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Jennifer L. Armentrout

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Page 1: Jennifer L. Armentrout
Page 2: Jennifer L. Armentrout
Page 3: Jennifer L. Armentrout

J e n n i f e r L . A r m e n t r o u t

P E R S E M P R E M I A

R o m a n z o

T R A D U Z I O N E D I

E M A N U E L A D A M I A N I

Page 4: Jennifer L. Armentrout

www.editricenord.it

facebook.com/CasaEditriceNord

@EditriceNord

instagram.com/EditriceNord

www.illibraio.it

Titolo originaleTill Death

ISBN 978-88-429-3072-3

In copertina: foto # PhotoAlto / Alix Minde / Getty ImagesGrafica: PEPE nymi

Copyright # 2017 by Jennifer L. ArmentroutAll rights reserved

# 2018 Casa Editrice Nord s.u.r.l.Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Prima edizione digitale gennaio 2018

Quest’opera e protetta dalla Legge sul diritto d’autore.E vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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PER SEMPRE MIA

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Per te, lettore.

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PROLOGO

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C’erano delle regole.

Regole che non dovevano essere infrante, e invece era succes-

so, maledizione, e sarebbe successo ancora. Non importava che

fino a quel momento tutto fosse stato sotto controllo. Non im-

portava che le regole fossero state rispettate, che bisognasse ri-

spettarle.

Ora tutto era diverso.

Lei stava tornando.

Per rovinare di nuovo tutto.

Nell’angolo, l’ombra raggomitolata e patetica gemette. La

donna si era svegliata. Finalmente. Non era affatto divertente

quando perdevano i sensi durante i momenti migliori. Pianifi-

care richiedeva pazienza, e la pazienza era una virtu che si per-

fezionava con anni e anni di attesa.

Una fune sporca e insanguinata le stringeva caviglie e polsi.

Quando lei alzo piano la testa e aprı gli occhi con un fremito

delle ciglia, un grido sconcertato le scaturı dal profondo, da

un pozzo di terrore senza fine. Glielo leggevo negli occhi. Lei

lo sapeva. Oh, sı, sapeva che non sarebbe uscita da lı con le

sue gambe. Sapeva che, quando quel mattino era salita in mac-

china per andare al lavoro, era stata l’ultima volta in cui aveva

visto la luce del sole. Sapeva che quella era stata l’ultima occa-

sione di respirare aria fresca.

Adesso, la fioca luce artificiale era la sua casa. L’odore di ter-

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ra umida l’avrebbe accompagnata fino all’ultimo respiro, le

avrebbe ostruito i pori e impregnato i capelli.

Quella sarebbe stata la sua tomba.

La donna piego la testa all’indietro contro l’umido muro di

mattoni. Il terrore nel suo sguardo lascio il posto alla supplica.

Sempre la solita storia. Era cosı prevedibile, cazzo. Cosı inutile.

Non c’era speranza, lı. Non ci sarebbero stati miracoli. Una vol-

ta arrivate lı, nessun cavaliere coraggioso sarebbe venuto a sal-

varle.

Risuonarono dei passi al piano di sopra. Un attimo dopo, rie-

cheggio una risatina sommessa, e gli occhi sbarrati della donna

si levarono verso il soffitto. Cerco di gridare, di strillare, ma le

uscirono solo suoni soffocati. Patetici suoni che s’interruppero

quando la luce fioca balugino sulla lama affilata.

Scosse la testa, frenetica, facendo ricadere flosce ciocche bion-

de sul viso pallido. Le lacrime riempirono gli occhi castani.

« Non e colpa tua. »

Respiri affannosi le gonfiavano il petto.

« Se lei non avesse deciso di tornare, questo non ti sarebbe

mai accaduto. E colpa sua. » Ci fu un attimo di silenzio, mentre

lo sguardo della donna si fissava sul coltello. « Mi ha fregato, e

io freghero lei nel peggiore dei modi. »

Quella volta le cose sarebbero andate come avrebbero sempre

dovuto. Lei sarebbe morta, ma prima gliel’avrei fatta pagare.

Per tutto.

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Quando lanciai uno sguardo allo specchietto retrovisore,

il cuore comincio a battermi piu in fretta. Avevo gli occhi

sgranati, stravolti. Sembravo in preda all’ansia, e lo ero

davvero.

Presi un bel respiro, afferrai la borsa e scesi dalla mia

Honda. Mentre richiudevo la portiera, l’aria fredda s’in-

sinuo sotto il maglione leggero. Inspirai a fondo, c’era

profumo di erba appena tagliata.

Feci un passo verso la locanda in cui ero cresciuta e che

non vedevo da anni. Era proprio come la ricordavo. Il ven-

to faceva oscillare le sedie a dondolo vuote. Le folte felci,

che da primavera inoltrata a inizio autunno ricoprivano i

muri, erano sparite. Le assi di legno erano state dipinte di

un bianco abbagliante, le imposte di verde bosco e...

E mi si secco la gola. Mi venne la pelle d’oca e fui scos-

sa da un brivido. Un terribile e surreale presentimento mi

chiuse lo stomaco. Di nuovo, mi manco il respiro.

Sentivo come una carezza viscida e leggera lungo la

spina dorsale. La nuca mi bruciava come quando lui si

metteva seduto dietro di me.

Mi voltai di scatto e perlustrai il cortile con lo sguardo.

Alte siepi delimitavano la proprieta. Eravamo piuttosto

distanti da Queen Street, la via principale che attraversa-

va la cittadina, eppure riuscivo a sentire il rumore delle

auto che passavano da lı. Mi guardai di nuovo intorno.

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Non c’era nessuno, ne sul portico ne in cortile. Forse c’era

qualcuno alla finestra, ma lı fuori ero sola, sebbene le pal-

pitazioni e l’istinto mi urlassero il contrario.

Osservai di nuovo le siepi sempreverdi. Erano cosı fit-

te che qualcuno poteva essersi nascosto lı dietro in attesa

di... « Piantala! » Strinsi il pugno. « Stai diventando para-

noica e stupida. Dacci un taglio. Nessuno ti sta spiando. »

Ma il cuore non si placava e i muscoli tesi cominciava-

no a tremare. Era una reazione automatica, istintiva.

Ero in preda al panico.

I gelidi artigli del terrore mi affondarono nel petto e

cominciai a correre, dall’auto fin dentro casa. Non riusci-

vo a mettere a fuoco nulla: vedevo solo le scale e le salii di

corsa.

Lı, nel corridoio stretto e silenzioso su cui si affaccia-

vano gli appartamenti, senza fiato e assalita dalla nausea,

lasciai cadere a terra la borsa e mi piegai in avanti, strin-

gendomi le ginocchia al petto mentre prendevo respiri

profondi e irregolari.

Non mi ero fermata a guardare se la locanda fosse

cambiata durante la mia assenza, non mi ero fermata a

salutare mia madre. Avevo solo corso come se avessi il

diavolo alle calcagna.

E mi sentivo proprio cosı.

Era sbagliato.

«No», bisbigliai, con gli occhi al soffitto. Mi appoggiai

alla parete emi passai lemani sul viso. «Non e sbagliato. »

Abbassai le braccia, presi un respiro profondo e mi co-

strinsi ad aprire gli occhi. Era ovvio che, tornando a casa,

avrei avuto una... reazione forte, dopo tutto quello che

era successo.

Quando me n’ero andata avevo giurato che non sarei

tornata mai piu.

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Mai dire mai.

Quelle tre parole mi mulinavano in testa da quando

avevo deciso di tornare. Quasi non riuscivo a credere

di essere di nuovo a casa, di aver infranto la promessa

fatta a me stessa.

Da bambina, ero convinta che la locanda fosse infesta-

ta. E come poteva non esserlo? Nel XIX secolo, quella

grande casa in stile georgiano e la sua rimessa per le car-

rozze facevano parte dell’Underground Railroad, la rete

clandestina che offriva riparo agli schiavi in fuga; e si di-

ceva che durante la guerra di secessione, dopo la sangui-

nosa battaglia di Antietam, fossero state occupate dai sol-

dati feriti o moribondi.

Le assi del pavimento in legno scricchiolavano tutta la

notte. Nelle stanze c’erano punti in cui l’aria era sempre

gelida. La vecchia e buia scala di servizio mi terrorizzava

come nulla al mondo. Lungo le pareti tappezzate sem-

bravano scivolare ombre furtive. Se i fantasmi esistevano

davvero, allora la nostra locanda, la Scarlet Wench, dove-

va esserne piena. E anche se ormai avevo ventinove anni,

ed ero adulta e vaccinata, credevo ancora che fosse infe-

stata.

Magari ora da un tipo diverso di fantasmi.

A vagare per gli stretti corridoi dei piani superiori, a

camminare in punta di piedi sui pavimenti lucidi e a na-

scondersi sulle scale buie era la Sasha Keeton di dieci an-

ni prima... prima che lo Sposo arrivasse in un posto dove

non succedeva mai niente e distruggesse tutto.

Avevo giurato che, in quella citta, non ci sarei mai tor-

nata ma, come diceva sempre la nonna Libby, mai dire

mai.

Con un sospiro, mi scostai dal muro e guardai lungo il

corridoio.

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Forse non avrei dato di matto in quel modo se non

avessi sentito quella notizia alla radio, proprio mentre

uscivo dall’interstatale: a Frederick era scomparsa una

donna. Ne avevo afferrato solo il cognome: Banks. Era in-

fermiera al Memorial Hospital. Il marito l’aveva vista per

l’ultima volta al mattino, quand’era uscita per andare al

lavoro.

Mi manco il respiro e fui scossa da un brivido. Frede-

rick, nel Maryland, non era lontana dal West Virginia e

dalla Berkeley County. Senza traffico, in macchina ci vo-

leva solo un’oretta. Cominciai ad aprire e chiudere le ma-

ni per scaldare le dita gelide.

La scomparsa di una persona, in qualsiasi circostanza,

era un fatto orribile e triste, tragico oltre ogni dire. La

scomparsa di piu persone era gravissima e terrificante,

uno schema...

Imprecando sottovoce, fermai quel flusso di pensieri.

Quell’infermiera non aveva nulla a che vedere con me.

Era ovvio. Ogni scomparsa era traumatica, dio solo sape-

va quanto potessi capirlo, ma speravo con tutta me stessa

che avrebbero ritrovato quella donna sana e salva, perche

quella faccenda non aveva nulla a che vedere con me.

O con cio che era successo dieci anni prima.

Il vento pungente d’inizio gennaio sferzo il tetto, fa-

cendomi sobbalzare. Il cuore mi batteva a mille. Ero in-

quieta come un topo in una stanza piena di gatti affamati.

Era tutto...

Il mio cellulare squillo, strappandomi ai miei pensieri.

Allungai un braccio verso la borsa e vi frugai dentro per

tirare fuori il telefono. Quando vidi chi mi stava chia-

mando, increspai le labbra.

« Sasha », esordı mia mamma non appena pigiai il ta-

sto di risposta. La sua risata mi mise di buon umore.

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«Dove diamine sei? La tua macchina e qui fuori, ma non

ti trovo da nessuna parte. »

Ero un po’ imbarazzata. « Sono di sopra. Quando sono

scesa dalla macchina, sono entrata, ma... » Esitai. Non vo-

levo dirlo, non volevo ammettere quanto fossi scossa.

«Vuoi che venga su? » mi domando subito, e io striz-

zai le palpebre.

«No, adesso sto bene. »

Ci fu una pausa. « Sasha, tesoro, io... » La mamma non

finı la frase e io potevo solo immaginare cosa stesse per

dire. « Sono felice che tu sia finalmente a casa. »

A casa.

Qualunque ventinovenne si sarebbe sentita una fallita

a tornare dai suoi, ma per me era il contrario. Tornare a

casa era un traguardo, raggiunto con grande sforzo.

Aprii gli occhi e trattenni un sospiro. « Scendo. »

«E vorrei ben vedere! » Rise di nuovo, ma in un modo

che sembrava forzato. « Sono in cucina. »

Strinsi piu forte il telefono. «Okay. Arrivo tra un atti-

mo. »

«Va bene, tesoro. » La mamma riattacco, e io rimisi il

cellulare nella borsa.

Per un momento rimasi immobile, come inchiodata al

pavimento, poi mi riscossi. Era ora.

Era ora, finalmente.

Ero sbalordita.

L’interno della locanda non era affatto come lo ricor-

davo. Attraversai l’atrio, strabiliata dai cambiamenti

che erano avvenuti negli ultimi dieci anni.

Mi guardavo intorno, muovendomi lentamente, con la

borsa che mi penzolava dalla mano. I vasi di orchidee

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finte erano una novita, mentre le vecchie poltrone della

reception erano sparite. Le due grandi stanze erano di-

ventate un enorme ambiente unico. Una sobria pittura

grigia aveva preso il posto della carta da parati a fiori.

Le sedie classiche rivestite in velluto erano state sostituite

da poltrone imbottite bianche e verde petrolio, sistemate

strategicamente intorno ai tavolini per invogliare alla

conversazione. Il caminetto in mattoni era stato alleggeri-

to e dipinto di bianco.

Un’altra sorpresa mi aspettava in sala da pranzo: il

freddo e formale tavolone che obbligava gli ospiti a man-

giare tutti insieme era sparito. L’avevo sempre detestato,

perche metteva le persone in imbarazzo. Ora al suo posto

c’erano cinque tavoli rotondi ricoperti da tovaglie candi-

de. Il caminetto era stato imbiancato come l’altro e, dietro

il vetro, guizzavano le fiamme. Di fronte era stato ag-

giunto un mobile bar.

La Scarlet Wench era finalmente entrata nel XXI secolo.

Chissa se la mamma mi aveva accennato qualcosa. Ci

eravamo sentite spesso al telefono e mi era venuta a tro-

vare ad Atlanta parecchie volte. Probabilmente me l’ave-

va detto, ma io smettevo di ascoltare quando parlava di

« casa »; dovevo essermi persa molte cose.

Ecco perche questo momento per me era cosı impor-

tante. Toccare con mano quei cambiamenti mi faceva ca-

pire quanto mi fossi allontanata.

Mi si formo un groppo in gola e stupide lacrime mi sa-

lirono agli occhi. «Oh, dio », mormorai, asciugandole col

dorso della mano e sbattendo le palpebre. «Okay. Dia-

moci una calmata! »

Contando fino a dieci, mi schiarii la gola e alzai il men-

to. Ero pronta a incontrare la mamma. Potevo farcela sen-

za crollare e frignare come una bambina.

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Quando fui certa di non rischiare una crisi di nervi in

piena regola, mi decisi a muovere qualche passo. Il pro-

fumo di carne arrosto mi guido sul retro della casa, divi-

so dal resto da una porta a scomparsa con la scritta STAFF.

Allungai la mano per aprirla e all’improvviso fui riporta-

ta indietro nel tempo; in un nanosecondo mi rividi oltre-

passare di corsa quella porta per fiondarmi tra le braccia

del papa, che mi aspettava dopo il primo giorno di asilo,

sventolando in mano il disegno ad acquerello che avevo

fatto per lui. Ricordai di essermi trascinata oltre quella

porta la prima volta in cui mi avevano spezzato il cuore,

con la faccia striata di sporco e lacrime perche Kenny Ro-

berts mi aveva spinto nel fango al parco giochi. Mi rividi

a quindici anni, consapevole che mio padre non sarebbe

piu stato lı ad aspettarmi.

Poi vidi me stessa aprire quella porta col ragazzo che

avevo conosciuto al corso di economia per presentarlo al-

la mamma, e il cuore manco un battito, strappandomi ai

ricordi e riportandomi al presente.

«Oh, dio », sussurrai, bloccando quel pericoloso flusso

di pensieri prima che due intensi occhi azzurri mi si fis-

sassero in mente. Altrimenti non avrei smesso di pensare

a lui per i successivi dodicimila anni, ed era proprio l’ul-

tima cosa di cui avessi bisogno. « Sono un disastro. »

Scossi la testa e feci scivolare la porta. Il nodo in gola

torno a stringersi non appena la vidi dietro il bancone in

acciaio, proprio dove stava sempre il papa, fino alla mat-

tina in cui era morto all’improvviso per un infarto.

Dimenticai la paura provata durante il lunghissimo

viaggio in macchina, e la notizia ascoltata alla radio, e

mi sentii di nuovo una bambina di cinque anni.

«Mamma», dissi, con voce roca, lasciando cadere la

borsa sul pavimento.

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Anne Keeton uscı da dietro il bancone della cucina e io

incespicai per la fretta di raggiungerla. Non la vedevo da

un anno. Era venuta ad Atlanta per Natale, perche sape-

va che non ero ancora pronta a tornare. Era passato solo

un anno, eppure la mamma era cambiata almeno quanto

la locanda.

I capelli biondi, lunghi fino alle spalle, erano diventati

piu bianchi. Le rughe intorno agli occhi castani erano piu

profonde, e qualche linea era comparsa anche intorno al-

le labbra, che si erano fatte piu sottili. La mamma era

sempre stata formosa – era da lei che avevo preso i fian-

chi, il seno, la pancetta... okay, anche le cosce –, invece

doveva aver perso almeno dieci chili.

Quando lei mi abbraccio, la preoccupazione mi chiuse

lo stomaco. Perche non me n’ero accorta l’anno prima?

Ero lontana da troppo tempo? In dieci anni si perdono

molte cose, se si vede qualcuno solo di tanto in tanto.

« Tesoro! » Aveva la voce roca. « Bambina mia, sono

cosı felice di vederti. Cosı felice che tu sia qui. »

«Anch’io », bisbigliai, e dicevo sul serio.

Ero tornata a casa controvoglia eppure, mentre strin-

gevo mia madre e sentivo il suo profumo alla vaniglia,

capii di aver fatto la cosa giusta. Ero davvero preoccupa-

ta per lei.

La mamma aveva solo cinquantacinque anni, ma l’eta

non conta quando si parla della morte. Nulla conta di

fronte alla morte. Lo sapevo meglio di chiunque altro.

Il papa era morto giovane e, dieci anni prima, quando

avevo solo diciannove anni, io... avevo quasi esalato l’ul-

timo respiro, dopo che tutto mi era stato portato via.

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Da quanto ricordavo, il tavolo da bistrot in ferro era sem-

pre stato in cucina, di fronte alla grande finestra affaccia-

ta sulla veranda e sul giardino. Sfiorandone la superficie,

sentii sotto le dita le piccole e familiari dentellature incise

lungo il bordo. Era a quel tavolo che da bambina dise-

gnavo e da adolescente facevo i compiti la sera.

Sul lato opposto, con sopra un cartello che diceva PRI-

VATO, c’era la porta di accesso alla vecchia cucina, che ora

fungeva da dispensa. Durante la ristrutturazione, porta e

cucina erano state entrambe dipinte di bianco.

La mamma preparo due tazze di caffe e si sedette di

fronte a me. La stanza ora profumava come una caffette-

ria e io non pensavo piu a quanto ero stata nel panico po-

co prima.

«Grazie », dissi. Un sorrisetto mi sollevo gli angoli del-

la bocca, mentre stringevo la tazza calda: era decorata

con alberelli di Natale verdi. Non importava che fossero

passate due settimane e che non si vedessero piu decora-

zioni in giro: le tazze a tema natalizio avremmo continua-

to a usarle per tutto l’anno. Mi guardai intorno. «Dov’e

James? » chiesi. James Jordan faceva il cuoco lı da almeno

quindici anni. « Sento profumino di cibo. »

« In forno ci sono due arrosti. » La mamma bevve un

sorso di caffe. « C’e stato qualche cambiamento. Ora gli

ospiti ci devono avvertire se intendono cenare qui, e pre-

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pariamo qualcosa a seconda delle loro richieste. Cosı c’e

meno lavoro da fare e sprechiamo meno cibo. Adesso

James viene solo tre volte alla settimana: mercoledı, gio-

vedı e sabato. » Poso la tazza sul tavolo. «Gli affari vanno

abbastanza bene, ma con tutti i nuovi hotel che stanno

spuntando qui intorno dobbiamo stare attenti a come

spendiamo i soldi. Ricordi che ti ho parlato di Angela

Reidy? »

Annuii.

« E lei che si occupa delle pulizie la mattina e il pome-

riggio, dal martedı alla domenica. Daphne c’e ancora, ma

comincia ad avere una certa eta, cosı adesso lavora part-

time. In questo modo ha piu tempo per i nipotini. Angela

e straordinaria, ma un po’ distratta. Continua a chiudersi

fuori di casa, tanto che tiene le chiavi di scorta qui, nella

stanza sul retro. »

Mandai giu tutte quelle informazioni insieme con un

sorso di caffe ben zuccherato, proprio come piaceva a

me. Fondamentalmente, la mamma stava dicendo che fa-

ceva quasi tutto lei. Ecco spiegati i capelli bianchi e le ru-

ghe. Mandare avanti una locanda o qualsiasi altra attivita

col personale ridotto all’osso avrebbe lasciato il segno su

chiunque, e sapevo che gli ultimi dieci anni non erano

stati facili per lei, anche se per altre ragioni.

Le stesse per cui erano stati duri anche per me.

Talvolta riuscivo a dimenticare perche me n’ero anda-

ta. Quei momenti erano pochi e rari, ma quando capita-

vano... provavo un dolcissimo senso di pace. Era come

tornare alla vita di prima. Come se potessi fingere di esse-

re una donna come tutte le altre, con una carriera che in

qualche modo amavo e un passato normale, perfino

noioso. Non che non fossi scesa a patti con cio che era

successo a me e alla mia famiglia... avevo avuto sei anni

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di terapia per riuscirci. Eppure accoglievo ancora con

gioia e gratitudine i momenti in cui dimenticavo.

Posai la tazza e accavallai le gambe. « Stai mandando

avanti tutto da sola, mamma. E tanto. »

« E... fattibile. » Abbozzo un sorriso, che pero non rag-

giunse gli occhi color whisky, identici ai miei. «Ma ades-

so sei a casa. Non dovro piu fare tutto da sola. »

Annuii e abbassai lo sguardo. « Sarei dovuta tornare... »

La mamma si chino sul tavolo e mi prese le mani tra le

sue. «Non dire cosı. Ad Atlanta avevi un ottimo lavoro,

e... »

Feci un sorrisetto. « Il mio lavoro, alla fine, era fare da

baby-sitter al capo per assicurarmi che non mettesse le

corna alla terza moglie. E non sono stata nemmeno molto

brava, visto che sta divorziando di nuovo. »

« Tesoro, eri l’assistente di un uomo che gestisce una

societa di consulenza da miliardi di dollari. Avevi ben al-

tre responsabilita che assicurarti che tenesse la patta

chiusa. »

Ridacchiai. L’unica cosa che superava l’istinto del mio

ex capoper gli affari era il suo istinto di scoparsi ilmaggior

numero possibile di donne. Lamamma, pero, aveva ragio-

ne. Per cinque anni lamia vita era stata piena di serate pas-

sate in ufficio, cene di lavoro, piani che cambiavano all’im-

provviso, viaggi continui da un capo all’altro del mondo.

Come in ogni cosa, c’erano pro e contro, e certo non avevo

deciso a cuor leggero di mollare. Era grazie al mio lavoro

se avevo messo da parte un po’ di soldi che mi avrebbero

reso piu facile il passaggio a ritmi piu... rilassati.

«Ad Atlanta ti eri rifatta una vita. »

Inarcai un sopracciglio. In pratica facevo gli stessi ora-

ri del capo, Mr Berg.

« E non era facile tornare alla tua vita qui. »

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M’irrigidii. Non voleva mica parlarne, vero? Mi striz-

zo la mano.

Ebbene sı, voleva proprio parlarne.

« Per te non era facile tornare in questa citta, con tutti

quei ricordi, lo so bene, tesoro. Lo so. » Mi fece un sorriso

triste. «Quindi capisco che sia stato davvero un grosso

passo: hai dovuto superare molte cose per prendere que-

sta decisione. E l’hai fatto per me. Non sminuirlo. »

Oh, dio, stavo per ricominciare a piangere.

Sı, l’avevo fatto per lei, ma in realta... l’avevo fatto an-

che per me stessa.

Liberai la mano dalle sue e buttai giu un po’ di caffe

prima di scoppiare a piangere con la faccia sul tavolo, co-

me avevo fatto fin troppe volte in passato.

Mia madre si schiarı la voce. «Allora, parliamo di cose

pratiche. Molti dei tuoi scatoloni sono arrivati mercoledı

e James te li ha portati di sopra. Ne avrai altri in macchi-

na, suppongo. »

« Sı », mormorai, mentre lei si alzava per posare la taz-

za nel lavello. « Posso portarli su adesso. Sono soprattut-

to vestiti, e un po’ di esercizio mi fara bene, dopo il mi-

lione di ore passate in macchina. »

« Potresti cambiare idea, quando ricorderai quanti sca-

lini ti tocchera salire. » Lavo la tazza. «Al momento ab-

biamo solo tre stanze occupate, due delle quali si libera-

no domenica, e gli altri ospiti – una coppia di sposini –

vanno via martedı. »

Finii il caffe. «Che mi dici delle prenotazioni? »

Asciugandosi le mani con lo strofinaccio, la mamma

elenco velocemente il programma della settimana. Ado-

ravo il fatto che ricordasse tutto a memoria.

«C’e qualcosa che posso fare per aiutarti? » le chiesi

quando ebbe finito.

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Scosse la testa. «Cinque ospiti su sette cenano qui sta-

sera. Gli arrosti devono cuocere ancora un po’. Le patate

sono gia bollite e tagliate, pronte da servire. Se vuoi, mi

puoi dare una mano col servizio, ma non ce ne sara biso-

gno prima di un paio d’ore. »

«Ottimo. » Feci per alzarmi. Con la coda dell’occhio

percepii un movimento che attiro la mia attenzione.

Voltandomi verso la finestra, scorsi delle ombre a de-

stra della veranda. I rami dei meli nani frusciavano. Striz-

zai le palpebre e mi avvicinai. Qualcosa si muoveva die-

tro il graticcio che di solito era ricoperto dai rampicanti,

un’ombra piu densa che rimaneva vicino alle siepi. Mi

aspettavo che da un momento all’altro sbucasse qualcu-

no e, quando non accadde, perlustrai il giardino con lo

sguardo. Non notai nulla di strano, quindi mi riconcen-

trai sulla veranda. Le sdraio e le poltroncine erano vuote,

ma avrei giurato di aver visto qualcuno lı fuori.

«Che cosa guardi, tesoro? »

Non avendone la piu pallida idea, sbattei le palpebre e

scossi la testa, mentre mi voltavo verso di lei. « Credo che

ci sia un ospite in giardino. »

« Strano. Mi sa che sono tutti fuori. »

Mi voltai di nuovo verso la finestra.

« Pero qualcuno puo essere rientrato senza che me ne

accorgessi. Succede », aggiunse, prendendo un guanto da

forno. Quando aprı lo sportello, il cigolio riecheggio in

tutta la cucina.

Fuori, non si muoveva una foglia.

Probabilmente non c’era nessuno. Era solo colpa dei

nervi. E della paranoia. Come prima, quand’ero corsa

su per le scale. Per me non era facile trovarmi di nuovo

a casa, ma nessuno mi avrebbe biasimato per questo.

Mordicchiandomi il labbro, ripensai alla notizia ascol-

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tata alla radio. Strinsi forte le mani. «Ho sentito della

donna scomparsa a Frederick. »

La mamma si blocco. I nostri sguardi s’incontrarono e,

quando lei non replico, sentii agitarsi nello stomaco come

un migliaio di serpenti. « Perche non mi hai detto nien-

te? » chiesi.

Lei s’infilo il guanto, tenendo gli occhi fissi sul forno.

«Non volevo farti preoccupare, anche se so che avresti

cercato di non farlo... insomma, non volevo turbarti. »

Scosse la testa. «Non volevo che cambiassi idea e deci-

dessi di non tornare piu a casa. »

Pensava che fossi tanto fragile? Che la scomparsa di

una donna in uno Stato vicino mi avrebbe fatto cambiare

idea? Quando tutto era appena successo, sarei stata dav-

vero cosı. Pronta a finire in mille pezzi. Ma non ero piu

quella persona.

«Cio che e capitato a quella donna e terribile, ma sai

come si dice: quando qualcuno scompare spesso c’e di

mezzo un conoscente. Probabilmente il marito », com-

mento la mamma.

Nel mio caso, pero, non era stato un conoscente. Era

stato un estraneo, qualcuno che non avevo mai visto, fin-

che non era stato troppo tardi.

Qualche ora dopo, una volta servita la cena alla deliziosa

coppia di anziani che stava al terzo piano e alla famiglio-

la di tre persone, che era venuta dal Kentucky per fare vi-

sita ai parenti, entrai nel mio nuovo appartamento.

Oh, dio, era cosı strano essere tornata lı.

Era tutto come una volta, eppure diverso.

Nel servire la cena me l’ero cavata, anche se era strano

compiere con naturalezza gesti che non facevo da anni.

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In un certo senso, non era poi cosı diverso dal lavoro che

svolgevo per Mr Berg: dovevo anticipare ogni necessita.

Erano solo necessita diverse, come rabboccare i bicchieri o

portare via i piatti vuoti.

Le pulizie erano noiose proprio come ricordavo.

Ma almeno sparecchiare i tavoli e sciacquare i piatti

prima di metterli in lavastoviglie, mentre la mamma fini-

va di sistemare le camere per la notte, mi aveva permesso

di non pensare. La mia mente era rimasta serena e vuota

finche non ero salita al piano di sopra.

Nel sottotetto erano stati ricavati due appartamenti e

mezzo. Il terzo, il papa era morto prima di riuscire a finir-

lo ed era rimasto cosı come lui l’aveva lasciato, nascosto

dietro una porta sempre chiusa. Chissa se l’avremmomai

completato e, nel caso, come l’avremmo utilizzato. Al

momento non avevo bisogno di altro spazio.

E non ne avrei avuto in futuro.

Sovrappensiero, mi strofinai l’anulare sinistro. Anche

dopo la partenza e i sei anni di terapia, continuavo a pen-

sare che non avrei mai indossato un abito da sposa e non

mi sarei mai lasciata mettere una fede al dito. La terapeu-

ta mi aveva detto che le cose sarebbero cambiate, ma io

non ne ero cosı convinta. Non ero nemmeno riuscita ad

andare al terzo matrimonio del mio ex capo. I matrimoni

mi facevano venire il voltastomaco.

Rendendomi conto di quello che stavo facendo, lasciai

la mano sinistra e mi concentrai sull’appartamento.

Era completamente diverso da come lo ricordavo e im-

maginai che la mamma l’avesse fatto ristrutturare. O for-

se, senza la roba della nonna, lo spazio sembrava piu am-

pio e luminoso. Non sapeva di vecchio o di muffa, ma

odorava di spezie, era grazioso e accogliente.

La zona giorno aveva una cucina a vista con microon-

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de, frigorifero e lavello. Mancavano soltanto gli sgabelli

per la penisola. Da Atlanta avevo spedito le cose indi-

spensabili, insieme col mio divano, una meraviglia dai

cuscini super imbottiti. Sullo schienale era stata adagiata

la mia morbidissima coperta grigio chiaro, fatta apposta

per accoccolarcisi dentro.

La camera da letto era abbastanza spaziosa. L’armadio

era un po’ piccolo, ma in compenso il bagno aveva una

vasca coi piedini a zampa di leone che faceva dimentica-

re tutto.

Passai il resto della serata a sistemare l’appartamento

o, piu che altro, a collegare la TV e mettere a posto i ve-

stiti... vestiti che sarebbe stato meglio aver dato in bene-

ficenza, visto che, a furia di piegarli, mi facevano male le

braccia. La mezzanotte era passata da un pezzo quando

andai in bagno. Mi pulii il viso col detergente e lo sciac-

quai con l’acqua tiepida. Brancolai alla cieca per prende-

re l’asciugamano che ero sicura di aver visto poco prima,

esultando mentalmente quando le dita toccarono il tessu-

to lanuginoso. Mi asciugai il volto e aprii gli occhi.

Ero faccia a faccia col mio riflesso.

Balzai all’indietro, andando a sbattere contro la porta.

«Merda! » mormorai, alzando gli occhi al cielo. Allungai

la mano verso lo spazzolino, poi sospirai e feci una cosa

che non facevo da molto tempo.

Mi osservai.

Mi osservai davvero.

Erano secoli che non mi capitava, anzi, ero cosı brava a

evitarlo che ormai sapevo truccarmi alla perfezione an-

che senza specchio. Riuscivo perfino a mettermi l’eyeli-

ner. Sulle palpebre superiori.

I miei occhi castani non erano scuri come quelli del pa-

pa, bensı di una tonalita piu chiara e calda, come quelli

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della mamma. I capelli biondi li tenevo raccolti in uno

chignon improvvisato: li avevo tenuti cosı tutto il giorno,

ma sciolti mi arrivavano fino a meta schiena. Il mio viso

avrebbe avuto una perfetta forma a cuore se non fosse

stato per il mento un po’ squadrato.

Strinsi il bordo del lavabo e mi avvicinai di piu allo

specchio.

Il naso e la bocca avevano assunto la loro forma defi-

nitiva durante il primo anno del college. O almeno pri-

ma di allora il naso mi sembrava troppo grande e le lab-

bra troppo carnose rispetto al resto del viso: non era una

combinazione gradevole. Le labbra le avevo prese dalla

nonna. Il mento dal papa. La corporatura e gli occhi dal-

la mamma.

Al primo anno del college avevo capito che da ragazza

normale, passabile, ero diventata la biondina carina della

porta accanto. Adesso mi sembrava di avere l’aspetto

della tipica donna che regala torte di mele ai vicini e

che, dopo due gravidanze, sta pensando alla terza.

Sollevai gli angoli della bocca, ma ne venne fuori un

sorriso forzato, triste e un po’ vuoto. I miei occhi, legger-

mente cerchiati, lasciavano trasparire una diffidenza che

non voleva abbandonarmi, nonostante tutti gli anni pas-

sati e i traguardi raggiunti.

Potendo tornare indietro nel tempo, avrei detto alla

Sasha diciannovenne di godersi di piu la vita. Di accetta-

re gli inviti alle feste della confraternita. Di fare le ore pic-

cole in giro, e dormire fino a tardi. Di avere piu fiducia in

se stessa. Di apprezzare quello che aveva.

Di dare una svolta alla relazione col ragazzo che aveva

incontrato al corso di economia.

Piu di tutto, rimpiangevo di non averlo fatto... prima

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che lo Sposo mi trovasse, perche aveva trasformato la

mia prima volta in una cosa crudele e rivoltante.

Serrai le labbra e guardai in basso. Le dita dei piedi

spuntavano oltre l’orlo sfilacciato dei jeans. Mi misi le

mani sui fianchi, poi le feci risalire piano fino alla vita.

Che aspetto avevo nuda?

Sinceramente non lo sapevo.

Non mi ero osservata nemmeno quand’ero stata in in-

timita con un uomo. Anzi, a pensarci bene, non mi ero

mai spogliata del tutto con nessuno.

C’erano dei motivi.

Due, per la precisione.

Smisi di toccarmi, a disagio per il corso che stavano

prendendo i miei pensieri. Mi affrettai a finire di prepa-

rarmi, spensi la luce e uscii dal bagno.

Ciondolai un po’ in soggiorno e in cucina, il pavimen-

to freddo sotto i piedi scalzi. Prima di buttarmi nel letto

nuovo, vidi la chiave che la mamma aveva lasciato sul

bancone della cucina e mi annotai mentalmente di ag-

giungerla al portachiavi. Oltre la penisola della cucina,

c’era una porta. Ogni appartamento ne aveva una: era

un ingresso indipendente che dava su un piccolo balla-

toio.

Mi assicurai che la porta fosse chiusa a doppia manda-

ta. Lo stomaco mi si contorse per il nervosismo. Come

una pazza furiosa, girai la maniglia per esserne sicura.

Chiusa. Decisamente chiusa. Ora che ero piu tranquilla,

mi stesi a letto, mi tirai il piumone fino al mento e... fissai

le ombre sul soffitto. Anche se ero esausta per il viaggio,

per tutte le emozioni legate a quel posto e l’interminabile

lavoro di piegare e sistemare i vestiti, non riuscivo a chiu-

dere occhio.

Non mi addormentavo con facilita. Non da... be’, da

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quando avevo diciannove anni. Da quando avevo inizia-

to a pensare che mentre dormivo non potevo vedere cosa

mi succedeva intorno e non potevo proteggermi. Per sei

giorni, avevo combattuto il sonno con ogni cellula del

mio corpo e, non appena vi avevo ceduto, me n’ero subi-

to pentita.

Alla fine mi assopii, e allora successe, come sempre.

Ha la fronte premuta contro la mia e so che non e pronto a la-

sciarmi andare. Non lo e mai, e questo mi piace. Anzi, lo adoro.

« Devi rientrare », gli dico, togliendo lentamente le mani dal

suo petto. « Hai ancora molto da studiare. »

« Gia », mormora lui, ma non si muove. Le sue labbra mi

sfiorano la guancia e trovano la mia bocca con precisione infal-

libile. Mi bacia dolcemente e indugia, prolungando il bacio cosı

tanto che sono a un pelo dal dirgli di lasciar perdere il gruppo di

studio. Poi, pero, lui si stacca e raccoglie il mio zaino dimenti-

cato a terra. Me lo mette in spalla, scostando una ciocca di ca-

pelli da sotto la bretella. « Mi chiami piu tardi? »

Piu tardi sara davvero tardi, ma acconsento.

« Sta’ attenta », mi dice.

Sorrido, perche e lui a fare un lavoro pericoloso quando non e

a lezione. « Anche tu. » Faccio ciao con la mano e mi volto, per-

che altrimenti non lo fara nemmeno lui e rimarremo qui, fuori

della biblioteca dell’universita, a baciarci per tutta la notte.

Sono ormai a meta del prato quando mi grida: « Chiamami,

piccola. Aspetto ».

Sorridendo, agito una mano per salutarlo e mi affretto attra-

verso il prato, imboccando il sentiero che porta al parcheggio

dietro la facolta di Scienze. E tardi, il sole ormai e tramontato

e dense nubi nascondono le stelle. Il parcheggio e quasi buio,

perche tre dei cinque lampioni sono spenti: l’universita non li

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ha ancora fatti riparare. Ci sono solo poche macchine nel piaz-

zale e, mentre scendo la breve rampa di scalini in cemento tutti

crepati, adocchio la mia.

Rallento. C’e un furgone scuro, parcheggiato accanto alla

mia Volkswagen, dal lato del guidatore. Sono inquieta perche

prima non c’era.

Mi avvicino mordicchiandomi il labbro e cerco di guardare

all’interno del furgone. Nell’abitacolo non c’e nessuno. E se

qualcuno fosse nascosto nel vano di carico? Respingo immedia-

tamente quel pensiero orribile perche, anche considerato tutto

quello che sta combinando lo Sposo, mi sembra di comportarmi

da paranoica. E solo un furgone, abbiamo tutti i nervi tesi.

« Non fare la stupida », mi dico, infilandomi tra il furgone e

la mia auto. Mi fermo davanti alla portiera, faccio scivolare lo

zaino sul davanti per aprire la tasca e cercare le chiavi.

E in quel momento che lo sento. Un leggero stridio di metallo

su metallo, uno sportello scorrevole che si apre alle mie spalle, e

tutto rallenta. Sfioro le chiavi mentre provo a voltarmi. Intorno

a me c’e uno strano odore, apro la bocca per respirare ma, prima

ancora di rendermene conto, ho gia esalato il mio ultimo respiro.

Una mano rude mi afferra. La paura mi corre lungo la schiena e

mi sento trascinare all’indietro. Un braccio mi cinge la vita,

bloccando il mio. Quello strano odore amarognolo e ovunque,

m’invade le narici e la gola, e apro la bocca per urlare, mentre

il cuore sembra schizzarmi fuori del petto. Dimeno le gambe per

lottare, ma e troppo tardi.

Troppo tardi.

« Non resistermi », mi sussurra all’orecchio. « Non provare a

resistermi. »

Annaspando in cerca di ossigeno, balzai a sedere e presi

grandi boccate d’aria fresca, mentre con gli occhi perlu-

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stravo quella stanza sconosciuta e buia. Il cuore batteva

cosı forte che stavo male. Per un attimo, non capii dove

fossi. Mi ci vollero un paio di secondi per capire di tro-

varmi nel mio appartamento, alla Scarlet Wench, nella

Berkeley County.

« E stato solo un brutto sogno, niente di piu », mormo-

rai, costringendomi a stendermi di nuovo.

Gli incubi sarebbero stati frequenti, cosı aveva detto

la terapeuta. Mi avrebbero accompagnato anche per tut-

ta la vita, finche il mio subconscio avrebbe cercato di ela-

borare il trauma. Li avevo almeno tre volte alla settima-

na, ma era da tantissimo tempo che non sognavo quella

notte.

Ormai non c’era verso di riaddormentarmi, cosı rimasi

a fissare il soffitto mentre le ore passavano e la luce del-

l’alba s’insinuava dal lucernario. L’incubo, ormai, era

lontano.

Anche se non sarei riuscita a battere la mamma sul

tempo e arrivare di sotto prima di lei, feci una doccia ve-

loce, mi asciugai i capelli alla bell’e meglio e li raccolsi in

uno chignon alto. Presi un largo maglione nero, perche lı

gennaio era assai piu freddo che ad Atlanta, e infilai un

paio di leggings a quadri che sulle mie gambe non erano

il massimo, ma li trovavo terribilmente comodi.

Coprendo uno sbadiglio con la mano, tornai in bagno

e mi guardai intorno, accigliata. «Merda! » bofonchiai,

accorgendomi di aver dimenticato la trousse dei trucchi

nel borsone, sul sedile posteriore della macchina.

Al diavolo.

Feci dietrofront e andai verso la panca ai piedi del let-

to: lı sotto c’erano le mie infradito. Le infilai, sapendo che

la mamma non le avrebbe approvate, ma era un’abitudi-

ne che non riuscivo ad abbandonare, nemmeno se c’era la

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neve. Presi dalla borsa le chiavi dell’auto e poi quella del-

l’appartamento.

Uscii dalla porta sul ballatoio, invece di usare quella

interna e la scala di servizio della locanda. Mi strinsi nelle

spalle quando l’aria gelida del mattino scompiglio le

ciocche di capelli ancora umidi che erano scivolate sulla

nuca. Le infradito ciabattarono lungo tutta la scalinata

che prima o poi, nel corso dell’inverno, avrei finito per

scendere col sedere. Passando per la veranda, infilai la

chiave dell’appartamento nel portachiavi.

Girai l’angolo della casa e attraversai il cortile, emet-

tendo nuvolette di vapore a ogni respiro. L’erba bagnata

mi gelava i piedi. Dopo la rotonda acciottolata, andai

dritta verso la mia auto, che avevo parcheggiato davanti

alla rimessa delle carrozze, e fui sollevata che nessuno

degli ospiti fosse mattiniero. Avrei avuto giusto il tempo

di mettermi qualcosa in faccia prima che fosse ora di aiu-

tare la mamma a preparare la colazione continentale.

Quando arrivai vicino alla macchina, mi fermai di colpo.

E rimasi a bocca aperta. «Oh, mio dio! »

Sbattei le palpebre, perche non potevo credere a cio

che vedevo, invece era tutto vero. Con lo stomaco sotto-

sopra, feci un passo verso l’auto. Il vetro scricchiolo sotto

i miei piedi.

Vetro che avrebbe dovuto essere al suo posto sull’auto,

e non a terra.

Tutti i finestrini della macchina erano stati sfondati.

Tutti quanti.

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«Non posso crederci. Qui non c’e mai stato un furto, mai

niente del genere. » La mamma aveva le guance rosse per

la rabbia. « E incredibile. »

Stavamo davanti alla mia auto, l’una accanto all’altra.

Io avrei preferito portare la macchina nella rimessa, in

modo che gli ospiti non la vedessero; la mamma invece

era restia a spostarla prima che arrivasse la polizia. In

piu, c’erano vetri sui sedili e in tutto il resto dell’abitaco-

lo, e non avevo nessuna voglia di passare l’intera giorna-

ta a farmi estrarre schegge dalle chiappe.

Contro il parere della mamma, avevo voluto preparare

la colazione, cosı gli ospiti non avrebbero aspettato... e la-

sciato recensioni schifose su Yelp. Magari poi la famiglio-

la col bimbo dai capelli rossi lo avrebbe fatto comunque,

perche loro avevano gia visto la macchina coi finestrini

tutti rotti e adesso erano preoccupati. Non potevo biasi-

marli, ma era strano che fosse toccato solo alla mia auto e

a nessuna delle altre tre, che erano molto piu belle.

Come la loro Lexus, per esempio.

Siamo seri: volendo scassinare una macchina, perche

mai scegliere una Honda Accord invece di una Lexus e

di una Cadillac? I criminali della Berkeley County aveva-

no una strana percezione di cosa valesse di piu.

«Mamma... » Incrociai le braccia sul petto, ma sapevo

che non avremmo dovuto aspettare a lungo: la centrale di

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polizia era proprio dietro l’angolo. «Mi dispiace davve-

ro. Gli ospiti non devono vedere tutto questo e stare in

pensiero per le loro auto... »

« Perche diamine ti stai scusando? »Mi poso unamano

sulla spalla. «Non e colpa tua, a meno che tu non ti sia

alzata in piena notte per ridurre la tua macchina in que-

sto stato. Se cosı fosse, allora dovremmo fare due chiac-

chiere. »

Mi sfuggı un sorriso, nonostante la situazione. «Ovvia-

mente non sono stata io », risposi, asciutta. « Pero avrei

dovuto pensarci prima e parcheggiarla nella rimessa. »

Mi cinse le spalle con un braccio. « E perche avresti do-

vuto? Qui non ci sono mai ladri ne teppisti. In altre parti

della citta sı, ma qui una cosa cosı non e mai successa. »

Ovviamente, con la fortuna che mi ritrovavo, appena

tornata a casa dovevo farmi sfasciare l’auto da qualche

stronzo.

Mi allontanai dalla mamma e mi sistemai dietro l’orec-

chio una ciocca di capelli sfuggita allo chignon. Una par-

te di me avrebbe voluto prendere uno dei sassi decorativi

del giardino e sfogare la frustrazione scagliandolo contro

la macchina. Era assicurata, ma forse quel giorno era me-

glio non avere un’altra cosa cui pensare.

Per fortuna lasciai perdere perche, proprio in quel mo-

mento, l’auto di pattuglia bianca e blu imbocco il vialetto.

Probabilmente, se il poliziotto mi avesse beccata a lancia-

re sassi contro la macchina, non gli avrei fatto una buona

impressione.

« Speriamo che l’agente sia carino », disse la mamma.

Mi girai di scatto e la guardai allibita.

« Be’? » Ridacchiando, si liscio i capelli con una mano.

«Ho un debole per gli uomini in divisa. »

Sgranai gli occhi. «Mamma! »

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«Mi pare di ricordare che ce l’avessi pure tu », conti-

nuo, sistemandosi il cardigan.

Adesso avevo gli occhi fuori delle orbite. Oh, dio, non

sarebbe mica andata a parare proprio lı, vero?

Alzandosi sulla punta dei piedi, occhieggio l’auto del-

la polizia che parcheggiava dietro la mia. «Magari ti pia-

cera questo qui. »

Volevo sprofondare.

« Finche c’e vita c’e speranza. Mi piacerebbe vederti fe-

licemente sposata prima di tirare le cuoia », aggiunse.

Avevo le guance in fiamme e la fissavo a bocca aperta.

Aveva preso l’abitudine di farsi un goccetto la mattina

presto?

«Oh », esclamo delusa. « E molto attraente, ma un po’

troppo giovane. Anche se non c’e proprio niente di male

a uscire con uno piu giovane. E di moda, no? Lui... »

«Mamma! » sibilai, con gli occhi ridotti a due fessure,

e sul suo viso si dipinse un’espressione innocente. Feci

un respiro profondo, mi voltai e vidi il poliziotto. E rima-

si di nuovo a bocca aperta.

L’agente si avvicino e un lampo di sorpresa gli illumi-

no il volto. Quando poi lui rallento il passo, il mio cuore

fece una capriola. Quell’agente... somigliava cosı tanto al

ragazzo del corso di economia, proprio quello cui mia

madre aveva accennato poco prima.

Certo non poteva essere lui, eppure...

La somiglianza era sbalorditiva.

Aveva gli stessi capelli castano chiaro, rasati sui lati.

Le stesse spalle larghe, capaci di sfondare le porte. Sape-

vo che, sotto quell’uniforme blu scuro, c’erano gli stessi

muscoli scolpiti. La stessa corporatura, i fianchi stretti,

le cosce possenti.

Ma la somiglianza era anche nel viso. Quegli occhi

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– oh, dio! – quegli occhi azzurri mi riportavano dritta al

passato, mentre la mascella era giusto un po’ meno squa-

drata.

Era quasi identico a Cole Landis.

Feci un passo indietro, col cuore che mi martellava nel

petto. Non ce la facevo, non riuscivo a guardarlo perche

mi sembrava di rivedere Cole.

Ma non era lui. Avevo conosciuto Cole al college,

quand’ero ancora una matricola. Lui aveva due anni

piu di me, quindi adesso doveva averne trentuno. Quel-

l’agente invece ne dimostrava al massimo venticinque,

era troppo giovane.

Il poliziotto lancio un’occhiata alla mia auto, passan-

dole accanto. «Mrs Keeton? »

« Sono io. » La mamma smise finalmente di tormentare

il cardigan e, sorridendo, fece un passo avanti. «Ho chia-

mato io in centrale stamattina, ma la macchina e di mia

figlia, Sasha. »

Il bel viso dell’agente si rabbuio all’istante. « Sasha

Keeton? »

M’irrigidii, come se corde invisibili mi tirassero la

schiena. Ecco spiegato perche era sorpreso. All’epoca for-

se lui andava alle superiori, ma in citta tutti sapevano chi

fossi.

Perche io ero l’unica, la sola, che era riuscita a fuggire.

Il panico mi prese cosı in fretta che mi diede la nausea.

Davanti agli occhi mi balenavano i titoli dei giornali: « La

sposa sopravvissuta », « La ragazza che ha sconfitto lo

Sposo »...

Non sarei mai dovuta tornare a casa.

Feci uno sforzo e, invece di assecondare la voglia mat-

ta di scappare a chiudermi in stanza, presi un respiro

profondo, come mi aveva insegnato la terapeuta. Ricac-