di Marco che un testo con tali caratteristiche non sarebbe riuscito a catturare

l’interesse di un pubblico allettato, al contrario, dalla convinzione di poter rintracciare al

suo interno una buona dose di contenuti riconducibili entro la sfera del meraviglioso.

In questa direzione va anche il fatto che, a differenza di quanto visto nelle ultime

pagine, a Marco talvolta capiti di distinguere la sopravvivenza di antiche credenze diffuse

presso gli occidentali in quanto da lui osservato o udito durante la sua permanenza nel

lontano Oriente. Si vedano gli esempi che seguono:

«Et encore voç conteron une cousse qe bien fait a mervoilier: car

je voç di tout voiremant qe en ceste roiame a homes qe ont coe

grant plus de un paum’ et ne sunt pileuse; et cesti sunt tuit le

188 La représentation de l’animal par Marco Polo, pag. 112. 189 Ivi, pag. 112.

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plos<o>r. E celz tiel homes demorent dehors as montaignes e ne

pas en cité. Le coe sunt grose come de un chien»

(F, CLXVIII, 8-13);

«Et si voç dirai d’une maniere de jens qe bien fait a conter <en>

nostre livre. Or sachiés tout voiremant qe tuit les homes de ceste

ysle ont chief come chien, e dens et iaux come chiens, car je voç

di qu’il sunt tuit senblable a chief de grant chienz mastin»

(F, CLXXI, 2-6).

Il primo di questi due brani estrapolati dal Milione ci informa che la peculiarità

dell’aspetto della maggior parte degli abitanti del regno di Lambri consiste nella presenza

di «più di un palmo di coda», la quale è «grossa come quella di un cane». Nel secondo

passaggio, invece, l’autore del Devisement confessa che l’isola di Angaman è popolata da

esseri umani con testa, occhi e denti da cane. L’uso del verbo mervoilier contribuisce a

porre l’accento sulla straordinarietà della prima testimonianza riportata; per quanto

concerne il secondo periodo, invece, le parole che lo introducono informano il pubblico

che quanto seguirà non poteva essere omesso dall’autore (qe bien fait a conter <en>

nostre livre), così da preparare il lettore all’eccezionalità del dato etnografico messo in

evidenza.

Se da un lato quanto riportato dimostra che Marco ha provato a più riprese a

svincolarsi dai contenuti delle auctoritates, arrivando a smentire alcune delle nozioni da

esse veicolate e che rientravano nel suo repertorio culturale e in quello dell’uomo del

Medioevo 190, dall’altro lato emerge come il Polo rimanesse un uomo del suo tempo: in

effetti, egli non ha mancato di riconoscere leggende e dicerie ampiamente condivise nel

Vecchio Continente in realtà da lui avvicinate in prima persona o conosciute solo per

190 Leonardo Olschki nota per l’appunto che l’autore del Milione «non pretendeva di apparire uomo di scienza, ma voleva esser espositore onesto e autentico di una straordinaria avventura» (L’Asia di Marco Polo, pag. 48).

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esperienza indiretta in partibus Orientis. È chiaro che se il mercante «non volle né poté

dissociare le sue esperienze [...] dalle vecchie favole geografiche»191 fu per rispondere

all’orizzonte d’attesa ed evitare il pericolo che la sua opera non riuscisse a catturare

l’interesse o, peggio, risultasse incredibile ai lettori, a causa della mancanza di ciò che essi

si aspettavano, ovvero la presenza degli sbalorditivi mirabilia Orientis.

In ultima analisi, quindi, si può considerare ambivalente il modo di porsi di Marco

rispetto all’esotico che si manifesta in ciò che è avulso dall’esperienza quotidiana

dell’uomo europeo medievale, il quale, nel momento in cui si lascia coinvolgere dalla

testimonianza divulgata dal viaggiatore veneziano attraverso il Devisement dou monde,

pur vedendo sgretolarsi alcuni dei miti che costituivano il suo immaginario orientale, ha

comunque la possibilità di vedere appagate le sue curiosità e immaginazione192.

191 L’Asia di Marco Polo, pag. 49. 192 A tal proposito, l’Olschki sottolinea che «il risultato di questo duplice carattere del libro appare alquanto paradossale, in quanto che esso, pur volendo essere narrazione e descrizione oggettiva di fatti e aspetti reali di un mondo ignoto, non ne sostituisce in forma positiva l’immagine tradizionale, ma aggiunge nuove ed inaudite meraviglie alle antiche favole, confermandole indirettamente e integrandole con ancor più mirabili manifestazioni delle più remote civiltà» (Ivi, pp. 48-49).

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CAPITOLO III

Descriptio urbium: le favolose metropoli dell’Asia

Nel corso delle sue peregrinazioni nel lontano Oriente, rapiscono con frequenza

l’attenzione di Marco Polo l’ammirevole organizzazione dei territori che egli ha modo di

attraversare e la magnificenza delle città in essi disseminate.

Come risulta dal conteggio di Deluz, sono settanta le città sulle quali si sofferma

l’autore del Devisement dou monde193. Il Veneziano offre al lettore una presentazione

degli agglomerati urbani che segue una sorta di schema e nell’ambito della quale viene di

volta in volta fornita, talora con degli scarti minimi, la medesima sequenza di ragguagli

relativi da un lato alla geografia fisica e politica dei luoghi sondati e dall’altro ad usi,

costumi ed attività cui sono dediti gli abitanti.

In merito alla prima categoria di informazioni, Marco in genere riporta la provincia

in cui la città è ubicata, le caratteristiche dell’ambiente naturale circostante e le risorse e

materie prime di cui abbonda; rientrano, invece, nella seconda tipologia le notizie relative

ai beni materiali impiegati per il sostentamento della popolazione o commercializzati, alla

religione professata e alla moneta corrente194.

Questo susseguirsi di ripetitive descrizioni di città orientali di certo non

contribuisce a conferire vivacità allo scritto poliano, ma è comunque innegabile che

concorra a dare ritmo alla progressione del testo del Milione195. Ciò vale soprattutto per la

193 C. Deluz, Villes et organisation de l’espace: la Chine de Marco Polo, pag. 162, in Villes, bonnes villes, cités et capitales. Études d’histoire urbaine (XIIe-XIIIe siècle) offertes à Bernard Chevalier, textes réunis par M. Bourin, Caen, Paradigme, 1993, pp. 161-168. 194 Tutto ciò è messo in evidenza da Deluz, la quale rileva che nel Milione è fatta menzione «[...] de l’environnement naturel, de la richesse du territoire où elle se situe et des possibilités de ravitaillement ou d’autres ressources qu’il peut offrir, [...] des habitants, de leur religion, “idolâtres”, musulmans ou chrétiens, de leurs activités et une insistance particulière est [de] la monnaie qui a cours», ma nota altresì che con frequenza Marco Polo, da mercante quale era, non esista nemmeno a ricostruire «les routes suivies par les marchands au départ de la cité» (Ivi, pag. 163). 195 Ivi, pag. 162.

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seconda parte del resoconto di viaggio, visto che a scandire il tragitto verso la Cina è

abitualmente la successione di capitoli che riferiscono di province e regioni.

Ci si può accostare all’analisi dell’approccio di Marco rispetto alla descrizione dei

centri abitati del Far East a partire da quanto osservato da Deluz, la quale evidenzia che

alle città che passa in rassegna nel suo Devisement l’autore sovente attribuisce

qualificazioni come noble, la plus noble, grande, vaste o maîtresse196. Questa notazione

rispecchia una parte di quanto messo in luce da Marroni (e già preso in considerazione nel

capitolo II197), circa gli accorgimenti messi in atto dal Polo per intridere le pagine del

Milione del proprio stupore. Nell'elencazione da lui prodotta, lo studioso asserisce, infatti,

che il Veneziano itera l’uso di termini che rientrano nella famiglia lessicale di nobile per

«manifestare ammirazione e [...] sottolineare la straordinarietà della realtà descritta o

narrata»198. Tale affermazione rispecchia perfettamente le consuetudini poliane relative

alla rappresentazione delle città da lui visitate, come evidenzia la seguente scelta di brani

estrapolati dal suo resoconto di viaggio:

«Balc est une noble cité et grant»

(F, XLIV, 1);

«Sanmarcan est une grandisme cité et noble»

(F, LI, 1);

«Mes, tou avant, voç diron d’un noble chastiaus qui est apellés

Caiciu»

(F, CVI, 19-20);

196 Villes et organisation de l’espace, pag. 163. 197 Si rimanda alla pag. 66 del presente lavoro. 198 La meraviglia di Marco Polo, pag. 243.

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«Et quant l’en est alés ceste trois jornee, adonc treuve l’en la

noble cité de Singiu Matu, qe mout est grant et riche et de grant

mercandie e de granz arç»

(F, CXXXIV, 5-7);

«Cail est une noble cité e grant»

(F, CLXXVIII, 1).

Non viene registrato da Deluz, ma è posto in luce da Marroni199 l’utilizzo, sempre

nell’ambito del racconto della meraviglia, di termini riconducibili alle famiglie lessicali di

bello e di ricco. Per testimoniare il rapimento di Marco suscitato dall’ammirazione per le

caratteristiche estetiche delle città indiane si possono citare:

«Et chief de la provence <est> ceste cité ou nos somes venus, qui

est apelés Taianfu, que est mout grant et biele, en la quel si fait

grant mercandies et grant ars»

(F, CVI, 2-5);

«Et <quant> l’en a chevauché .VIII . jornee, com je vos ai dit,

adonc treuve l’en ceste grant cité et noble de Quengianfu, qui

mout est grant et biele»

(F, CX, 9-11);

«A chief de ceste jornee, treuve l’en une cité, qe est apelés

Pauchin, qe mout est bielle cité et grant»

(F, CXL, 5-6);

di contro, i seguenti brani mettono davanti agli occhi del lettore la sbalorditiva opulenza

dei centri abitati orientali:

199 La meraviglia di Marco Polo, pag. 243.

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«[...] adonc estoit a une cité k’estoit apelé Clemeinfu, qe mout

estoit riche et grant»

(F, XIII, 3-4);

«Et quant l’en est alés ceste trois jornee, adonc treuve l’en la noble

cité de Singiu Matu, qe mout est grant et riche et de grant

mercandie e de granz arç»

(F, CXXXIV, 5-7);

«Et a chief de .II . jornee treuve l’en la cité de Cingiu qe mout est

grant et riche, e de mercandies et d’ars»

(F, CXXXVII, 3-5);

«Coygangiu est une mult grant cité e noble et riche»

(F, CXXXIX, 1);

«Or sachiés qe ceste citè de Ciangan est mout grant et riqe»

(F, CL, 31).

Nell’enumerazione di Deluz spicca poi l’impiego degli aggettivi grande e vaste, i

quali, concorrendo a costruire nella mente dei lettori occidentali l’immagine di uno

sterminato mondo cinese punteggiato da metropoli di dimensioni sorprendenti, vengono

ripetutamente sfruttati da Marco nella descrizione di queste ultime, come si può ben

vedere dagli esempi qui proposti e che potrebbero facilmente moltiplicarsi:

«Lop est une grant cité che est au chef dont l’en entre en le grant

deçert qui est apellé le deçert de Lop»

(F, LVI, 1-2);

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«Canpicion est une cité que est en Ta<n>gut meesme, que est

mout grant cité et noble et est chief e seingnorie toute la provence

de Tangut»

(F, LXI, 1-3);

«Cianglu est encore une mout grant cité ver midi»

(F, CXXXI, 1);

«Saianfu est une cité <grant> et noble que bien a sout sa

seingnorie .XII . cité et grant et riches»

(F, CXLV, 1-2);

«Et ceste Vughin est encore une mout grant cité et noble»

(F, CL, 26);

«Et quant l’en est alés ceste .V. jornee, adonc treuve l’en une cité,

que est apellé Çaiton, qe mout est grant e noble»

(F, CLVI, 8-9);

«La cité [Malaiur] est mout grant e noble»

(F, CLXIV, 10-11).

Ciò che, inoltre, si evidenzia anche in molti dei brani in precedenza riportati è la

consuetudine dei coautori del Milione a servirsi dell’accostamento di due o più aggettivi

per descrivere, esaltandole, le peculiarità delle città esplorate dal viaggiatore.

«[...] adonc estoit a une cité k’estoit apelé Clemeinfu, qe mout

estoit riche et grant»

(F, XIII, 3-4);

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«Et chief de la provence <est> ceste cité ou nos somes venus, qui

est apelés Taianfu, que est mout grant et biele»

(F, CVI, 2-4);

«Sugiu est une tre noble cité et grant»

(F, CL, 1);

«Coygangiu est une mult grant cité e noble et riche»

(F, CXXXIX, 1).

Osservando le righe appena trascritte è possibile concludere che nelle pagine del

Devisement dedicate alla descrizione dei centri abitati è rintracciabile la tendenza di chi

scrive a ricorrere all’inserimento di combinazioni di attributi; questi ultimi qualificano le

città ritratte e fungono da veicolo dell’estasi che suscitano nel testimone i formidabili

sfarzo, prosperità ed estensione degli agglomerati costituenti quella rete urbana

gerarchizzata che dà ordine all’immenso territorio del Khan200.

Oltre agli aggettivi che sottolineano le dimensioni (grant), il benessere (riche,

riqe), l’amenità (biele, bielle) e l’eccellenza in genere (noble) degli abitati indiani,

nell’ambito della terminologia utilizzata per magnificare l’organizzazione urbana della

realtà orientale, si possono annoverare pure espressioni assimilabili a quelle già

individuate da Marroni201 ed impiegate nel Devisement per avvalorare, presso il pubblico

occidentale, l’immagine di un Oriente mirabilis:

«Et quant il a alés .VII . jornee, adonc treuve une cité, qe est apellés

Pianfu, qe mout est grandissime et de grant vailance»

(F, CVI, 14-16);

200 Villes et organisation de l’espace, pag. 163. 201 Nel suo saggio, lo studioso parla di «espressioni come di grande / maggiore / più valenza / valore / valuta» (La meraviglia di Marco Polo, pag. 243).

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«Quan l’en s'en part de Ciangli, il ala .VI . jornee ver midi, et toutes

foies trouvant cités et castiaus aseç et de grant vailance et de grant

nobilité»

(F, CXXXIII, 1-3).

Se gli estratti del Milione precedentemente riportati danno modo di rilevare quelli

che sono gli attributi che Marco Polo predilige accostare agli agglomerati estremorientali

nelle parti descrittive della sua opera, i passaggi che seguono permettono di prendere atto

del fatto che in molte occasioni gli aggettivi in questione compaiono, nel resoconto del

Veneziano, nella forma del superlativo.

Sovente il lettore incontra, infatti, proposizioni quali:

«[...] Toris est la plus noble cité de celle provence» 202

(F, XXIX, 3-4);

«Mes toutes foies voç di q’ele est la plus noble cité que soit <en>

toutes celles contree» 203

(F, CXXXIII, 8-9),

dove viene esaltata una caratteristica in particolare della città presentata (che in entrambi

questi casi è definita come la plus noble), ma ciò non impedisce di notare come il

Devisement dou monde sia costellato di periodi nei quali, ritraendo i centri abitati da lui

attraversati, l’autore associa due o più superlativi relativi. Si vedano:

«Elle est la plus noble cité et la greingnor que soit en toit cele

parties»

(F, XXIV, 13-14);

202 Della provincia di Yrac. 203 Si tratta della città di Tondinfu.

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«[...] il hi a viles et cha{u}stiaus assez et la greignor cité et la plus

noble est Cascar»

(F, L, 2-3).

Gli ultimi quattro brani trascritti si differenziano in quanto a “dosaggio”,

potremmo dire, dei superlativi relativi; tuttavia, essi sono accomunati dal fatto che l’uso

degli elativi è sempre volto a risaltare l’unicità dell’agglomerato urbano rappresentato

rispetto al contesto in cui è inserito, sia esso una provincia («la plus noble cité de celle

provence»), una contrada («la plus noble cité que soit <en> toutes celles contree»), un

regno (quello di Cascar, ad esempio) o un’area anche ben più estesa del territorio indiano

(«la plus noble cité et la greingnor que soit en toit cele parties»).

In tutti i passaggi or ora analizzati, dunque, i coautori scelgono la strada del

paragone, ma nell’opera nel suo complesso maggiormente accentuata si mostra la volontà

del testimone di esaltare in senso assoluto la realtà avvicinata nell’Oriente estremo.

«Iasdi est en Persie meisme, molt bone cité et noble et de grant

marchandies»

(F, XXXIII, 1-2);

«Canpicion est une cité que est en Ta<n>gut meesme, que est

mout grant cité et noble»

(F, LXI, 1-2);

«A chief de ceste cinq jornee, adonc treuve l’en la mestre cité et

celle qe est chief dou reingne, que est apellés Iaci, que mout est

grant et noble»

(F, CXVII, 9-11);

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«Or sachiés qe quant l’en est chevauchés les .XV. jornee, qe je vos

ai contee de sovre, de si desvoiable leu, adonc treuve l’en cité, qui

est apellés Mien, qui mout est grant et noble»

(F, CXXIV, 1-3);

«Et quant l’en est alés .XII . jornés sor por cest flum, adonc treuve

l’en la cité de Ciugiu, qe mout est grant et noble»

(F, CXXIX, 3-5);

«A chief de cest trois jornee, treuve l’en une cité, qe est apellé

Pingiu, qe mout est grant et noble et de grant mercandies et de

grant arz»

(F, CXXXVI, 8-10);

«Quant l’en se part de Pauchin, l’en ala por yseloc une jornee:

adonc treuve l’en une cité, qe est apellés Caiu, qe mout est grant et

noble»

(F, CXLI, 1-3).

Le righe trascritte si contraddistinguono per la presenza di superlativi assoluti il cui

impiego è indirizzato a sottolineare l’eccezionalità della città di volta in volta tratteggiata e

di fronte alla cui estensione, opulenza ed armoniosità si espande l’incontenibile stupore

del viaggiatore.

Parlando delle modalità con le quali il Polo affronta la descrizione degli abitati

estremorientali non si può, poi, non far presente il particolare trattamento riservato a tre

delle città da lui ammirate, Karakorum, Quinsay e Cambaluc204.

Di Karakorum, oramai dissolto il prestigio che la caratterizzava quando era centro

nevralgico delle dominazioni mongole205, viene evocato dal Veneziano il glorioso passato

204 «Trois villes seulement se distinguent de cet ensemble, Karakorum, Cambaluc et Quinsay, sur lequelles l’auteur s’attarde longuement, les décrivant minutieusement, et leur rattachant de longs développements historiques» (Villes et organisation de l’espace, pag. 163).

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costellato di mirabili imprese e conquiste portate a termine sotto la guida di Gengis

Khan206.

In Quinsay, alla quale si addice perfettamente l’appellativo di “Cité du Ciel” in

virtù della qualità della vita che offre ad abitanti e gente di passaggio, il Polo non manca

di individuare, dopo averla definita tre nobilisime cité, la città migliore al mondo:

«Et quant l’en est alés tres jornee, adonc treuve l’en la tre

nobilisime cité qui est apellé Quinsai, que vaut a dire en franchoit

la cité dou ciel. Et depuis qe nos sonmes la venu, si voç conteron

toute sa grant nobilité, por ce que bien fait a conter, qe ce est san

faille la plus noble cité e la meilor qe soie au monde»

(F, CLI, 5-9).

Deluz fa, infine, presente come sia Cambaluc, con i suoi sfarzosi palazzi, le feste

pompose, le battute di caccia, ma anche l’invidiabile organizzazione politica e gli

ingranaggi economici, la città scelta dal viaggiatore per esaltare il potere del Gran Khan

207, del cui controllo sul territorio, peraltro, si può considerare emblematica

l’efficientissima rete stradale208.

Possiamo dire che anche nei loci testuali occupati dall’esaltazione dei centri abitati

orientali emerge l’influenza delle fonti letterarie da cui anche i viaggiatori occidentali più

inclini ad una rappresentazione mimeticamente aderente alla realtà paiono dedurre i tratti

caratteristici delle cose da loro ammirate: come rileva Olschki, gli esploratori europei

giungevano in Asia «colla mente piena di ricordi letterari, di fascini fiabeschi e delle

sfolgoranti visioni di Bisanzio»209, e trovandosi di fronte a «sconfinati deserti e impervie

catene di aride montagne in cui viveva miseramente una popolazione scarsa, nomade e

205 Villes et organisation de l’espace, pag. 165. 206 F, LXIII-LXVIII. 207 Villes et organisation de l’espace, pag. 165. 208 Ivi, pag. 165. 209 L. Olschki, Storia letteraria delle scoperte geografiche, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1999, pag. 103.

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semiselvaggia, si appressavano avidamente a queste apparenze di falso lusso che

ricordavano da lontano le immaginarie magnificenze dell’Oriente, diffuse da una

letteratura volgare che non si stancava di descriverle e di magnificarle»210. Ne è un

esempio la descrizione poliana di Quinsay:

«Il se contenoit tuit primermant <que> la cité de Quinsay

gir’environ .C. miles et ha .XII M. pont de pieres, et por chascun de

cesti pont, ou por la greingnor partie, poroit bien passer une

<grant> nes por desout sun arche […] Et encore hi se contenoit qe

ceste cité avoit .XII . arç de chascun mestier: une chascune ars

avoit .XII M. estasion, ce est a dire .XIIIM. maison, et en chascune

estasion avoit .XII M. au moin .X. homes et tiel .XV . et tiel .XX . et

tiel .XL. […] Et encore voç di qe dever midi a un lac qe gire

environ bien .XXX . miles et tout environ a maint biaus palleis et

maintes bielles maison si merveillosemant faites qe ne poroient

estre miaus devisee ne faites […] Et encore voç di qe en cest ville

a bien .III M. bagni, ce sunt estuves, la o les homes se prennent grant

delit; et hi vont plusors foies le mois, car il vivent mout netemant

de lor cors»

(F, CLI, 16-19; 23-26; 38-41; 76-78).

In queste righe il Veneziano ci parla di un circuito cittadino di cento miglia, di

dodicimila ponti di pietra, di un lago che gira bene trenta miglia, di tremila stufe in cui si

bagnano insieme cento persone, di una reggia con mille sale, di un milione e seicentomila

case e di una provincia con milleduecento città211. Come osservato da Olschki, i

commentatori del Milione hanno tentato di individuare una corrispondenza tra i succitati

dati fantastici e la realtà delle cose212; essi non ci sono riusciti, dal momento che le

iperboli utilizzate da Marco e Rustichello non possono essere considerate altro che «modi

210 Storia letteraria delle scoperte geografiche, pag. 103. 211 Ivi, pag. 123. 212 Ivi, pag. 123.

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di dire equivalenti ai numeri indefiniti della grammatica e a quelle frasi comuni a tutte le

descrizioni di città colle quali tutti gli autori confessano di non poterne contare le

meraviglie»213, cosa che è dimostrativa del fatto che anche i viaggiatori medievali che si

distinguevano per un vivo spirito di osservazione e per uno spiccato senso realistico non

potevano fare a meno dell’irreale214.

213 Storia letteraria delle scoperte geografiche, pag. 123. Si considerino, in merito, pure «reticenze e preterizioni dello stile descrittivo medievale che attestano l’impossibilità degli autori di registrare i caratteri distintivi di un monumento o di un qualunque oggetto», che sono caratteristica comune al Milione e a molte altre relazioni di viaggio medievali e successive (Ivi, pag. 121). 214 Ivi, pag. 123.

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CAPITOLO IV

Bestiario marcopoliano

Nel suo resoconto di viaggio, molti sono i luoghi testuali che Marco riserva alla

descrizione di animali da lui incontrati nel corso dei suoi spostamenti nel lontano Oriente

o conosciuti tramite racconti di abitanti di quelle terre.

Invero, gli animali rappresentavano una presenza molto importante nella

quotidianità dell’uomo del Medioevo: così come riteneva che ogni oggetto materiale

possedesse (al di là delle apparenze), la funzione di rivelare verità spirituali o

insegnamenti etici, allo stesso modo il pensiero medievale era solito attribuire agli esseri

viventi la caratteristica di essere portatori di significati religiosi o morali, cosa che

condusse alla proliferazione, in quest’epoca, dei bestiari, quegli scritti che si presentavano

come guide alla decifrazione del significato che si riteneva celato nel regno animale215.

Premesso ciò, si può comprendere l’interesse che poteva avere il pubblico

occidentale rispetto alle righe del Milione dedicate dal mercante della Serenissima alla

raffigurazione degli animali che popolavano l’Oriente Estremo. Se a questo si aggiunge il

fatto che la ricezione attendesse la conferma della presenza in quelle lande degli animali

mitici coi quali aveva familiarità grazie ai bestiari e la cui esistenza andava fatta risalire

alla tradizione dei portenti indiani ricostruita nelle pagine iniziali di questo lavoro, si ha la

misura dell’importanza di queste sezioni descrittive all’interno del resoconto poliano.

215 In merito a ciò, si veda l’introduzione a Bestiari medievali, Torino, Einaudi, 1996, opera da lei curata, dove Luigina Morini osserva che «in questa ottica, l’universo, enorme repertorio di simboli e incessante ierofania, si configura come un libro sacro, scritto da Dio all’atto della creazione [...], un libro da leggere e da interpretare con le stesse tecniche esegetiche impiegate per le Scritture, dove pure la littera, il senso immediato e letterale, introduce a significati riposti, allegorici, morali, mistici» (Introduzione, pag. IX), e riporta le parole dell’autore di uno dei primi bestiari francesi, Pierre de Beauvais, il quale avverte che «tutte le creature che Dio creò sulla terra, le creò per l’uomo, e affinché l’uomo possa ricavarne esempi di religione e di fede» (Ivi, pag. VII e nota n.° 1).

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In buona sostanza, il fatto che la zoologia fantastica costituisca un settore

particolarmente strutturato e topicizzato dell’Oriente immaginale e dei mirabilia Indiae,

rende particolarmente significativo ai fini della presente dissertazione il modo in cui

Marco approccia il dipinto del variegato mondo animale nella sua relazione di viaggio.

Ciò che è preliminarmente rilevante notare è il fatto che nel Milione è possibile

imbattersi in rappresentazioni di animali dai contorni reali, così come in descrizioni nelle

quali convergono elementi di carattere verosimile e meravigliosi.

Della prima tipologia di descrizioni risulta disseminato il Devisement dou monde.

A titolo esemplificativo possono essere trascritti i seguenti brani, costituiti da righe nelle

quali l’autore dà forma al ritratto di diverse specie di animali (mammiferi e uccelli, ma

non solo), diffuse nei territori estremorientali e familiari pure alla ricezione:

«Et en les montagnes de cest païs naisent les meilor fauchonç et

les miaus volant dou monde; et sunt menor qe faucon pellerin, et

sunt rojes eu pis et desout la coe entre le cuisse; et si voç di q’il

sunt si volant dismiçureemant qu’il ne est nul ausiaus qe devant li

puise escamper por voler»

(F, XXXIV, 14-18);

«Et en ceste plaingn a une generasion d’osiaus que l’en apelle

francolin, que sunt devissé a les autres francolin des autres païs,

car il sunt noir et blance mesleemant, et les piés et les bechs ont

rouges. Les bestes sunt ausi divisee, et voç dirai des bué

primeramant. Les buef sunt grandismes et sunt tuit blance come

nois; le poi<l> il ont peitet et plain, et ce avient por le caut leu; il

ont les cornes cortes et groses et non agues; entre les spaules ont

un çinb reont haut bien deus paumes: il sunt la plus belle chause a

veoir»

(F, XXXV, 8-16);

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«Il ha mouton grant com asne; et ont la coe si grosse et si large

que bien poisse trente livres; il sunt mout biaus et gras et sunt

buen a manger»

(F, XXXV, 18-20);

«hoisiaus hi a, francolin et papagaus et autres oisiaus que ne sunt

senblable as nostres»

(F, XXXVI, 7-8);

«Il hi a grant abondance de toutes sauvagines; il hi a grant

moutitude de mouton sauvages qe sunt grandisme, car ont les

cornes bien .VI. paumes et ao main .IIII . ou .III .»

(F, XLIX, 16-18);

«<Il hi a> buef sauvajes que sunt grant come olifans et sunt mout

biaus a veoir, car il sunt tout pelous sor le dos et sunt blanc et noir;

le poil est lonc trois paumes: il sunt si biaus que ce est une

mervoie a voir»

(F, LXXI, 12-15);

«Il ont grandismes chenz mastin qe sunt grant come asnes et sunt

mout buen a prendre bestes sauvajes»

(F, CXV, 16-17);

«Je voç di q’il ont un lac qe gire environ bien .C. miles, en quel a

grandisime quantité de peison des meior dou monde: il sunt mout

grant de toute faison»

(F, CXVII, 29-31);

«Li buef <sunt> si aut con leofant, mes ne pas si gros»

(F, CXXV, 7-8);

«Et encore hi a une estrange cousse qe bien fait a mentovoir: car je

voç di qe il hi a galine qe ne ont pennes mes ont peaus come gate e

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sunt toute noire; elle font ausi oves, come celle de nostre païs, et

sunt mout bones a manger»

(F, CLIV, 30-34);

«Et encore sachiés qe ceste rengne, et por tout Indie, ont toutes

bestes et osiaus deviséç des nostres, for solemant un oisiaus, e ce

est la quaie: ceste oisiaus san faile est senblable as nostres, mes

toutes autres couses s<o>nt mout deversamant deviséç des nostres,

car je voç di tout voiremant qe il ont le qief soris, ce sunt les

oisiaus qe volent la nuit e qe ne ont poines ne plume: cesti tiel

oisiaus <s>ont grant come un hastor. Il ont hostor tuit noir come

corbiaus et sunt d’aseç greingnor des nostres, et sunt bien volant e

bien oselant»

(F, CLXXIII, 111-119);

«Il hi a de maintes deverses bestes, devises a toutes les autres dou

monde, car je voç di qu’il hi a lion noir sanç null’autre colleur ne

seingne. Il hi a papagaus des plusors maineres: car il hi ni ha tous

blance come nois, et ont les piés et le bec vermoil; et encore il ni a

vermoil e blance qe sunt la plus bielle couse dou monde a veoir ; il

hi ni a encore de mout petit qe mout sunt ausint mout biaus. Il hi a

encore paonç mout plus biaus et greingnors et d’aut<r>e faison qe

ne sunt les nostres. Il ont gelines devisee a les nostres. Et qe voç

en diroie? Il ont toutes couses devisee a les nostres et sunt plus

belles et melliors, car il ne ont nul frut senblable as nostres, ne

nulle bestes ne nul oisiaus, et ce avint por le grant calor que le ha»

(F, CLXXIX, 20-30);

«Il hi a bestes des diverses faisonz, e propemant singes, car il ni a

si deversemant faites qe voç dirois que ce soit home. Il hi a gat

paul si deviséç qe ce estoit mervoille»

(F, CLXXX, 5-8);

«Lionz e leopars et lonces ont il aseç; et maintes autres bestes ont

il encore moutitude, deviséç a celz de nostres contrés [...] Oisiaus

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ont il de maintes maineres devisés a tous les autres. Il ont gelines,

les plus belles {en} a veoir dou monde. Il ont grant estrus,

negueires mendre que un asnes [...] Il ont papagaus aseç et biaus;

il ont sing{l}es de plosors maineres; il ont gat paulz et autre gat

maimon, si devisez qe pou s’en faut {de tiel hi a} qe ne senblent a

vix d’omes»

(F, CXCII, 109-119).

Nelle descrizioni riportate è anzitutto possibile rintracciare una sorta di fil rouge

rappresentato dalla tendenza di Marco a sottolineare l’eccezionalità degli esseri viventi

che popolano l’Oriente estremo. Tale straordinarietà, evinciamo, risiede in primo luogo

nella ragguardevole ricchezza di specie animali orientali e in seconda battuta nella

dissomiglianza di queste ultime rispetto a quelle del Vecchio Continente.

A dare alla ricezione un’idea di quella che potremmo definire la biodiversità

asiatica, contribuiscono frasi quali «[...] il ont un lac [...] en quel a grandisime quantité de

peison [...] de toute faison», «Il hi a de maintes deverses bestes», «Il hi a papagaus des

plusors maineres», «Il hi a bestes des diverses faisonz», «Oisiaus ont il de maintes

maineres». In queste proposizioni, il fatto che la varietà (maineres / faison) del regno

animale sia estrema è individuabile grazie all’impiego di differenti aggettivi (des plusors /

maintes maineres, de toute faison / des diverses faisonz), tra i quali deverses / diverses si

distingue per l’efficacia nel segnalare lo scarto tra la realtà indiana e quella occidentale.

Di contro, le asserzioni «en ceste plaingn a une generasion d’osiaus que l’en apelle

francolin, que sunt devissé a les autres francolin des autres païs [...] Les bestes sunt ausi

divisee», «[hi a] francolin et papagaus et autres oisiaus que ne sunt senblable as nostres»,

«ceste rengne, et por tout Indie, ont toutes bestes et osiaus deviséç des nostres», «Il ont

toutes couses devisee a les nostres et sunt plus belles et melliors, car il ne ont nul frut

senblable as nostres, ne nulle bestes ne nul oisiaus», «maintes autres bestes ont il encore

moutitude, deviséç a celz de nostres contrés» pongono in rilievo la singolarità di quanto è

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oggetto dell’attenzione del Polo. A tale fine, i coautori sfruttano sistematicamente

aggettivi quali devissé / deviséç / divisee o ricorrono ad espressioni come ne sunt

senblable as nostres che, nel paragone con quanto pertiene alla quotidianità dei lettori,

fanno risaltare l’unicità orientale.

Relativamente al secondo dei due aspetti appena esaminati, possono, inoltre, essere

ricercate le peculiarità degli esseri viventi avvicinati dall’altro capo del mondo dal

Veneziano e che concorrono a crearne un’immagine inattesa. Da tale disamina emerge che

in molti casi le descrizioni del Milione evidenziano le ammirevoli dimensioni degli

animali ritratti: sia di mammiferi come buoi, montoni e cani («Les buef sunt grandismes»,

«il hi a grant moutitude de mouton sauvages qe sunt grandisme, car ont les cornes bien .VI .

paumes et ao main .IIII . ou .III », «Il ont grandismes chenz mastin»), che di pesci («a

grandisime quantité de peison des meior dou monde: il sunt mout grant») e uccelli («il ont

le qief soris, ce sunt les oisiaus qe volent la nuit e qe ne ont poines ne plume: cesti tiel

oisiaus <s>ont grant come un hastor», «Il ont grant estrus, negueires mendre que un

asnes») le parole del testimone mettono in luce la sorprendente grandezza grazie al

reiterato uso dell’aggettivo grant (tiel oisiaus <s>ont grant, ont grant estrus) e dei

superlativi assoluti grandisme / grandisime / mout grant.

Benché tali dimensioni sbalordiscano in più di un caso viaggiatore e lettori nel

confronto con le specie viventi diffuse in Occidente («<Il hi a> buef sauvajes que sunt

grant come olifans»; «Il ont grandismes chenz mastin qe sunt grant come asnes», «Li buef

<sunt> si aut con leofant»; «Il ha mouton grant com asne; et ont la coe si grosse et si large

que bien poisse trente livres»; «Il ont hostor [...] d’aseç greingnor des nostres»; «Il hi a

encore paonç mout plus biaus et greingnors et d’aut<r>e faison qe ne sunt les nostres») la

raffigurazione poliana rimane entro i confini del realismo.

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Altre volte è il colore, inusuale agli occhi di un occidentale, a destare la curiosità

del mercante veneziano, come si evince dai seguenti stralci: «Et en ceste plaingn a une

generasion d’osiaus que l’en apelle francolin, que sunt devissé a les autres francolin des

autres païs, car il sunt noir et blance mesleemant, et les piés et les bechs ont rouges»; «Il

ont hostor tuit noir come corbiaus»; «il hi a lion noir sanç null’autre colleur ne seingne»;

«Il hi a papagaus des plusors maineres: car il hi ni ha tous blance come nois, et ont les piés

et le bec vermoil; et encore il ni a vermoil e blance», che sono ad ogni modo parti di

rappresentazioni verosimili.

Pure l’esaltazione da parte del Polo di caratteristiche quali l’ineguagliabile velocità

(«Et en les montagnes de cest païs naisent les meilor fauchonç et les miaus volant dou

monde [...] et si voç di q’il sunt si volant dismiçureemant qu’il ne est nul ausiaus qe

devant li puise escamper por voler») o l’inusitato piumaggio («hi a galine qe ne ont pennes

mes ont peaus come gate»), che nondimeno distanziano gli animali rimirati nel continente

asiatico da quelli europei, non giungono comunque a veicolare l’immagine di esseri

viventi dall’aspetto non plausibile agli occhi dell’uomo medievale.

Ciò accade anche ove fattezze a dir poco originali inducano uno sbalordito Marco a

percepire una spiccata somiglianza tra il muso delle bestie osservate e il volto umano: «Il

hi a bestes des diverses faisonz, e propemant singes, car il ni a si deversemant faites qe

voç dirois que ce soit home»; «il ont gat paulz et autre gat maimon, si devisez qe pou s’en

faut {de tiel hi a} qe ne senblent a vix d’omes».

Si considerino poi le seguenti descrizioni:

«Et iluec il ont montagne, la o li fauchonz pelerin ont lor nid, car

sachiés qu’il n’i a homes ne femes ne bestes ne osiaus for che une

mainere d’osiaus qe sunt apelés bargherlac, des qeles les fauconz

se passent: il sunt grant come perdis, il ont fait les piés come

papagaus, la coe come rondiaus, il sunt mout volant»

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(F, LXX, 11-15);

«Sachiés tout voiramant que il est une peitete beste de le grant

d’one gaçelle, mes sa faison est tel: elle a poil de cerf mol<t> gros,

les piés come gacelle, corne ne a pas, coe a de gacelle, mes elle a

quatre dens, deus de sot et de ssovre qe sunt lonc bien trois doies

et sont soutil et vunt le deus en sus et les deus in jus. Elle est belle

beste»

(F, LXXI 20-25);

«Il hi a cinq mainere de grues, les quelz voç diviserai. L’une

mainere est toutes noire come corbiaus et sunt mout grant. Le

autre mainere sunt toute blance; les eles ont mout belles, car por

toutes les pennes ont plein des iaux reont con celz dou paon, mes

sunt de color d’or mout resprendisant; le chief o<n>t vermoil et

noir, et blançe au cou, et sunt greingnor que nulle de l’autres

assez. La tierçe mainere sunt de fasionç des nostre. Et la quarte

mainere sunt peitete; el ont <a> les oreilles pennes lonc,

vermoilles et noir mout belles. La quinte maineres sunt toutes

grige; les chief ont vermoiles et noires mout bien faites, et sunt

grandismes»

(F, LXXIII, 51-60);

«Il hi naist encore giraffe aseç que molt sunt belles couses a veoir.

Elle est fate en tel mainere com je voç deviserai. Or sachiés qu’ele

a cort corsajes et est auques basse dereire, car les janbes derieres

sunt petites e les janbes devant e le cuel a mot grant, si que la teste

est bien aute da tere entor de .III . pas. Elle a peitet teste et ne fait

nul mal. Elle est de color toute roge e blance a roelles, e ce est

mout belle couse a veoir»

(F, CXCI, 19-25);

«Et si voç di encore un autre couse: car sachiés tuit voiremant que

il ont montonz que ne ont orilles ne{s} les pertuis des oreilez, mes,

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la on les oreilz devoit estre, a un peitet cornet; il sunt petites bestes

et beles»

(F, CXCIV, 18-21).

Esaminandole, noteremo come le righe trascritte riportino sia descrizioni di animali

già familiari alla ricezione (gru e montoni) che di bestie esotiche sconosciute o della cui

esistenza è Marco a mettere a parte i lettori.

La prima e la terza rappresentazione sono accomunate dal fatto che in esse il Polo

si serve di riferimenti ad esseri viventi ben presenti al pubblico medievale. Ciò avviene sia

nell’ambito dell’individuazione dei tratti peculiari delle varie tipologie di gru, diffuse nel

Vecchio Continente e delle quali veniamo a sapere che se talune sono noire come

corbiaus, talaltre mostrano iaux reont con celz dou paon ed altre ancora sunt de fasionç

des nostre, sia nel brano che il Veneziano dedica alla presentazione dell’ uccello

conosciuto col nome di bugherlac: affinché i lettori possano figurarsi l’aspetto di questo

volatile estraneo agli habitat europei, il viaggiatore fornisce elementi che consentono il

paragone con esseri viventi noti, quali le affermazioni il sunt grand come perdis, il ont fait

les piés come papagaus, [il ont] la coe come rondiaus.

Capita, poi, che il mercante veneziano riesca a dare vita a convincenti

raffigurazioni di animali esotici senza la necessità di sfruttare riferimenti a bestie che

popolano il continente europeo, come nel caso delle giraffe: in effetti, la descrizione

appare dettagliata e, poiché contiene puntuali informazioni circa proporzioni e colori,

consente al pubblico di farsi una precisa idea di questo mite animale (ne fait nul mal) che

prolifera sull’isola di Zanzibar.

Le descrizioni analizzate, dunque, tratteggiano animali simili a taluni del Vecchio

Continente, così come specie esotiche estranee alla quotidianità occidentale, ma in ogni

caso si ha la percezione di un patrimonio faunistico dai contorni realistici che, per questa

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ragione, prende facilmente corpo nell’immaginario degli uomini europei medievali. Ciò è

valido anche per quei ritratti che si distinguono per la presenza di elementi piuttosto

singolari. Il quinto brano citato, ad esempio, riferisce di una razza di montoni privi sia

delle orecchie che del pertugio delle orecchie, le quali risultano sostituite da due piccole

corna. Il secondo passaggio, invece, sebbene Marco faccia ricorso, ancora una volta, a

paragoni con animali non ignoti all’Europa medievale, al fine di veicolare con efficacia le

fattezze della bestiola simile alla gazzella di cui offre una sobria descrizione, (une peitete

beste de le grant d’one gaçelle; elle a poil de cerf mol<t> gros, les piés come gacelle; coe

a de gacelle), sbalordisce un po’ la ricezione nel momento in cui l’autore, dopo aver

affermato che «est belle beste», espone nei dettagli il curioso modo in cui viene recuperato

l’odoroso muschio secreto dall’animale osservato e che poco prima il testimone aveva

assicurato essere «le meillor mosce et le plus finz que soit au monde»216:

«Le moscee se treuve en ceste mainere, car, quant l’en l’a prise, il

li treuve eu belic enmi sout le ventre, entre le cuir et la char, une

posteume de sanc le qel l’en la trince cum tout le cuir et l’an trait

hors: et cel sanc est le moscee de coi vient si grant odor»

(F, LXXI, 25-29).

L’analisi di questi ultimi due stralci, in aggiunta a quanto sin qui visto, si può

considerare paradigmatica di come numerose descrizioni presenti nel Devisement dou

monde siano attraversate da tenui sfumature di meraviglia, senza che tuttavia ciò conduca

al travalicamento dei limiti del realismo.

La situazione muta, invece, in sezioni del libro di viaggio del Veneziano nelle quali

il lettore viene messo di fronte a realtà decisamente più sbalorditive.

216 F, LXXI, 18-19.

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Prendiamo il caso del coccodrillo.

«Et en ceste provence naisent les grant colunbres et celes grant

serpanz que sunt si desmesuréç que tous homes en doient avoir

mervoille, et sunt mout ydeuse chouse a veoir et a regarder; et voç

dirai comant elles sunt grant et groses. Or sachiés por verité qe hi

a de longues .X. pas, que sunt groses, car elle girent environ .X.

paumes, et ceste sunt les greingnor; elle ont .II . janbes devant, pres

au chef, qe ne ont piés for une ongle faite come de faucon ou

come de lion; le{s} chief ha mout grant et les iaus tielz que sunt

greingnor que un pain; la boce si grant que bien engloiteroit un

home a une foies; les dens a grandisme: ele est si desmesuremant

grandismes et fieres que ne est ne homes ne bestes qe ne les dotent

et que n’en aient paor. [...] Sachiés qu’eles demorent sout tere le

jor, por le grant chaut; et la noit oisse hors por paschorer, et

men<j>ue et pren{en}t toute les bestes qe puet atendre. Ele vait a

boire es fluns et en lac et a fontaines. Elle est si grant et si peisant

et si grose qe quant elle vai{n}t par le sablon, ou per mengier ou

por boir, et ce est de nuit, ele fait si grant fousee en sablon qu’il

senble qe soit voutee une bote de vin plene. Et les chaceor, qe

propemant vont por celles prendre, [...] quant il le ont prise, il le

t<r>aient le fel dou ventre et le vendent mout chier, car sachiés

qu’il s’en fait grant mecine, car, se une home est mordu de chien

arabieu, l’en done a boir un pou, le pois do’n petit diner: il est

guer<i>s mantinant. Et encore, quant une dame ne puet enfanter et

a poine et crie formant, adon li donent de cel fel del serpens un

pou, et adonc la dame, tantost qe le a beu, enfant mantenant. La

terce est qe quant l’en a aucune nasence, et l’en hi met sus un pou

de cest fel, et adonc est gueri en pou des jors»

(F, CXVIII, 9-21; 23-30; 40-47).

Prima di intraprendere l’analisi del brano appena trascritto, è innanzitutto

necessario far presente che il coccodrillo era un animale noto a Marco e ai suoi

contemporanei, conosciuto già nel mondo antico e del quale ampiamente riferivano i

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bestiari altomedievali e di epoca successiva217. In effetti, taluni dei dettagli che il nostro

riporta nel suo resoconto riprendono contenuti solitamente immancabili nelle sezioni dei

bestiari dedicate al coccodrillo: informazioni fornite dal Polo quali quelle relative alle

notevoli dimensioni del rettile osservato, al fatto che possiede due piccole zampe vicino al

capo senza piedi ma con un’unghia simile ad un artiglio, alla sua capacità di attaccare ed

ingoiare un uomo grazie alle sue fauci e ai denti aguzzi e alla sua predilezione per il riposo

in ambienti sotterranei durante le ore più calde del giorno, si possono giustappunto

incontrare, per citarne alcuni, nel Fisiologo, nel Bestiaire di Philippe de Thäun, nel

Bestiaire d’Amours di Richart de Fornival, nel Libro sulla natura degli animali o nel

Bestiaire divin di Guillaume le Clerc.

Precisato ciò, viene però spontaneo chiedersi per quale ragione l’autore del

Devisement non si riferisca all’animale in oggetto con il nome di coccodrillo, ma lo

chiami, al contrario, colunbre e grant serpanz218. Può rappresentare un elemento utile alla

soluzione della questione l’indugiare del Veneziano sull’illustrazione del valore

terapeutico del fiele da esso ricavato. Questo consentirebbe, dando credito al racconto di

Marco, di guarire all’istante dal morso di un cane rabbioso o da qualsiasi forma di tumore

e alle donne con difficoltà a partorire di sgravarsi immediatamente. Il fatto che le proprietà

elencate risultino, a onor del vero, piuttosto inverosimili porterebbe a ritenere che il Polo

mirasse ad ottenere il ritratto di un essere vivente dai contorni fantastici. Per avvalorare

tale ipotesi è possibile considerare anche quanto messo in luce da Faucon, ossia la tecnica

descrittiva impiegata nelle righe in esame dal viaggiatore; questi, infatti, segmenta la

217 Si vedano le osservazioni di Montesano, in Marco Polo, pp. 176-177. 218 Nell’Occidente medievale il coccodrillo era, per l’appunto, conosciuto col nome di corcodrillus o corcatris (Marco Polo, pag. 175, ma anche J.-C. Faucon, La représentation de l’animal par Marco Polo, pp. 105-106, in «Médiévales», 32, 1997, pp. 97-117).

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rappresentazione del coccodrillo in più parti, mettendole poi in relazione con qualcosa di

già conosciuto dal pubblico cui egli si rivolge219.

Tutti questi elementi si sommano all’enfatica insistenza del mercante veneziano

sulle sbalorditive proporzioni del rettile («voç dirai comant elles sunt grant et groses», «la

boce si grant que bien engloiteroit un home», «les dens a grandisme», «ele est si

desmesuremant grandismes», «Elle est si grant et si peisant et si grose qe quant elle

vai{n}t par le sablon [...] ele fait si grant fousee en sablon qu’il senble qe soit voutee une

bote de vin plene») e sul timore che esso inevitabilmente suscita nell’uomo («ne est ne

homes ne bestes qe ne les dotent et que n’en aient paor»), per esprimere i quali viene fatto

ricorso non solo all’aggettivo grant e al superlativo grandisme, in un caso affiancato e

rafforzato dall’avverbio desmesuremant, bensì pure, e con frequenza, a strutture

consecutive («la boce si grant que», «Elle est si grant et si peisant et si grose qe»).

Tutto ciò, in aggiunta al generale senso di stupore che trasuda dalle parole del

testimone e che giunge al pubblico in maniera molto diretta in virtù dell’impiego,

all’interno di una costruzione ancora una volta consecutiva, del termine mervoille da parte

dei coautori, («les grant colunbres et celes grant serpanz [...] sunt si desmesuréç que tous

homes en doient avoir mervoille, et sunt mout ydeuse chouse a veoir et a regarder»), pare

concorrano a fissare dinanzi gli occhi del lettore l’immagine di un essere mostruoso

composito220.

La tecnica descrittiva appena vagliata, (e peraltro molto diffusa negli scritti

medievali221), viene impiegata anche nell’ambito della forse più nota fra le

rappresentazioni di animali, quella dell’unicorno:

219 Si esamini, ad esempio, il seguente passaggio: «[...] ne ont piés for une ongle faite come de faucon ou come de lion». 220 La représentation de l’animal par Marco Polo, pag. 106 e nota n.° 18. 221 Ivi, pag. 106 e Marco Polo, pag. 180.

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«Il ont leofans sauvajes. Et ont unicornes aseç, qe ne sunt mie

guieres moin qe un leofans. Il sunt dou poil dou bufal; les piés a

fait come leofant; il a un cor en mi la front mout gros et noir, et

voç di qe il ne fait maus <con cel cor mes> con sa langue, car il a

sus sa langue l’espine mout longues, si qe le maus qe il fait, <le

fait> con <la> langue; il a le chief fait come sengler sauvajes et

toutes foies porte sa teste encline ver tere e demore mout

voluntieres entre le bue et entre le fang: elle est mout laide beste a

veoir. Il ne sunt pas ensi come nos de ça dion et deviçon, qe dient

q’ele se laise prendre a la pucelle; mes vos di qu’il est tout le

contraire de celz qe nos qui dion qe il fust»

(F, CLXV, 31-41)

Anche in queste righe si notano la segmentazione del ritratto e gli accostamenti tra

parti del corpo dell’unicorno ed elementi caratteristici di animali familiari alla ricezione:

«Il sunt dou poil dou bufal», «les piés a fait come leofant», «il a le chief fait come sengler

sauvajes». Con il mitico animale caro alla tradizione medievale occidentale, Marco

sembra però comportarsi in maniera diversa che col coccodrillo. Anzitutto il Polo parla di

una bestia dall’aspetto per nulla gradevole («elle est mout laide beste a veoir»), immagine

ben distante da quella di un animale simile ad un capretto veicolata, ad esempio, dal

Fisiologo o dal Bestiaire di Philippe de Thäun222. Inoltre, il Veneziano fa sapere che

l’unicorno non è affatto la creatura che si lascia catturare da una fanciulla vergine, come

tramandato in Europa («Il ne sunt pas ensi come nos de ça dion et deviçon, qe dient q’ele

se laise prendre a la pucelle»), ma che è anzi «tout le contraire de celz qe nos qui dion qe il

fust». Così facendo egli giunge, in buona sostanza, a sgretolare quell’aura di mistero che

circondava questo animale e che sembra, al contrario, voler creare attorno alla figura del

coccodrillo.

222 Fisiologo, cap. XVI, in Bestiari medievali, Torino, Einaudi, 1996, pag. 38; Bestiaire di Philippe de Thäun, righi 393-396, (Ivi pag. 134).

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Un atteggiamento smitizzante pare riservato anche ad un’altra creatura nota agli

abitanti del Vecchio Continente, il grifone, il mitologico essere per metà aquila e per metà

leone presente già nella tradizione greca ma caro, in seguito, anche a quella cristiana223.

«Et encore sa{c}hiés tout voiremant qe en celes autres ysle, qe

sunt si grant quantité ver midi, la ou les nes ne alent mie

volunitieres por la corent qe cort celle part, {et} dient les homes

que la se treuve{s} des oisiaus grifon, e dient que celz oisiaus hi

aparurent certes estaisonz de l’an. Mes si sachiés que il ne sunt

mie fait ensi come nostres jens de sa cuident e come nos les faison

portraire: ce est que nos dion qu’il est mi hosiaus et mi lyonç; mes,

selonc {qe} celz qe le ont veu content, ce ne est pas verité que il

soient mi oisiaus et mi lyon. Mes voç di qe il dient, celz qe le ont

veu, qe il est fait tout droitmant come l’aigle, mes il dient qu’il est

demisoreemant grant; et voç en diviserai de ce que dient celz que

l’ont veu»

(F, CXC, 38-49).

Come si evince dal brano riportato, l’autore del Milione, giunto nelle terre nei

dintorni di Zanzibar, non ha la fortuna di ammirare personalmente il grifone, ma ha modo

di ascoltare i racconti degli indigeni, i quali riferivano di un enorme uccello, simile ad una

gigantesca e possente aquila, diffuso in quei luoghi. È in questa creatura che il nostro

riconosce il mitico animale alato.

Ciò che è interessante considerare, però, è il prosieguo della descrizione:

«Il dient que il est si grant et si poisant que il prenent l’alifant et

l’enporte en l’air bien aut; puis le laise ceoir en tere si que le

l<e>ofant se desfait tuit. Et adonc le oisiaus griffon le bece e

manue e se paise sor lui. Il dient encore, celz quel es ont veu, que

223 Marco Polo, pp. 182-183.

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seç eles ovrent .XXX . pas e que sez pennes d’eles sunt longues .XII .

pas; grosismes sunt come il est convenable a lor longesse»

(F, CXC, 49-55).

Le righe citate dipingono un volatile dalle dimensioni stupefacenti e dotato di una

forza tanto impetuosa da consentirgli perfino di sollevare un elefante. Ciò è

esemplificativo del fatto che in questa descrizione convivono la volontà di Marco di

riportare i tratti caratteristici della figura del grifone entro i confini della verosimiglianza,

(cosa che si evince dalla smentita poliana della natura polimorfica della creatura224), con la

persistenza di elementi di carattere meraviglioso, quali l’eccezionale vigore (per dare

l’idea del quale il Veneziano opta per una costruzione consecutiva: «il est si grant et si

poisant que il prenent l’alifant et l’enporte en l’air») e le dimensioni spropositate dell’animale

(per veicolare le quali, invece, il testimone non manca di ricorrere all’uso di unità di

misura nelle frasi «seç eles ovrent .XXX. pas» e «sez pennes [...] sunt longues .XII. pas», né

a quello del superlativo assoluto grosismes).

Tale panoramica è esemplificativa dell’approccio tenuto dal nostro in merito alla

descrizione di quanto da lui vissuto nel continente asiatico: se da un lato, e nella maggior

parte dei casi, percepiamo che il Polo si sforza di essere «veritiero e senza niuna

menzogna», in talune occasioni ci ritroviamo di fronte ad un testimone portato a «ritrarre

le cose secondo l’animo piuttosto che nella loro obbiettività e scientifica realtà»225. Così, il

fatto che Marco ritenga veritieri i racconti delle popolazioni autoctone relativi all’esistenza

del portentoso grifone nelle isole nei pressi di Zanzibar si può ritenere non sia dovuto alla

sua ingenuità, o perlomeno non solo a questa: dal momento che nell’antichità erano

224 Marco Polo, pag. 183, dove Montesano parla di «spirito bastian contrario» del Veneziano. 225 Lo sottolinea con precisione Olschki in Storia letteraria delle scoperte geografiche, pag. 9, dove l’autore parla di una sorta di commistione tra esperienza e fantasia e dell’influenza del bagaglio culturale («Esperienza e fantasia s’appuntano di volta in volta sugli aspetti geografici veduti e descritti, guidate entrambe da indirizzi spirituali dominanti e da reminiscenze letterarie prevalenti che insegnano a contemplare e a ritrarre le cose secondo l’animo piuttosto che nella loro obbiettività e scientifica realtà»).

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proliferati scritti su essere fantastici quali il grifone, appunto, e l’unicorno, se nel caso

della bestia col corno in mezzo alla fronte a prevalere è l’effettività di quanto osservato, in

altre situazioni il viaggiatore non riesce a fare a meno di veder materializzati davanti a sé

contenuti del bagaglio di informazioni prodotto da quella «tenace erudizione biblica,

classica e scolastica» che menziona pure l’Olschki226.

In buona sostanza, quanto esposto in queste pagine palesa, con riferimento a quello

che potremmo definire il “bestiario poliano”, il rapporto tra un regime complessivo di

verosimiglianza ed elementi che discendono dai mirabilia Indiae e dai quali dipendono le

suggestioni del viaggiatore.

226 A pag. 2 della sua Storia letteraria delle scoperte geografiche. In proposito, si vedano pure le considerazioni dello studioso alle pp. 26-27 dell’opera in oggetto.

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CAPITOLO V

Il meraviglioso etnografico

Scorrendo le pagine del Devisement dou monde, non possono non balzare agli

occhi gli ampi spazi dedicati dal suo autore all’indagine di pratiche religiose e costumi

sociali delle popolazioni incontrate nell’estremo Oriente227. In tutta questa messe di dati, è

lecito domandarsi se siano presenti riferimenti ad alienità antropologiche, dal momento

che fin dai tempi di Ctesia di Cnido e Megastene228 esseri mostruosi venivano

«geograficamente localizzati con una certa regolarità, tanto che alcuni di essi, come

l’araba fenice, i pigmei, i cinocefali e i monopodi d’Asia, divennero nei libri, nelle carte e

sui mappamondi l’elemento distintivo di regioni esotiche e inesplorate»229: in particolare,

erano l’India e le regioni dell’Estremo Oriente ad essa limitrofe ad essere divenute, per un

«quasi comune consenso», la patria di siffatte creature230.

Se «scoprire non significava soltanto trovare delle cose nuove, ma in primo luogo

riconoscere nella realtà ciò che l’immaginazione e una fede tradizionale davano per

esistente»231, si comprende come mai gli esploratori occidentali ricercassero e credessero

di ravvisare durante la loro esperienza odeporica «quei fenomeni che una vasta letteratura

227 Montesano riporta i dati risultanti da un lavoro del 1992 di Reinhold Jandesek (Das fremde China: Berichte europäischer Reisender des späten Mittelalters und der frühen Neuzeit), il quale portava alla luce il fatto che il 18% della narrazione poliana è costituita da informazioni relative alla sfera dell’antropologia culturale così distribuite: 10,5% costumi religiosi e 7,5% i costumi i generale (Marco Polo, pag. 231 e nota n.° 1). 228 Sebbene già molti antichi non gli dessero credito, il primo fu un autore molto letto che sostenne, ad esempio, l’esistenza nelle Indie di esseri dalle grandi orecchie o che si facevano ombra coi propri piedi, di animali fiabeschi chiamati marticore, che erano l’incrocio tra un uomo, un leone ed uno scorpione, e di nani neri (Incontri con la Cina, pp. 25-26), mentre il secondo «compose un vero e proprio museo delle cere di pieveloci, esseri dalle grandi orecchie [...], esseri con un occhio solo, con i piedi all’indietro, senza bocca e senza naso, Pigmei, figure paniche con le teste a punta e formiche cercatrici d’oro, Necrofagi e uomini selvatici» (Ivi, pp. 26-27). 229 Storia letteraria delle scoperte geografiche, pag. 26. 230 Ivi, pp. 26-27. 231 Ivi, pag. 21.

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poetica e dottrinale aveva impressi nella loro mente con autorità e con insistenza»232: si

pensi, ad esempio, a Guglielmo di Rubruck, il quale confessava di essersi informato, nel

corso del suo viaggio in Asia, circa l’esistenza in quei luoghi di mostri o uomini

mostruosi233.

In merito a questo aspetto dei contenuti del Milione, si può constatare come lo

stesso Marco Polo non manchi, talvolta, di alimentare credenze favolose radicate nella

cultura medievale occidentale.

Ciò accade, per esempio, in concomitanza dei capitoli in cui il nostro non si sottrae

alla descrizione dei cinocefali. Degli uomini dalla testa di cane, abitanti le frontiere

estreme della Terra e capaci di esprimersi solo con suoni a metà tra parola umana e versi

animali234, narrava una lunga tradizione occidentale avente come principale fonte le Indika

di Ctesia di Cnido235. Quest’opera del V sec. a.C., che dischiuse al Vecchio Continente le

porte dell’Oriente mirabile, veicolava una leggenda greca (probabilmente di origine

siriana), secondo la quale remote regioni indiane erano popolate dalla razza degli

hémikunes (“metà cani”), chiamati anche kunoképhaloi (“testa di cane”)236.

In un lavoro da lui dedicato all’indagine di talune deformi ed inquietanti creature

che hanno a lungo popolato fantasie e paure collettive della cultura occidentale237, Paolo

Vignolo, dopo aver posto in rilievo quelli che sono stati i canali attraverso i quali le notizie

232 Storia letteraria delle scoperte geografiche, pag. 21. 233 Marco Polo, pag. 231. 234 Queste righe riprendono la descrizione offerta nel suo saggio dal titolo Cannibali, giganti e selvaggi da Paolo Vignolo, il quale prosegue sostenendo che l’eccezionalità di questi esseri risieda non solo nelle loro caratteristiche sia fisiche che comportamentali, bensì pure nella loro persistenza nel tempo (Ivi, pp. 41-42). 235 Olschki, in merito, fa presente che favole come quelle dei cinocefali furono ben documentate da scritti dottrinali classici, raggiungendo il maggior grado di popolarità grazie ad opere in volgare, (egli fa riferimento, in particolare, alla lettera del Prete Gianni, alle narrazioni delle imprese di Alessandro Magno, all’ Image du Monde di Gossuin di Metz e al Tresor di Brunetto Latini), che le diffusero «nelle forme più adatte a colpire la fantasia degli illetterati» (Storia letteraria delle scoperte geografiche, pag. 27). 236 La puntuale e particolareggiata descrizione di Ctesia dipinge figure col corpo di uomo e la testa canina, che si nutrono di alimenti crudi, dormono su letti di foglie, hanno rapporti sessuali a quattro zampe come i cani, possono raggiungere i 200 anni di vita e comunicano tra loro abbaiando: un quadro, questo, che restituisce l’immagine di una creatura definibile quale «anello di congiunzione tra esseri umani e animali» (Cannibali, giganti e selvaggi, pag. 42). 237 Il già citato Cannibali, giganti e selvaggi.

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sui cinocefali hanno attraversato i secoli, approdando fino all’età rinascimentale238,

rimarca la non univoca interpretazione medievale di questa tradizione: nel Medioevo, in

effetti, se i cinocefali venivano talvolta descritti come feroci guerrieri, in altri casi erano

considerati esseri ripugnanti ma pacifici239.

In ogni caso, al di là di tale ambivalenza, a dimostrazione della potenza

dell’illusione generata dalla tradizione dei cinocefali rimangono i resoconti di non pochi

viaggiatori europei, nei quali viene fatto ripetutamente cenno all’esistenza di tali creature

nelle lande indocinesi: si pensi, fra gli altri, all’ Historia Mongalorum di Giovanni da Pian

del Carpine, il quale localizza i cinocefali nell’Armenia e in Comania240, o alla Relatio di

Odorico da Pordenone, che li situa, invece, nelle isole Nicobare dell’Oceano Indiano241.

Il Veneziano, dal canto suo, sostiene di aver incontrato gli uomini dalla testa

canina nell’isola Angaman (le isole Andamane, nel Golfo del Bengala242), poche pagine

dopo aver offerto un breve ma significativo ritratto degli uomini caudati abitanti del regno

di Lambri (Lamuri, nell’isola di Sumatra243). Ciò è testimoniato dai due passaggi che

seguono:

238 Vale a dire il Roman d’Alexandre e la scuola filosofica del cinismo; se la prima opera concorse alla circolazione delle leggende sull’esistenza dei cinocefali, in essa raffigurati come «esasperazione mostruosa di popoli barbari», la seconda coinvolse le suddette creature nelle discussioni concernenti la questione del linguaggio (Cannibali, giganti e selvaggi, pag. 43). 239 «[...] i Cinocefali, da Ctesia ancora descritti come inermi, non bellicosi, frugali e giusti, appaiono nella saga di Alessandro, e nelle lettere fantastiche su di essa foggiate, come malvagi e aggressivi, ostili all’uomo. Il Medioevo si sarebbe riallacciato a questa tradizione, piuttosto che a quella più antica, e avrebbe dato più rilievo alla connessione tra sembianza canina e antropofagia, mentre nei primi scritti è solo accennata, e in Plinio compare una sola volta» (Incontri con la Cina, pp. 35-36). Relativamente a ciò, si aggiunga che Vignolo nel suo studio innanzitutto si rifà ad Acosta, il quale asseriva che entrambe queste visioni medievali avrebbero poi alimentato quell’espansionismo europeo dei secoli XV e XVI caratterizzato, allo stesso tempo, da disprezzo e fascino nei confronti delle popolazioni delle terre esotiche (Ivi, pag. 43), e in secondo luogo individua in quel cinocefalo che oscilla «tra l’essere una creatura irriducibilmente mostruosa [...] e una creatura profondamente saggia» lo stato embrionale della figura del selvaggio «che dominerà tutto il processo di colonizzazione simbolica e materiale del pianeta da parte degli europei» (Ivi, pp. 43-44). 240 Storia letteraria delle scoperte geografiche, pag. 22 e nota n.° 22. 241 Ivi, pag. 22 e nota n.° 23. 242 Dal viaggio al libro, pag. 164, nota n.° 19. 243 Ivi, pag. 164, nota n.° 19.

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«Et si voç dirai d’une mainere de jens qe bien fait a conter <en>

nostre livre. Or sachiés tout voiremant qe tuit les homes de ceste

ysle ont chief come chien, e dens et iaux come chiens, car je voç

di qu’il sunt tuit senblable a chief de grant chienz mastin. […] Il

sunt mout cruel jens. Il menuient les omes, tuit cil qe il puent

prandre, puis qu’il ne soient de lor jens»

(F, CLXXI, 2-8);

«Et encore voç conteron une cousse qe bien fait a mervoilier: car

je voç di tout voiremant qe en ceste roiame a homes qe ont coe

grant plus de un paum’ et ne sunt pileuse; et cesti sunt tuit le

plos<o>r. E celz tiel homes demorent dehors as montaignes e ne

pas en cité. Le coe sunt grose come de un chien»

(F, CLXVIII, 8-13).

Se il secondo brano ci restituisce l’immagine di esseri umani «con più di un palmo

di coda»244, il primo stralcio tratteggia dettagliatamente individui col capo, gli occhi ed i

denti simili ad un mastino, cosa che attesta quale decisivo effetto esercitasse la fantasia

letteraria sulle esperienze dei viaggiatori245.

In un altro punto del Devisement, il mercante veneziano racconta di essersi trovato

di fronte a uomini alti, vigorosi e dalla forza così prorompente da meritare l’appellativo di

giganti:

«Les jens sunt grans e gros. Bien est il voir que il ne sunt pas si

aut por raigon come il sunt gros, car je voç <di> que il sunt si gros

e si menbru qu’il senblent jeiant, e si voç di que il sunt

desmesuremant fort, car il portent carique por .III. autre homes, e

ce ne est pas mervoille, que je vos di que il menuie bien viande

a .V. omes. Il sunt tuit noir et vont nus for que il se covrent lor

nature. Il ont les cavoilz si crespi que a poine con l’eive se poroit

244 Il Milione, edizione a c. di L. F. Benedetto, pag. 299. 245 Storia letteraria delle scoperte geografiche, pag. 22.

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faire estendre. Il ont si grant boche e les nes si rebufés e les levres

e les iaus si gros que sunt a veoir mot orible cousse, car qui les

veïse en autre contree l’en diroit qu’il fuissent diables»

(F, CXCI, 3-12).

I giganti hanno costituito sin dall’Antichità una rilevante presenza

nell’immaginario culturale occidentale: il fatto che sia possibile incontrare tali creature

non solo nella ricca mitologia greco-romana, bensì pure in altre tradizioni folkloriche,

quali quella germanica, slava e scandinava, ha contribuito ad alimentare, nei secoli, le

credenze in merito alla loro esistenza. Se si considera, poi, che di tali figure fanno

menzione anche le Sacre Scritture246, si ha la misura dell’importanza assunta nell’ambito

del patrimonio culturale europeo dal gigantismo.

Quest’ultimo sembra legato a quella che viene definita da Bachtin “paura

cosmica”, ossia il timore dell’essere umano di ciò che è spropositato e che, di

conseguenza, egli non ha modo di controllare247.

Un’ultima osservazione che può essere fatta parlando di giganti è quella

riguardante la pluralità di caratterizzazioni: effettivamente, la figura dell’essere

smisuratamente grande si contraddistingue talvolta per l’eroismo e la magnanimità, ma in

altre circostanze non cela un’indole crudele 248.

Esaminando, nello specifico, il brano desunto dal Milione, la natura degli abitanti

di Zanzibar incontrati dal Polo non è immediatamente individuabile. Un indizio, però,

appare rappresentato dal loro raccapricciante aspetto fisico (contraddistinto da cavoilz

crespi, grant boche, nes rebufés, levres e iaus gros) che, in aggiunta alla pelle nera (sunt

tuit noir) e all’inumano comportamento (il portent carique por .III . autre homes, e ce ne

246 Come fa presente Vignolo a pag. 120 di Cannibali, giganti e selvaggi, dove è riportato il brano della Genesi in cui vengono evocati i giganti. 247 Ivi, pag. 120. 248 Ivi, pag. 120.

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est pas mervoille, que [...] il menuie bien viande a .V. omes), induce a pensare di trovarsi

di fronte ad esseri diabolici (qui les veïse [...] l’en diroit qu’il fuissent diables).

In buona sostanza, quanto visto avvalora l’idea che immagini mostruose facciano

parte del bagaglio culturale che i viaggiatori europei portano con sé nelle loro

peregrinazioni dall’altro capo del mondo, ragion per cui il pensiero di Marco, non appena

questi si ritrova di fronte ad individui nerboruti dall’aspetto perturbante, immantinente

corre ai giganti della tradizione popolare occidentale.

In conclusione, è possibile asserire che il Polo, ad eccezione di circoscritti cenni a

cinocefali, uomini caudati e “giganti”, (alla cui origine stanno, presumibilmente,

condizionamenti culturali e la determinazione di assecondare il pubblico249), non dedica

spazi del Milione alla descrizione di popoli mostruosi, né si informa in merito alla

presenza nelle lande indocinesi di esseri deformi noti fin dalla tradizione classica quali, ad

esempio, sciapodi e blemmi250. Il Veneziano arriva, anzi, addirittura a smentire l’esistenza

dei pigmei; come si evince dalle righe seguenti, il nostro rivela di ritenere che i pigmei

non siano altro che “scimmie contraffatte”251:

«Et si vos vuoil dir et faire conoistre qe celz <qe dient> qe

aportent les petit homes de Yndie, est grande mensoingne e grant

deceverie, car je voç di qe celz qe cil dient, qe sunt homes, se font

en ceste ysle, e voç dirai comant. Il est voir que en ceste ysle a une

mainere de singes qe sunt mout pitetes et ont les vix que senblent

249 «Gli uomini che abitano il mondo dell’altro sono le forme accreditate dalla tradizione», sebbene descritte «come appartenenti a società organizzate» (Miti geografici e immagini dell’altrove dal VII al XVI secolo, pag. 16). 250 Come rimarca Montesano, Marco Polo, pag. 232. Interessante è anche notare, rimanendo nell’ambito delle notizie fornite da Marco in merito alle popolazioni con cui è entrato in contatto, quanto rilevato da Zaganelli, ossia che «quando gli uomini entrano in campo la meraviglia svanisce. Svanisce, innanzitutto, sulla soglia di ciò che, del mondo degli uomini, a buon senso diremmo più di ogni altra cosa capace di suscitare stupore e cioè la forma del viso, il taglio degli occhi, le proporzioni del corpo» (Viaggiatori europei in Asia nel Medioevo, pag. 161). Si può insomma dire che nel Milione «la diversità somatica non è fonte di meraviglia e addirittura su di essa si stende il silenzio» (Ivi, pag. 161) e che, come si vedrà in seguito, «la mancata insistenza sulle differenze somatiche è [...] compensata da una fortissima attenzione per quelle etnologiche» (Ivi, pag. 162). 251 Marco Polo, pag. 232.

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homes. Or les homes prennent celz tiel singes e le pellent toute et

le laisent les poilz en la barbe et au peterin; puis les font secher e

le metent en forme e l’adobent con canfora e con autre couse, en

tiel mainere q’ele senblent qe soient est<r>e home, e ce est une

grant deceverie car il sunt fait en tel mainere com voç avés oï, car

en toute Yndie, ne en autre pars plus sauvajes, ne furent onques

veu nul si peitet homes come celz senblent»

(F, CLXV, 45-56).

Verificata questa caratteristica di carattere contenutistico del Devisement dou

monde, che può essere fatta risalire a quell’indole di puntuale osservatore realistico

provvisto di una certa indipendenza dalle auctoritates propria di Marco252, ci si può

interrogare sull’eventualità che il meraviglioso poliano risieda nella descrizione di usi e

costumi asiatici253, aspetti cui, a ben guardare, il Veneziano rivolge costantemente la sua

attenzione254.

Innanzitutto, agli occhi di un uomo europeo di epoca medievale dovevano parere

disturbanti taluni comportamenti aventi a che fare con le relazioni familiari. Tra questi non

si possono non citare consuetudini quali:

� quella caratteristica della provincia di Camul, in base alla quale un uomo che

ospiti in casa propria un forestiero permette a questi di giacere con la propria

moglie:

«Et voç di que se un forester li vient a sa maison por hebergier, il

en est trop liés: il conmande a sa feme qu’elle face tout ce que le

forestier vuelt et il se part de sa maison et vait a fer seç fait et

252 Dal viaggio al libro, pag. 164. 253 Ipotesi peraltro esternata anche da Montesano (Marco Polo, pag. 233). 254 Olschki rileva come, ad esempio, i dati più strettamente geografici del suo libro appaiano «quasi secondari e casuali, e più incerti, più vaghi e talvolta contradditorii» rispetto alle notizie riguardanti le religioni, la lingua e i costumi degli orientali (Storia letteraria delle scoperte geografiche, pag. 167). Pure Zaganelli fa presente che «Marco Polo non dimentica mai di dirci qual è la religione delle popolazioni che incontra, di spiegarci come esse si nutrano, come si vestano, come si sposino, come muoiano» (Viaggiatori europei in Asia nel Medioevo, pag. 162).

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demore deus jors ou trois; et le fo<re>ster demore avec sa feme

en la maison et fait a sa volunté et jut con elle en un lit, ousi com

ce elle fusse sa feme, et demorent en gran seulas»

(F, LVIII, 9-14);

� quella seguita in tutta la provincia di Gaindu, per cui il padrone di casa,

credendo di ottenere il favore degli dei, concede mogli e figlie a forestieri per

tutto il tempo che vogliono255:

«Et voç di que en ceste provence a un tel costumes de lor femes

con je vos dirai: car il ne ont a vilanie se un forestier ou autre

home l’aunis de sa feme ou de sa file ou de sa seror ou d’aucune

feme qu’il aie en sa maison, mes l’ont a bien quant l’en jut con

eles, et dient qe por ce faite le lor dieu et les lor ydres font miaus

elz et donent eles de les couses temporaus en grant abondance, et

por ce en font si grant largité de lor femes as forestier com je vos

dirai»

(F, CXVI, 12-18).

Lo stupore che il testimone condivide coi suoi lettori è estrinsecato nel primo caso

dall’affermazione «Et tuit celz de ceste cité et provence sunt auni de lor feme: mes je voç

di qu’il ne le se tienent a vergogne»256 e nel secondo dall’attribuzione dell’appellativo

“meschino” all’uomo che accoglie tale pratica («Et vos di que maintes foies hi demore

trois jors et se jut ou lit cun la feme de celui çaitif»257; «Et le cheitif, tant com il voit celui

son sengnaus a sa maison, ne i torne mie»258)259.

255 Della loro presenza essi avvertono il capofamiglia con segnali quali, ad esempio, un cappello appeso alla porta: «[...] il fait pe<n>dre son capiaus ou aucuns autre seingneaus, et ce est significance qu’il soite laie<n>s. Et le cheitif, tant com il voit celui son sengnaus a sa maison, ne i torne mie» (F, CXVI, 27-29). 256 F, LVIII, 14-16. 257 F, CXVI, 24-25. 258 F, CXVI, 29-30. 259 La versione di Benedetto dà pure contezza del tentativo, fallimentare, del Gran Khan di estirpare tale pratica motivata dalle credenze religiose cui si è fatto cenno (Il Milione, pag. 190).

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Degli abitanti di Campciu nel Tangut, dei territori nei pressi di Caracoron e del

regno di Coilum, invece, colpisce il Veneziano l’esercizio di poligamia e levirato:

«Il prenent jusque en trente femes, et plus et moin selonc qu’il est

riche et qu’il en puent tenoir. [...] Et encore voç di que se il voit qe

aucune de sez femes ne soit bone e que ne li place, il la pout bien

cacer e fer a sa volunté. Il prenent le cousines por feme et prenent

la feme sun pere; il ne tenent pecchiés mant greu pechiés qe nos

avun, car il vivent come bestes»

(F, LXI, 19-20; 23-27);

«Les mariajes font en cest mainere: car chascun puet prandre

tantes foies con li plet, jusque en cent, se ill a le pooir qu’il le

puese mantenoir. [...] Il prenent lor cousine et, le pere muert, le

sien greingnor fil prent a feme la feme son peire, puis qu’elle ne

soit sa mer. Il prant encore la feme de son frere charnaus, se il

muert»

(F, LXVIII, 47-49; 52-55);

«Les mariajes font en ceste mainere qe je voç dirai: car il prenent

la coisine germaine, il prenent la feme son pere, se il morust, e la

feme son frere ausint»

(F, CLXXIX, 38-40).

Per il Polo la possibilità per gli uomini di queste zone di avere fino a cento mogli,

unita a quella di sposare non solo le cugine, bensì pure le vedove di padri e fratelli, è

sintomatica del fatto che «Il ne tienent a pechiés nul luxurie ne nul pechiés carnaus»260,

cosa che marca lo scarto tra il noi e l’altro («il ne tenent pecchiés mant greu pechiés qe

nos avun») e fa concludere il mercante della Serenissima che «il vivent come bestes»,

asserzione nella quale l’impiego del termine bestes non cela l’aborrimento del testimone.

260 F, CLXXIX, 37-38.

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Hanno sempre a che fare con il legame matrimoniale:

� il rituale del cosiddetto matrimonio postumo, celebrato dai familiari di due

giovani morti prematuramente:

«Et encore voç dirai un autre merveliose usançe qu’il ont, que je

avoie dementiqué a scrivre. Sachiés tout{i} voirmant que quant il

sunt deus homes que le un ait eu un filz masle et soit mort de

quatro anç, o quant il vuelt, et un autre home ait eu une file feme

et soit encor morte, il font mariajes ensenble, car il donent la feme

morte a l’enfans mors por moiler et en font faire carte [...] Et quant

il ont ce fait, il se tenent por parens et mantienent lor parenté ausi

bien com il fuissent vif»

(F, LIX, 96-101; 109-110);

� la consuetudine di ritenere degne di essere sposate non fanciulle vergini,

bensì giovani che abbiano conosciuto un numero consistente di uomini (più

di venti), come spiegato nelle pagine del Milione di cui le righe seguenti

rappresentano una sorta di sunto:

«Il est voir qe nul homes prenneroit une pucelle a feme por rien

dou monde, et dient q’ele ne i vaillent rien se elle ne sunt usés et

costumés co’mant homes [...] et celle qe [...] plus puent mostrer qe

ont eu amant e qe plus homes sunt jeu cun elle, celle est tenue

meior et la prenent plus voluntier et dient q’ele est plus grasieuse

que les autres»

(F, CXIV, 38-40; 54-57);

� l’usanza, propria delle donne del Maabar, di gettarsi nel fuoco sul quale si

sta facendo ardere il corpo del marito defunto, al fine di raggiungerlo

nell’Aldilà:

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«Et encore voç di qe en cest roiames ha encore un autre costume:

que quant un home est mors et son cors se fait ardo<i>r, sa feme

se gette en feu mesme et se laise ardre avec son baron»

(F, CLXXIII, 141-143).

Se nel primo brano l’incredulità di Marco è racchiusa nell’uso dell’aggettivo

merveliose in riferimento all’usançe diffusa presso i Tartari, il secondo passaggio riporta i

dettagli di un costume così sbalorditivamente contrario alla morale occidentale da non

poter essere taciuto (chi scrive parla di «[...] mariajes qe bien fait a dir»261); l’ultimo

passaggio, invece, dà conto di un’altra macabra tradizione, talmente incredibile per un

uomo europeo da spingere il viaggiatore ad assicurare che essa è, in realtà, molto ben

radicata nel Maabar: «e si voç di tout voiremant qe maintes dames font ce que je vos ai

contés»262.

Rappresenta una forma di suicidio anche l’autoimmolazione dei condannati a

morte della medesima provincia:

«Et encore vos di qe en cest roiame a encore un autre costume qe

je vos dirai. Car, quant un ome a fait malefice qu’il doie morir e

que le seingnor le {li} vole fare occire, adonc die celui qe doit

estre ocis qu’il se vuelt occire il mesme por le onor e por l’amor

de tiel ydules. Le roi le dit, que ce vuel il bien, et adonc tous les

parens e les amis de cestui qe se doit ocire le prenent et le metent

sus une caiere et li donent bien .XII . coutiaus e le portent por toute

la cité, e vont disant: “Ceste vailanç homes se vait occire il

meesme por le amor de tel ydules!”. [...] E quant il sunt venu en

leu la o il se fait la justice, adonc celui qe doit morir prent un

cortiaus et crie a aute vox: “Je m’ocie por le amor de tel ydules!”.

[...] El se done tant de cesti coutiaus qu’il s’ocit il meisme» 261 F, CXIV, 60. 262 F, CLXXIII, 144-145.

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(F, CLXXIII, 124-132; 133-135; 138-139).

Leggendo il passaggio proposto risulta chiaro che, al di là dei particolari nei quali

entra chi scrive263, ad accrescere turbamento e meraviglia del lettore occidentale concorra

il fatto che la morte venga autoinflitta nel nome di un idolo, ma altresì l’osservazione

poliana che «quant i se est ocis, seç parens ardent le cors a grant joie»264 non si può dire

non acuisca la distanza dell’uomo europeo medievale rispetto a talune società asiatiche

presso le quali gesti quali quello descritto sono ritenuti la normalità.

È comprensibile, poi, il fatto che colpisca in primis il testimone l’antropofagia

propria di diversi gruppi umani da lui incrociati lungo il suo peregrinare dall’altro capo del

mondo265:

«Mes celes des montagnes sunt tiel come bestes, car je voç di tout

voiramant qu’il menuient cars d’oumes e toutes autres cars, e

boune e mauvase»

(F, CLXV, 19-21);

«Nos desendimes des nes et feimes en terre chastiaus de fust et de

busches, et en celz castia{a}us demoravames por doutance de celz

mauvais homes bestiaus qe menuient les homes»

(F, CLXVI, 7-10);

263 Marco ben illustra le varie fasi del rituale, non mancando di riferire le parti del corpo che ricevono le ferite dei pugnali. 264 F, CLXXIII, 139-140. 265 Autore di un pregevole lavoro sul cannibalismo è lo scienziato tedesco Ewald Volhard, il quale parte da una paziente raccolta di testimonianze sull’esistenza del fenomeno nelle varie parti del mondo, per poi procedere ad un’indagine della molteplicità di forme e cause dello stesso, che lo conduce a distinguere un cannibalismo profano, uno giuridico, uno magico ed uno rituale (Il cannibalismo, Torino, Einaudi, 1949). Nell’elaborato in questione lo studioso osserva che «[...] ogni viaggiatore che abbia avuto sentore dell’esistenza di quest’usanza, o abbia visto qualcosa accennante ad essa, ne ha parlato senz’altro. Proprio perché è considerato qualcosa di così orribile e innaturale, il cannibalismo non potrà mai passare inosservato o sotto silenzio» (Ivi, pag. 436).

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«Car sachiés tout voiremant qe quant aucun d’elz, ou masles ou

femes, chiet amalaides, et adonc mandent lor parens por les

maguis et font veoir se le malaides doit guarir. [...] Ceste homes

vienent e prenent lo malaide e li metent aucune chouse sor la

boche si qe il le font sofoger. E quant il est mort, il le font cuire. E

puis tuit les parens dou mors vienent et le menuient tout. E si voç

di qu’il menuient encore les meroles que sunt dedens les osse. [...]

Et encore voç di, se il puet prendre des autres homes qe ne soient

de lor contree, il le prenent, e, se celui ne se poit rachater, il les

occient e le menuient tot maintenant. Or ce est mult mavese

mainere et male uçanse»

(F, CLXVII, 5-7; 9-14; 23-26).

I tre stralci or ora riportati raccontano della raccapricciante abitudine di cibarsi di

carne umana caratteristica dei popoli residenti nel regno di Ferlec266, nel regno di

Samatra267 e nel regno di Dagroian268. Tra le righe dei suddetti passaggi si palesano, in una

sorta di climax ascendente, lo sbigottimento e la dissociazione rispetto a quanto

documentato del Veneziano. Quest’ultimo, in effetti, facendosi interprete del comune

sentire occidentale:

266 È questa una manifestazione di ciò che Volhard definisce “cannibalismo profano”, ovvero di quella tipologia di antropofagia «caratterizzata in primo luogo dalla mancanza di tutti quegli elementi tendenzialmente spirituali che si trovano in altre forme» (Il cannibalismo, pag. 442) e che non fa una riconoscibile differenza «tra carne umana e un qualsiasi altro genere alimentare» (Ivi, pag. 442), come testimoniato dalla considerazione che gli abitanti del regno di Ferlec «[...] menuient cars d’oumes e toutes autres cars, e boune e mauvase». 267 Anche nel caso dell’isola di Samatra, la mancanza di approfondimenti rispetto alla mera presa d’atto che «celz mauvais homes bestiaus [...] menuient les homes» porta a pensare di aver a che fare con un esempio di cannibalismo profano. 268 Nel narrare l’abitudine, diffusa a Dagroian, di mangiare i forestieri incapaci di riscattarsi, lo stralcio in questione offre anzitutto un altro esempio di antropofagia profana: in effetti, come osserva Volhard, «là dove il cannibalismo viene esercitato per motivi profani, gli individui divorati sono in genere nemici, prigionieri, schiavi, dunque forestieri» (Il cannibalismo, pag. 461). In secondo luogo, però, nelle righe in esame è rilevabile pure un caso di quel cannibalismo rituale che si manifesta quando «la carne umana viene mangiata in base a un dovere rituale e in rapporto a un’azione di culto» (Ivi, pag. 480). Nella fattispecie, ci troviamo di fronte ad un esempio di patrofagia: questa è la più importante forma di “endocannibalismo”, (quello, cioè, «che si palesa nel modo più chiaro nel dovere di mangiare i parenti e amici defunti», Ivi, pag. 496), entro il quale l’usanza più primitiva «è quella di non attendere la morte naturale dei consanguinei, ma prevenirla mediante l’uccisione cerimoniale» (Ivi, pag. 496). Il brano considerato, (il cui contenuto è menzionato anche dal Volhard, Ivi, pag. 501), ci informa, per l’appunto, della pratica di far soffocare i congiunti ritenuti non guaribili per poi cibarsi delle carni, in virtù di quello che si potrebbe definire «un dovere di pietà da parte dei vivi» (Ivi, pag. 463).

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� dapprima si riferisce agli abitanti del reame della Piccola Giava con

l’epiteto di bestes;

� in seguito narra la costruzione di trincee, in un’altra zona della medesima

isola, volte a proteggere da homes bestiaus che non possono che meritare di

essere definiti mauvais;

� infine, riferisce il ripugnante uso degli idolatri di Dagroian di uccidere, per

poi mangiarne le carni, non solo uomini forestieri, bensì pure parenti malati

ritenuti inguaribili dai maghi, costumanza sulla quale il nostro esprime

apertamente il proprio giudizio, veicolato dagli aggettivi mavese e male: ce

est mult mavese mainere et male uçanse269.

Tra le altre tradizioni conosciute nel lontano Oriente, meritano poi menzione quelle

legate alla deformazione artificiale e permanente del tessuto cutaneo. Marco appare

tutt’altro che indifferente a usi di tale genere, tant’è vero che sia della pratica del tatuaggio

della pelle tipica degli abitanti della provincia di Caugigu:

«Les jens toutes comunemant, masles et femes, {s}unt toutes lor

charç pintes en tel mainere con je voç dirai: car il se font por

toutes lor chars pintures con aguiles, a lions et a drag et ausiaus et

a maintes ymajes, et sunt fait con les a{n}guiles en tiel mainere qe

jamés ne s’en vont. Ce ausi se font au vix et <a>u cuel et au ventre

et a les manz et a les janbes et por tout les cors»

(F, CXXVI, 10-16),

269 Marroni identifica, all’interno dell’edizione toscana del Milione siglata T , in buono l’opposto di malo / male, stabilisce che l’uso più incisivo dei termini appartenenti a tale famiglia lessicale è quello riferito a popolazioni e gruppi umani nel loro insieme e, in merito, fa riferimento proprio all’epiteto attribuito agli abitanti di Dagroian (I viaggi del Milione, pag. 253).

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sia di quella della marchiatura del volto con un ferro incandescente peculiare della

provincia di Abasce:

«Les jens cristiene de ceste provence ont trois seingne en mi le

vix, ce est le un dou front jusque a dimi le nes, et pois en ont, de

chascune goe, un, e ce sunt fait con fer chaut, e ce est lor batesme

car, puis qe il sunt batiçés en eive et il se font puis celz seingne

que je voç ai dit, e ce est por gentilise e por conpliment dou

batesmo»

(F, CXCII, 4-9),

il nostro riporta in maniera minuziosa i particolari, supponiamo allo scopo di dar risposta

alla curiosità ingenerata nel lettore da costumi allo stesso tempo inconsueti e sconvolgenti

per il pubblico europeo.

Anche il fatto che all’interno di certe comunità indiane non sia reputato

conveniente coprire il corpo con qualsivoglia tipo di veste induce stupefazione nella

ricezione del Devisement dou monde. Si trascrivono, in proposito, i racconti poliani

relativi agli abitanti dell’isola di Necuveran e della provincia di Lar:

«et, en ceste isle, ne ont roi e sunt come bestes. E voç di qu’il

vunt tuit nu, e masles e femes, e ne se covrent de nulle rien dou

monde»

(F, CLXX, 3-5);

«Et encore, en ceste reingne de Mabar, a une religion, qe s’apelent

encement Ciugui, qe sunt de si grant astinence, com je voç dirai, e

de si forte et aspre vie, car sachiés de voir qe il vont tuit num qe il

ne portent cousse nulle sovre, si qe il ne se cov{i}rent lor nature

ne nul venbre [...] E quant les autres homes les demandent por coi

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il vont nus, e que il ne ont vergogne de mostrer lor venbre, et il

dient: “Nos alon nus por ce qe nos ne ne volun nulle couse de cest

monde, por ce qe noç venimes en cest monde sanç nulle

vestimente et nus: de ce qe nos ne avon vergogne de mostrer

nostre vinbre si est ce qe nos ne faison nul pechiés con elz, e por

ce ne avons nos plus vergogne qe avés vos quant voç moustrés

vostre main o le vix ou autres vostre venbre, de coi voç ne aurés a

pechier de luxurie. [...]”»

(F, CLXXVI, 73-77; 87-95).

Se nel primo caso il viaggiatore si riferisce ai membri della collettività osservata

con l’appellativo di bestes (proprio come fa quando tratta di poligamia e antropofagia), nel

secondo egli registra la spiegazione data dai Ciughi270 rispetto alla loro anomala

consuetudine, nella quale si evidenzia una continua contrapposizione noi / voi.

Tutto ciò non è unicamente rivelatore della curiosità di Marco, ma è pure lo

specchio della meraviglia suscitata nella società occidentale di epoca medievale cui

l’opera giunge da coordinate culturali ad essa profondamente estranee.

270 Si tratta di una setta di religiosi che vivono nel regno di Lar, i quali praticano l’astinenza e si distinguono per la sbalorditiva longevità.

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CAPITOLO VI

L’Asia dei portenti

Tra XII e XV secolo si assiste in Occidente ad una significativa diffusione della

curiosità nei confronti della magia nella molteplicità delle forme271. Prendere atto di tale

fenomeno aiuta a cogliere le radici dell’interesse provato dai viaggiatori europei

temporaneamente immersi nella realtà del continente asiatico rispetto a quanto era

attinente a questo insieme di conoscenze. Anche il contenuto del Milione è rappresentativo

di ciò: vi si trova, infatti, una non irrilevante quantità di variegate informazioni connesse a

questa sfuggente dimensione con la quale sovente si confronta il mercante della

Serenissima. Come ricorda Faucon, infatti, «Sa jeunesse passée au service de Khoubilaï a

[...] mis Marco en contact quotidien avec tout un ensemble d’hommes et de pratiques liés

à la magie»272, che egli non può tacere nel suo scritto in quanto «[...] ils étaient attendus

par un public occidental friand de cet ébahissement»273.

Una buona percentuale dei ragguagli riguardanti la sfera del magico è costituita dai

resoconti poliani inerenti alla cosiddetta magia tempestaria, le cui manifestazioni si

riconoscono nei seguenti passaggi:

«En ceste plaingne a plusor castiaus et viles que unt les mur de

tere hautes et groses por defendre{s} elç des Caraunas, ce sunt

beruierç que vont corant les païs. Et por coi s’apellent Caraonas?

Po<r> ce ke lor mere sunt esté indiene et lor pere tartarç. Et cest

gens quant il vuelent corer les païs et rober, il font por lor

encantemant, pour evre diablotique, tout le jor devenir oscur, si

que l’en ne voit loingne se pou non, e ceste oscurité font

271 Marco Polo, pag. 212. 272 Marco Polo et les enchanteurs, pag. 205, in Chant et enchantement au Moyen Âge, Éditions Universitaires du Sud, Toulouse, 1997, pp. 205-222. 273 Ivi, pag. 205.

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durer .VII . jornee a lonc. Il sevent mout bien les païs. Il

chevauchent, quant il ont faite la scurité, le un dejoste l’autre; et

sunt bien .XM. tel fois, et tel fois plus, et tel foiz moin, si qu’il

prennent tout le plan dont il vuelent rober, si que tuit celz que il

trovent en les plennes ne poent excanper, ne homes ne bestes ne

couses, qu’il n’estoient prises»

(F, XXXV, 21-32);

«Kesimur est une provence que encore sunt ydoles et ont lingajes

por soi. Il sevent tant d’incantamant des diables que ce est

mervoie, car il font parler as ydres; il font por incantamant canger

les tens et font faire le grant oscurité. Il font por l’incanter et por

senç si grant chouses q’el ne est nulz que ne le vist qui le poust

croire»

(F, XLVIII, 1-6);

«Mes voç dirai avant une mervoille que je avoie demantiqué. Or

sachiés que quant le Grant Kaan demoroit en son palais, et il fust

<p>luie ou niusles ou mau tens, il avoit sajes astronique et sajes

enchanteor qui por lor senz et por lor enchantacion fasoient tous

les nues et tous les maus tens hoster desus son palais, si qe desus

le palais n’i a maus tens et de toutes autres pars vait le maus tens.

Cesti sajes homes que ce funt sunt apellés Tebet et Quesmur: il

sunt deus generasions de jens que sunt ydres; il sevent d’ars

diabolique e des encantemans plus qe toç homes, et ce qu’il font, il

le font por ars de diable, et font croire a les autres jens qu’il les

font por grant santité et por evre de dieu»

(F, LXXIV, 51-62);

«E si voç di que les cristienz de ceste isle sunt les plus sajes

encanteor que soient eu monde. [...] E si voç en dirai, de les

encantemant qe il font, aucune couse. Car sachiés tout voiremant

que cesti encanteor font maintes diverses couses et grant partie de

celz que il vuelent, car je voç di que se une nes alest a voille et

aüse buen vent et aseç en sa voie, il li firont venir un autre vent

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contraire et la firont torner arere. Et encore voç di que il font

venter celz vent que il velent, il font la mer coie quant il vuelent, il

font grant tenpeste et grant vent en la mer»

(F, CLXXXIX, 25-26; 32-39).

I brani presentati sono accomunati dalla capacità degli incantatori in essi

protagonisti di modificare le condizioni atmosferiche, ma vi è la necessità di fare dei

distinguo. Nei primi tre passaggi, in effetti, il fil rouge è rappresentato dall’origine

diabolica dell’azione:

� il primo brano ruota attorno alle figure dei Caraunas, briganti in grado di

oscurare il giorno con una abietta finalità, ossia quella di depredare le

carovane nel deserto;

� il secondo stralcio ci parla della capacità dei maghi del Kesimur di indurre

le tenebre;

� il terzo passaggio si riferisce all’enchantacion degli astrologhi alla corte del

Khan, incaricati di proteggerne il palazzo dagli avversi eventi atmosferici.

Le ultime righe, invece, si distaccano dalle precedenti in quanto riferiscono di

incantatori cristiani dotati del potere di far alzare o calare i venti o di generare burrasche in

mare per impedire la fuga a navi di pirati che abbiano commesso scorrerie.

Rispetto a tale argomento bisogna dire che i temporali erano temuti dai membri di

molteplici comunità asiatiche, le quali consideravano tali furiosi eventi come

manifestazioni della giustizia divina274. Considerate, dunque, le ragioni sacrali per le quali

fenomeni atmosferici accompagnati da tuoni e fulmini incutevano paura, si può

comprendere di quale credito godesse la magia tempestaria presso siffatte società.

274 A tal proposito, Montesano riporta un passo tratto dal codice Zelada che spiega che il Khan «non tocca i beni di un morto né alcuna cosa colpita dal tuono, dal fulmine o dalla peste, perché queste disgrazie potrebbero provenire dalla giustizia divina: e su queste cose non si raccoglie tributo» (Marco Polo, pag. 216).

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In realtà, la magia tempestaria non era del tutto sconosciuta neppure al mondo

occidentale: se qui, nell’Alto Medioevo, serpeggiava la credenza, osteggiata dalla Chiesa,

che esistessero stregoni in grado di scatenare la grandine275, nell’Europa trecentesca fonti

conciliari e prediche non scarseggiavano di condanne nei confronti di chi praticava o

prestava fede a tale disciplina, che sarebbe sovente diventata capo d’imputazione in

processi per stregoneria in epoca moderna276.

Nei brani di nostro interesse, perciò, contribuiscono a meravigliare il lettore non

tanto, o meglio, non solo la portata degli effetti dell’esercizio di questo tipo di magia da

parte degli incantatori indocinesi, ma in particolar modo la matrice diabolica della stessa,

che ben viene sottolineata dal mercante veneziano: «il font por lor encantemant, pour evre

diablotique, tout le jor devenir oscur»; «Il sevent tant d’incantamant des diables que ce est

mervoie»; «il sevent d’ars diabolique e des encantemans plus qe toç homes, et ce qu’il

font, il le font por ars de diable».

A proposito di magie consentite da un potere diabolico, anche il seguente passo

merita di essere ricordato:

«Et sajés tout voirmant que cesti Bacsi que je voç die de sovre,

que sevent tant des enchantemant, font si grant mervoille con je

voç dirai. Je voç di que quant le Grant Kaan siet en sa mestre sale

a sa table, qui est aut plus des .VIII . coues, et les coupes sunt emi le

paviment de la sale, longe de la table bien .X. pas et sunt plene de

vin et de lait ou d’autres buen bevrajes, et ceste sajes encanteors

que je voç ai dit de sovre, qe Bacsi sunt només, il font tant por lor

encantemant et por lor ars que celes coupes pleinnes por lor

meesme se levent dou paviment ou elle estoient et s’en vont

devant le Grant Kan sanç qe nulz ne les toucent, et ce font

voiant .XM. homes. Et ce est voir et vertables sanz nulle

mensongne» 275 J.-C. Schmitt, Medioevo “superstizioso”, Roma, Edizioni Laterza, 1992, pp. 61-65. 276 Marco Polo, pag. 216.

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(F, LXXIV, 66-76).

Siamo all’interno del palazzo di Ciandu, dove il Gran Khan dimora per tre mesi

l’anno, e i Bacsi, i valenti incantatori già incontrati addietro, si rendono protagonisti del

seguente prodigio: essi spostano sopra il desco al quale è seduto a mangiare il sovrano,

senza toccarle, le coppe contenenti vino o altre bevande poggiate sul pavimento in mezzo

alla sala. L’illusione appare così inspiegabile agli occhi dei lettori cui giunge la

descrizione che chi scrive tiene a sottolineare che ciò è voir et vertables sanz nulle

mensongne e avviene di fronte anche a diecimila persone («et ce font voiant .XM. homes»).

A rendere il tutto più perturbante per il pubblico occidentale concorre il fatto che tale

mervoille sia ancora una volta resa posssibile da un demoniaco aiuto: l’arte di cui parla il

Polo è quell’ars de diable che consente ai fidati tempestari del Khan di spazzar via le nubi

dal cielo sopra la sua residenza.

Da altre pagine del Devisement dou monde, delle quali quanto segue costituisce un

estratto, emerge invece la centralità dell’astrologia, disciplina che in Cina era sorta tra III e

II millennio a.C.277, nella vita degli idolatri di cui Marco tratta:

«Et encore voç di do un autre chousse: que quant cesti ydres sunt

mors il mandent por lor astrolique et dient elz la nasion dou mort,

ce est quant il nasqui, de quel mois et de quel jor{no} et l’oire. Et

quant les astrolique le a entandu, il fait sez endevinaile por arç

diabolique et dit, puis qu’il fait sez ars, le jor qur le cors se doit

ardoir; et voç di que de tielz fait demorer que ne s’ard une

semaine, et de tielz un mois, et de tielz .VI . mois: et adonc

convient que les parens dou mort le{s} tegnent en lor maison tant

com je voç ai dit, car il ne firoient jamés ardoir jusque a tant quel

es endevinz lor dient qu’il soit bien ardoir»

(F, LVII, 35-45);

277 Medioevo “superstizioso”, pp. 227-228.

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«Or sachiés qe toutes les jens dou Mangi ont tel uxance com je

voç dirai. Il est voir qe, tantost qe l’enfant est nes, le pere ou la

mere font scrivre le jor et le point e l’ore qu’il fo nes et en quel

seingne et en quel planet, si qe chascun set sa nativité. Et quant

aucun velt aler an autre part por fer son viages, el s’en vait a les

astroniqe e li dit sa nativité, e cel lor dit se il est bouen l’aler en cel

viages ou non, e maintes foies li destorbent de lor viajes: car

sachiés qe lor astroniqe sunt sajes de lor ars e de encantemant

diabolice, si qe bien dient a les homes maintes couses as quelz il

donent mout foies»

(F, CLI, 112-120);

«Et encore voç di qe en ceste rengne, tantost qe l’enfant est nes,

ou masles ou femes, qu’il soit le pere ou la mere, fait metre en

script sa nativité, ce est qel jor est nes e de quel mois e de quel

lune e quel ore. E ce font por ce que il sont tuit foies con

astronique et con endivinis qe sevent mout de encantemant e d’art

magiche et de jomansie. Et de tiel hi a, ensi com je voç ai dit,

<que> sevent d’astronomie»

(F, CLXXIII, 205-211).

Si può avere la misura dell’influenza di questa antichissima disciplina

considerando, ad esempio, l’importanza della consuetudine dei genitori di annotare non

solo giorno, mese ed ora, ma pure luna, costellazione e pianeta sotto cui avviene la nascita

dei propri figli: tali dati, infatti, ritornano utili a questi ultimi nel momento in cui essi si

rivolgono ad un indovino per avere un parere in merito all’opportunità o meno di partire

per un viaggio (come fa la gente del Mangi, nel secondo brano) e si rivelano informazioni

fondamentali per quell’astrologo che debba stabilire in quale giorno far ardere il corpo di

un idolatro defunto (tradizione della provincia di Tangut, primo stralcio).

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Poiché anche nell’Europa del XIII secolo era diffusa la pratica della predizione del

futuro278, a destare lo stupore dei lettori del Milione non doveva essere tanto il fatto che gli

abitanti dei territori attraversati dal Polo si affidassero abitualmente agli indovini per

ricevere un consiglio su come comportarsi nelle differenti situazioni della vita279, (come si

evince dal terzo passaggio, riferito alla provincia del Maabar), quanto piuttosto la

rilevanza attribuita dalle culture cinese e indiana alla nascita: doveva colpire non poco il

pubblico occidentale l’abituale usanza di questi lontani popoli di annotare subito i dati a

cui si è fatto cenno, in un’epoca in cui le registrazioni delle nascite erano cosa sconosciuta

al Vecchio Continente280, sebbene non manchino, nemmeno in questo contesto, notizie di

indovini che pretendevano di stabilire il destino di un uomo basandosi sulla congiunzione

degli astri del giorno in cui era venuto alla luce281.

Legata alle conoscenze di carattere astrologico è anche la credenza, diffusa presso

talune collettività indiane, che nell’arco di ogni giornata esistano delle “ore nefaste”, vale

a dire degli intervalli di tempo nell’ambito dei quali si considera pericoloso per il loro

buon esito compiere attività quali, ad esempio, la conclusione di un affare.

«Je voç di qu’el ont entr’aus un tel costume, car a tous les jors de

la semaine ont mis un segnaus tel con je vos dirai. Se il avint qe il

faicent aucun merchiés d’aucune mercandies, celui qui la velt

achater se leve en estant e regarde sa onbre au soleil et dit: “Qe jor

hui?” “Le tel”. Lor fait mesurer l’onbre soe, e, se sa onbre est tant

longe come el doit estre en celui jor, il conple le merchiés mes

278 È di sant’Agostino, ma riconducibile alla cultura romana, la lista dei differenti tipi di divinazione rimasta in vigore per tutto il Medioevo, nella quale si incontrano, ad esempio, nigromantici, hydromantii, incantatores, arioli , haruspices, auguri e auspices, (Medioevo “superstizioso”, pp. 89-90). In ogni caso, sembra non essere paragonabile la centralità assunta da tali pratiche nelle società estremorientali con la fiducia che vi veniva accordata nel mondo occidentale, come evidenziato da Faucon: «[...] nous constatons que l’astrologie tient une place importante dans la vie de la communauté, sans commune mesure avec le rôle secondaire que lui réserve l’Occident» (Marco Polo et les enchanteurs, pag. 207). 279 Le indicazioni degli astrologi permettono, insomma, all’individuo «de prendre dans sa vie les bonnes décisions» (Ivi, pp. 207-208). 280 Marco Polo, pag. 229. 281 Si veda l’elenco cui si fa riferimento nella nota n.° 42, Medioevo “superstizioso”, pag. 90.

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atent tant qe l’onbre soit a cel point qe el ont ordree en lor loy. Et

tout ausint com je vos ai devisé de cestui jor, ausi ont il establi de

toutes le jors de la semaine quant doit estre longue sa onbre; et,

jusque a tant qe le onbre ne fust tant longe com ela doit estrem

ne{l} firoient nul merchiés ne nul lor fait. Mes, quant l’onbre est

tant longe come el doit estre chascun jor, adonc font tuit lor

merchiés e lor fait»

(F, CLXXVI, 28-41).

Dal brano trascritto si desume che è in base al calendario definito dagli astrologi

che vengono fissati quei momenti del giorno durante i quali è ritenuto preferibile astenersi

dall’assolvere ai propri impegni e che vengono riconosciuti dagli idolatri in base

all’aspetto assunto dalla propria ombra. La puntualità del racconto poliano si può dire

dovuta non solo al fatto che esso pertiene allo svolgimento della pratica della mercatura,

attività cui era dedito l’autore del Devisement, ma altresì alla volontà di divulgare

tradizioni estranee alle consuetudini occidentali.

Provengono dalla provincia di Lar come le notizie sulle ore infauste pure le

testimonianze che ci riferiscono:

� il comportamento di un compratore che nel caso si accorga della presenza

di una tarantola durante una compravendita, chiude la trattativa solo se

ritiene di buon auspicio la direzione di provenienza dell’animale:

«Et encore vos dirai une greignor cousse: qe quant il font aucun

merchiés, ou en maison ou en autre leu, et il ve<ï>ssent venir une

tarantule, qe ni a en grant abondance, se il voient q’elle vegne de

celle part que lui senble qe soit buen por lui, il acate la mercandie

tout mantinant, e se la tarantole ne vient de leu que lor senble bon,

il laisse le merchiés e ne l’acate mie»

(F, CLXXVI, 41-46);

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� la possibilità che una persona che sta uscendo di casa scelga di rimanervi

nel caso oda qualcuno starnutire:

«Et encore voç di qe quant il oisent de lor maison et il oissent

estornïr aucune home, se il ne le senble bien, il s’areste e ne vont

plus avant»

(F, CLXXVI, 46-48);

� l’eventualità che l’avvistamento di una rondine possa interrompere un

viaggio:

«Et encore vos di qe quant cesti abraimain vont lor chemin et il

voient que aucun rondel venise sor elle ou davant ou da la senestre

part dou la destre, se lor senble selonc lor costumes que la rondel

il soit venue de bon lés e de bone part, il vait plus avant, e, se lui

senble qe ne soit venue de bone part, il ne vait plus avant mes se

torne ariere»

(F, CLXXVI, 48-53).

Questi ultimi brani, assieme a quello che ci racconta la credenza nelle ore infauste,

sono esemplificativi del fatto che la divinazione è molto presente nel Milione essendo

parte integrante della società estremorientale. Come asserisce Schmitt, «che consistesse

nell’interpretazione di segni, o che riguardasse più in particolare il carattere fasto o nefasto

assegnato a certi giorni, essa [la divinazione] mirava a predire il futuro o a pronunciarsi

sulla necessità o l’impossibilità d’intraprendere un’azione; in ogni caso, sembrava

testimoniare una volontà di appropriarsi del tempo, che appartiene a Dio, o di provocare

l’anticipazione di misteri che Dio solo conosce»282.

282 Medioevo “superstizioso”, pag. 88, dove Schmitt definisce tali misteri «occulta Dei, i “segreti di Dio”».

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In ciò risiede la capacità di sbalordire il pubblico occidentale dei ragguagli forniti

dal mercante veneziano, nell’ambito dei quali si riconoscono pure alcuni esempi di quelle

“superstizioni” che sant’Agostino, che ne era considerato il primo grande teorico283,

definiva come segni che tradiscono la complicità e la comunicazione degli uomini con i

demoni284. Nell’inventario delle “superstizioni” redatto dal filosofo cristiano vengono

citati, in effetti, «diverse tecniche di astrologia antica» e «coloro che tornano a letto se

hanno starnutato mettendosi le scarpe»285, dunque qualcosa che ricorda molto da vicino

quanto rintracciabile, come visto, tra le righe del Milione.

L’arte, o pretesa tale, di indovinare l’avvenire, esercitata, ancora una volta, da

incantatori che godono di notevole prestigio presso le comunità descritte dal Polo, è al

centro anche del seguente stralcio:

«Car sachiés tout voiremant qe quant aucun d’elz, ou masles ou

femes, chiet amalaides, et adonc mandent lor parens por les

maguis et font veoir se le malaides doit guarir. Et cesti maguis, por

lor encantament et por lor ydres, sevent se il doit guerir ou morir»

(F, CLXVII, 5-8).

Le righe riportate si riferiscono al regno di Dagroian: qui, stimati maghi

prevedono, grazie al loro potere diabolico (l’aiuto, infatti, viene por lor ydres), se il

malato che la famiglia ha chiesto loro di incontrare è destinato a guarire o meno. Ciò

sarebbe sufficiente a colpire il pubblico del Devisement, al quale però l’autore non

risparmia quanto segue, ossia il racconto della scioccante tradizione che consiste

nell’uccidere l’uomo o la donna ritenuti inguaribili dagli incantatori:

283 Medioevo “superstizioso”, pag. 14. Effettivamente, il legame tra demonologia e “superstizioni” è, assieme a quella che le “superstizioni” sono sopravvivenze di credenze e pratiche teoricamente abolite dall’incarnazione del Salvatore e dall’istituzione del cristianesimo, insomma sopravvivenze del paganesimo, una delle due idee chiave alla base della teoria del vescovo d’Ippona (Ivi, pag. 14). 284 Ivi, pag. 26. 285 Ivi, pag. 26.

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«Ceste homes vienent e prenent lo malaide e li metent aucune

chouse sor la boche si qe il le font sofoger»

(F, CLXVII, 9-11).

Singolare è poi l’episodio di trance sciamanica desunto dal capitolo della relazione

poliana dedicato dalla trattazione della provincia di Çardandan:

«Et si voç di qe toutes cestes provences qe je voç ai contés ne ont

mire, ce sunt Cajan et Vocian et Iacin, mes, quant il sunt malaides,

il se font venir lor magis, ce sunt les enchantaor des diables et celz

qe tient les ydres. Et quant cesti magis sunt venus et les malaides

dient lor les maus qu’il ont, et les magis conmencent maintinant a

soner estrumens et carolent e bailent tant qe aucun de cesti magis

caie tout enverses sor la tere ou sor le paviment, et <a> a la

bouche grant escume et senble mort: et ce est qe le diables hi est

dedens le cor de celui. Il demore{nt} en tiel maineres qu’il senble

mors. Et quant les autres magis, que iluec estoient plusors, voient

qe le un d’elz est cheu en tel mainere com voç avés oï, adonc le

comencent a dir e le demandent qel maladie a cestui malaides. E

cel respont: “Le tielz espiriti le a toucé por ce qe il li fist aucun

desplair”. E les magis li dient: “Nos te{s} prion qe tu li perdoni et

qe tu en prenne por resetorament de son sanc celes couses ke tu

vuois”. Et quant cesti magis ont dites maintes paroilles et ont mult

priés, les spiriti qui est dedens le{s} cors au magi qui est cheü,

respont, et, se le malaide doit morir, si respont en tel mainere et

dit: “Cest amalaide a tant mesfait a tel espiriti et es si mauveis

homes qe les spiriti ne le vuele pardoner pour couse dou monde”.

Ceste respond ont celç que doient mourir. Et se le malaide doit

garir, adonc respont le spiriti qui est en cors dou magis et dit: ce le

malaide vuelt garir, si prennent .II. mouton out trois; et encore: qe

il fasoient .X. bevragies ou plus, mult chier et buen; et dient qe les

munton aient le chief noir, ou les divisent in autre mainere; et dit

qu’il en face sacrefice a tiel ydre et a tel espiriti, et qe ensi vent

tant magis e tantes dame, de celz qe ont les espiriti et que ont les

ydres, et qu’il facient grant laudes et grant feste a la tiel ydre et a

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tiel espiriti. Et quant cesti ont eu ceste respont{e}, les amis au

malaides tout maintinant font ensi come les magis lor devisent [...]

Or voç ai contés la mianere et les usance de ceste jens et comant

cesti magis sevent encanter les spiriti»

(F, CXIX, 42-71; 92-93).

Il nostro ripercorre nei particolari le varie fasi attraverso cui si snoda il rituale:

dopo che il malato ha descritto le sue condizioni fisiche, i maghi intraprendono balli al

ritmo del suono dei loro strumenti, fino a che uno di loro crolla a terra, come fosse morto,

con della schiuma alla bocca. A quel punto, gli altri incantatori iniziano ad interrogarlo e

lui rivela l’idolo al quale è stata fatta l’offesa cui sono dovuti i sintomi del malato286. Dopo

aver accolto la richiesta di perdono, lo spirito entrato nel corpo del mago fa sapere se

permetterà o meno la guarigione del malato287. Nel caso l’offesa possa venir perdonata, si

rendono necessari un sacrificio animale e tributi in onore dell’idolo, che saranno interrotti

solo nel momento in cui un mago segnalerà l’avvenuto perdono.

Scandagliando il minuzioso racconto poliano, è possibile rintracciarvi elementi

caratteristici dell’estasi, quali i balli rituali, la caduta in trance di un mago e la sua

conseguente pronunciazione.

Già l’esecuzione delle indicazioni date dallo spirito, il sacrificio e l’aspersione del

sangue di un animale e le libagioni compiute in onore di un idolo basterebbero ad indurre

sbalordimento nella ricezione del Milione; a ciò si aggiunge, però, il fatto che il testimone

rimarchi la possessione di cui è preda il mago («les spiriti qui est dedens le{s} cors au

286 «[...] l’origine des maladies est bien définie comme étant surnaturelle et due à une punition pour méfait» (Marco Polo et les enchanteurs, pag. 217). 287 «Il appartient donc aux enchanteurs de désigner les malades qu’il faut laisser se rétablir, et ceux qu’il faut tuer» (Ivi, pag. 218.)

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magi qui est cheü, respont»), cosa che del rituale ritratto nelle righe analizzate non lascia

altra interpretazione al di fuori di quella in senso demoniaco288.

Misteriosi e potenti spiriti si rendono protagonisti anche di un’altra mervoie

confidata da Marco a Rustichello e poi inserita nella sua relazione di viaggio:

«Me si voç di que l’en hi trouve une tel mervoie com je voç

conterai. Il est voir que quant l’en chavauche de noit por cest

deçert et il avent couse qe aucun reumangne et s’eçvoie de seç

conpains por dormir ou por autre chouse et il vuelt puis aler por

jungnire seç conpagnons, adonc oient parlere espiriti en mainiere

qe senblent que soient sez conpagnons, car il les appellent tel fois

por lor nom et plosors foies les font devoier en tel mainere qu’il ne

se trevent jamés, et en ceste mainere en sunt ja mant mort{i} et

perdu. Et encore voç di que, jor meisme, hoient les homes ceste

voices de espiriti, et voç semble maintes foies que voç oiés soner

mant{i} instrument{i} et propemant tanbur»

(F, LVI, 17-28).

Lo sfondo è quello del vasto deserto di Lop, per oltrepassare il quale bisogna

prestare, evinciamo, molta attenzione, in virtù del fatto che tra le sue dune ai viaggiatori

che si siano momentaneamente distaccati dal resto della carovana, può sovente capitare di

udire voci che essi credono dei loro compagni e che, richiamandoli, li inducono a smarrirsi

e trovare così la morte.

Oggi, dopo che è stato osservato e nonostante il suo studio sia ancora lontano

dall’essere ultimato, il fenomeno naturale conosciuto come singing sands289 si ritiene sia

288 Rispetto ai tratti che individuano il rituale sciamanico Montesano registra l’aggiunta di «caratteri demonologici evidentemente nuovi» riconducibili alla cultura cristiana del testimone e dei lettori della sua opera (Marco Polo, pag. 223). A tal proposito, si fa presente quanto sostenuto da sant’Agostino, considerato il grande teorico delle superstizioni, nel suo De divinatione daemonum: qui, nell’elenco dei privilegi della loro natura angelica mantenuta dai demoni, oltre alla grande sapienza e al corpo etereo che dona loro una prodigiosa celerità, egli inserisce quella sottigliezza grazie alla quale essi «possono introdursi dappertutto, anche nel corpo e nello spirito degli uomini» (Medioevo “superstizioso”, pag. 21). 289 Marco Polo, pag. 219.

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dovuto a valanghe provocate dall’accumulo di vento e che, staccandosi dalla sommità

delle dune, danno origine a suoni talvolta somiglianti a grida umane290. Al tempo della sua

descrizione da parte del Polo, invece, nulla si sapeva in merito alle cause scientifiche di

questo strano evento, leggendo del quale il pensiero del pubblico occidentale non poteva

che correre ad un celebre episodio narrato nelle Sacre Scritture291 e la cui spiegazione

veniva, per l’appunto, legata all’azione di entità tutt’altro che benigne292.

Ciò immaginiamo abbia stupefatto non poco gli uomini europei medievali, per i

quali la narrazione sugli spiriti del deserto di Lop non doveva parere altro che una

manifestazione del meraviglioso di cui ritenevano pregna la lontana realtà orientale.

290 Marco Polo, pag. 220. 291 «[...] pour le Moyen Âge chrétien, la voix entendue dans le désert renvoie nécessairement aux Ecritures et à la tradition de l’érémitisme» (Marco Polo et les enchanteurs, pag. 216). 292 Lo nota anche Faucon che «les forces surnaturelles sont-elles celles du Mal» (Ivi, pag. 216). Lo studioso stabilisce poi, per ricollegarci a quanto fatto presente nella nota precedente, un parallelismo tra le voci che causano lo smarrimento dei viaggiatori e le manifestazioni diaboliche che inducono l’uomo a peccare: «ces voix prennent [...] le timbre et l’intonation du compagnon [...] comme le diable des chrétiens prend l’apparence d’un être cher pour mieux gagner l’âme du pécheur» (Ivi, pag. 216).

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CONCLUSIONI

Con i capitoli che si sono fin qui susseguiti, si è tentato di dimostrare come nel

Milione la meraviglia non affiori soltanto attraverso le emergenze lessicali appartenenti

alla famiglia di merveille, che pure vi ridondano, ma che non bastano a dar forma a

quell’alterità che segnalano.

Si è posta, dunque, in luce la coesistenza, all’interno del Devisement dou monde, di

due diverse tipologie di meraviglia: nel resoconto del Veneziano, infatti, si palesa da un

lato la presenza di una meraviglia, per così dire, spiegabile, e dall’altro quella di una

meraviglia che diremmo stereotipata.

Se la prima si manifesta nell’ambito delle descrizioni tramite le quali il testimone

pone l’accento sulle differenze quantitative, qualitative e di proporzioni di ciò che è

caratteristico della realtà orientale rispetto a quanto è consueto nel mondo occidentale, la

seconda è riconducibile alle circostanze in cui Marco indugia su quanto di strabiliante e

non riportabile alla razionalità, poiché profondamente estraneo al mondo di riferimento

dei suoi lettori, egli ha contattato nel Far East.

Inoltre, il primo tipo di meraviglia risulta manifestarsi nella sezione del Milione

dedicata all’esplorazione della Cina gengiskhanide, la quale si mostra soggetta ad un

trattamento che ne esalta mirabilia razionalizzati quali l’abbondanza naturale ed

economica e l’eccezionalità delle istituzioni imperiali, mentre il secondo si può dire

collegato alla realtà indiana, a quel “regno dei portenti” in cui trova sede il meraviglioso

dei mostri e delle cose sensazionali.

Quello che si è cercato di rendere evidente è, in buona sostanza, il rapporto che si

configura nella relazione di viaggio del Polo tra un complessivo regime di verosimiglianza

ed elementi discendenti dalla tradizione dei mirabilia Indiae. Se il primo si rifà al manuale

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mercantile e al trattato geografico, modelli ai quali riconduce pure la consuetudine poliana

di inserire schede da manuale di mercatura e sezioni descrittive, i coautori ricavano gli

altri aspetti dal mito dell’Oriente delle stupefazioni che, come un mosaico, era andato nei

secoli a comporsi divenendo, inevitabilmente, fonte di influenza e suggestioni per chi

viaggiava nel continente asiatico.

Questo intreccio tra osservazione e allucinazione, tra esperienza e reminiscenza è

senza dubbio parte integrante dell’architettura del Milione. Riconosciuta, quindi,

l’impostazione in generale realistica della visione delle cose propria del Devisement dou

monde, si può asserire che il successo dell’opera risieda, in buona misura, nella capacità di

Marco di coniugare lo sguardo oggettivo col quale egli si accosta all’indagine della realtà

orientale e che sovente lo conduce ad «arditi superamenti dei luoghi comuni imperanti per

ignoranza o autorità»293, con l’inserimento di elementi evidentemente favolosi, nei quali

però il lettore occidentale si compiace di riconoscere corrispondenze con un patrimonio

tradizionale a lui caro e nei quali si può dire sopravviva il mito dell’India delle meraviglie.

293 Storia letteraria delle scoperte geografiche, pag. 8.

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