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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 MAGGIO 2013 NUMERO 427 CULT La copertina ANGELO AQUARO e RICCARDO STAGLIANÒ Slow News l’informazione pulita e giusta ai tempi di Twitter Il libro ANTONIO MONDA Achille e Patroclo la storia d’amore che l’Iliade non ha narrato All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Giuseppe De Rita “Ho visto l’Italia dimenticare la sua saggezza” L’opera GUIDO BARBIERI “Rienzi”, l’ultimo tribuno che folgorò Adolf Hitler L’arte MELANIA MAZZUCCO Il Museo del mondo il giardino gigante di O’Keeffe Da Mirò a Calvino gli artisti raccontati dai loro atelier L’immagine GIUSEPPE DIERNA Io viaggio da sola, il treno in rosa delle donne indiane L’attualità ANITA NAIR BOLOGNA uando Claudio Abbado affronta un’intervista, circo- stanza molto rara, il suo interlocutore dovrà misu- rarsi con le fertili qualità dell’attesa. Ci sono misteri piccoli e grandi nei suoi silenzi. In un mondo in cui tutti parlano di sé, e l’esposizione dell’ego è una pra- tica ossessiva, Abbado tende a ritrarsi, scansando l’esternazione per dare spazio all’ascolto. È come se sottolineasse che ogni parola ha un suono e un senso. Atteggiamento legato al fa- re musica. Perché «la musica insegna ad ascoltare», dice. «Ascoltan- do s’impara, e così dovrebbe essere anche nella vita: se tutti gli uo- mini conoscessero la musica, le cose funzionerebbero assai meglio». Il 26 giugno Claudio Abbado compie ottant’anni, ed è un’età che il direttore d’orchestra milanese, uno dei più amati e ammirati mu- sicisti del nostro tempo, porta con straordinaria leggerezza. Abbado è un mito musicale. Eppure non c’è mitologia nella semplicità del suo tratto. Persino nel pieno del lavoro, quand’è in prova con una LEONETTA BENTIVOGLIO delle “sue” orchestre (“sue” perché le fonda e le modella, impri- mendo loro una fisionomia all’insegna dell’eccellenza), esprime na- turalezza e capacità di non farsi prendere dall’ansia. È una delle sue virtù più sorprendenti. Qualcosa che somiglia a un modo d’essere orientale, cui sono ascrivibili anche il suo amore per la natura, la sua profonda sintonia con gli amici e il suo vivere immerso totalmente nella musica. Per il fedele e immenso pubblico che lo ammira, i suoi ottant’an- ni sono una festa. La celebreranno tra l’altro i suoi prossimi concer- ti a Berlino (18, 19, 21 maggio, con i Berliner Philharmoniker) e un concerto a Bologna il 9 con l’Orchestra Mozart e Radu Lupu al pia- noforte, che sarà replicato alla Salle Pleyel di Parigi l’11. Nell’arco di mezzo secolo, l’insieme delle sue interpretazioni offre uno spacca- to tra i più significativi e alti della direzione orchestrale del Nove- cento. Ne è una riprova il cofanetto che Deutsche Grammophon lan- cia per il compleanno, contenente vari cicli sinfonici da lui diretti e selezionati in 41 cd. (segue nelle pagine successive) DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI FOTO LELLI & MASOTTI/ALINARI CLAUDIO ABBADO “Musica maestra” La guerra, la famiglia, l’amore, le montagne e l’arte di sapere ascoltare Alla vigilia dei suoi ottant’anni il grande direttore d’orchestra si confessa a “Repubblica” Q Repubblica Nazionale

LA DOMENICA - download.repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2013/12052013.pdf · LA DOMENICA DIREPUBBLICA DOMENICA 12MAGGIO 2013 NUMERO 427 CULT La copertina ANGELO AQUARO

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 12MAGGIO 2013

NUMERO 427

CULT

La copertina

ANGELO AQUAROe RICCARDO STAGLIANÒ

Slow Newsl’informazionepulita e giustaai tempi di Twitter

Il libro

ANTONIO MONDA

Achille e Patroclola storia d’amoreche l’Iliadenon ha narrato

All’interno

Straparlando

ANTONIO GNOLI

Giuseppe De Rita“Ho visto l’Italiadimenticarela sua saggezza”

L’opera

GUIDO BARBIERI

“Rienzi”,l’ultimo tribunoche folgoròAdolf Hitler

L’arte

MELANIA MAZZUCCO

Il Museodel mondoil giardino gigantedi O’Keeffe

Da Mirò a Calvinogli artisti raccontatidai loro atelier

L’immagine

GIUSEPPE DIERNA

Io viaggio da sola,il treno in rosadelle donne indiane

L’attualità

ANITA NAIR

BOLOGNA

uando Claudio Abbado affronta un’intervista, circo-stanza molto rara, il suo interlocutore dovrà misu-rarsi con le fertili qualità dell’attesa. Ci sono misteripiccoli e grandi nei suoi silenzi. In un mondo in cuitutti parlano di sé, e l’esposizione dell’ego è una pra-tica ossessiva, Abbado tende a ritrarsi, scansando

l’esternazione per dare spazio all’ascolto. È come se sottolineasseche ogni parola ha un suono e un senso. Atteggiamento legato al fa-re musica. Perché «la musica insegna ad ascoltare», dice. «Ascoltan-do s’impara, e così dovrebbe essere anche nella vita: se tutti gli uo-mini conoscessero la musica, le cose funzionerebbero assai meglio».

Il 26 giugno Claudio Abbado compie ottant’anni, ed è un’età cheil direttore d’orchestra milanese, uno dei più amati e ammirati mu-sicisti del nostro tempo, porta con straordinaria leggerezza. Abbadoè un mito musicale. Eppure non c’è mitologia nella semplicità delsuo tratto. Persino nel pieno del lavoro, quand’è in prova con una

LEONETTA BENTIVOGLIO

delle “sue” orchestre (“sue” perché le fonda e le modella, impri-mendo loro una fisionomia all’insegna dell’eccellenza), esprime na-turalezza e capacità di non farsi prendere dall’ansia. È una delle suevirtù più sorprendenti. Qualcosa che somiglia a un modo d’essereorientale, cui sono ascrivibili anche il suo amore per la natura, la suaprofonda sintonia con gli amici e il suo vivere immerso totalmentenella musica.

Per il fedele e immenso pubblico che lo ammira, i suoi ottant’an-ni sono una festa. La celebreranno tra l’altro i suoi prossimi concer-ti a Berlino (18, 19, 21 maggio, con i Berliner Philharmoniker) e unconcerto a Bologna il 9 con l’Orchestra Mozart e Radu Lupu al pia-noforte, che sarà replicato alla Salle Pleyel di Parigi l’11. Nell’arco dimezzo secolo, l’insieme delle sue interpretazioni offre uno spacca-to tra i più significativi e alti della direzione orchestrale del Nove-cento. Ne è una riprova il cofanetto che Deutsche Grammophon lan-cia per il compleanno, contenente vari cicli sinfonici da lui diretti eselezionati in 41 cd.

(segue nelle pagine successive)

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CLAUDIO ABBADO

“Musicamaestra”

La guerra, la famiglia, l’amore, le montagnee l’arte di sapere ascoltare

Alla vigilia dei suoi ottant’anniil grande direttore d’orchestra

si confessa a “Repubblica”

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Repubblica Nazionale

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(segue dalla copertina)

Le orchestre sono quelle chehanno scandito la sua carriera:la Mozart di Bologna (l’ultimanata, nel 2004), la Chamber Or-chestra of Europe, la LondonSymphony, i Berliner Philhar-

moniker, i Wiener Philharmoniker, la Mah-ler Chamber Orchestra e la Lucerne FestivalOrchestra. È anche in uscita il disco con lasua lettura della Secondadi Schumann, ese-guita dall’Orchestra Mozart: «Forse tra lesinfonie di Schumann è la più nuova e ap-passionata», sostiene. «La scrisse in anni incui era innamoratissimo di Clara. Cosa cheemerge dalla ricchezza del pezzo». L’amoreè uno spunto ideale per dare il via alla nostraconversazione.

Conta di più l’amore o l’amicizia nella vi-ta di Claudio Abbado?

«Sono sentimenti inseparabili, entrambiessenziali e spesso complementari. Amocerti amici e nutro amore per i figli. A Danie-le, il maggiore, che fa il regista, mi unisceun’autentica amicizia. Abbiamo un rappor-to libero e aperto».

E per quanto riguarda gli altri tre?«L’amicizia e l’affetto sono una cosa sola

sia con mia figlia Alessandra, sia con Seba-stian che fa l’architetto a Londra e sia con Mi-sha, il più giovane, che vive tra Londra eCambridge. Suona il corno e il pianoforte, ol-tre al basso elettrico in un gruppo rock, e fre-quenta l’università. Un gentleman versati-le».

Chi sono le persone alle quali oggi pensacon più amore, oltre ai suoi figli?

«Di sicuro una è mia madre, che fu donnadi generosità meravigliosa. Fece scapparevari partigiani durante la guerra e riuscì a farpassare in Svizzera molti ebrei. Tanti sonotornati a ringraziarla, nel dopoguerra».

Sua mamma Maria Carmela scrisse beilibri per ragazzi.

«Fu autrice di una raccolta di novelle sici-liane ascoltate durante la sua infanzia in Si-cilia e di un volume di fiabe tradotte da miononno Guglielmo Savagnone dal poeta per-siano Ferdowsi».

Un nonno formidabile, narrano le cro-nache di famiglia.

«Un grande saggio, docente di diritto ro-mano all’università di Palermo. Morì a no-

La copertinaClaudio Abbado

SUL PODIO

Claudio Abbadoè nato a Milano il 26 giugno 1933

Qui sopra, in uno schizzomentre dirige il Boris Godunov

a Vienna e in copertinacon i Wiener Philharmoniker

alla Scala nel 1988

LEONETTA BENTIVOGLIO

“Per colpa mia la Gestapo ci perquisì casa: avevo scritto Viva Bartòk sul muro e i nazisti credevano che fosse un partigiano”. In questo ricordodi bambino c’è molto del Maestro che si prepara a spegnerele sue ottanta candeline. E a ricevere attraverso “Repubblica”l’applauso degli amici e del mondo

Lasinfoniadellamia vita

Repubblica Nazionale

vantasei anni, restando lucido fino alla fi-ne. La sua sapienza delle lingue antiche erasterminata. Aveva tradotto dall’aramaico iltesto originale del Vangelo, e dalla tradu-zione emerse l’esistenza di altri figli di Ma-ria oltre a Gesù. L’aver rivelato che Gesùaveva fratelli e sorelle gli costò la scomuni-ca. Ne andava fiero, perché era un ricono-scimento della rilevanza della sua scoper-ta. Quando io ero bambino veniva con noiin Val d’Aosta, e passeggiando in monta-gna mi consegnava frasi che sarebbero ri-maste dentro di me per sempre. Rapide elapidarie».

Mi dia un esempio. «La generosità arricchisce». Che ricordo serba di suo padre? «Mio papà Michelangelo, violinista e in-

segnante al conservatorio, mi ha insegna-to la disciplina. Da ragazzo odiavo certe suedurezze, ma crescendo ho capito l’impor-tanza di quell’impostazione. Facevo il li-ceo e parallelamente studiavo musica:composizione, pianoforte, direzione d’or-chestra… Alle due di notte non mi lasciavaandare a letto se non avevo terminato tut-to. Grazie a lui ho imparato che le cose co-minciate vanno concluse e non rinviate».

La sua memoria del fascismo e della

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non ha limiti. Si continua a esplorarla e affio-rano idee sempre nuove. L’interpretazionemusicale è un viaggio sconfinato».

Riascolta i suoi dischi del passato?«Cerco continuamente di andare avanti e

di comprendere di più. Avevo inciso la PrimaSinfonia di Bruckner trent’anni fa, e di re-cente l’ho registrata in una nuova edizione(contenuta nel cofanetto in uscita per Deut-sche Grammophon, ndr) che mi ha apertoun mondo: Bruckner, dopo venticinque an-ni dalla prima versione, riscrisse la sinfoniafacendone un pezzo tanto più moderno,pieno di anticipazioni della scuola di Vienna.Si dice, giustamente, che Mahler sia stato unprecursore della musica moderna. Ora, conquest’edizione più tarda della Prima Sinfo-nia, capiamo che anche Bruckner aveva unagenialità profetica».

A Berlino ha lavorato per dodici anni co-me direttore musicale dei Berliner. È statala città più importante del suo percorso ar-tistico?

«Ovviamente per me ha contato moltoMilano, dove sono nato e cresciuto e doveper vent’anni ho fatto progetti e diretto allaScala. È stato decisivo anche il mio periodo aVienna, città culturalmente ricchissima,nella quale tra l’altro ho fondato il festival

Wien Modern. Ma credo che non esista almondo una città che si sia sviluppata tantovelocemente come Berlino dopo la guerra. Èviva, civile, stimolante, piena di verde e ge-nerosa di cultura, con nove orchestre sinfo-niche, tre teatri d’opera e vari teatri di prosa».

Come trova oggi l’orchestra dei Berli-ner?

«Magnifica e molto ringiovanita».Che significa per lei essere giovani?«L’età come dato anagrafico non signi-

fica nulla. Quello che conta negli individuiè la personalità».

Un uomo riservato come lei ha fatica-to a vivere per decenni sotto i riflettori?

«Spesso è molto bello sentirsi utili. Ie-ri camminavo qui a Bologna con mia fi-glia Alessandra, e continuavo a incon-trare gente che mi ringraziava perquanto cerco di fare in questa città, do-ve suoniamo con la Mozart e dove sto

sostenendo il progetto del nuovo auditoriodi Renzo Piano. Ma confesso che quando, afine Novanta, mi ammalai gravemente, igiornali scrissero troppo di me. Tanta inva-denza».

Come si difende dagli assalti?«Se è una cosa è ingiusta o mediocre, io

l’accantono. È una risorsa».Oggi lei lavora meno di prima: dilaziona

gli impegni.«Sono comunque numerosi. Molti sono i

concerti con la Mozart, anche in tournée, co-sì come i dischi. E in estate sarò a Lucerna,con l’orchestra del festival. Inoltre con la Mo-zart abbiamo una residenza al Musikvereindi Vienna e un’altra in Oman, Paese in gran-de espansione, dove hanno costruito unnuovo auditorio nel quale portiamo cicli re-golari di concerti».

Quando non dirige quali sono le sue prio-rità?

«Lo studio, la lettura, i figli, i nipoti, gli ami-ci, la natura. Mi piace camminare in Engadi-na, una valle a duemila metri d’altezza, luo-go incontaminato che ritrovo ogni anno.Quanto alla Sardegna nove ettari di costa, difronte a casa mia, sono diventati un parconaturale. Li strappai alla speculazione alcu-ni decenni fa, quando i soliti costruttori sta-vano per edificare qualche mostruosità edi-lizia. Vi piantai novemila piante. Ora sonotante, è diventato un bosco fiorito».

Renzo PianoTre sono gli auguri al mio mio grande amico Claudio 1 - Passare un altro mezzo secolo a divertirci assieme:noi, come Don Chisciotte e Sancho Panza (in questo

secondo ruolo ci sono io), ne abbiamo combinatedi tutti i colori, dal "Prometeo" con Nono a Venezia

al Lingotto di Torino e all'Auditorium di Roma con Berio;dai novantamila alberi che dovevamo piantare a Milano

fino al piccolo Auditorio inaugurato all'Aquila2 - Realizzare la nuova sala musicale a Bologna,

facendo atterrare nel cuore della cittàuno straordinario strumento musicale

3 - Vorrei augurare a Claudio, che passo a trovareogni estate ad Alghero sulla via del mare,di riuscire a battermi almeno una volta

nelle nostre sfide a vela…

Claudio Abbado è Mozart, è Mahler, è Ravel,è Schubert. Claudio Abbado è arte

Non un’arte solitaria, ma che esistese c’è un "insieme"

Claudio Abbado è un uomo solitario,ma non può fare a meno delle persone

È quella parte d’Italia che per tutta la vitaha costruito bellezza,

e in questa bellezza ha fatto entrare il dirittoClaudio Abbado è amore, amore per le donne,

per gli esseri umaniClaudio Abbado è imperativo per il lavoro

È un amico presente nei momenti più difficiliAuguri Claudio

Roberto Saviano

Roberto BenigniMi hanno chiesto di scrivere tre righe

per gli ottant'anni di Abbado Avrei preferito scrivere

ottanta righe per i suoi tre anniAbbado è un bambino di tre anni!

Lo stesso stuporee la stessa bellezza

Ecco le mie tre righe sul proscenioperché quest’entusiasmo non si tiene

una per dirti che tu sei un genioe due per dirti che ti voglio bene

Caro Claudio, in quest'occasione

il mio pensiero ritorna ai ricordi musicalilegati alla tua grande artee si volge con entusiasmoai nostri futuri incontri.

Con gli auguri più affettuosi

Maurizio Pollini

Giorgio NapolitanoA Claudio Abbado, per la passione e l’energia

che continua a spendere a beneficio della musica,dell’Italia e di noi suoi ammiratori,

un caloroso augurio,nel ricordo del nostro comune sodalizio

anche con amici scomparsi come Gigi Nono

guerra l’ha condizionata?«Certo. Il clima era tremendo. Rammento

il suono delle fucilazioni dei partigiani a Mi-lano, in via Fogazzaro, dove abitavamo. Il ru-more somiglia a quello delle saracineschedei negozi che calano bruscamente. Ancoraoggi, ogni volta che lo sento, penso a quelleraffiche di morte. Un’altra cosa che mi è ri-masta impressa è l’irruzione della Gestapo acasa nostra. Avvenne per colpa mia».

Quale colpa?«Col gesso, sul muro esterno, avevo scrit-

to “viva Bartòk”. Un po’ come si scrive “W ilMilan”. Ero entusiasta del compositore un-gherese, di cui stavo studiando i pezzi del Mi-crocosmo. Quelli della Gestapo pensaronoche fosse il nome di un partigiano. Per dis-suaderli dovetti mostrare loro una partituradi Bartòk».

Fu Bartòk il suo primo amore musicale? «Fu Debussy. Quand’ero piccolo ascoltai

i Nocturnesdal loggione della Scala. Una ma-gia nella quale avrei voluto vivere per sem-pre. In seguito per me arrivarono Bartòk,Stravinskij, Prokofiev e la scuola viennese:Berg, Schoenberg e Webern. Poi, dopo laguerra, tanti altri sono stati i compositori chemi hanno catturato, e ogni volta c’è stataun’evoluzione. Il bello della musica è che

Non c’è nessuno oggi che uguagli la leggerezzacon cui Claudio Abbado è capace di tirare fuori

il meglio da un’orchestraÈ un musicista di suprema eleganza

e ci ricorda, ogni giorno,che la cosa più importante nella musica è ascoltare

E noi vogliamo ascoltarlo ancora a lungo!Buon compleanno, sei ancora il più giovane,

fresco e curioso di tutti noi!

Daniel Harding

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 12 MAGGIO 2013

Najma che prese due voltequel treno da Bangalore Est

L’attualitàDelitti & castighi

La prima volta era una giovane insegnante felice di andare a scuolaLa seconda un viso nascosto dal burqa e segnato per sempredalla violenza. Nell’India che per proteggere le sue donne allestiscescompartimenti “rosa” l’autrice di “Cuccette per signora”racconta per “Repubblica” il più coraggiosodei viaggi. Quello di ritorno

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a domicilio specializzato in cucina musulmana. Era unabrava cuoca, ma lì non le facevano fare altro che pulire e af-fettare, preparare l’aglio e pestare le spezie. Ummaappari-va vecchia e spenta, ma il suo spirito era come un faro. Ed ègrazie a questo che siamo sopravvissute. Era stata lei a tro-varmi il lavoro alla scuola di Bangarpet. Era una scuola ge-stita da un’organizzazione di beneficenza musulmana ederano stati felici di assumermi. Io e ummaavevamo dei pro-getti. Una volta passata di ruolo, avremmo preso in affittouna casa a Bangarpet e ci saremmo trasferite lì. Fino ad al-lora avrei continuato a fare la pendolare. La stazione di Ban-galore Est era vicino a Tannery Road, dove vivevamo, tuttosembrava incastrarsi alla perfezione.

Ora sono contenta che esista il burqa. Perché sotto il bur-qa mi sento al sicuro e libera.

Io non lo conoscevo. Umma sì. Lavorava nel suo risto-rante. Mi aveva vista e si era innamorato di me. Follemen-te, dice lui. Sarebbe morto se non avesse potuto sposarmi.Lei gli aveva riso in faccia. Era un inserviente come lei. Miafiglia merita di meglio, è un’insegnante. Perché dovrebbesposare un umile sguattero come te?, gli aveva chiesto um-ma. In seguito mi hanno detto che si chiamava Imitiaz. Inurdu significa “marchio d’onore”. Imitiaz si sentiva comese lei lo avesse schiaffeggiato. Era umiliato. Gli amici gli dis-sero che era un uomo e non doveva lasciar passare questoaffronto al suo onore.

Perché ogni dettaglio di quella sera è così inciso nella miamemoria? Avevo mal di testa. Presi una tazza di tè alla sta-zione. Il tè della stazione di Bangarpet è famoso. C’eranotante persone in fila, ma l’inserviente del chiosco mi cono-sceva e saltò un mucchio di gente per servire me. Questo lofece infuriare ancora di più. Stava sul treno. Il treno passeg-geri Arakkonam-Bangalore che usavo ogni giorno per tor-nare a casa. Avevo trovato un posto vicino al finestrino. Luientrò e si sedette davanti a me, quando il treno lasciò la sta-zione di Whitefield. Mi chiedevo chi fosse. Aveva una puz-za familiare, la stessa della mia umma. L’odore di riso ba-smati che cuoce, di spezie e di grasso. Le rimaneva sulla pel-le anche se si strofinava tutte le sere con una spugna. «Pro-mettimi che quando sarò morta mi farai il bagno nell’attar.Non voglio andare nella janna con addosso l’odore di bi-riyani e kebab», mi diceva ridendo.

Quel giovane evidentemente lavorava per un ristoranteche cucinava biriyani, pensai. Quando il treno cominciò amuoversi, tirai fuori un libro. Sentivo i suoi occhi su di me.Lo guardai irritata, ma lui non smise di fissarmi. Il treno nonera molto affollato e mi trovai un altro posto vicino al fine-strino. Lui mi seguì e convinse l’uomo davanti a me a spo-starsi. Sentii che diceva di essere il mio fidanzato. «Che haidetto?», gli feci io alzandomi in piedi. «Siediti», disse lui.

Vidi sguardi incuriositi intorno a me. Mi chiesi se non fos-se il caso di domandare aiuto. Ma vidi lo sguardo nei suoiocchi e mi fece innervosire. «Chi sei?», gli chiesi in urdu.«Imitiaz. L’uomo che dovresti sposare». «È la mia ummache deve deciderlo», dissi io. «Sì. Io ho fatto quello che devefare un bravo musulmano. L’ho chiesto a tua madre e lei miha riso in faccia», fece lui rabbiosamente. Si vedeva chiara-

ANITA NAIR

mente che era infuriato. No, era più che infuriato. Pensai airagazzi di quindici anni che avevo avuto come alunni quan-do facevo la supplente. A volte vedevo questo sguardo neiloro occhi. Uno sprazzo di rabbia maniacale che li spinge-va a rompere i banchi e sfasciare la lavagna. Assunsi l’e-spressione più benevola che potevo e cercai di calmarlo, co-me facevo con quei ragazzi. «Ummanon vuole essere scor-tese. È solo che lavora troppo…», cominciai. «La tua ummaè una cagna sprezzante. Come te. Voi due pensate di esseresuperiori a tutti noi», disse lui. «Che hai detto?», feci io. Ave-vo alzato la voce di fronte a quell’insulto. «Lei pensa che tusia troppo in gamba per me. Questa cagna di sua figlia. Pen-si che non ti abbia visto? Che mostri la faccia a tutto il mon-do. Che usi la tua bellezza per ottenere quello che vuoi da-gli uomini. Dal ragazzo del chiosco del tè a tutti gli uominiin questo treno… quanti uomini vuoi, puttana?». Gli altripasseggeri cominciarono ad allontanarsi. Non so quanti diloro capissero l’urdu, ma il veleno nella sua voce era ine-quivocabile. E nessuno voleva farsi coinvolgere. Il vecchiocon lo zuccotto e la zebibamormorò: «Aver studiato non si-gnifica che bisogna disprezzare il Corano. Che razza di don-na musulmana è una che va in giro senza l’hijab?». «Diglie-lo tu, mamu», fece lui. «La mia fidanzata è una svergogna-ta». «Non sono la tua fidanzata», dissi io con fermezza, ran-nicchiandomi nell’angolo. Ero spaventata, ma cosa potevafarmi in un treno pieno di gente, pensai. Tra cinque o sei mi-nuti avrei raggiunto la mia stazione. Come potevo sapereche in quei cinque o sei minuti il mio mondo avrebbe cam-biato asse?

Il vecchio si alzò e andò dall’altra parte del corridoio. Ilcielo era scuro di nuvole e io speravo che non si mettesse apiovere prima che fossi arrivata a casa. «Per favore, lascia-mi in pace», gli dissi. Lui si chinò in avanti e mi fissò. «Nonsarai la moglie di nessun altro», disse. E con questo tirò fuo-ri la bottiglia di acido che si era portato dietro e me la scagliòin faccia.

Lo sapete cosa si prova ad avere l’acido sulla pelle? Lo sa-pete cosa si prova quando la vostra pelle si scioglie e le vo-stre terminazioni nervose urlano? Sapete com’è quandonon capite se siete voi che state urlando o è qualcun altro?Sapete com’è stare sospesi fra la vita e la morte e capire sol-tanto che c’è qualcuno accanto a voi che singhiozza? Sape-te com’è strillare e piangere quando umma viene vicino avoi e la puzza di biriyanisi insinua in quello che rimane del-le vostre narici e pensate che ci sia lui lì nella stanza e che vifarà di nuovo del male? Sapete cosa si prova a vedere l’orro-re negli occhi di tutti quelli che ti incrociano? Sapete com’èguardarsi nello specchio con l’unico occhio ancora in gra-do di vedere e sapere che non sarete più voi stessi? Sapetecom’è scoprire che tutti quelli che erano lì nello scomparti-mento hanno negato di aver visto qualcosa? Sapete com’èvivere sapendo che la vostra vita è distrutta e che l’uomo chel’ha distrutta gira ancora a piede libero?

Vedo il treno che arriva in lontananza. Il cuore cominciaa battermi forte mentre entra in stazione. Trovo lo scom-partimento dove so che ci saranno tutti. Entro e mi mettoseduta. Attraverso i buchi per gli occhi li vedo lì, tutti. Il vec-chio con lo zuccotto. I due insegnanti. L’uomo con la vali-getta.

Quando il treno comincia a muoversi e tutti si sono se-duti, mi sollevo il cappuccio del burqa. Sento il fremito diorrore. La mia faccia disciolta e la pelle tirata del viso non so-no facili da guardare. «Io sono Najma», dico. Le parole esco-no fuori con voce metallica. L’acido mi ha danneggiato an-che la laringe. «Io sono la ragazza che avete negato di avervisto. Voglio che guardiate bene quello che un uomo mi hafatto. Se non mi avete visto allora, spero che mi vediate ades-so», e poi aggiungo: «Ditemi, vi siete mai domandati che co-sa mi è successo dopo che qualcuno mi ha portata all’ospe-dale?». Silenzio. Uno degli insegnanti comincia a piangere.Guardo fuori dal finestrino. «Umma», dico a mia madre,che se ne sta impregnata di attar in una janna libera di spe-ranza e di paura, perché è così che deve essere il paradiso.«L’ho fatto. Ho fatto quello che mi hai chiesto. Ho affronta-to il mondo, non mi nasconderò mai più dietro un burqa».

Il vento mi soffia sulla faccia e sento il treno che comin-cia a prendere velocità. Io sono Najma.

© Anita Nair 2013 per La Repubblica(Traduzione di Fabio Galimberti)

sempre stato così: l’odore di un marciapiede di ferrovia miha sempre dato la sensazione profonda di essere arrivata daqualche parte. In quei giorni incerti in cui oscillavo tra la lu-cidità e un torpore stordente, mi dicevo che se mai fossi tor-nata in una stazione ferroviaria avrei saputo cosa fare.

Ho fatto un respiro profondo e ho riconosciuto tutti que-gli odori familiari. Il calore del sole sul metallo, la zaffata diurina e il sospiro di sollievo, il sudore di sconosciuti, cesti ecartoni, fiori e verdure e il sale dell’attesa. Sono andata al ru-binetto dove c’era scritto “acqua potabile” e ho premuto ilmanicotto. Non usciva nulla, come quell’ultima mattina incui ero stata in questa stazione, trenta mesi e sei giorni fa.Da allora non ero più tornata a Bangalore Est e sembravache nulla fosse cambiato.

In quest’ora tranquilla il binario ospita anime perse e de-relitti. E io sono tutte e due le cose. Vedo uno straccivendo-lo, una giovane donna con un cartone, un uomo anzianovestito con una tunica color zafferano e una lunga barbabianca, due cani che dormono su un fianco e un gruppo diragazzini pigiati sul ponte che scavalca la ferrovia. Sono letre del pomeriggio: non c’è nessun treno a lunga percor-renza che passa ed è troppo presto per i normali treni deipendolari. È questa la ragione per cui ho scelto proprio ilpasseggeri Bangalore-Marikuppam.

Mi siedo su una panchina con il sedile in granito leviga-to. Prima non c’era. Il calore della pietra mi brucia la pellesotto i vestiti, ma è piacevole, perché anche se è un caldogiorno di maggio ho i brividi di freddo. Uno storno triste sal-tella lungo il marciapiede. Incrocio le dita senza accorger-mene, per scacciare la sfortuna associata alla visione di que-sto volatile. Uno per il dispiacere. Due per la gioia. Tre peruna lettera. Quattro per gli ospiti. Cinque per la fortuna… Ilresto di questa filastrocca che cantavo da bambina non loricordo. Sciolgo le dita. Quella bambina non c’è più. E nonc’è più nemmeno la donna in cui quella bambina viveva.Quando la cosa peggiore che possa capitare ti è già capita-ta, quali altri dolori puoi lanciarmi contro?, chiedo all’uc-cello. Lo storno triste tira su la testa e vola via.

Il treno è vuoto quando arriva. Entro nello scomparti-mento più vicino. Trovo libero un posto accanto al finestri-no e mi accomodo sul sedile di legno. Cinquantuno virgolanove chilometri, sette stazioni, un’ora e cinque minuti pri-ma di arrivare alla stazione di Tyakal, prima del nodo ferro-viario di Bangarpet. È il tempo che ho a disposizione percomporre i miei pensieri e programmare quello che farò.

Baiyappanahalli. Krishnarajapuram. Whitefield. Deva-gonthi. Malur. Byatrayanhalli. Il treno si ferma e ripartementre io ripasso mentalmente i nomi delle stazioni. Quel-l’anno, quando percorrevo questa linea sei giorni la setti-mana, mattina e sera, non guardavo quasi fuori dal fine-strino. Leggevo un libro oppure mi perdevo nei miei pen-sieri; i miei pensieri felici. Avevo ventiquattro anni e tutta lavita davanti. Certi giorni invece orecchiavo le conversazio-ni dei miei compagni di viaggio. C’erano altri pendolari cheprendevano sempre il treno, sia all’andata che al ritorno, eavevo appena cominciato a familiarizzare con loro. C’eraun vecchio con lo zuccotto e la zebiba, il callo che si formasulla fronte dei musulmani devoti per il tanto pregare conla testa a terra. C’erano due insegnanti che bisbigliavano fraloro, e un uomo con il pancione e una valigetta, che dormi-va tutto il viaggio. C’erano anche altre persone.

Dò un’occhiata all’orologio mentre il treno lascia la sta-zione. È in ritardo, ma mi sono lasciata abbastanza tempoper prendere il convoglio passeggeri Arakkonam-Bangalo-re, quello che prendevo tutte le sere. Scendo a Tyakal. Nonc’è molto da dire su questo posto. Ma anche se ci fosse mol-to da dire, la mia mente è troppo sconvolta per soffermar-cisi. Ci sono un po’ di persone sul marciapiede. Nessunoguarda nella mia direzione. Un tempo mi interrogavo suquale mente perversa avesse creato il burqa: è una cosaodiosa, rivoltante. E poi la mia umma diceva che non c’eranessun bisogno di nascondermi come se fossi una creatu-ra spregevole. Mia madre era una donna particolare. Mi hadato il nome di una stella perché era convinta che fossi de-stinata a grandi cose. Lei non aveva studiato, ma ha fatto inmodo che andassi a scuola e al college. Voleva che diven-tassi un’insegnante e lo sono diventata. Se mi capitava diavere dei ripensamenti, bastava che la guardassi — la pelledura e screpolata dei suoi palmi, le spalle incurvate e le gi-nocchia gonfie — e vedevo quello che umma vedeva perme. Lavorava come inserviente di cucina per un ristorante

L’AUTRICE

Anita Nair vive a Bangalore,India. È autrice di libri di grande successotra cui Un uomo migliore,Cuccette per signora,Padrona e amante,I suoi romanzi (in Italiapubblicati da Guanda)sono stati tradottiin più di 30 lingue L’ultimo è La ferocia

del cuore. Ha fondatoe dirige la rivista letterariaonline Heavenly BlissSalon for Men

È

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ALL’ALBA. Passeggere alla partenza del treno Palwal-Delhi. Le carrozze sono riservate alle donne, una recente iniziativa per proteggerle dalle aggressioni

IN VIAGGIO. Sono otto le linee ferroviarie che prevedono carrozze “rosa”. Le prime sono state istituite nel 2009. Servono le periferie di quattro grandi città

IN GRUPPO. Donne, adulte e bambine, a bordo di un treno “protetto”: secondo una ricerca il 51% degli uomini indiani ha ammesso di aver commesso un’aggressione sessuale (FOTO ERIC BOUVET)

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L’immagine

I luoghi della mentefatti di carte e pennelli

C’è un luogo affascinante della mente che ha però una sua concreta topografia, muri esoffitti come i castelli interiori dei mistici seicenteschi, ma con un sovrappiù di stru-menti per trastulli con la fantasia (pennelli, stilografiche, fogli, macchine da scrivere,barattoli colorati, tubetti…) che a quelle algide costruzioni difettavano. È l’atelier, lostudiolo dove il pittore, lo scrittore, il musicista si segregano per dare libero corso allafantasia, «riflesso speculare dello spazio interno» del suo abitatore, «singolare sintesi

fra il fuori e il dentro, fra il mentale e il corporeo». Elisabetta Orsini, frequentatrice dei territori della filoso-fia, ce lo racconta in un bel volumetto (in uscita anche in versione francese: Atelier. Lieux de la pensée et dela création, Mimesis France), che è in realtà una raffinata e godibile ricognizione sulle modalità della crea-zione artistica, anzi: sulla maniera in cui alcuni artisti hanno descritto il processo creativo, parlando di sestessi o magari di altri. Il tutto corredato di un ricchissimo corollario iconografico, quasi un libro parallelo,per colmare le nostre curiosità di lettori e le nostre brame voyeuristiche. Nell’ottica dell’autrice, l’ateliernon è però solo il luogo fisico del lavoro creativo, «architettura dell’architettare», ma soprattutto un ogget-to dinamico, una successione di modalità e procedimenti che presiedono alla nascita dell’opera, per cui

vediamo Balzac che si sveglia a mezzanotte e scrive in tonaca bianca e cappuccio, a ribadire la sacralità cheper lui riveste quel gesto. Per Kafka, lo spazio della scrittura — a lungo coincidente con la cameretta dai ge-nitori — è un maniero che bisogna difendere dalle incursioni dei familiari, ma soprattutto dei rumori concui essi violentano l’aria (a leggere le sue annotazioni, ce l’immaginiamo nel pieno della Quinta strada al-l’ora di punta, e invece vive in un ridente appartamentino dietro piazza della Città Vecchia). Kafka è un so-litario, scrive nelle ore della notte dopo essersi ripreso dalla giornata lavorativa alle Assicurazioni. Il suo so-gno di studiolo è «il locale più interno d’una cantina vasta e chiusa». Ma quel rituale di silenzio e solitudi-ne, reiteratamente snocciolato alle donne della sua vita, è anche una maniera per impedire che esse colti-vino oltre il desiderio di vivere con lui, impedendogli quel rapporto a due — in fondo così ben riuscito —con la scrittura. Questo almeno fino a che non appare Dora…

Robert Luis Stevenson immaginava invece il suo studio ideale come una grande stanza con cinque ta-voli: uno per la scrittura, uno per i libri di consultazione, uno per le bozze da spedire, uno con le carte geo-

GIUSEPPE DIERNA

Atelier

Kafka lo sognava in fondo a “una cantinavasta e chiusa”, quello di Bacon

era “una discarica”.Mirò aveva un armadiozeppo di pupazzetti e Klee una cassetta

piena di simboli fantastici.E se sopra la scrivaniadi Calvino troneggiava il poster di Snoopy, su quella di Gidestava appesa la maschera di Leopardi. In un librogli artisti raccontati attraverso le proprie officine creative

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grafiche e l’ultimo — geniale accortezza — sempre «tenuto sgombro per l’occorrenza». Perché l’ispirazio-ne non è solo impellente, ma spesso anche tremendamente ingombrante.

Manipolati post mortem, distrutti (come quello di Breton, sminuzzato nelle aste pubbliche) o trasloca-ti d’ufficio (Bacon), l’atelier è un luogo recintato, isolato e magico. Scrive Mirò: «Entro nel mio atelier e so-no avvinto dal magnetismo… un tubo di colore sta lì per terra e mi attira». Il suo centro geometrico è il ca-valletto, il tavolo, la scrivania ma — essendo questa, a detta di Italo Calvino, «un po’ come un’isola» — infondo «potrebbe essere qui come in un altro paese».

Perché, spiega l’autrice, l’atelier è «l’artista stesso, còlto nell’istante della creazione», per cui SebastianMatta, novello Re Sole, poteva dichiarare: «Lo studio sono io!». L’atelier è allora Chatwin stesso sulla stra-da col taccuino in mano, o «l’immaginaria quercia di Orlando» alla cui ombra — nel romanzo di VirginiaWoolf — il protagonista compone il suo poema, mentre lo studiolo di Corot non potrà che essere quel-l’angolo di prato in cui è fotografato, dove sono i ferri del mestiere (scatola dei colori, pennelli, cavalletto eseggiolino) a delimitare e rinominare lo spazio.

Ma, data l’indubbia vicinanza della creazione artistica col gioco, lo studiolo dell’artista è a suo modo an-che una stanza dei giochi, «il luogo appartato e segreto ove tornare a giocare con i loro giocattoli del pen-siero», come sembrano confermare i due Pinocchi che Manganelli tiene in piedi sulla sua scrivania, o l’ar-madio a giorno nello studio di Miró, con ninnoli, pupazzetti, animali fantastici, o certi arredi che attornia-no Paul Klee.

Nel percorso delle immagini si disegnano storie personali, destini d’artista. C’è Gide che lavora sotto al-la maschera mortuaria di Leopardi attaccata alla parete. Sul tavolo di Céline c’è una tazza vuota, una mol-letta per stendere i panni, un pappagallo e un paio di cartelline con dei fogli: il libro lo scrittore lo tiene sul-le ginocchia. C’è Thomas Mann trentenne seduto a una solida scrivania, sullo sfondo una solida bibliote-ca borghese, e dietro alle spalle la porta ben chiusa, mentre Kandinskij se ne sta davanti a uno scaffale pie-no di barattoli dei suoi colori, come un farmacista o un ragazzino che giochi al piccolo chimico. Hemingwayè di quelli che scrivono in piedi («quasi imbozzolati in un atteggiamento che non permette abbandono almondo circostante, ma che impone una forma di vigile autocontrollo»), con la portatile poggiata sul ri-piano della libreria, sotto allo sguardo imbalsamato di un’antilope.

L’atelier di Bacon a Londra, una vecchia rimessa ristrutturata, è il regno del caos, e quindi robusta fontedi ispirazione. Quando vi invita il nuovo compagno, lo avverte di vivere «in una discarica». Esagerava? No.Le foto sembrano dargli ragione: insieme ai pennelli infilati dentro scatole di fagioli e a tappeti di fogli digiornale, s’intravedono mucchi di variegato pattume. Ma solo da quel disordine (che «è forse una buonaimmagine di ciò che succede dentro di me») lui può produrre i suoi quadri, perché «se tutto ciò deve tro-vare un ordine, è sulla tela che questo avviene». Dopo la sua morte l’intero atelier fu smontato e trasferitoin una galleria dublinese. Ogni cosa venne etichettata e impacchettata: soffitti, pareti, porte, e anche la pol-vere che il pittore talvolta utilizzava per sporcare il colore.

Agli antipodi di tale guazzabuglio, c’è la stanza da lavoro di Calvino nei primi anni a Parigi, dalla linea-rità quasi costruttivista. Una scrivania subissata di fogli e, sulla parete, il poster di Snoopy-scrittore nel pro-prio atelier creativo (il rosso tettuccio della sua cuccia), davanti alla macchina da scrivere, ma ancora fer-mo al suo straordinario incipit: «Era una notte buia e tempestosa». Calvino lo ricorderà, quel poster («unemblema della mia condizione, un ammonimento, una sfida»), in uno dei capitoli finali di Se una notted’inverno un viaggiatore, romanzo che inizia invece in uno spazio simmetrico rispetto allo studiolo del-l’artista: la stanza del lettore, dove questi — che ha appena comprato l’ultimo libro di Calvino che anchenoi stiamo leggendo — con una ritualità non inferiore a quella dell’autore (silenzio, porta chiusa, atten-zione alla disposizione della luce, quasi fosse un caravaggesco) si appresta a sfogliarlo. Non sarà mica chei due spazi non sono che una doppia variante della stessa scatola sonora nella quale — come scriveva Cal-vino della Visione di sant’Agostino di Carpaccio — «si registrano le oscillazioni dei sismografi»?

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IL LIBRO E LE IMMAGINI

Le foto sono tratte daAtelier. I luoghi del pensiero e della creazione

di Elisabetta Orsini (Moretti & Vitali, 308 pagine, 18 euro) 1.Lo studiodi Bacon nella vecchia rimessa londinese 2.Hemingway in piedicon la portatile sulla libreria 3.L’atelier di Morandi nella casa estivadi Grizzana: la natura morta è fotografata da Berengo Gardin4.Paul Klee nel 1924 a Weimar 5.Pasolini nel suo studio-casadi Chia fotografato da Dino Pedriali 6.L’atelier di Munch, 19257.Gide al lavoro: appesa alla parete una maschera di Leopardi8.L’armadio di Mirò 9.Céline e il pappagallo Toto a Meudon, 1957

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Non solo i memorabili incontri di una vita passatasul palcoscenico. Per una volta il grande attoremette a verbale il suo diario più intimo

E racconta con ironia e dolcezza di nonne,babbi, fascisti e primissimi amori

SpettacoliAutobiografie

uand’e-ropicco-

lo man-giavamo le robe dei pove-ri. I carciofi non c’eranomai. Abitavamo in peri-feria, Firenze non si vede-va. Eravamo vicino alla

stazione, la seconda, quella di Rifredi,ogni fabbrica aveva un attacco. Si senti-vano le mucche piangere, muggivanoperché non volevano andare a farsi am-mazzare, anche i maiali piangevano. Lebestie le macellavano il venerdì.

I rossi e la milizia

Noi per mangiare compravamo le co-se che costavano meno. Sono cresciu-to a forza di polmone, lo cucinavamocon le patate e il pomodoro: quello cheora si dà ai gatti allora era bontà. La no-stra casa si trovava in via di Santo Ste-

fano in Pane. Dalla finestra vedevo uomini pic-

chiati coi bastoni. «Perché li trattano così?» chiedevo

alla nonna. «Perché sono rossi» mi rispondeva.Sono questi i miei primi ricordi.Oltre alla polizia ferroviaria c’era la

milizia. Ogni tanto un poliziotto miprendeva in braccio e mi faceva vederel’uomo che metteva il carbone per farandare il treno.

«Dov’è la mia milizia oggi?» doman-davo quando non c’era nessuno.

Le gambe di mamma

La sera ero sempre al binario, aspettavola mamma che tornava con la vaporie-ra da Prato. Faceva la maestra. Mi ricor-do bene i polpacci, i piedi dentro le scar-pe, rivedo i lacci, il tacco a rocchetto. Eropiccolo e le gambe della mamma mi ve-

Fettuccine con i carciofi, asparagi allaBismarck, roast beef e fagiolini,insalata di gamberi, sogliola ai ferri,dolci e pere cotte, vino rosso e«acqua senza bolle», caffè, grappa...Sono alcune delle comande

destinate ad alimentare il menu di venti pranziche in un anno e mezzo, dal novembre del 2011all’aprile di quest’anno, sempre a mezzogiorno,sempre in un ristorante della centrale piazzaSforza Cesarini di Roma, hanno reso possibilel’outing famigliare più indiscreto e piùaffettuoso cui fino ad oggi si sia (volentieri)abbandonato Paolo Poli. Il bilancio non è unprontuario di ricette & libera conversazione. Ilrisultato è piuttosto un singolare volume dimemorie in un disinvolto clima da Satyriconintellettuale del terzo millennio. E il libro Rizzoliche ne è appena scaturito, in uscita questasettimana, s’intitola Sempre fiori mai un fioraio,sottotitolo Ricordi a tavola, e in copertinaaccanto al nome di Poli figura quellodell’artefice/intervistatore Pino Strabioli, attoree conduttore televisivo che ha recitato colNostro, nel 1996, ne I viaggi di Gulliver.Considerando soprattutto la prima metà diquesta autobiografia messa a verbalemangiando a ridosso di Corso Vittorio, direi chemai s’era sentito Paolo Poli così a suo agio (e cosìfluente) nel ritrarre i caratteri, le nature umane, irisvolti candidi, le ampiezze di vedute el’aneddotica senza veli d’un ceppo domestico, ilsuo, che all’epoca del fascismo dovette vivereangustie economiche, sociali e politiche,facendo i conti con le dignitose possibilità di unamadre maestra e d’un padre carabiniere il quales’ammalò di tubercolosi nel ’37 e poi morì ditumore nel ’45, quando Paolo aveva sedici anni.Direi che, non tradendo la sua vena di teatrantedemolitore della retorica, neanche un rigo dellericostruzioni dei suoi fatti pecca qui mai diconformismo o sentimentalismo. Ci convinceche l’ammassarsi stretti su pochi metri di letto dilui e dei cinque tra fratelli e sorelle (solo Luciacondividerà poi la sua inclinazione a vivere tantevite sulla scena) è un tirocinio che forse allenò ilcorpo di lui futuro attore. La quasi creativasensibilità del padre, che lo introduce dinascosto a veder recitare Ricci, la Brignone, laMorelli o la Borboni, gli ispira non pocheimmagini intime che sono pervase dibuonumore promiscuo (vedi lo scherzarecameratesco ed epidermico tra papà e figlio, vediil fuggevole bacio paterno a una suora tisica),mentre il ritratto della madre ci restituiscel’esempio di una donna stoica, con profonde einaspettate comprensioni. In proposito, non èmai morboso, non è mai problematico, e non èmai clandestino lo spirito omosessuale di Poli,che ricambia qualche infantile tenerezza diamichette ma poi ha piena coscienza di sé apartire dall’attrazione per un fornaio giovanettoo, più in là negli anni, per un aviatore, per untranviere, o per un macchinista teatrale.Ma in questo libro-album Paolo Poli non parlasolo di Cristi nudi, del suo aver “trombato” PierreCardin, di Sandro Penna o di celie omoerotiche,perché anzi l’argomento man mano piùricorrente ha a che fare con una galleria di grandidonne («Chi fa i complimenti alle donne se nonun frocio? Il signor Bovary non si è mai accortodei gioielli di Emma»). Dalle benefattrici si passaad Anna Maria Ortese, a Elsa Morante, a NataliaAspesi conosciuta e diventata la prima amica aMilano (prefatrice di un altro recente volume,Paolo Poli e Lele Luzzati di Marina Romiti), aValentina Cortese, a Nora Ricci, alla moltocomplice Laura Betti («Lei mi manca»), ad AnnaMagnani, all’amatissima Franca Valeri. Ma ilritratto più bello, l’apologo più diffuso, la fedepiù etica di Paolo Poli che questo librotestimonia è un ritratto armonioso dellasolitudine. Tra un pasto frugale e l’altro.

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RODOLFO DI GIAMMARCO

PAOLO POLI

Un outingfamigliare

QSono cresciutotra un King Konge due giarrettiere

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nivano incontro. Mi sembravano altis-sime. Appena arrivata a casa, si toglievale scarpe, poi le calze e le giarrettiere.Quegli elastici mi incantavano. Esiste-va solo a quell’ora per me la mamma. Lamattina usciva di casa troppo presto, iorestavo con la nonna Maria.

Il mio zio tassinaro raccontava sem-pre di quando andava a prendere ledonne dalle case di tolleranza per farele comparse. Una signora per bene nonpoteva lavorare al cinematografo.

Ero io suor Camilla

Sono nato nel 1929, mentre l’Americacadeva, l’Italia si rialzava e pensava alConcordato. La mamma era del 1897, ilbabbo del 1894. Era buono mio padre,figlio di certa gente nata in cima a unamontagna, elegante, alto un metro eottanta.

Un giorno arrivarono degli inglesi e

lo presero come cameriere. Lo portaro-no in Inghilterra, dove credo abbia avu-to esperienze sia con donne che conuomini. In un cassetto teneva i ricordi:c’era una scarpina di femmina e unacinghia di maschio.

Si chiamava Basilio. Nome impor-tante, Basileus. Aveva idee di socialista.Non gli dava noia la mia effeminatezza,anzi: mi chiamava suor Camilla. Michiedeva: «Paolo, oggi alla ginnasticahai saltato la baionetta?». «No babbo,non l’ho fatto, avevo paura!» . Mi face-va esonerare, non mi sgridava mai.

La barba ai morti

Il lungo mese di vacanza noi lo faceva-mo in campagna, a Lamporecchio, dadove proveniva la mamma. Su quellemontagne pistoiesi ci sono le suore disanta Brigida, famose per i brigidini,ostie di acqua e farina, con uovo, anice

o finocchio. Finocchio, capisci! Fraquelle montagne ho avuto un amore.Una capra. Io non digerivo il latte dimucca e la nonna ebbe un colpo di ge-nio: mi portò una capretta. Era pulitis-sima, la baciavo, la abbracciavo, lamungevo, bevevo il suo latte senza bol-lirlo. Avevamo anche una gallina, nonaltrettanto pulita. Quando faceva l’uo-vo bevevo anche quello, ma prima do-vevo appoggiarlo sugli occhi. Non homai capito il perché. Aveva straneusanze e strane teorie la nonna, spe-cialmente sul latte. Di sei figli, tre eranomorti con la spagnola, la terribile in-fluenza. Erano rimasti la mia mammamaestra, la zia ragioniera e un maschio«duro, duro che non impara nulla, e saiperché?» diceva. «Perché non ha bevu-to il mio latte ma quello della mucca. Ioson dovuta andare in Germania a fareda balia al duca Massari». Non aveva

studiato, tutto quello che sapeva loaveva imparato da sola. È stata lei aspiegarmi che le cose sono sempresemplici, che non si deve mai averepaura di nulla. «Vai in Germania, leggiBrot e quello è pane!».

Per farmi addormentare mi raccon-tava la storia delle cento pecore d’oro.Iniziava a contarle, alla quinta già rus-sava. Era stanca. Lavorava tutto il gior-no. Andava anche a fare la barba aimorti e a lavarli. Una volta tornò dicen-do: «Povero ragionier tizio, se n’è anda-to che era ancora vergine, ho visto il pi-sello chiuso».

La scimmia pelosa

Amori veri mai avuti. Mi garbava unoche vedevo sul tram «...le rose che noncolsi». Sono come il poeta di Torino.Amavo quelli con i quali non avevo maiparlato. Sempre avuto due condizioni

separate: il sesso e il sentimento. Sessopraticato, sentimento meno. Non mipiace l’affetto. La mamma non ci face-va carezze, non aveva tempo. La mia ziabuona, la ragioniera, era stata sposatamalamente con uno che portava don-ne nel letto per fare il mucchio. Lei nonvoleva, non le piaceva. Un giornoscappò dalle suore e ottenne la separa-zione. Quasi un miracolo. A quei tempinon si credeva alle mogli. Una donnache si staccava dal marito era una troia.

Fu questa zia a portarmi al cinema avedere King Kong. Quando lo vidi ar-rampicato sull’Empire State Buildingcon la sua bambolina in mano e gli ae-roplani cattivi che gli sparavano, ho ini-ziato a urlare e dallo spavento mi sonopisciato addosso. La zia mi ha portatoal cesso, mi ha tolto le mutande e le habuttate, mi ha asciugato con delle car-tacce sudicie, mi ha rimesso i pantalo-ni, mi ha allacciato i bottoncini e trasci-nato fuori. Siamo entrati in un negoziodove, per consolarmi, ha compratouna bambola: una scimmia pelosa.

La sera ci sono andato a letto. È statoil mio primo amore sensuale.

da “Sempre fiori mai un fioraio” Rizzoli 2013

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IL LIBRO

Sempre fiori

mai un fioraiodi Paolo Policon Pino Strabioli è la quarta uscitadella nuova sigla di Rizzoli,ControTempo (174 pagine, 14 euro) Al centro, il matrimonio di due delle tre sorellenel ’49: da sinistra,Paolo è il terzoin seconda fila,la madre è la terzain prima fila

ALBUM

Souvenirdi palcoscenico:da sinistra,Paolo con Luciae la compagniadi Femminilità

in un ristorantea Venezia,nel 1975,e al Colosseonel Cinquantaancora con Luciae la zia AssuntaSopra e sotto,prime recitee travestimentidi scenanegli anniSettanta

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Se scienza e tecnicasi ispirano alle piante

e copiano gli animali

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Aghi come i pungiglioni di zanzara, bottiglie come pini,docce a spirali d’alga, frigoriferi modello alveare, pannelli solarisimili a ali di farfalla. Si chiama biomimetica e ci dimostraquanto l’intuizione di Leonardo abbia ancoraun grande avvenire

NextBelle scoperte

Similea un pollaio e senza viavai di be-toniere. A questo assomiglierebbeun cantiere edile se fossimo davveroquella civiltà tecnologicamente su-periore come ci piace credere. Pertrasformare il calcare in materialestrutturale lo scaldiamo a 1.300 gra-di, ottenendo cemento a un costoeconomico e ambientale elevatissi-mo. Se invece lo sminuzzassimo el’offrissimo alle galline, nel giro diqualche ora verrebbe trasformato inguscio d’uovo, un materiale più resi-stente del calcestruzzo. Padroneg-giare questa “tecnologia” rendereb-be possibile un risultato straordina-rio a bassa temperatura, in manieraefficiente ed ecologicamente soste-nibile. Ed è questa l’ambizione dellabiomimicry, parola tradotta impro-priamente in italiano con “biomi-metica”.

«Il design degli esseri viventi è sta-to perfezionato in oltre 3,8 miliardi dianni di evoluzione e di rigorosi testsul prodotto», osserva il guru dell’ef-ficienza energetica Amory Lovins.«Chi non ha superato il test è stato “ri-chiamato” dal produttore. Quell’unper cento di sopravvissuti può peròimpartirci innumerevoli lezioni sucome costruire e far funzionare glioggetti, e su come adattarli al conte-sto in cui si trovano», spiega.

Quello delle galline per il momen-to è un insegnamento fuori dalla no-stra portata, ma ci sono altre lezioniche stiamo invece iniziando ad ap-prendere e non è fantascientifico im-maginare che in un futuro non mol-to lontano la nostra vita quotidianasarà sempre più costellata da oggettie tecnologie ispirate direttamente al-le abilità di animali e piante. «Il geniodei progetti della natura — ricordaancora Lovins — ha già portato all’i-deazione di bastoni per ciechi pen-sati come gli ultrasuoni dei pipistrel-li o a fogli sintetici che raccolgono larugiada come fanno gli scarabei neldeserto della Namibia».

Cercare di carpire i segreti dellanatura non è certo una novità, maquesta aspirazione è stata ora codifi-cata ed esaltata in una vera e propriadottrina che spinge la scienza a con-frontarsi con la filosofia. «La biomi-metica annuncia un’era basata nonsu cosa possiamo estrarre dagli orga-nismi naturali, bensì su cosa possia-mo imparare da loro», spiega JanineBenyus, presidente e co-fondatricedel Biomimicry 3.8 Institute, un enteno-profit statunitense sorto per pro-muovere lo studio e l’imitazione del-la natura offrendo consulenza a cen-tri di ricerca, professionisti e aziende,comprese molte multinazionali co-me General Eletric, Levi’s e Nike.

«Questo approccio si differenziain maniera profonda dal bio-sfrutta-mento, ma anche dalle tecnologiebio-assistite che prevedono la “do-mesticazione” di organismi per rag-giungere uno scopo, come ad esem-pio i batteri usati per purificare l’ac-qua o le mucche allevate per ottene-re latte. Qui si tratta di prendere inprestito un’idea», sottolinea Benyus.

I successi non mancano. Asknatu-re.org, una costola del Biomimicry3.8 Institute, elenca e descrive qual-che migliaio di prodotti già realizzatio di progetti di ricerca che hanno ache fare con la biomimetica. Si va dal

Per nuotare senza fatica lo squaloha sulla pelle miriadi di ammaccature:producono turbolenze che riduconol’attrito con l’acqua. Lo stesso principioviene sperimentato sulle carrozzeriedelle auto per risparmiare carburante

SQUALO ● AUTOMOBILE

VALERIO GUALERZI

microago ispirato al pungiglionedella zanzara (è meno doloroso) alladoccia che copia le spirali di alcunealghe (consuma meno acqua), daifrigoriferi che imitano il metodo usa-to dalle api per tenere fresco l’alvea-re (anche in questo caso il risparmio

idrico e energetico è garantito) aipannelli fotovoltaici che riproduco-no il nero delle ali di farfalla per as-sorbire più energia. «Ma è l’architet-tura il settore più ricettivo», dice la re-sponsabile di Asknature.org SherryRitter. «Interi nuovi insediamenti re-sidenziali vengono progettati pen-sando ai cicli chiusi degli ecosistemi,

dove acqua ed energia sono in pe-renne ricircolo».

Malgrado i tanti successi, Ritternon si nasconde le difficoltà. «La no-stra chimica è quanto mai rozza, si af-fida soprattutto a solventi nocivi etemperature altissime. Quella natu-rale è decisamente più elegante, mamolto complessa. Ora grazie a nuove

Dererum

natura

Per i pazienti costrettia continue iniezioni il dolore dell’agopuò essere un calvario. Imitandoil pungiglione delle zanzare in Giapponeè stato messo a punto un microagola cui puntura è avvertita a malapena

Grazie alla loro capacità omeostaticai muscoli modificano la strutturasecondo la temperatura. Così unapellicola della Decker Yeadon adattai suoi disegni al clima, schermandola luce o lasciandola filtrare

ZANZARA ● MICROAGO MUSCOLI ● VETRO

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È lo studio consapevole dei processi biologicie biomeccanici della natura,come fonte di ispirazione per migliorarele attività e tecnologie umane

BIOMIMETICA

Come fanno le locuste a volarein sciami senza scontrarsi?I ricercatori stanno studiandoil loro sistema neuronale per inserirloin dei microprocessori da applicarea sistemi anticollisione

Studiando come le trote sfruttanoi vortici d’acqua per nuotare più velociè possibile sistemare le pale eolichead asse verticale seguendouna disposizione che ne aumentala produzione di elettricità

Per realizzare una sostanza adesivacapace di garantire aderenzasu qualsiasi superficie, i ricercatoridel Max Planck Institutehanno copiato le microsetolepresenti sulle zampe degli insetti

L’azienda di sanitari Moenha brevettato una doccia ispirataalle spirali disegnate dalle alghedel tipo delle laminariali. Il particolaredisegno permette un risparmioidrico del 20% rispetto agli standard

I sostenitori della biomimetica definisconocosì la pratica di prendere dalla natura materieprime. Un metodo considerato non negativoperché fatto in maniera sostenibile

BIO-UTILIZZO

È la cosiddetta domesticazione. L’uomoalleva animali o coltiva piante per le suenecessità, che siano le mucche per produrrelatte o dei batteri per purificare l’acqua

BIO-ASSISTENZA

Sono le applicazioni tecnologiche della biologiaUtilizzate soprattutto nell’agroalimentare,per ottimizzare il ruolo di microrganismi, e nel campo del biorisanamento

BIOTECNOLOGIE

È una porzione di biosfera delimitatanaturalmente, cioè l’insieme di organismianimali e vegetali che interagiscono tra loroe con l’ambiente che li circonda

ECOSISTEMA

una bottiglia con meno plastica,ma altrettanto resistente. Si è

ispirato al tronco del Pinus albi-caulis, che sa sopportare vento e ne-ve. Eppure, prima di convincere l’in-gegnere che la doveva realizzare l’hadovuta sottoporre a decine di test esolo ora è finalmente sugli scaffalicon l’etichetta Vitalis».

Se una delle molle fondamentalidella biomimetica sono le preoccu-pazioni ambientali, anche le pro-spettive economiche fanno la loroparte. Uno studio commissionato alFermanian Business & EconomicInstitute dallo zoo di San Diego hafatto per esempio i conti in tasca allabiomimicry spiegando che «nel cor-so di 15 anni potrebbe realizzare mil-le miliardi di dollari di Pil, creando1,6 milioni di posti di lavoro. Leaziende che hanno deciso di affidar-si alla biomimetica hanno spesso

raddoppiatole loro

vendi-te nel

giro dip o c h i

anni». «È una

b r a n c anuova e af-

fascinante,che prevede

un grandesforzo interdi-sciplinare tra

biologi moleco-lari, ingegneri e

fisici«, confermaDario Pisignano, do-

cente presso l’univer-sità del Salento. Pisigna-

no con l’Istituto nano-scienze del Cnr di Lecce, ha

appena pubblicato uno studiodimostrando come produrre mi-

crofibre di biossido di silicio ispi-randosi alle spugne marine. Anchein questo caso il vantaggio è am-bientale: le spugne, grazie a una spe-ciale proteina, la silicateina, nonhanno bisogno né di solventi né di al-te temperature per ottenere questasostanza preziosa per la realizzazio-ne di microprocessori e fibre ottiche.

Per l’Italia la biomimetica in fon-do non è che un ritorno al suo passa-to migliore. Leonardo scrisse il Codi-ce sul volo degli uccelli dopo avernespiato a lungo l’abilità, aprendo lastrada, seppure quattro secoli dopo,all’invenzione dell’aeroplano. Cer-to, all’uomo poi sono bastati undicianni per usarlo nella Grande Guerrasganciando bombe in giro per ilmondo. Ma questa è un’altra storia.

tecniche come la slow motiono i mi-croscopi elettronici stiamo facendograndi passi avanti nel capirla. Maesiste anche un fondamentale pro-blema di mentalità: continuare lastrada già battuta a molti sembra piùfacile. Penso ad esempio alle diffi-coltà incontrate dal designer porto-ghese Carlos Rigo. Voleva realizzare

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I pannelli solari devono assorbirepiù luce possibile senza rifletterlaLa struttura a strati che caratterizzale parti nere delle ali della farfallaOrnithoptera priamus

è un modello di efficienza

Se la forma è più resistente,per fabbricarla serve meno plasticaÈ nata per questo la bottigliadella Vitalis ispirata al troncodel pinus albicaulis, capace di resistereal peso della neve e al vento

Si chiama Time Capsule il frigoriferoper conservare frutta e verduranei paesi caldi. Funziona con un sistemadi evaporazione e circolazione dell’ariache imita il metodo usato dalle apiper tenere al fresco gli alveari

LOCUSTE ● ANTIURTI INSETTI ● NASTRO ADESIVO ALGHE ● DOCCIA TROTE ● CENTRALE EOLICA

API ● FRIGORIFERO

TRONCO ● BOTTIGLIA

FARFALLE ● FOTOVOLTAICHE

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Da IL CODICE SUL VOLO DEGLI UCCELLI

Leonardo da Vinci, 1505

Il Grande NibbioSempre il moto dell’uccellodebe essere sopra alli nugoli,acciò che l’alia non si bagni,e per iscoprire più paesi,e per fugire il pericolodella revoluzione de’ ventiinfralle foce de’ monti...

GLOSSARIO

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Repubblica Nazionale

«Ogni volta che siedo qui pensoa Borges che, in un racconto,fa sostenere da Paracelso cheil paradiso esiste ed è questaterra. Ma esiste anche l’infer-no, ed è il non accorgersi che

questa terra in cui siamo è il paradiso». Luigi Veronel-li non era uomo dai pensieri gratuitamente teneri,quando giudicava vini e recensiva ristoranti. A menoche un bicchiere, un piatto, un’atmosfera non lo ra-pissero in maniera felice e irrimediabile. Deve essereandata così quando, agli inizi degli anni Novanta,

raccontò l’Enoteca Pinchiorri nella guida gourmandche portava il suo nome: poche righe inebriate percertificare come a vent’anni dall’apertura del localefiorentino, il primato del vino — che aveva reso cele-bre Pinchiorri nel mondo — avesse trovato il suodoppio in quello della cucina, regno da tre stelle Mi-chelin della sua compagna Annie Féolde. Qua-rant’anni e non li dimostra, bisognerebbe dire, fe-steggiando il compleanno dell’Enoteca più famosadel pianeta. In una classifica virtuale dei come e deiperché del flusso turistico che ogni giorno affolla i luo-ghi più mirabili del nostro Paese, come David o Uffi-zi, il quotidiano pellegrinaggio a via Ghibellina meri-ta un posto speciale.

Se l’Enoteca Pinchiorri ha attraversato l’ultimoquarto del secolo scorso e questo affaccio di nuovomillennio nella Top Ten dell’Italia da visitare non èsemplicemente per la cucina di alto profilo o la sceltadei vini straordinaria. È l’esperienza nel suo insiemea far cinguettare i sensi, una sorta di summa di tuttoquello che gli italiani vorrebbero essere e che l’Italiavorrebbe offrire: professionalità a sorrisi aperti, qua-lità senza scorciatoie, bellezza evidente ma non sfac-ciata. Come succede in altri grandi ristoranti italiani— da Don Alfonso di Sant’Agata sui Due Golfi al Pe-scatore di Canneto sull’Oglio — all’Enoteca non si vaa cena, ma a trascorrere una magnifica serata madein Italy. Dove il godimento non è compresso dalle in-gessature di tante maison francesi, né offuscato dagliinciampi di stile di certi ristoranti cooldel nuovo mon-do. La Guida Michelin li definisce locali «che valgonoil viaggio». Con questo approccio, se paragonato a unpalco alla Scala, a una gara vissuta ai box Ferrari, allafinale di Champions League, il costo della serataprende senso.

Non è stato facile, per Annie Féolde e Giorgio Pin-chiorri arrivare fin qui. Lei, adolescente nizzarda a Fi-renze per imparare l’italiano, lui giovane sommelierfiglio della campagna emiliana in cerca di futuro. Unamore capace di costruire un tempio dell’enogastro-nomia senza involgarirsi mai, rispettando i tempi e italenti dell’uno e dell’altra, legame fortissimo e pudi-co. Perfino il libro con cui l’Enoteca la prossima setti-mana festeggerà i suoi primi quarant’anni ha unastruttura palindroma, con le storie dei due fondatoriindipendenti, speculari eppure infinitamente intrec-ciate. Più che ricette, pennellate di cucina, più che eti-chette, note di assaggi memorabili. E tantissime foto,a raccontare la storia della grande ristorazione italia-na, con la erre arrotata di Annie.

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DOMENICA 12 MAGGIO 2013

Non è solo la più famosa cantina del mondo.Il ristorante fiorentinotre stelle Michelin,nato dall’amore tra un sommelier emilianoe una gastronoma francese, oggi è diventato un simbolo

I saporiVale il viaggio

Enoteca Pinchiorri

Quarant’annidi italian styleLICIA GRANELLO

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LA GRANDE FAMIGLIA

1. Giorgio Pinchiorri 2. Annie Féolde 3. Antonella Pinchiorri 4. Junnoske Yoshimura,sommelier 5. Antonio Rosolino, sommelier6. Andrea Martina, voiturier 7. Ina Iuncu, demi chefde rang 8. Luca Ermini, economo 9. Ivano Boso,responsabile cantina 10. Alessandro Giani, maitre 11. Caterina Zoppoli, responsabileamministrazione 12. Marek Molsa, chef de rang

13. Alessandro Tomberli, direttore sala 14. ImranAhmad, commis 15. Manjula Halwinnage, chef de rang 16. Maria Calmatui, demichef 17. Romina Ridolfi, chef de rang 18. AndreaSalvadori, sommelier 19. Rafael Struminsky,demichef 20. Luca Amazzini, demi chef 21. PawelDragan, commis 22. Pasquale Mariniello, chef de rang 23. Gerard Idea, demi chef de rang 24. Lily

Tiramisùin coppa Quarant’anni fa, Annie Féoldefece innamorare Firenze con il suo dolce del cuore,servito in un’elegante coppada cocktail. Sopra, trucioli di fondente

Vino: Vin Santo Occhio di Pernice, Avignonesi

Gnocchi e calamarettiImpasto di patate lavoratocome una sfoglia fresca,farcito con un pesto leggeroPer condire, una spadellata di calamaretti sfumati al vino bianco

Vino: Château Haut Brion Blanc

Gamberoni con il farroDalla fusione di due piattitradizionali, il gusto complesso dei crostacei avvolti nella pancetta e cotti allo spiedo, serviti con il cereale e l’alloro

Vino: Breg Josko Gravner

Branzino alle oliveEsaltazione dell’extraverginetoscano nel puré di patate su cui adagiare il trancio di pesce impanato con un trito di olive e timo e profumato al limone

Vino: Solaia Marchesi Antinori

Zuccotto a modo nostroRilettura originale del tradizionale dolce toscano, grazie ai tocchetti di frutta e verdura coltivati nell’orto di casa, canditi in maniera leggera

Vino: Château d’Yquem

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L’enoteca Pinchiorri, a Firenze è un luogo sim-bolico, prima che un ristorante stellato Mi-chelin. Era lì prima che tutti diventassimo di

colpo intenditori di cucina, prima che il termine “bar-ricato” diventasse il nuovo “piuttosto che”, prima cheeccellenza e notorietà finissero per sovrapporsi.Quando dichiarare di aver cenato all’Enoteca Pin-chiorri significava essere ricchi e competenti, o alme-no molto sbruffoni. Ormai è difficile trovare qualcosache valga per antonomasia, le notorietà si assegnanodi settimana in settimana e i simboli latitano. Così, sedevo pensare a qualcosa che, della città dove sono na-ta, tenga insieme la tradizione e il successo, io pensoancora all’Enoteca Pinchiorri. E tutto questo senzache ci abbia mai cenato. Mai.

Così, per scrivere questo pezzo, sono andata a guar-dare nel buco della serratura. Sul sito del ristorante,per scoprire almeno cosa c’è per cena, la lista dei vini...E ho scoperto due cose: che i nomi dei piatti non sonocomposti da un paio di frasi, haiku incomprensibili in-zeppati di aggettivi incongrui che ti sbatacchiano lafantasia da una parte all’altra lasciandoti confuso. Perdire: quando leggi “spaghetti alla chitarra con vongo-le zucchine e fiori di zucca”, non hai bisogno che il ca-meriere si trasformi in un filologo per decidere che co-sa ordinare. La seconda è che al manzo di Kobo, la cuipreziosissima carne viene servita nel ristorante Pin-chiorri a Tokyo, nella sua breve vita viene data da be-re la birra, per impreziosire il bouquet dei suoi lombi.Lo racconta Annie Féolde, moglie di Giorgio Pin-chiorri, che insieme al marito ha inventato l’Enotecaquarant’anni fa. Che classe.

Quando leggi il menùe lo capisci anche

ELENA STANCANELLI

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A tavola

Risotto come un caciuccoUn incrocio golosotra riso e zuppa di pescedella tradizione toscana,profumato al limone, vincitore del premio Riso Gallo

Vino: Sassicaia Tenuta San Guido

Triglie alla viaregginaGustate dai pescatoriversiliani e personalizzate con misura: spadellate e adagiate su trito di porcini,scalogno, capperi e acciughetirato con brodo di pollo

Vino: Mersault Perrières J. F. Coche Dury

Costoletted’agnello e spinaciCarne farcita di funghi trifolati,avvolta nelle fogliesbollentate. A côté, un gomitolo di tagliolini rossi(barbabietola), insaporiti con crema d’aglio

Vino: Masseto Tenuta dell’Ornellaia

Caramelle salate Farcitura di melanzane e formaggio di capra per reinventare la pasta frescaripiena. Sfoglia bicolore,condimento classico a base di burro e salvia

Vino: Vosne Romanée Cros Parantoux Henri Javier

Doppi ravioli alla faraonaCoesistenza ad alto valoregourmand di burrata e faraona per farcire i ravioli,serviti con fonduta di Parmigiano Reggiano e sugo d'arrosto

Vino: Le Pergole TorteMontevertine

IN CUCINA

1. Italo Bassi, primo chef 2. Riccardo Monco,primo chef 3. Charming Pistoli, capo partita 4. Alessandro Della Tommasina,sous chef 5. Luca Lacalamita, chef pasticcere6. Marco Vannini, commis di cucina7. Miranda Tavella, pasticcera8. Leonardo Di Teodoro, pasticcere 9. Alison Aquino, commis cucina

10. Luca Crostelli, commis cucina 11. Yogi Hogama, capo partita 12. Koshidaka, capo partita13. Federico De Nunzio, pasticcere14. Pietro Ciccio, commis cucina15. Andrea Cerutti, commis cucina16. Luca Tresoldi, capo partita17. Luca Soldati, commis cucina

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IL LIBRO

Pinchiorri a due voci

è il libro di LeonardoCastellucci (Cinquesensi, 224 pagine, 35 euro) che racconta la cantina di Giorgio Pinchiorri e la cucina di Annie Féolde

Dagli gnocchi e calamari al tiramisù, passando per le costolette d’agnello con spinaci. In un libro ora in uscita le ricette di Annie Féolde e i consigli enologici firmati da Giorgio Pinchiorri

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Figlio d’arte, l’attore messicanodel momento è sempre a cacciadi ruoli da rivoluzionario. È stato

il “Che” dei “Diaridella motocicletta”,ora è il pubblicitarioche sconfisse Pinochet,nel prossimo film saràun fanta Zorro difensoredei deboli :“In realtàper poter fare

ciò che davvero mi piaceaccetto anche gli spotQualunque cosa pur di non lavorare mai più in una telenovela...”

PARIGI

Occhi bambini e linguatagliente, fisico minutoe grinta da pugile. GaelGarcía Bernal è l’attore

messicano più famoso al mondo, unmiscuglio perfetto di allegria, tenerez-za e impegno, anche politico. È stato ilgiovane Che Guevara nei Diari dellamotocicletta per Walter Salles, PedroAlmodóvar lo ha voluto in tre perso-naggi diversi nel cupo La mala educa-ción. Ha galoppato nel mondo oniricodi cartapesta di Michel Gondry, eraL’arte del sogno, e affiancato Brad Pittin Babel di Alejandro Gonzales Iñárri-tu. «Alejandro è il mio mentore. Gli de-vo tutto. Venne a vedermi a teatro e poimi chiese di lavorare nel suo AmoresPerros. Ci invitarono al Festival di Can-nes. Non avevamo soldi, dormivamotutti pigiati in un appartamento, qual-cuno per terra. E non sapevamo comeavremmo fatto a noleggiare losmoking richiesto alla proiezione uffi-ciale». Alla Mostra di Venezia sarebbeandata meglio: con Y tu mamá Tam-bién, girato con Alfonso Cuarón, Ber-nal conquistò il Premio Mastroianniinsieme a Diego Luna: «Una sorpresa,e poi Diego è il mio migliore amico».

È stato subito chiaro che il ragazzo diGuadalajara fosse fatto per il cinema.«Anche se in realtà io sono figlio del

teatro, in senso letterale» raccontaGael in un pomeriggio umido di pri-mavera parigina: «Sono figlio di due at-tori politicamente impegnati. Stavosempre con loro. Tra i miei primi ricor-di ho l’immagine di me che guardo ilpalco. Dei miei che si cambiano i co-stumi dietro le quinte. Della plateaaffollata. Non ricordo dove, avrò avutoquattro o cinque anni, ma ricordo chevolevo stare con loro in scena, condivi-dere il loro mondo, le loro emozioni.Del resto era infinitamente meglio cheaspettarli in camerino o al bar. Sonosempre stato orgoglioso dei miei geni-tori, perché li ho visti pieni di gioia an-che se molto professionali. Mia madremi faceva ridere, diceva a tutti gli atto-ri prima di entrare in scena “Se non tidiverti, non funzionerà”. Insomma,tutto questo per dire che dentro il tea-tro ci sono cresciuto, ma per davvero,e che per me passare sotto i riflettori èstata una cosa naturale».

Cresciuto a pane e repliche. «Sonofiero di aver debuttato ufficialmentenel teatro intitolato a Juana Inéz de laCruz, una poetessa e letterata messi-cana del Seicento. Una donna straor-dinaria». Si ferma a riflettere: «Il teatroper me è più ancora di una casa, è il miotempio. È qualcosa di sacro in cui sicompie il rito dello spettacolo. Del re-sto anche la messa, qualcosa di estre-mamente sentito in Messico, è un ritoteatrale». Gael si è sempre definito«culturalmente cattolico», ma anchelibero pensatore: «molto libero». «A di-ciott’anni sono andato a Londra perstudiare recitazione, mi mantenevolavorando in un bar». Imparò così aparlare un ottimo inglese, cosa che loha aiutato non poco ad entrare nel cir-cuito internazionale. È dotato di unnaturale talento per lingue e per gli ac-centi. In No - I giorni dell’arcobalenodiPablo Larrain, appena uscito nelle sa-le italiane, parla uno spagnolo-cilenotalmente perfetto che il regista gli hachiesto di «sporcarlo» con qualche in-tercalare messicano (il personaggioprincipale torna in Cile dopo aver vis-suto dieci anni in Messico).

Non è mai stato tanto bravo, GaelGarcía Bernal, come in questo film, giàcandidato all’Oscar, che racconta leelezioni cilene del 1988. Quindici annidopo il golpe militare, l’economia cile-na è florida, i dissidenti sono sotto con-

trollo e gli Stati Uniti, che appoggianoil regime, chiedono a Pinochet di mi-gliorare la sua immagine. Così il ditta-tore indice un referendum e chiede alpopolo di rinnovargli il potere. È sicu-ro di vincere, ma non prevede che i suoirivali chiamino un pubblicitario cheha fatto esperienza anche negli Usaper curare la campagna televisiva a fa-vore del “No”. «Mi è piaciuto subitoquesto personaggio che ha lanciato il“No” proprio come aveva fatto con laCoca Cola, con slogan e spot, arcoba-leni, famiglie felici al picnic, balletti ecanzoni corali di attori e artisti, tuttomolto anni Ottanta». A rivederli oggiquesti spot sono surreali. «È vero, macredo comunque che il personaggioche interpreto nel film sia stato un uo-mo coraggioso e consapevole. Era unopagato bene, aveva un figlio da mante-

nere, ma decise lo stesso di rischiareperché credeva nella giustizia. Grazie alui la tecnica pubblicitaria diventòun’arma che ha permesso di abbatte-re il regime di Pinochet».

Vita privata? Dopo un tormentato fi-danzamento con Natalie Portman (sisono messi insieme e lasciati nel 2004,e poi di nuovo nel 2007) Bernal si è spo-sato con la collega Dolores Fonzi, stardelle telenovelas argentine. Hannodue figli, Làzaro e Libertad. «Non è fa-cile stare tutti insieme, ma quando èpossibile porto i bimbi sul set con me».Idealista per indole, a trentaquattroanni ha imparato l’arte del cinismo.«Anche in campo artistico bisogna es-serlo, esattamente come in politica».Oltre che attore e regista (nel 2007 hadiretto Deficit, su una riunione di fa-miglia in cui si incontrano varie classisociali) Bernal è anche produttore(con Diego Luna ha fondato una so-cietà per produrre il lavoro di giovaniartisti messicani) ma non disdegna af-fatto le pellicole più commercialmen-te hollywoodiane e neppure gli spotpubblicitari: «Sono soldi che servonoper finanziare i progetti in cui credo. Ecomunque è sempre meglio che fare letelenovelas. Da giovane ne ho fattaqualcuna. Piacevoli sì, ma erano quelche erano. Leggere, veloci e un po’ effi-mere come tutte le cose della tv. Sonoviste da tanta gente e non mi pento diaverle fatte, ma non credo che mi capi-terà ancora nella vita», ride. Lo fa spes-so, mentre racconta della sua passioneper la boxe, e di quella per la jarana,una piccola chitarra che si diverte asuonare in un gruppo. Sembra un uo-mo ormai sereno e sicuro, «in realtà so-no uno che dubita di se stesso in ognimomento. Non riesco a pianificare lacarriera, cerco di mantenere la recita-zione come una gioiosa necessità, lapossibilità di conoscere culture diver-se, lavorare con persone che ammiri.Se inizi a fare calcoli perdi subito tuttala felicità che un mestiere come questoporta con sé e allora tutto diventa solomarketing, marketing di te stesso. Unacosa vuota».

Ovviamente «fare questo lavoro congioia non significa che vada sempretutto bene, ci sono anche i rischi, le dif-ficoltà». I set, del resto, non sono tuttiuguali. Di quello con Almodóvar haraccontato che «in ogni scena Pedro ti

dice dove andare, come muovere la te-sta, è uno che sente se entri in crisi, cheti sostiene». Se però deve parlarti dei ci-neasti che sono «fratelli maggiori ementori» i nomi sono quelli di Iñárritu,Salles, Cuarón. E se deve scegliere trericordi cinematografici di felicità pura,non ha dubbi: «Le notti che ho passatoa nuotare nel fiume per l’ultima scenadei Diari della motocicletta: non mirendevo nemmeno conto della trou-pe, c’ero con tutto me stesso in quelruolo, in quel momento. L’arte del so-gno di Gondry, il film più bello e pazzoche ho fatto in vita mia. E la scena fina-le di Y tu mamá también: io e il mioamico Diego entrambi ubriachi e c’èun piano sequenza lungo sette minuti,una scena bellissima».

Nel suo presente una marea di pic-coli progetti indipendenti, impegnocivile nel suo paese e umanitario con leorganizzazioni internazionali. Ma an-che una grande produzione hollywoo-diana: Zorro Reborn, rivisitazione inchiave post-apocalittica dello spadac-cino mascherato. Un ruolo perfettoper Bernal. «Non ho mai lavorato in unvero kolossal degli Studios e sono cu-rioso di vedere l’effetto che fa. E se è ve-ro che l’idea di associare Zorro alla fan-tascienza effettivamente è piuttostostrana, è altrettanto vero che ci saran-no sempre deboli da difendere. In que-sto senso possiamo dire che Zorro è uneroe che prescinde il suo tempo».

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Se inizi a fare calcolisulla tua vitae sul tuo lavoroperdi ogni gustoTutto diventamarketing,marketingdi te stesso

GaelGarcía Bernal

ARIANNA FINOS

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