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LA CULTURA DELLO « SCARTO  » e la sfida della solidarietà Carlo Valerio Bellieni

La cultura dello "scarto" e la sfida alla solidarietà - estratto - paoline 2014

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L'appello di Papa Francesco: «…Vorrei che prendessimo tutti sul serio impegno di rispettare e custodire il creato, di essere attenti a ogni persona, di contrastare la cultura dello spreco e dello scarto, per promuovere una cultura della solidarietà e dell’incontro», chiama tutti a un esame della cultura dilagante dello scarto.

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LA CULTURA DELLO « SCARTO »

e la sfida della solidarietà

Carlo Valerio Bellieni

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Papa Francesco, affrontando i temi della difesa della vita in modo radicale, ha richiamato l’attenzione sul dilagare nella società odierna della cultura dello « scarto »: mentalità comune, che sta contagiando tutti.

L’Autore analizza con dati ufficiali e statistiche, ma anche con racconti e storie personali, questo dramma, evidenziando che l’attuale generazione è la prima nella storia del mondo che ha creato l’idea di rifiuto e di scarto, con un impatto ecologico devastante in termini di spreco di risorse e di inquinamento. Inoltre denuncia che la stessa idea rende indifferenti alla vita umana, alle persone che non sono più considerate come va-lore primario da rispettare e tutelare, specie se sono povere o disabili, se non servono ancora – come i nascituri – o non servono più – come gli anziani.

Cosa fare di fronte a questa mentalità dilagante? L’Autore ritrova la risposta nelle parole di papa Francesco, riportate am-piamente nel testo, e nelle frasi di tanti studiosi che si battono contro lo sfruttamento insensato della natura e la commercia-lizzazione dell’umano.

Carlo Valerio Bellieni è neonatologo presso il Policlinico Universitario di Siena. Insegna terapia neonatale alla Scuola di Specializzazione in Pediatria della stessa uni-versità. È membro del Comitato di Bioetica della Società Italiana di Pediatria e della European Society for Pediatric Research, della Pontificia Academia Pro Vita, del Comitato di Bioetica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, del direttivo nazionale di « Scienza e Vita » e del comitato scientifico del Centro per la Salute di Madre e Bambino dell’Università Cattolica di Roma.

È editorialista de L’Osservatore Romano e scrive su Avvenire. Ha al suo attivo ol-tre duecento pubblicazioni scientifiche su dolore, sensorialità prenatale, salute del neonato e bioetica.

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PERSONA E SOCIETÀ

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Carlo Valerio Bellieni

LA CULTURA DELLO « SCARTO »

e la sfida della solidarietà

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PAOLINE Editoriale Libri

© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2014 Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it [email protected] Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)

In copertina: Foto © Jasper Greek Lao Golangco

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Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto.(Gv 6,12)

Questa cultura dello « scarto » tende a diventare mentalità comune, che contagia tutti.

(Papa Francesco - Udienza generale - 5 giugno 2013)

People starving and thirsting, grain elevators are bursting.Oh, you know it costs more to store the food than it do to give it.

(Gente che muore di fame e di sete e silos che scoppiano di grano.

Oh sai, costa di più stipare il cibo piuttosto che darlo da mangiare).

(Bob Dylan)

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INTRODUZIONE

Nell’ateneo pontificio Regina Apostolorum, per al-cuni anni, ho tenuto un corso intitolato La cultura del rifiuto, in cui insegnavo che la società occidentale ha, arbitrariamente, tramutato persone e cose in rifiuti, se risultano essere sotto un certo standard. Potete immaginare quindi la mia gioia al sentir parlare papa Francesco di cultura dello « scarto », ribadendo lo stes- so concetto, che secondo me è alla base di tante di-storsioni etiche.

Lo vedremo nel testo dove integreremo con esem-pi, aneddoti e racconti. Le parole « scarto » o « rifiuto » sono praticamente sinonimi. Addirittura papa France-sco, quando si trovava in Argentina parlava della cul- tura del « volquete », cioè del camion della spazzatura. Questo libro è scritto proprio per celebrare il pensiero del Papa e per mettere in guardia da una tragedia epo-cale: « la cultura dello scarto ».

Diventiamo noi stessi uno « scarto », le cose più interessanti della vita diventano uno « scarto »: l’arte, forse anche i figli, e ovviamente tutte le persone e le occasioni che non sono conformi ai dettami della pub-blicità diventano uno « scarto ». Senza che ce ne ren-diamo conto le cose importanti (amici, cultura, senso religioso) diventano uno scarto, perché i nostri giudizi non sono più i nostri, ma dettati da interessi che ci passano sopra la testa.

La cultura dello « scarto » è una malattia sociale.

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La genialità del richiamo di papa Francesco a com-battere la cultura dello « scarto » è la genialità del bravo medico che colpisce al cuore la malattia. Troppo facile è invece limitarsi a colpire i sintomi come fanno in tan-ti, anche animati da ottimi propositi, ma tanto miopi.

Ma da dove nasce questa cultura? Chi la propaganda? Quali sono gli stratagemmi e i trabocchetti che ci ten- de? Qui vediamo di capirlo usando la cronaca, e le rifles-sioni di grandi pensatori come, ad esempio, Zygmunt Bauman o Serge Latouche per focalizzare il problema e non pensare che guarendo un sintomo si guarisca il corpo.

La cultura dello « scarto » è la malattia vera, il resto sono sintomi.

Impariamo a difenderci.

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Capitolo 1

RIFIUTI URBANI: SOFFOCATI DALLO SCARTO

I rifiuti li abbiamo inventati noi

Cari amici stressati e presi dal consumo e dallo shopping, laggiù, lontano nel mare incontaminato sorge un’isola. È vasta dei chilometri, una delle tante isole dell’oceano, anzi una di quelle grandi. E l’abbia-mo creata noi! Una megagalattica isola di rifiuti, un grumo di plastiche e idrocarburi che le correnti hanno portato a confluire, unirsi, inglobarsi e crescere a di-smisura. Immaginate una discarica grande più di due volte l’Italia, riempita con ogni tipo di pattumiera ipo-tizzabile e immaginatela mentre galleggia nel bel mez-zo del Pacifico. Si chiama Great Pacific Garbage Patch, meglio nota come l’isola dei rifiuti, che veleggia tra la California e le isole Hawaii. Ma da dove arriva tutta questa immondizia? Sono le nostre città, le nostre navi, i nostri fiumi carichi di scarti che riversano tutto il li-quame in mare; e dato che il mare è grande, anche il contenuto di una nave sembra sperduto e minuscolo spinto e inabissato dalle onde. Ma non è così: i nostri sacchetti della spesa, il petrolio di un remoto oleodot-to che perde liquido, si sommano ed ecco: l’isola della « spazzatura ».

Ma i rifiuti generano isole anche sulla terra ferma. Il Jardim Gramacho, la discarica più grande del mondo, alla periferia di Rio de Janeiro, simbolo di degrado, ma anche risorsa per migliaia di catadores (raccoglitori di

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rifiuti), è stata chiusa nel giugno 2013. La decisione di interrompere definitivamente le attività nella discarica ha subìto un’accelerazione in vista della Conferenza internazionale dell’ONU sullo sviluppo sostenibile. Il Gramacho occupa un’area di 1,3 milioni di metri qua-drati nel municipio di Duque de Caxias, ai margini di una delle principali « cartoline postali » di Rio: la Baia di Guanabara. Da ormai trentasei anni riceveva quoti-dianamente duemila tonnellate di rifiuti. Ed è proprio grazie a questi che circa milleottocento catadores riusci-vano a sbarcare il lunario, attraverso la separazione manuale del materiale riciclabile. Un’operazione defi-nita « disumana » anche dalle principali organizzazioni mondiali legate alle questioni socio-umanitarie. Uomi-ni, donne e bambini sono stati filmati in azione, in massacranti turni di lavoro, per racimolare quello che, nella maggioranza dei casi, costituisce l’unica fonte di sopravvivenza. Il tutto, in un luogo agghiacciante, che nel tempo ha collezionato numerose storie di tristezza e violenza.

Roba da paesi lontani? Mica tanto. Quanti nostri panorami sono ingolfati di discariche, sia nelle belle campagne del centro Italia che nelle strade delle nostre città? Abusive o legali, esse proliferano, si moltiplicano, accumulano rifiuti che nessuno ormai sa più dove met-tere, che debordano, straripano, ingombrano, inqui-nano, pur essendoci norme per creare una discarica meno dannosa. Ognuna di essa viene progettata per accogliere determinati rifiuti (inerti, non pericolosi o pericolosi) e, salvo modifiche successive, deve accoglie-re solo quel tipo di rifiuti. Ogni discarica è progettata per accogliere un determinato volume di rifiuti e quin-di ha una vita limitata, che può essere sì prolungata, ma non protratta indefinitamente. Anche le procedure di trattamento e di messa a dimora dei rifiuti devono essere eseguite in modo da non compromettere la si-curezza per chi vi opera e da non favorire fenomeni di

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inquinamento. La saturazione delle discariche, con la conseguenza di non potervi più conferire rifiuti, è que-stione attuale che tra l’altro rappresenta una delle principali cause del cosiddetto « turismo dei rifiuti »: lunghi viaggi di container tra una regione e l’altra o magari in viaggio « di piacere » all’estero in attesa dello smaltimento finale. L’« emergenza rifiuti » in corso da molti anni, ha esportato centinaia di migliaia di tonnel-late di rifiuti in altre regioni italiane e all’estero.

Ma dove erano le discariche alla metà del secolo scorso? Perché è ovvio: da qualche parte i rifiuti doveva-no buttarli, non potevano restare montagne di cartacce, di spazzatura bruciante e fumosa, di plastiche malfama-te! A meno che i rifiuti non ci fossero proprio…

Come è possibile? Nell’epoca in cui il mercato non la faceva da padrone e la gente comprava la roba per-ché ne aveva necessità e non perché indotta dalla pub-blicità o dall’ansia amara di ostentare più del vicino di casa, la roba non diventava un rifiuto, si riusava. Non c’era da inventare scariche, discariche, riciclaggi, im-pianti vari: la sedia rotta si aggiustava e quando non si poteva aggiustare era usata per alimentare il fuoco. E così via...

Poi è successo qualcosa e sono nati i rifiuti. Come un asteroide caduto sulla terra, come un’invasione di marziani, come una mutazione genetica dovuta allo scoppio di una centrale termonucleare: è successo im-provvisamente qualcosa. Se mi chiedete cosa è succes-so, lo capiremo nelle prossime pagine. Ma qualcosa deve essere accaduto, se una cosa mostruosa e mortife-ra che prima non esisteva ora è esplosa e si sta mangian-do la terra!

E sono diventati nostri compagni di vita, i sacchet-ti della spazzatura. È più normale uscire di casa con lo scatolone o con il bianco sacco della spesa riusato per metterci le bottiglie da buttare, che uscire con il cane! Sono un amico, una convenzione, una consuetudine,

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una nostra appendice mentale, tanto che ci sembrano normali!

Cinquant’anni fa erano pochi, ma presenti: arriva-va lo « spazzino » e suonava la tromba all’ingresso del condominio; allora si usciva e si metteva fuori « il sec-chio »; lo spazzino col suo grosso sacco sulle spalle, si-mile allo spazzacamino di Mary Poppins, saliva le scale (l’ascensore era ancora una rarità) e svuotava i secchi, rivestiti da uno strato di carta di giornale; poi passava al condominio seguente. Un secchio al giorno per fa-miglia; oggi sacchetti e scatoloni tutte le mattine fuori di ogni casa, ogni condominio, ogni negozio per i quali non basta più lo spazzino, ma i camion, quelli che arraffano con le mostruose pinze metalliche gli enormi cassonetti (altro nome ormai diventato familiare) e li digeriscono a centinaia.

Dal nulla.Dal nulla è nata la spazzatura, l’immondizia, la

« monnezza ». Abbiamo inventato noi i rifiuti, lo « scar-to ». La nostra generazione ha moltiplicato quello che avevano fatto mamma e papà, e che i nonni non cono-scevano: inventare un prodotto prima ignoto. Il rifiuto.

Armati di spazzatura

Sapete qual è la miniera principale dei rifiuti citta-dini? Pensateci un attimo, rivedete le vostre giornate e ripensate ai vostri gesti quotidiani, quelli che fate auto-maticamente; quasi non ci pensate, ma l’azione più frequente delle nostre giornate è acquistare qualcosa. O forse non è la più frequente ma è quella più comune, più abituale, più rituale. E questo comprare rituale e acritico è sorgente creatrice di rifiuti.

Un tempo si andava a raccogliere nei campi oggi si « raccoglie » nei negozi o dalle mani del postino. Con una differenza, che quello che « raccogliamo » in que-

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Capitolo 2

RIFIUTI UMANI

Non ci accettiamo se non siamo perfetti

Come le ciliegie che sono state beccate da un uc-cellino non vengono esposte al supermercato pur es-sendo buonissime, così noi non « esponiamo » noi stessi se ci accorgiamo di avere un piccolo difetto, fin-ché esso non è stato opportunamente mimetizzato.

E non parlo di difetti gravissimi e deturpanti, su cui potremmo discutere, ma di quelli che non accettiamo di mettere in vista mentre passeggiamo per strada, quando siamo al lavoro, mentre siamo a cena con un amico; sono i difetti piccoli che nemmeno chiamerem-mo tali se non ci fosse tutta una campagna pubblicitaria martellante che ce li indica come da eliminare.

La campagna pubblicitaria parte dall’orrore verso nei, brufoli, capelli bianchi fino ai « chili in più », ai « peli superflui » ecc. E fiorisce l’industria del maquil-lage, del make up, o più italianamente, « del trucco », tutti termini che indicano nemmeno la voglia quanto la necessità di mascherarsi (basti pensare al termine « mascàra »). L’ideale è la scomparsa di tutto ciò che in fondo ci ricorda che non siamo come vorremmo o meglio, come vorrebbe la pubblicità, che in fondo il tempo passa, che non siamo padroni del nostro essere; ed è tutta una corsa a mascherare rughe e difetti, diventando simili (negli intenti ma non sem-pre nella pratica) a delle bambole appena uscite

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dalla fabbrica: pelle uniforme, niente occhiaie, nien-te pancetta.

Non è forse un caso che alle bambine vengano proposti modelli estremi di magrezza nei cartoons e nelle bambole: che la perfezione sia nel non lasciar nemmeno entrare in noi qualcosa, fosse anche il cibo, che dimostrerebbe la nostra dipendenza da « altro », sia pur esso un semplice panino?

Ma quanto teniamo realmente alla « perfezione »? Cioè in altre parole, non essere perfetti è una seccatu-ra o una tragedia? Nel sito dell’americana ABC news del gennaio 2013, viene riportata un’analisi: quella dei pregiudizi verso le persone grasse e se ne vedono di tutti i colori! Il Rudd Center for Food Policy and Obesity at Yale University ha pubblicato uno studio che mostrereb-be che in tribunale i giurati maschi non sarebbero imparziali verso le imputate grasse. Rebecca Puhl, uno dei ricercatori dello studio, spiega che « La magrezza simboleggia importanti valori nella nostra società, qua-li disciplina, ambizione, forza di volontà: se non sei magro non li hai ». Una precedente ricerca della Puhl sosteneva che per il 30% degli insegnanti « diventare grassi è la peggior cosa che può succedere »; il 70% dei grassi è ridicolizzato anche da membri della famiglia. Come si fa allora a non sentirsi uno straccio quando pur in piena salute siamo dotati di qualche chilo in più che non riusciamo a smaltire?

Come non sentirsi a disagio quando veniamo addi-tati o semplicemente guardati con stupore perché sia-mo grassi o « nani » o « secchi » o con le orecchie a sventola? E pensare che nel parlare comune anche dalle persone colte che scrivono sui giornali, i difetti fisici sono spesso usati per ridicolizzare l’avversario politico, come se essere basso o grasso fosse una colpa, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi. Usare i sup-posti difetti fisici per stigmatizzare il nemico politico non è offensivo per il politico oggetto dell’attacco (di

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solito i politici rispondono per le rime), ma è molto offensivo per tutte le altre persone che hanno accetta-to il proprio « difetto » e ora lo sentono usare come fosse un’offesa. Quindi come diventa molto difficile spiegare ai bambini che chi ha una statura sotto la me-dia è un cittadino come gli altri, quando in TV si attac-ca un politico o un giornalista dandogli del « nano »!

Perciò ci si vergogna dei difetti. E si cerca di nascon-derli. L’industria dei cosmetici e della chirurgia esteti-ca fiorisce.

L’industria cosmetica italiana resiste alla crisi e chiude il 2011 con un fatturato in crescita del 4,4% a 9 miliardi di euro rispetto al 2010, esportazioni salite dell’11% e un saldo commerciale attivo del 22,3% a oltre un miliardo. E nel 2012 ha fatto registrare un valore di mercato superiore ai 9.600 milioni di euro. Cifre da capogiro, che danno l’idea di qualcosa che per resistere alla crisi economica deve essere intrinseca-mente necessaria alla sopravvivenza.

E c’è un boom nella chirurgia estetica per i teen- agers: già nel 2011 una ricerca Eurispes mostrava che il 5,3% degli adolescenti era ricorso al chirurgo estetico, in alcuni casi per motivi di salute, ma forse non solo per quelli. Riporta lo studio Eurispes:

Il mercato della medicina del benessere, anno dopo anno, macina utili e addetti con un tasso di crescita medio del 10%. D’altra parte, i dati sono illuminanti: dei circa 150.000 interventi di chirurgia plastica effet-tuati nel 2008 in Italia, 85.500 riguardano pazienti tra i 18 e i 25 anni. La quota di giovani che si sottopongono a questo tipo di interventi è cresciuta nel tempo in ma-niera esponenziale. Infatti, nel 2002 hanno subìto un’o-perazione chirurgica 54.000 pazienti, nel 2004 sono stati 73.500 e nel 2006 se ne contano 80.013. La top del ritocco. Stando ai risultati di un’indagine del 2009 della Star Wars Galaxies (SWG), il cui obiettivo è stato quello di indagare la propensione delle donne verso gli inter-

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venti di chirurgia estetica, emerge un quadro non trop-po entusiasmante. Sedere, pancia e fianchi sono in cima alla classifica dei difetti da correggere (84%). Seguono le gambe poco modellate (41%), il seno da ritoccare (17%), la pelle e il viso (in entrambi i casi 11%).

Commenta un editoriale del sito universitario Con-trocampus:

Vietato allora essere brutti. La vanità non aspetta le rughe. Addio perciò al difetto che fa la differenza. All’imperfezione che arricchisce, impreziosisce, distin-gue, stuzzica la curiosità e l’interesse. Al bando i nasi aquilini, le orecchie a sventola, i seni a coppa di cham-pagne. Nell’era dell’omologazione di massa e dell’ipe-rostensività e onnipresenza scenica del corpo la perfe-zione estetica non poteva che diventare per il giovane moderno un must, uno strumento di affermazione so-ciale e professionale prioritario, del quale è praticamen-te impossibile fare a meno, un’opportunità per esorciz-zare le proprie manie e i propri desideri. Pena la ghettizzazione, il silenzio, la repressione, l’esclusione dal branco dei simili (per non dire degli identici).

Già, perché se non sei conforme non sopravvivi. E forse è meglio tagliare sulla benzina che sulle cerette.

L’imperativo è « normalizzarsi ». Perché? Perché tutti abbiamo i nostri difetti e direi anche le nostre disabilità. Ma proprio tutti. Solo che qualcuno riesce a nasconderli e qualcuno no: quelli che non ce la fanno sono chiamati disabili, perché tutti possono vedere che gli manca qualcosa; ma a chi non manca qualcosa che reputa davvero importante di cui soffre e di cui sembra non poter fare a meno? Per alcuni questa mancanza è dovuta alla forza della pubblicità, ma per altri è strut-turale ma ben nascosta: un acciacco sempre più fasti-dioso e turbolento, una mania che non si sa reprimere, un amore insoddisfatto, un rimpianto, una angoscia che ricorre notte dopo notte; tutti motivi per non vive-

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re bene, per desiderare che scompaia, per far passare notti in bianco o per far piangere. Ma li nascondiamo bene. Perché l’imperativo è: « Tieniti i tuoi mali, non disturbare, e avrai un posto fra noi ».

Bambini: scartati dal mondo che conta

« Cuore di mamma! »… mica tanto. Oggi essere bambini è difficile, non è più la norma, ma il bambino in sé è diventato un’eccezione dato che è sempre più raro. L’Italia è tra i Paesi al mondo con il peggior tasso di natalità, ma siamo in buona compagnia nel mondo occidentale che non riesce più a « leggere » il bambino, anzi non riesce a « concepire l’idea di bam-bino » (e non solo l’idea, considerato che la sterilità è in rapido aumento).

Ma vi siete mai domandati perché ci sia questo crollo di nascite? I più acculturati diranno che si tratta della crisi economica, e quelli più saggi daranno la colpa al mondo del lavoro che pretende un lungo cur-riculum di studi, di rodaggio e di precarietà prima di ricevere un lavoro stabile e poter pensare a progettare una famiglia. Tutte cose sacrosante. Ma non sono il punto della questione.

Provate un esercizio mentale: allontanatevi dal mondo in cui vivete e provate a guardarlo con distacco, come se foste uno studioso che viene da un altro pia-neta. Quale sarà il tratto fondamentale della cultura d’oggi? L’affermazione « Io sono mio »: è la reazione a secoli di sudditanza alle ideologie e ai patriottismi, che non sarebbe tanto sbagliata se non significasse anche che ognuno è un’isola impenetrabile, intoccabile, ma anche incomunicabile e isolata. Questa reazione si chiama « autodeterminazione ». C’è del buono nel re-agire a secoli di schiavitù mentale e di conformismo, ma qui siamo sfociati in un altro conformismo, cioè

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l’idea che vale solo chi si sa autodeterminare. Chi in qualche maniera dipende dagli altri vale di meno o magari non vale proprio nulla. Alle persone che si san-no autodeterminare, che non necessitano in fondo (apparentemente) degli altri, viene dato il nome di « giovani », e tutti, ma proprio tutti fanno a gara per rientrare nell’élite che si può definire « giovane ». Il vecchio si maschera da giovane, anzi dire « anziano » a uno (un tempo era un complimento segno di saggezza e meritevole di rispetto) è diventato un’offesa. Il bam-bino a sua volta, per quel che può, si maschera anche lui da giovane, iniziando rituali e strategie e camuffa-menti che lo facciano sembrare meno « Pierino » e sempre più « Brad Pitt » a dieci anni!

E in questo c’è tutta la collaborazione della filosofia i cui più noti rappresentanti spiegano che se non sei autonomo non ti meriti nemmeno il titolo di persona, e i diritti connessi con questo titolo. Essere giovane è l’unico modo di essere persona, ed essere persona è un titolo nobiliare che ti mette nella casta di quelli che valgono.

Il quotidiano Il Sole 24 ore del 25 settembre 2012 riportava:

È boom tra le bambine l’uso dei cosmetici, con ri-schi per la pelle e un incremento di dermatiti da con-tatto o allergiche, che fanno registrare un +16,7% nella fascia di età 8-12 anni. A lanciare l’allarme è il presiden-te della Federazione italiana Medici Pediatri che punta il dito contro la tendenza a considerare i bambini « sem-pre più come giocattoli in vetrina, una spettacolarizza-zione e un accessorio dei desideri dei genitori ».

Cosa resta al bambino, se non può farsi il make up necessario per essere un giovane? Vedersi negare la sua specificità. Nessuno oggi accetta il pianto del bambino, nessuno capisce che il bambino ha bisogno primaria-mente della mamma e la si sostituisce facilmente con

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la TV o con una baby sitter perché la mamma viene costretta (e le dicono che è emancipazione) ad andare al lavoro. Sarebbe accettabile se fosse davvero una libe-ra scelta, ma dato che tante mamme ne farebbero molto volentieri a meno, sembra più un progetto fatto a tavolino che un reale progresso sociale.

Per non parlare del problema annoso del tempo che facciamo passare ai nostri bambini davanti alla TV: pensate che l’American Academy of Pediatrics prescrive che davanti al PC e TV i bambini non ci passino più di due ore al giorno e in realtà le ore che passano incol-lati (o abbandonati) a uno schermo sono almeno il doppio. E devono aver possibilità di consumare come gli adulti: le pubblicità televisive che hanno per prota-gonisti bambini che reclamano regali dai genitori sono in aumento, così come in mezzo mondo sono in au-mento le pubblicità dirette ai bambini, fatte soprattut-to nelle fasce orarie in cui essi abbondano arrivando proprio nel mezzo dei cartoons dei bambini. Vi pare leale?

Insomma, il bambino è un estraneo culturale: o si maschera da giovane con il corrispondente atteggiamen-to, abbigliamento e capacità di spesa, oppure è meglio che non ci sia. Al massimo si accetta che stia in un ango-lino con i giochi intelligenti che poi sono quelli fatti per insegnare senza che chi impara sappia davvero che in-vece di un trastullo sta andando a lezione; l’importante è che non « dia fastidio », tanto è diventato incapace il mondo occidentale di vivere con chi non può essere programmato, assimilato, inglobato tra i consumatori.

Il bambino è una « ciliegina sulla torta » da mettere a cose fatte, quando si sono realizzati tutti ma proprio tutti gli sfizi, i bisogni, i desideri della coppia; poi si pensa al figlio. Basti ricordare la pubblicità TV che dopo aver decantato i pregi dell’automobile reclamiz-zata conclude (riferendosi ai bambini): « Tutto il resto può attendere ».

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SOMMARIO

Introduzione pag. 9

Parte primaCOSA È LA CULTURA DELLO SCARTO?

Capitolo IRifiuti urbani: soffocati dallo scarto » 13

I rifiuti li abbiamo inventati noi » 13 Armati di spazzatura » 16 Il cibo buttato via » 19 Obsolescenza programmata (nati per morire presto) » 23 Riciclaggio? » 27

Capitolo IIRifiuti umani » 33

Non ci accettiamo se non siamo perfetti » 33 Bambini: scartati dal mondo che conta » 37 Embrioni da scarto » 41 Malattia e scarto » 43 Lo scarto dei poveri » 48 Lo scarto nella storia » 51

Parte secondaINVECE, NULLA È SCARTO

Capitolo INessuno è « inutile » » 59

La malattia non ci fa inutili » 59 Nessuno è inutile nella moltitudine dei popoli » 64

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Nessuno è inutile nello sport pag. 66 Nessuno è inutile al cinema » 69 Nessuno è inutile nel lavoro » 71

Capitolo IINiente è « inutile » » 75

Niente è inutile: i microbi » 75 Niente è inutile nel corpo umano » 77 Niente è inutile nel DNA » 79 Niente è inutile in cucina » 81

Capitolo IIIUscire dalla cultura dello « scarto » » 85

Guardare in faccia il nemico » 85 Pensare alla decrescita » 88 Cosa chiede Papa Francesco? » 91

Conclusione » 95

Appendice » 99

Bibliografia e sitografia » 107

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BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

ADN Kronos, Rivedere le norme sugli scarti da imballaggio, ap-pello al governo dall’Anci, 16 febbraio 2012.

ANSA, Rifiuti: Brasile, chiusa Gramacho discarica più grande mondo, 2 giugno 2012. http://www.ansa.it/web/notizie/canali/energiaeambiente/rifiuti/2012/06/02/Rifiuti-Brasile-chiusa-Gramacho-discarica-piu-grande-mon-do_6974277.html

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Collana

PERSONA E SOCIETÀUna lettura critica delle problematiche più urgenti e scottanti della realtà sociale, per un’ap-profondita coscientizzazione e per individuare linee di intervento operativo.

27. Pollicino nel bosco dei media. Come educare i bambini a un uso corretto dei mezzi di co-municazione, di Vincenzo Varagona

31. La fede nel piatto. Sapere e sapori del cibo dei poveri, di Paola Bizzarri - Davide Pelanda

32. Manuale di bioetica per tutti, di Michele Aramini33. La cura della salute, di Rossella Semplici34. Prendersi cura. Custodire la persona nel tempo della malattia, di Michele Aramini35. I senza fissa dimora. Analisi psicologica del fenomeno e ipotesi di intervento, a cura di

G. Lavanco - M. Santinello37. Il volontariato. Risorsa per sé e per gli altri, di Rossella Semplici - Quirino Quisi39. Siamo tutti migranti. La convivenza possibile, di Vittorio De Luca40. La notte può attendere. Lettere e storie di speranza nelle stanze della malattia terminale,

di Elena Miglioli41. L’ABC della Bioetica, di Carlo Valerio Bellieni42. Litigare è un’arte... che s’impara, di P.F. De Marchi - D. Galli43. La cultura dello « scarto » e la sfida della solidarietà, di Carlo Valerio Bellieni

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LA CULTURA DELLO « SCARTO »

e la sfida della solidarietà

Carlo Valerio Bellieni

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Papa Francesco, affrontando i temi della difesa della vita in modo radicale, ha richiamato l’attenzione sul dilagare nella società odierna della cultura dello « scarto »: mentalità comune, che sta contagiando tutti.

L’Autore analizza con dati ufficiali e statistiche, ma anche con racconti e storie personali, questo dramma, evidenziando che l’attuale generazione è la prima nella storia del mondo che ha creato l’idea di rifiuto e di scarto, con un impatto ecologico devastante in termini di spreco di risorse e di inquinamento. Inoltre denuncia che la stessa idea rende indifferenti alla vita umana, alle persone che non sono più considerate come va-lore primario da rispettare e tutelare, specie se sono povere o disabili, se non servono ancora – come i nascituri – o non servono più – come gli anziani.

Cosa fare di fronte a questa mentalità dilagante? L’Autore ritrova la risposta nelle parole di papa Francesco, riportate am-piamente nel testo, e nelle frasi di tanti studiosi che si battono contro lo sfruttamento insensato della natura e la commercia-lizzazione dell’umano.

Carlo Valerio Bellieni è neonatologo presso il Policlinico Universitario di Siena. Insegna terapia neonatale alla Scuola di Specializzazione in Pediatria della stessa uni-versità. È membro del Comitato di Bioetica della Società Italiana di Pediatria e della European Society for Pediatric Research, della Pontificia Academia Pro Vita, del Comitato di Bioetica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, del direttivo nazionale di « Scienza e Vita » e del comitato scientifico del Centro per la Salute di Madre e Bambino dell’Università Cattolica di Roma.

È editorialista de L’Osservatore Romano e scrive su Avvenire. Ha al suo attivo ol-tre duecento pubblicazioni scientifiche su dolore, sensorialità prenatale, salute del neonato e bioetica.