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Clara Osvaldo IO, ME STESSA ED ASPIE ARMANDO EDITORE

IO, ME STESSA ED ASPIE

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Clara Osvaldo

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ARMANDO EDITORE

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Sommario

Prefazione 7

Introduzione 10Irene MencaglIa

Capitolo primoDolcetti alla cannella e patatine 14

Capitolo secondoL’invito delle fate 20

Capitolo terzoDiciannove Gennaio Duemilaundici 24

Capitolo quartoLa routine e Max 29

Capitolo quintoVinmjöd e Bandiera 34

Capitolo sestoAndando e tornando 46

Capitolo settimoDuo giorni di Giugno 55

Capitolo ottavoUn ragazzo di nome Per 61

Capitolo nonoL’attesa di qualcosa 80

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Capitolo decimoJohn Willoby 86

Capitolo undicesimoNicholas 117

Capitolo dodicesimoDuemilatredici 126

Capitolo tredicesimoA un passo dalla rivolta 138

Capitolo quattordicesimoAndreas 148

Capitolo quindicesimoConsapevolezza 185

Capitolo sedicesimoCrisalide 200

Capitolo diciassettesimoLibera 218

Capitolo diciottesimoLa rupe dei re 233

Capitolo diciannovesimoIo, Me Stessa ed Aspie 238

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Prefazione

La mentalizzazione o Theory of mind è un concetto essen-ziale da capire se si vuole leggere e comprendere a pieno que-sta storia.

La mentalizzazione è quel paio d’occhiali con cui tutti noi, atipici e neurotipici, nasciamo e che durante la nostra vita cam-bia sfumature.

La differenza fra autistici e neurotipici è che spesso noi au-tistici abbiamo un paio d’occhiali a tinta unita che limita parti-colarmente la comprensione del mondo che ci circonda mentre i NT (neurotipici) hanno a loro disposizione un’intera gamma cromatica da poter sfruttare a seconda delle situazioni.

Concretamente questo significa che noi autistici passiamo la maggior parte del tempo a credere che quello che proviamo e pensiamo sia esattamente quello che gli altri provano e pensano.

Questo porta ovviamente a molte incomprensioni e special-mente se non si è consapevoli dell’esistenza “dell’altro paio d’occhiali” può crearci molta frustrazione e un forte senso di solitudine.

Questo profondo senso di solitudine ha fatto sì che io cer-cassi, già da bambina, un metodo alternativo per supplire a questo bisogno: il famoso amico immaginario, o nel mio caso, fidanzato immaginario. Io lo chiamavo Claudio ed era la rap-presentazione di di tutto quello di cui avevo bisogno: protezio-ne, divertimento, accudimento, comprensione.

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Non ho mai creduto che esistesse davvero, ma ho sempre sperato di incontrare qualcuno che gli assomigliasse.

Crescendo, la figura di Claudio venne suddivisa e sostituita (inconsciamente) da degli alterego (amiche immaginarie) che si prendessero cura ognuna di un bisogno diverso.

Ma è stato solo durante il mio diciottesimo compleanno che questi alterego/bisogni si sono materializzati nella mia mente come tre versioni di me stessa: la piccola me, dolce e com-prensiva, la me adolescente, impulsiva e ribelle e la me adulta, quella che doveva far si che le altre due non litigassero e che funzionava da bilancia.

Nei momenti più difficili o nei momenti di maggiore so-litudine questi alterego venivano a galla nella mia mente at-traverso flussi di coscienza e lettere scritte da me a me. Allo stesso tempo la mia impossibilità a comunicare a voce, mi fa-ceva scrivere diverse lettere a diverse persone reali che però raramente spedivo. Avevo paura che non sarei stata accettata e quindi queste lettere non erano altro che una valvola di sfogo.

Spesso noi autistici abbiamo difficoltà a vedere le cose nel-la loro totalitarietà e ci concentriamo solo sui dettagli.

Questo libro è nato come uno strumento per aiutarmi a capire come sono arrivata a prendere delle scelte particolarmente dan-nose. Rileggendo e trascrivendo i miei diari sono riuscita a trova-re quel filo conduttore che ha dato senso a quelle scelte che, pur dannose, mi hanno portato ad una versione migliore di me stessa.

Sapere da dove vengo (non letteralmente) mi ha donato quello che in svedese si chiama “känsla av sammanhang”, un contesto in cui piantare le radici.

I diversi salti temporali che sono presenti nel racconto di-pendono dal fatto che ci sono voluti ben tre anni per completa-re questo lavoro che cominciai a scrivere in ospedale nel 2015 e che sono riuscita a finire ad Ågesta nel 2018.

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Per concludere, questa è la mia storia, sono le mie esperien-ze personali e non ho la presunzione di dare per scontato che tutte le persone autistiche si riconosceranno nelle avventure che seguono, ma la mia speranza è di poter, attraverso le mie sventure, incoraggiare i più a prendere in mano la loro vita e riuscire a dire “Sì, sono autistico/a e sono qui per restare!”.

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IntroduzioneIrene MencaglIa

Quella che leggerete da qui in poi è una storia. Abbastanza ovvio, ma non è scontato.

Molte biografie sono storie, ma quello che le distingue dai romanzi è che sono storie vere. Non che questa che segue sarà una biografia in senso stretto, come ho già detto è una storia, non trovo miglior termine per definirla.

Quello che vorrei che voi lettori aveste in te mente prima di leggere, vivere, e affrontare questa storia, è che non è una sto-ria qualunque. È la storia di Clara, è la storia della ragazza in classe che vi è sempre sembrata strana; è la storia della ragazza alla fermata del pullman che indossa un cappello decisamente eccentrico; è la storia della mia migliore amica, potrebbe es-sere la storia della vostra mamma, cugina, sorella. Potrebbe essere la vostra storia.

Quelli di voi che ancora non capiscono, potrebbero annuire presto, anche al prossimo paragrafo, altri di voi potrebbero non capire mai, altri ancora, hanno già capito ed affronteranno un percorso di scoperta. Quella che leggerete da qui a poche pagi-ne è la storia di una ragazza autistica.

Questo libro non è un manuale, quindi troverete avventure e sensazioni, risate e lacrime, non fredde definizioni cliniche, ma può valere la pena scrivere due righe su che cosa è l’auti-smo per capire come approcciarsi meglio a questa storia.

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La sindrome dello spettro autistico è una modalità diversa di vivere e percepire il mondo esterno, caratterizzata da ipo o iper sensibilità sensoriale e difficoltà a riconoscere e gestire le situazioni sociali, soprattutto quando la “mentalizzazione” (capacità di riconoscere le emozioni proprie e degli altri) viene a mancare.

La sindrome in questione è di difficile diagnosi soprattutto per le ragazze, data la mancanza di studi sui soggetti femmi-nili. Spesso vengono fatte diagnosi errate come depressione, disturbi di personalità, schizofrenia, disturbi ossessivo com-pulsivi, come sarà nel caso di Clara.

Ma c’è un grande errore che viene fatto nel mondo dei “nor-mali” (ci tengo con questa incisione a dire che non esisteranno mai virgolette abbastanza grandi per circoscrivere la normali-tà, che è un termine decisamente controverso ma che mi trovo a dover usare per farmi intendere in maniera semplice) e que-sto errore è che la depressione, e tutto l’elenco di problemi che ho nominato poche righe sopra, non sono altro che sintomi. La pazzia o la forte, apparente, immaturità sono sintomi di una cosa più grande che la persona affronta. L’autismo è più gran-de di Clara, e lei non lo sa (all’inizio del racconto) e ne viene soggiogata. Ho usato il termine “immatura” perché è il termine con il quale lei è stata spesso additata, la protagonista di questa importante storia. Molte delle grosse liti, avute con una nostra amica in comune, hanno visto come protagonista questo ag-gettivo, “Perché lei è immatura…” mi sentivo dire, senza far caso che qualche mese dopo la stessa voce diceva “Perché tu sei immatura…”.

Anche io ho pensato che la Clara del libro, fosse immatura. La vedevo immatura con i sentimenti. Amava così spassiona-tamente e pensavo “è una gran donna. Vive all’estero e può far tutto quello che vuole. Ma si abbandona così facilmente

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al sentimento… è un po’ immaturo”. Poco ne sapevamo che quell’immaturità non è mai esistita, che fosse solo un modo di essere e che, soprattutto, non era una scelta. Un Neurotipico, termine con il quale vengono definite le persone non affette dalla sindrome dello spettro autistico, farà molta fatica a leg-gere alcune parti di questa storia, potrebbe arrivare a pensare che la protagonista è un po’ immatura, appunto, che non sa quello che vuole. Ma lei l’ha saputo benissimo sin dall’inizio cosa voleva.

Ci sono racconti e pagine di diario carichissimi di emozioni. Emozioni travolgenti. La mia difficoltà iniziale, leggendolo, è stata proprio capire queste emozioni, capire da dove venissero e capire perché ci fossero. Non so se sono neurotipica o meno, ho tratti atipici e tratti neurotipici, ma il mio tratto principale è quello di non capire il perché delle emozioni, sia positive che negative. Se voi invece lo capite, affronterete con più decisio-ne questo racconto, questa scoperta di se stessi, spoiler allert, a lieto fine. Il mio consiglio spassionato, da sorella maggiore, è quello di abbandonare ogni filtro. Abbandonare i filtri con cui leggete la realtà, quei filtri che lei non ha. Abbandonate il vostro corpo e soprattutto permettetevi di sentire quelle emo-zioni, permettetevi di sentire quello che lei sente. Leggete que-sto libro rilassati, in casa o in un parco, da soli, se ce la fate con della musica, mettetevi a vostro agio e lasciatevi andare. E dopo che l’avrete finito, permettetevi di sentire con consape-volezza ogni emozione che vi pervaderà le membra.

A mio modesto giudizio, è questo il modo di leggere Clara. Immedesimandosi e scoprendosi, e se proprio non ci si riesce, lo si deve affrontare come una scoperta di un mondo, che ma-gari non vi appartiene, ma che esiste: il mondo autistico.

Un ultimo consiglio, se vi è davvero piaciuta questa storia, e vi ha fatto crescere, andate a Stoccolma. Tenete la vostra

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copia sotto braccio e camminate per la città nei posti che Clara descrive così meticolosamente. Questo è il prossimo passo che farò io. Vivere una città nuova attraverso le parole e la magia di chi l’ha vissuta è un grande arricchimento, se ve lo potrete permettere, non lasciatevelo scappare.

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Capitolo primoDolcetti alla cannella e patatine

Sono arrivata a Stoccolma il 17 gennaio 2011.Quando scesi dal pullman che da Skavsta (l’aereoporto

secondario di Stoccolma) mi aveva portato fino a T-centralen i miei piedi sprofondarono nella neve. Nonostante il fred-do e il buio venni pervasa da un caldo profumo di cannella, prodotto dai mille cafè e Pressbyrån (tabaccai) della zona, che vendevano le kanelbulle, un dolce che presto sarebbe diventato di mia conoscenza. Come i neonati fanno il loro primo respiro, vengono puliti e messi in braccio alla madre, io presi un primo respiro profondo e, piena di speranza per un futuro migliore, cominciai a tirare la mia valigia viola da 30 kg, le cui ruote erano ormai completamente congelate e ne impedivano il movimento. “Non importa” pensai “qui comincia la mia avventura!”. E cominciò un’avventura vera, che solo Julius Verne, Emily Bronte e Jane Austen avrebbero potuto scrivere insieme. Ero una giovane donna immigrata e avevo la sindrome di Asperger, ma non una qualunque, ave-vo la sindrome di Asperger peggiore che ci sia, quella non diagnosticata. Tutto era sconosciuto e la neve e il buio non aiutavano di certo il mio orientamento. La mia destinazio-ne era un ostello che si trovava a Långholmen, un’isoletta nella parte sud della città. A quanto pare era stato a lungo un

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carcere che avevano riconvertito ad ostello e centro confe-renze. Dopo molta fatica e sudore, affamata ed infreddolita, scesi dalla metro ed intravidi una discesa che portava ad un ponticello collegato all’isoletta dell’altra sponda. Il canale era completamente ricoperto di ghiaccio e neve da cui spun-tavano fuori carcasse di vecchie canoe e barche a vela; arri-vata al ponticello venni travolta da una scena così catartica e romantica da perdere quasi il fiato: lungo la sponda una serie di alberi dormienti e nudi facevano da guardia, neri e immen-si controllavano il passaggio sul ponticello, alle loro spalle nuvole rade riempivano di foschia il cielo che permetteva ad una luna grassa e lucente di fare da primadonna. Ma quello che mi colpì di più fu una macchia arancione nel bel mezzo dell’oscurità, effetto sicuramente prodotto da un cocktail di inquinamento e luci aggressive, ma della quale rimasi così colpita che restai diversi minuti sul ponticello, nonostante il freddo e la valigia pesante, ad osservarla. Quando finalmente arrivai all’ostello venni accolta da una graziosa biondina che mi diede chiavi e asciugamani e poi mi mostrò una cartina del posto. Se non ricordo male mi toccò anche di farmi due o tre piani a piedi con la valigia mostruosa e le cascate di sudore che nel frattempo defluivano dal mio reggiseno e da sotto le ascelle. La mia stanza si trovava nel bel mezzo della mostra turistica allestita nel vecchio carcere, esattamente alla fine di un lungo corridoio bianco e basso, in mezzo al qua-le stavano eretti dei manichini con le tute a righe e diversi strumenti di lavoro. La luce sfocata e bianca e il pavimento scuro davano un’aria talmente cruda e cupa che se avessi visto un film con la stessa scenografia avrei cominciato ad urlare “Perché non scappa? Che non lo sa che quei manichini prima la fanno a pezzi e poi la trasformano in un manichino a sua volta?”. Attraversai il corridoio e arrivai alla mia stanza.

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Entrai nella stanza che una volta aveva visto criminali di ogni genere o forse solo morti di fame che avevano rubato delle patate dal sacco di un ricco signore. Ovviamente la stanza era stata ritinteggiata (come il resto dell’ostello), mentre l’archi-tettura ad archi era rimasta quella originale. Nel mezzo della stanza c’era un muro che divideva la superficie in due semi stanze con un letto a castello,io ne avevo una tutta per me. Fi-nalmente appoggiai a terra il mostro da 30 kg e mi sedetti su una sedia. Nonostante la stanza fosse di un minimalismo che solo i nordici sanno concepire, mi sentii accolta e rilassata, o almeno finché una fitta di malinconia non mi travolse e co-minciai a pensare intensamente ai miei due folleti. “NO” non potevo farmi assalire dalla malinconia già a qualche ora dal mio arrivo. Decisi quindi di andare a cercare un supermerca-to per prepararmi una minima cena. Riuscii ad orientarmi per ritrovare il ponticello grazie alle impronte che avevo lasciato arrivando. Poi un dubbio mi assalì: “Come si chiamano le catene di supermercati in Svezia?”.

Ripensare a quel momento mi fa sorridere, così piccola e ingenua, mi sentivo un leone “Io sono io e nessuno mi può fermare”.

Adesso tutti questi ricordi si stanno affollando nella mia mente e fanno male, sono troppi, ma mi sento che più li trascri-vo e meno li devo trattenere.

E dunque ero lì, alla ricerca di un supermercato e con il mio inglese “all’italiana” chiesi informazioni ad un pas-sante che mi mostrò l’insegna di un negozio di nome ICA. Tutto mi sembrava meno che un nome svedese, mi ri-cordava più un negozio di detersivi o addirittura il nome della città greca Itaca. Un po’ frastornata entrai e mi sen-tii come Alice nel paese delle meraviglie. Dovetti tratte-nere una risata mentre l’eccitazione e il battito cardiaco

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aumentavano, non avevo mai visto un negozio così lumi-noso e pieno di colori! In Italia i supermercati sono tristi, monotoni e pieni di casalinghe grasse e acide. Qui invece i banconi erano pieni di tanti prodotti diversi e la clientela variava da mamme super giovani con carrozzina, alle signore con il burka, agli adolescenti “fighetti”. Dopo un breve giro di perlustrazione per ammirare la fauna svedese, cominciai la ricerca per la mia cena e lì mi resi davvero conto di es-sere all’estero: non c’era nemmeno un prodotto che ricono-scessi, a parte le buste di pasta Barilla al fatidico costo di quasi 4 euro e mezzo al kg. Mi buttai quindi su una pasta al pomodoro pronta da riscaldare al microonde. Dopodiché mi misi a cercare dell’acqua, e con questa cominciò la mia frustrazione: acqua alla mela, alla pera, al limone, ai frutti di bosco, alla pesca, al kiwi, all’ananas, ma dell’acqua con la A maiuscola nemmeno l’ombra. Dopo essere stata per almeno dieci minuti ad osservare quel bancone che sembrava la ban-diera della pace, mi stufai e presi quella che scambiai per una bottiglietta di limonata ma che poi si rivelò essere del succo di limone da cucina. Mentre ero alla cassa l’occhio mi cadde su una bottiglia d’acqua blu, senza alcun disegno di frutta, e con la scritta naturell così pensai: “Ah! Ti ho beccata!”la presi al volo, pagai il conto, cominciai la discesa il più velo-cemente possibile, attraversai il ponticello, guardai di nuovo la luce arancione, e mi fiondai nella mia “cella”. Predisposta ad una fresca acqua naturale, aprii la bottiglia e cominciai a tracannare quella che per mia disperazione si rivelò un’ acqua artificiosamente frizzante. Dovevo chiamare i miei folletti, anche dette scimmie. Tirai fuori il mio PC nuovo di zecca che mio padre aveva comprato proprio per l’occasio-ne, ed una volta connessa a MSN, chiamai le suddette scim-mie, ossia le mie migliori amiche, Pallina e Riri. Accesi la

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videocamera e parlai, o meglio vociai all’italiana, con loro per tutta la serata. Avevo conosciuto entrambe ai tempi del liceo. Riri la conobbi a scuola, era due anni più piccola di me e mi diceva sempre che all’inizio le facevo tanta paura e che quando la cercavo durante la ricreazione la mettevo così tanto in soggezione che lei si andava a nascondere in bagno. C’è da dire che alle superiori tutto sembravo tranne che una ragazza affidabile: andavo in giro con una discreta quantità di catene e catenacci da sembrare una ferramenta ambulante, e i vestiti neri con le stelle rosse rovesciate non aiutavano; eppure io mi sentivo dolce e divertente (in realtà tutti mi evitavano, corre-vano voci che fossi un’ adoratrice del diavolo). Alla fine Riri capì che ero solo diversa esattamente come lei e spesso ci chiudevamo nei bagni a lamentarci di tutto e di tutti, il nostro motto era: “Io non discrimino la gente, odio tutti a priori”. Pallina invece era la sorella del mio ultimo amore, una storia durata quasi due anni ma con tanti di quei tira e molla che solo a ricordarlo mi viene la nausea. Io ero ovviamente in-namorata folle di lui, Oscar, ma lui era un’ anima che voleva viaggiare e stare con gli amici e l’idea di sposare una diciot-tenne non era nei suoi piani. Di mezzo ci andarono a finire il suo migliore amico, Rocco, un incidente d’auto che distrusse la macchina di mio padre e una buona dose della mia sanità mentale. Tutto ciò fu solo un motivo in più per voler partire e rifarmi una vita il più lontano possibile. La videochiamata si protrasse fino all’una di notte. Con il magone in gola e una malinconia insistente mi misi a letto. La mia testa era affolla-ta di pensieri e persone, soprattutto quelle che avevo lasciato a casa, scene del mio cane e del mio paese mi scorrevano davanti, avevo passato dieci anni della mia vita ad odiare tut-to e tutti ed ora mi mancavano così tanto che non riuscivo a respirare. In qualche modo riuscii ad addormentarmi. Quella

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notte feci un sogno molto particolare che qualche mese dopo mi avrebbe lasciata a bocca aperta ricordandolo. In questo sogno un aitante dio nordico con lunghi dreadlocks biondi accorreva in mio soccorso, salvandomi la vita da un branco di troll. Ma per ora ero nel mio letto, mentre la temperatura esterna aveva raggiunto i 27 gradi sotto lo zero.

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Capitolo secondoL’invito delle fate

Il giorno dopo mi svegliai con comodo, feci una foto allo specchio con il riflesso del sole, misi la mia maglietta di “Libe-ra”, gli stivali con il pelo ed uscii. Tutto intorno a me il ghiaccio e la neve imperavano. Nonostante ciò passai tutta la giornata all’aperto: prima Kungsträdgården, poi Strandvägen e infine Djurgården di cui mi innamorai. I rami congelati baciati dai raggi di un tramonto di mezzogiorno rendevano tutto così ma-gico e fantasioso che cominciai a sognare ad occhi aperti: fate del bosco dai capelli infuocati mi invitavano a danzare con loro sul mare ghiacciato e mi dissi “Perché no?”. Mi avvicinai al bordo di quella che sicuramente era stata una spiaggia durante l’estate, chiusi gli occhi e poggiai un piede sulla soffice neve finché non sentii il ghiaccio sotto la suola dello stivale. Aprii gli occhi e vidi vecchie tracce: qualcuno prima di me era stato abbastanza coraggioso da danzare con le fate. Una sensazione nuova cominciò a scorrere nelle mie vene, qualcosa di simile a quella volta che marinai la scuola, ma molto più intensa: era la voglia di dare una scossa alla mia vita! Per 19 anni non avevo fatto altro che seguire le regole, essere noiosa e guastafeste. Sono stata quella che dice ai compagni di classe rumorosi di smetterla “Se no lo dico alla maestra”, quella che nessuno in-viterebbe mai alle feste perché non beve e a cui non piace la

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musica da discoteca. No, non volevo più essere quella fifona. Il vero motivo per cui mi ero trasferita così lontano era perché lì, a Stoccolma, nessuno mi conosceva, né sapeva del mio passato e nessuno mi avrebbe riconosciuta mentre camminavo per stra-da. Era arrivato il momento di ricostruire me stessa.

Tutti i miei muscoli si irrigidirono e poggiai anche il secondo piede sul mare ghiacciato: una bolla d’aria fece scricchiolare la superficie. Non ricordo nulla di come arrivai a metà del mio percorso, ma una volta realizzato che avevo percorso una cin-quantina di metri e che ne avevo altrettanti davanti, piombai nel panico. Il battito cardiaco aumentò, il sudore cominciò a colare ovunque e per la seconda volta nella mia vita provai la stretta morsa della paura di morire. La prima volta che ebbi paura di morire, però, il sudore ed il battito cardiaco accelerato furono causati dalla corsa disperata che feci per trovare rifugio dalla massa impazzita, inseguita dai poliziotti che lanciavano lacri-mogeni, durante una manifestazione. Avevo 14 anni e per me andare a quella manifestazione pacifista era una scusa per bal-lare in mezzo alla strada senza che nessuno mi guardasse male e per sbandierare la più bella bandiera che ci fosse. Mi ritrovai nel bel mezzo del cordone della prima fila, a pochi metri da me i celerini cominciarono a sbattere il manganello contro gli scudi e poi iniziò il lancio dei primi lacrimogeni. In un attimo cominciai a correre forsennatamente e quella bandiera che avevo annodato intorno al collo, cominciò a svolazzare, emblema della mia pau-ra, paura di essere travolta, paura di essere presa, paura di essere pestata. Dietro di me il trottare dei cavalli, le grida della massa, e davanti a me il nulla, ma continuavo a correre nel buio finché non trovai un negozio aperto in cui mi fiondai piangendo. Il ne-gozio diventò freddo, presto si ricoprì di neve e infine davanti a me rividi il molo a cinquanta metri di distanza. Questa volta la paura mi aveva bloccato ma dovevo andare avanti. Il ghiaccio

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risuonava dal profondo del mare e mi ricordava che sotto di me c’erano gli abissi oscuri e freddi. “Perché avevo voluto cambia-re? Perché volevo essere cool quando potevo rimanere con il mio PC in camera? Chi avrebbe avvisato i miei genitori che ero morta assiderata cercando di fare la ‘figa’?”. Il sole ormai era sparito dietro le nuvole bianche ed era difficile individuare il confine tra cielo e terra, pochi metri ormai rimanevano fra me e il molo. Allungai le braccia e mi sforzai di non piangere quando mi accorsi che il ghiaccio intorno al molo non era ricoperto di neve ed era infinitamente più sottile.

Non riuscivo a distogliere il mio pensiero da una foto dei miei, l’unica immagine che per me ha sempre rappresentato l’Amore. Due giovani italiani sui Pirenei durante gli anni ’80, mio padre con i baffi, un fazzoletto rosso “alla Rambo” tra i capelli neri e ricci e mia madre con dei capelli infiniti e un sor-riso altrettanto infinito. Ero in preda al panico eppure l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era tutto quell’Amore che non sarei mai riuscita ad avere, se in quel momento non trovavo una soluzione. “O la và o la spacca!”. Con passo deciso per-corsi gli ultimi quattro metri e mi fiondai sul molo, mi girai sulla schiena e rimasi a fissare il cielo nuvoloso. Ripresi fiato, mangiai una barretta di cioccolata per non svenire, e appena la paura scomparve e il freddo ricominciò a bruciare sulla mia pelle, mi alzai per tornarmene in ostello.

Nonostante tutto ce l’avevo fatta, avevo una storia figa da raccontare alle mie scimmie e possibilmente anche ai miei ni-poti. Ero sopravvissuta e avevo dimostrato a me stessa di poter diventare chiunque. Al momento però l’unico posto in cui vo-levo andare era a letto: un letto vuoto senza amore ma pieno di sogni e speranze.

La strada verso la metropolitana mi sembrò molto più lunga che all’andata, le mani si erano completamente addormentate,

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le mie narici si incollavano tra di loro a causa del freddo e il mio fiato si congelava lentamente sul bordo della mia sciar-pa. Con un ultimo sforzo passai dal magnifico supermercato e comprai delle patate immerse in una salsa bianca e una zuppa di pomodoro. Era la mia seconda sera lì ma già cominciavano a mancarmi i manicaretti di mio padre. Chissà cosa stavano mangiando loro? Dopo cena li chiamai su Skype e mi comin-ciarono a mancare terribilmente. Non gli raccontai della mia disavventura, ma mi feci raccontare da loro cosa avevano fatto durante la giornata, una di quelle giornate che avevo avuto mil-le volte nella mia vita precedente ma che ora mi sembravano lontane anni luce.

“Insomma sei pronta per il grande giorno, bella mia?” mi chiese mia madre. Questa volta sì, per la prima volta in 19 anni ero pronta ad affrontare il grande giorno. “Ricordati sempre che non devi restare se non vuoi, sei sempre in tempo a tor-nare indietro”, concluse mio padre (quello che più o meno mi avrebbe ripetuto ad ogni telefonata per i due anni successivi). Li salutai e mi misi a letto, ghiaccio, magia e paura turbinava-no nei miei pensieri, ma soprattutto la voglia di evolvermi alla vigilia del grande giorno. “Da domani divento adulta ed è ora di prendere in mano le redini della mia vita, da domani decido io”. Ero una bomba ad orologeria che da lì ad un mese sarebbe esplosa in un turbinio di passioni e avventure.

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Capitolo terzoDiciannove Gennaio Duemilaundici

Il sole spuntò al solito fra le nove e le dieci ed era, come sempre, bassissimo. Il fatto che non seguisse una traiettoria da semicerchio, ma disegnasse quasi una linea retta, mi dava l’impressione di essere finita davvero su un altro pianeta; la luce bianca infinita, ed il silenzio infagottato dalla neve me ne davano la certezza. Non ero più a Ponte Valleceppi, quel buco di mondo dove i miei mi avevano fatto passare gli ultimi 13 anni della mia vita. Mi svegliai estremamente di buon umore ed in vena molto filosofica. Alle 15:37 avrei compiuto la spa-smodica cifra di 20 anni.

Belli, pieni e pari, si potevano dividere per due, per quattro, per cinque e per dieci! E per la prima volta in vita mia li avrei compiuti da sola, nella città dei miei sogni.

Cosa volevo di più dalla vita? Beh, la risposta è sempre stata la stessa: ordning och reda, direbbero gli svedesi, ossia “ordine e precisione”, il che, allora come adesso, significava trovare un lavoro che mi costringesse a mettere un tallieur, avere una casa da tenere in ordine millimetrico e da riempire con un sacco di cose belle ed inutili, adottare un gatto pelosis-simo da chiamare Cagnolo, e soprattutto far innamorare di me un bel vichingo per poter, come diceva mia madre: “Dare una

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rinfrescata al nostro codice genetico in decadenza, possibil-mente aggiungendo del blu”.

All’epoca avevo questa fissa che la mia vita dovesse essere conclusa ed impacchettata entro i miei trent’anni, e che dopo questi, non mi restasse altro che godermela.

Mettiamola così: sono passati sei anni e l’unica cosa che sono riuscita a concludere è stata imparare lo svedese così bene che gli svedesi stessi mi scambiano per una di loro.

In questi sei anni la mia idea della Svezia è completamente cambiata. Non è più la terra promessa che nell’immaginario italiano è collegata al welfare degli anni ’60, dove avrei potuto rendere i miei sogni ed i miei obiettivi una realtà concreta; è diventata bensì una società che si sta sgretolando come un castello di sabbia.

Non potevo immaginare in quegli anni, tutto quello che sa-rebbe successo, anche a livello internazionale. Ma, un passo alla volta, torniamo al 19 gennaio del 2011.

Cominciai la giornata tirando fuori gli stivali col pelo e la biancheria da sci da mettere sotto i vestiti, credendo che così non mi sarei congelata come la sera precedente. Così imba-cuccata uscii con la mia macchina fotografica ed incominciai la mia avventura giornaliera. Questa volta presi il percorso che da dietro l’ostello costeggiava il canale ghiacciato.

Camminando mi ritrovai, con mia grande sorpresa, davanti al palazzo gotico che mi aveva tanto affascinato quando lo vidi per la prima volta l’estate precedente durante il viaggio pre-mio post maturità, quando pernottai alla barca-ostello. Passato il bellissimo palazzo gotico, il percorso dopo Slussen, verso il parco incantato dove avevo passato la fatidica sera prima, sembrava perfetto. Per arrivare al ponte di Slussen bisognava attraversare un grosso pontile galleggiante di legno, messo lì a causa di lavori in corso. Nonostante fosse lì come semplice

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attraversamento pedonale, il pontile mi sembrava una costru-zione magnifica, e da quel momento in poi avrei fatto di tutto per attraversarlo il più lentamente possibile.

C’era qualche cosa di romantico in quel pontile, qualcosa che mi riempì di emozione.

Verso mezzogiorno mi infilai in un bar e decisi di fare una cosa molto svedese: mi sedetti con cappuccino e cornetto ad uno dei tavolini situati al di fuori del bar e accoccolatami in una coperta di lana (messa a disposizione dal bar) mi godetti la mia prima fika. So che per i lettori italiani questa parola possa evocare altri significati, ma in svedese il termine è quello uti-lizzato per indicare la pausa caffè, accompagnata da dolcetti vari. Il sole splendeva nei miei occhi ramati, le macchine scor-revano al ritmo del semaforo, gli sportivi facevano jogging, e tutto seguiva un suo ordine, il caos della città aveva creato una danza perfetta in armonia con i miei mille pensieri sul futuro. A rendere tutto ancora più conciliante, furono i vari messaggi di auguri che mi stavano arrivando, specialmente uno, spedito dalla mia ex professoressa di filosofia con cui ho sempre con-diviso un rapporto particolarmente buono.

Stavo diventando una giovane donna ed era arrivato il mo-mento di trasformare i sogni in realtà, che significava riempirli di cose faticose e concrete, come le richieste per il permesso di soggiorno, le lunghe file al comune, e gli impiegati antipatici che sembrano essere una categoria di persone che mai andrà in estinzione.

Non sapevo che sarebbe cominciata un’odissea senza fine, molto egoisticamente pensavo che avrei potuto ottenere tutto ciò che volevo solo desiderandolo davvero, senza aver messo in conto le leggi sulla migrazione, le regole di genere e quelle sociali, per non parlare delle tradizioni culturali. Molte volte ci ripenso e mi chiedo se avrei rifatto tutto ugualmente se avessi

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saputo cosa mi sarebbe successo da lì a cinque anni, ma alla fine sono convinta che è tutta vita, e che probabilmente non avrei cambiato nulla.

E quindi andai per la prima volta allo Skatteverket, ossia l’Uf-ficio delle Entrate che gestisce diverse pratiche burocratiche. La primissima cosa da richiedere fu il personnumer, detto anche Codice Fiscale, che avrei potuto ottenere premessi i seguenti requisiti: essere una cittadina europea, avere un’assicurazione sanitaria e dichiarare di essere lì in cerca di lavoro.

Sicura di avere alle spalle una pietra miliare come il grande e glorioso trattato di Shengen, la mia piccola tessera sanitaria italiana, ed una lettera firmata dai miei genitori in cui dichiara-vano di mantenermi, presi il mio numerino elimina code e con l’aria più spensierata del mondo mi misi a sedere tra la folla di africani e arabi che c’era davanti a me.

Io ed una ragazza lettone con un bambino, eravamo le uni-che giovani caucasiche lì dentro, ma la differenza tra me e lei era che lei si era sposata uno svedese. Dopo un’oretta scarsa, arrivò il mio turno, consegnai i documenti, commettendo l’er-rore di non farne una copia prima, e con un gran sorriso cercai di spiegare alla signora dietro il vetro, con uno scarso inglese, che volevo un codice fiscale per cominciare una nuova vita in Svezia. L’impiegata dietro il vetro non fece una piega e sen-za cambiare né espressione né tono della voce (che sembrava quello di un mastino napoletano) mi disse: “Se non ti sei scor-data nulla ti arriverà a casa tra due settimane”. “Ma io non ho una casa!” le risposi sempre sorridendo, senza rendermi conto della gravità della cosa. Lei cambiò la sua espressione ed il tono di voce: “Finché non hai un indirizzo registrato all’ana-grafe non possiamo fare la richiesta”. “Ma come!” pensai “Io ho tutto il mio piano, la prossima tappa è trovare lavoro e farmi una famiglia, come si permette di farmi ritardare sulla tabella

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di marcia ancor prima di aver cominciato?! Di questo passo non sarò mai sposata prima dei trenta! Maledetta strega razzi-sta, io ho il diritto come tutti gli altri di avere figli!!”.

“Ok” bisbigliai, e me ne andai in preda alla rabbia ed allo sconforto. Non tornai direttamente all’ostello, ma vagai come al solito senza meta fino a che non fece buio. La tristezza e l’in-vidia mi riempirono il cuore quando le lucine alle finestre delle case cominciarono ad accendersi, nascondendo tante famiglie e tante coppie che al tepore di quelle candeline si coccolavano e si godevano la serata sotto calde coperte di lana. I passeggini, le donne incinta ed i bebè mi circondavano ovunque andassi e mi facevano sentire strana, ma io non riuscivo a capire perché mi facessero stare così male. Infine tornai all’ostello, accesi il pc e contattai le mie scimmiette che mi raccontarono del più e del meno, di chi aveva litigato con chi, chi aveva bevuto trop-po il sabato, etc. Alla fine della nostra chiacchierata che pareva infinita, mi sentii anche peggio: sola, in una terra sconosciuta, lontana dalle mie scimmiette, dalla mia famiglia, e tutto anda-va storto. Maledissi gli svedesi e maledissi me stessa, me ne andai a letto ed al diavolo tutti.

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