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BENEDETTO XVI IMPARARE A CREDERE

Imparare a credere

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BENEDETTO XVI

IMPARARE A CREDERE

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L’INQUIETUDINE DEL CUORE LE DOMANDE DI FONDO La questione della speranza è, in verità, al centro della nostra vita di es-seri umani e della nostra missione di cristiani, soprattutto nell’epoca con-temporanea. Avvertiamo tutti il bisogno di speranza, ma non di una spe-ranza qualsiasi, bensì di una speranza salda ed affidabile, come ho voluto sottolineare nell’Enciclica Spe salvi. La giovinezza in particolare è tempo di speranze, perché guarda al futuro con varie aspettative. Quando si è giovani si nutrono ideali, sogni e progetti; la giovinezza è il tempo in cui maturano scelte decisive per il resto della vita. E forse anche per questo è la stagione dell’esistenza in cui affiorano con forza le domande di fondo: perché sono sulla terra? che senso ha vivere? che sarà della mia vita? E inoltre: come raggiungere la felicità? perché la sofferenza, la malattia e la morte? che cosa c’è oltre la morte? Interrogativi che diventano pressanti quando ci si deve misurare con ostacoli che a volte sembrano insormonta-bili: difficoltà negli studi, mancanza di lavoro, incomprensioni in famiglia, crisi nelle relazioni di amicizia o nella costruzione di un’intesa di coppia, malattie o disabilità, carenza di adeguate risorse come conseguenza dell’attuale e diffusa crisi economica e sociale. Ci si domanda allora: dove attingere e come tener viva nel cuore la fiamma della speranza? LE SPERANZE DELL’UOMO L'uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze – più piccole o più grandi – diverse nei diversi periodi della sua vita. A volte può sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia bisogno di altre speranze. Nella gioventù può essere la speranza del grande e ap-pagante amore; la speranza di una certa posizione nella professione, dell'uno o dell'altro successo determinante per il resto della vita. Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l'uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infini-

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to, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere. In questo senso il tempo moderno ha sviluppato la speranza dell'instaurazio-ne di un mondo perfetto che, grazie alle conoscenze della scienza e ad una politica scientificamente fondata, sembrava esser diventata realizzabile. Così la speranza biblica del regno di Dio è stata rimpiazzata dalla speran-za del regno dell'uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero « regno di Dio ». Questa sembrava finalmente la speranza grande e realistica, di cui l'uomo ha bisogno. Essa era in grado di mobilitare – per un certo tempo – tutte le energie dell'uomo; il grande obiettivo sembrava meritevole di ogni impegno. Ma nel corso del tempo apparve chiaro che questa speranza fugge sempre più lontano. Innanzitutto ci si rese conto che questa era forse una speranza per gli uomini di dopodomani, ma non una speranza per me. E benché il « per tutti » faccia parte della grande speranza – non posso, infatti, diventare felice contro e senza gli altri – re-sta vero che una speranza che non riguardi me in persona non è neppure una vera speranza. E diventò evidente che questa era una speranza contro la libertà, perché la situazione delle cose umane dipende in ogni genera-zione nuovamente dalla libera decisione degli uomini che ad essa appar-tengono. Se questa libertà, a causa delle condizioni e delle strutture, fosse loro tolta, il mondo, in fin dei conti, non sarebbe buono, perché un mondo senza libertà non è per nulla un mondo buono. Così, pur essendo necessa-rio un continuo impegno per il miglioramento del mondo, il mondo miglio-re di domani non può essere il contenuto proprio e sufficiente della nostra speranza. E sempre a questo proposito si pone la domanda: Quando è « migliore » il mondo? Che cosa lo rende buono? Secondo quale criterio si può valutare il suo essere buono? E per quali vie si può raggiungere que-sta « bontà »? Ancora: noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa gran-de speranza può essere solo Dio, che abbraccia l'universo e che può pro-porci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l'essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l'umanità nel suo insieme.

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IL DESIDERIO DI AMORE L’esperienza dimostra che le qualità personali e i beni materiali non ba-stano ad assicurare quella speranza di cui l’animo umano è in costante ri-cerca. Come ho scritto nella citata Enciclica Spe salvi, la politica, la scien-za, la tecnica, l’economia e ogni altra risorsa materiale da sole non sono sufficienti per offrire la grande speranza a cui tutti aspiriamo. Questa speranza “può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere” (n. 31). Ecco perché una delle conseguenze principali dell’oblio di Dio è l’evidente smarrimento che segna le nostre società, con risvolti di solitudine e violenza, di insoddi-sfazione e perdita di fiducia che non raramente sfociano nella disperazio-ne. Chiaro e forte è il richiamo che ci viene dalla Parola di Dio: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allonta-nando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene” (Ger 17,5-6). La crisi di speranza colpisce più facilmente le nuove generazioni che, in contesti socio-culturali privi di certezze, di valori e di solidi punti di rife-rimento, si trovano ad affrontare difficoltà che appaiono superiori alle loro forze. Penso, cari giovani amici, a tanti vostri coetanei feriti dalla vita, condizionati da una immaturità personale che è spesso conseguenza di un vuoto familiare, di scelte educative permissive e libertarie e di esperienze negative e traumatiche. Per alcuni – e purtroppo non sono pochi – lo sboc-co quasi obbligato è una fuga alienante verso comportamenti a rischio e violenti, verso la dipendenza da droghe e alcool, e verso tante altre forme di disagio giovanile. Eppure, anche in chi viene a trovarsi in condizioni penose per aver seguito i consigli di “cattivi maestri”, non si spegne il de-siderio di amore vero e di autentica felicità. Ma come annunciare la spe-ranza a questi giovani? Noi sappiamo che solo in Dio l’essere umano trova la sua vera realizzazione. L’impegno primario che tutti ci coinvolge è per-tanto quello di una nuova evangelizzazione, che aiuti le nuove generazioni a riscoprire il volto autentico di Dio, che è Amore. LA RICERCA DEL SENSO ULTIMO Chi crede nel Creatore non potrebbe pensare all’evoluzione e chi invece af-ferma l’evoluzione dovrebbe escludere Dio. Questa contrapposizione è un’assurdità, perché da una parte ci sono tante prove scientifiche in favo-

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re di un’evoluzione che appare come una realtà che dobbiamo vedere e che arricchisce la nostra conoscenza della vita e dell’essere come tale. Ma la dottrina dell’evoluzione non risponde a tutti i quesiti e non risponde so-prattutto al grande quesito filosofico: da dove viene tutto? e come il tutto prende un cammino che arriva finalmente all’uomo? Mi sembra molto im-portante … che la ragione si apra di più, che veda sì questi dati, ma che veda anche che non sono sufficienti per spiegare tutta la realtà. Non è suf-ficiente, la nostra ragione è più ampia e può vedere anche che la ragione nostra non è in fondo qualcosa di irrazionale, un prodotto della irraziona-lità, ma che la ragione precede tutto, la ragione creatrice, e che noi siamo realmente il riflesso della ragione creatrice. Siamo pensati e voluti e, quindi, c’è una idea che mi precede, un senso che mi precede e che devo scoprire, seguire e che dà finalmente significato alla mia vita. Mi sembra questo il primo punto: scoprire che realmente il mio essere è ragionevole, è pensato, ha un senso e la mia grande missione è scoprire questo senso, vi-verlo e dare così un nuovo elemento alla grande armonia cosmica pensata dal Creatore. Se è così, allora anche gli elementi di difficoltà diventano momenti di maturità, di processo e di progresso del mio stesso essere, che ha senso dal suo concepimento fino all’ultimo momento di vita. Possiamo conoscere questa realtà del senso precedente a tutti noi, possiamo anche riscoprire il senso della sofferenza e del dolore; certamente c’è un dolore che dobbiamo evitare e che dobbiamo allontanare dal mondo: tanti dolori inutili provocati dalle dittature, dai sistemi sbagliati, dall’odio e dalla vio-lenza. Ma c’è anche nel dolore un senso profondo e solo se possiamo dare senso al dolore e alla sofferenza può maturare la nostra vita. Direi soprat-tutto che non è possibile l’amore senza il dolore, perché l’amore implica sempre una rinuncia a me, un lasciare me, un accettare l’altro nella sua alterità, implica un dono di me e, quindi, un uscire da me stesso. Tutto questo è dolore, sofferenza, ma proprio in questa sofferenza del perdermi per l’altro, per l’amato e quindi per Dio, divento grande e la mia vita trova l’amore e nell’amore il suo senso. L’NCERTEZZA DEL FUTURO L’uomo, nella sua vita, è in costante attesa: quando è bambino vuole cre-scere, da adulto tende alla realizzazione e al successo, avanzando nell’età, aspira al meritato riposo. Ma arriva il tempo in cui egli scopre di aver spe-rato troppo poco se, al di là della professione o della posizione sociale, non

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gli rimane nient’altro da sperare. La speranza segna il cammino dell’umanità, ma per i cristiani essa è animata da una certezza: il Signore è presente nello scorrere della nostra vita, ci accompagna e un giorno asciugherà anche le nostre lacrime. Un giorno, non lontano, tutto troverà il suo compimento nel Regno di Dio, Regno di giustizia e di pace. Ma ci sono modi molto diversi di attendere. Se il tempo non è riempito da un presente dotato di senso, l’attesa rischia di diventare insopportabile; se si aspetta qualcosa, ma in questo momento non c’è nulla, se il presente cioè rimane vuoto, ogni attimo che passa appare esageratamente lungo, e l’attesa si trasforma in un peso troppo grave, perché il futuro rimane del tutto incerto. Quando invece il tempo è dotato di senso, e in ogni istante percepiamo qualcosa di specifico e di valido, allora la gioia dell’attesa ren-de il presente più prezioso. IL CUORE INQUIETO Il cuore inquieto è il cuore che, in fin dei conti, non si accontenta di niente che sia meno di Dio e, proprio così, diventa un cuore che ama. Il nostro cuore è inquieto verso Dio e rimane tale, anche se oggi, con “narcotici” molto efficaci, si cerca di liberare l’uomo da questa inquietudine. Ma non soltanto noi esseri umani siamo inquieti in relazione a Dio. Il cuore di Dio è inquieto in relazione all’uomo. Dio attende noi. È in ricerca di noi. Anche Lui non è tranquillo, finché non ci abbia trovato. Il cuore di Dio è inquieto, e per questo si è incamminato verso di noi – verso Betlemme, verso il Cal-vario, da Gerusalemme alla Galilea e fino ai confini del mondo. Dio è in-quieto verso di noi, è in ricerca di persone che si lasciano contagiare dalla sua inquietudine, dalla sua passione per noi. Persone che portano in sé la ricerca che è nel loro cuore e, al contempo, si lasciano toccare nel cuore dalla ricerca di Dio verso noi. IL BISOGNO DELLA VERITÀ Di questo cuore inquieto e aperto abbiamo bisogno. È il nocciolo del pelle-grinaggio. Anche oggi non è sufficiente essere e pensare in qualche modo come tutti gli altri. Il progetto della nostra vita va oltre. Noi abbiamo bi-sogno di Dio, di quel Dio che ci ha mostrato il suo volto ed aperto il suo cuore: Gesù Cristo. Giovanni, con buona ragione, afferma che Lui è

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l’Unigenito Dio che è nel seno del Padre (cfr Gv 1,18); così solo Lui, dall’intimo di Dio stesso, poteva rivelare Dio a noi – rivelarci anche chi siamo noi, da dove veniamo e verso dove andiamo. Certo, ci sono numero-se grandi personalità nella storia che hanno fatto belle e commoventi esperienze di Dio. Restano, però, esperienze umane con il loro limite uma-no. Solo Lui è Dio e perciò solo Lui è il ponte, che veramente mette in con-tatto immediato Dio e l’uomo. Se noi cristiani dunque lo chiamiamo l’unico Mediatore della salvezza valido per tutti, che interessa tutti e del quale, in definitiva, tutti hanno bisogno, questo non significa affatto disprezzo delle altre religioni né assolutizzazione superba del nostro pensiero, ma solo l’essere conquistati da Colui che ci ha interiormente toccati e colmati di doni, affinché noi potessimo a nostra volta fare doni anche agli altri. Di fatto, la nostra fede si oppone decisamente alla rassegnazione che consi-dera l’uomo incapace della verità – come se questa fosse troppo grande per lui. Questa rassegnazione di fronte alla verità è, secondo la mia convin-zione, il nocciolo della crisi dell’Occidente, dell’Europa. Se per l’uomo non esiste una verità, egli, in fondo, non può neppure distinguere tra il bene e il male. E allora le grandi e meravigliose conoscenze della scienza diven-tano ambigue: possono aprire prospettive importanti per il bene, per la salvezza dell’uomo, ma anche – e lo vediamo – diventare una terribile mi-naccia, la distruzione dell’uomo e del mondo. Noi abbiamo bisogno della verità. “SENZA DI ME NON POTETE FARE NULLA” Senza Dio l'uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprende-re chi egli sia. Di fronte agli enormi problemi dello sviluppo dei popoli che quasi ci spingono allo sconforto e alla resa, ci viene in aiuto la parola del Signore Gesù Cristo che ci fa consapevoli: « Senza di me non potete far nulla » (Gv 15,5) e c'incoraggia: « Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,20). Di fronte alla vastità del lavoro da compiere, sia-mo sostenuti dalla fede nella presenza di Dio accanto a coloro che si uni-scono nel suo nome e lavorano per la giustizia. Paolo VI ci ha ricordato nella Populorum progressio (n.42) che l'uomo non è in grado di gestire da solo il proprio progresso, perché non può fondare da sé un vero umanesi-mo. Solo se pensiamo di essere chiamati in quanto singoli e in quanto co-munità a far parte della famiglia di Dio come suoi figli, saremo anche ca-paci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio

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di un vero umanesimo integrale. La maggiore forza a servizio dello svi-luppo è quindi un umanesimo cristiano, che ravvivi la carità e si faccia guidare dalla verità, accogliendo l'una e l'altra come dono permanente di Dio. La disponibilità verso Dio apre alla disponibilità verso i fratelli e ver-so una vita intesa come compito solidale e gioioso. Al contrario, la chiusu-ra ideologica a Dio e l'ateismo dell'indifferenza, che dimenticano il Creato-re e rischiano di dimenticare anche i valori umani, si presentano oggi tra i maggiori ostacoli allo sviluppo. L'umanesimo che esclude Dio è un umane-simo disumano. Solo un umanesimo aperto all'Assoluto può guidarci nella promozione e realizzazione di forme di vita sociale e civile — nell'ambito delle strutture, delle istituzioni, della cultura, dell'ethos — salvaguardan-doci dal rischio di cadere prigionieri delle mode del momento. È la consa-pevolezza dell'Amore indistruttibile di Dio che ci sostiene nel faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo dei popoli, tra successi ed insuccessi, nell'incessante perseguimento di retti ordinamenti per le cose umane. L'amore di Dio ci chiama ad uscire da ciò che è limitato e non definitivo, ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti, anche se non si realizza immediatamente, anche se quello che riu-sciamo ad attuare, noi e le autorità politiche e gli operatori economici, è sempre meno di ciò a cui aneliamo (cf. Spe salvi n. 35). Dio ci dà la forza di lottare e di soffrire per amore del bene comune, perché Egli è il nostro Tutto, la nostra speranza più grande.

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IL CAMMINO DELLA RICERCA ABBANDONARE LE PROPRIE SICUREZZE Qual è la ragione per cui alcuni vedono e trovano e altri no? Che cosa apre gli occhi e il cuore? Che cosa manca a coloro che restano indifferenti, a co-loro che indicano la strada ma non si muovono? Possiamo rispondere: la troppa sicurezza in se stessi, la pretesa di conoscere perfettamente la real-tà, la presunzione di avere già formulato un giudizio definitivo sulle cose rendono chiusi ed insensibili i loro cuori alla novità di Dio. Sono sicuri dell’idea che si sono fatti del mondo e non si lasciano più sconvolgere nell'intimo dall'avventura di un Dio che li vuole incontrare. Ripongono la loro fiducia più in se stessi che in Lui e non ritengono possibile che Dio sia tanto grande da potersi fare piccolo, da potersi davvero avvicinare a noi. Alla fine, quello che manca è l'umiltà autentica, che sa sottomettersi a ciò che è più grande, ma anche il coraggio autentico, che porta a credere a ciò che è veramente grande, anche se si manifesta in un Bambino inerme. Manca la capacità evangelica di essere bambini nel cuore, di stupirsi, e di uscire da sé per incamminarsi sulla strada che indica la stella, la strada di Dio. Il Signore però ha il potere di renderci capaci di vedere e di salvar-ci. Vogliamo, allora, chiedere a Lui di darci un cuore saggio e innocente, che ci consenta di vedere la stella della sua misericordia, di incamminarci sulla sua strada, per trovarlo ed essere inondati dalla grande luce e dalla vera gioia che egli ha portato in questo mondo. APERTI ALL’ASCOLTO Il concetto di coscienza negli ultimi due secoli si è trasformato profonda-mente. Oggi prevale l’idea che razionale, che parte della ragione, sarebbe solo quanto è quantificabile. Le altre cose, cioè le materie della religione e della morale, non entrerebbero nella ragione comune, perché non verifica-bili, o, come si dice, non falsificabili nell’esperimento. In questa situazio-ne, dove morale e religione sono quasi espulse dalla ragione, l’unico crite-rio ultimo della moralità e anche della religione è il soggetto, la coscienza soggettiva che non conosce altre istanze. Solo il soggetto, alla fine, con il

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suo sentimento, le sue esperienze, eventuali criteri che ha trovato, decide. Ma così il soggetto diventa una realtà isolata, e cambiano così, di giorno in giorno, i parametri. Nella tradizione cristiana “coscienza” vuol dire con-scienza: cioè noi, il nostro essere è aperto, può ascoltare la voce dell’essere stesso, la voce di Dio. La voce, quindi, dei grandi valori è iscritta nel no-stro essere e la grandezza dell’uomo è proprio che non è chiuso in sé, non è ridotto alle cose materiali, quantificabili, ma ha un’interiore apertura per le cose essenziali, la possibilità di un ascolto. Nella profondità del nostro essere possiamo ascoltare non solo i bisogni del momento, non solo le cose materiali, ma ascoltare la voce del Creatore stesso e così si conosce cosa è bene e cosa è male. Ma naturalmente questa capacità di ascolto deve esse-re educata e sviluppata. E proprio questo è l’impegno dell’annuncio che noi facciamo in Chiesa: sviluppare questa altissima capacità donata da Dio all’uomo di ascoltare la voce della verità e così la voce dei valori. A DIO ATTRAVERSO LA SUA PAROLA Ciascuno di noi è reso così da Dio capace di ascoltare e rispondere alla di-vina Parola. L’uomo è creato nella Parola e vive in essa; egli non può capi-re se stesso se non si apre a questo dialogo. La Parola di Dio rivela la na-tura filiale e relazionale della nostra vita. Siamo davvero chiamati per grazia a conformarci a Cristo, il Figlio del Padre, ed essere trasformati in Lui. In questo dialogo con Dio comprendiamo noi stessi e troviamo risposta alle domande più profonde che albergano nel nostro cuore. La Parola di Dio, infatti, non si contrappone all’uomo, non mortifica i suoi desideri autenti-ci, anzi li illumina, purificandoli e portandoli a compimento. Come è im-portante per il nostro tempo scoprire che solo Dio risponde alla sete che sta nel cuore di ogni uomo! Nella nostra epoca purtroppo si è diffusa, so-prattutto in Occidente, l’idea che Dio sia estraneo alla vita ed ai problemi dell’uomo e che, anzi, la sua presenza possa essere una minaccia alla sua autonomia. In realtà, tutta l’economia della salvezza ci mostra che Dio parla ed interviene nella storia a favore dell’uomo e della sua salvezza in-tegrale. Quindi è decisivo, dal punto di vista pastorale, presentare la Paro-la di Dio nella sua capacità di dialogare con i problemi che l’uomo deve af-frontare nella vita quotidiana. Proprio Gesù si presenta a noi come colui che è venuto perché possiamo avere la vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Per questo, dobbiamo impiegare ogni sforzo per mostrare la Parola di Dio

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come apertura ai propri problemi, come risposta alle proprie domande, un allargamento dei propri valori ed insieme come una soddisfazione alle proprie aspirazioni. La pastorale della Chiesa deve illustrare bene come Dio ascolti il bisogno dell’uomo ed il suo grido. San Bonaventura afferma nel Breviloquium: «Il frutto della sacra Scrittura non è uno qualsiasi, ma addirittura la pienezza della felicità eterna. Infatti la sacra Scrittura è appunto il libro nel quale sono scritte parole di vita eterna perché, non so-lo crediamo, ma anche possediamo la vita eterna, in cui vedremo, amere-mo e saranno realizzati tutti i nostri desideri». RICONOSCERSI CREATURE Dobbiamo rendere nuovamente presente Dio nelle nostre società. Mi sem-bra questa la prima necessità: che Dio sia di nuovo presente nella nostra vita, che non viviamo come se fossimo autonomi, autorizzati ad inventare cosa siano la libertà e la vita. Dobbiamo prendere atto di essere creature, costatare che c’è un Dio che ci ha creati e che stare nella sua volontà non è dipendenza ma un dono d’amore che ci fa vivere. Quindi, il primo punto è conoscere Dio, conoscerlo sempre di più, ricono-scere nella mia vita che Dio c’è, e che Dio c’entra. Il secondo punto - se ri-conosciamo che Dio c’è, che la nostra libertà è una libertà condivisa con gli altri e che deve esserci quindi un parametro comune per costruire una realtà comune – il secondo punto, dicevo, presenta la questione: quale Dio? Ci sono infatti tante immagini false di Dio, un Dio violento, ecc. La seconda questione quindi è: riconoscere il Dio che ci ha mostrato il suo vol-to in Gesù, che ha sofferto per noi, che ci ha amati fino alla morte e così ha vinto la violenza. Occorre rendere presente, innanzitutto nella nostra "propria" vita, il Dio vivente, il Dio che non è uno sconosciuto, un Dio in-ventato, un Dio solo pensato, ma un Dio che si è mostrato, ha mostrato sé stesso e il suo volto. Solo così, la nostra vita diventa vera, autenticamente umana e così anche i criteri del vero umanesimo diventano presenti nella società. CERCARE CRISTO Cercare Cristo dev’essere l’incessante anelito dei credenti, dei giovani e degli adulti, dei fedeli e dei loro pastori. Va incoraggiata questa ricerca, va

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sostenuta e guidata. La fede non è semplicemente l’adesione ad un com-plesso in sé completo di dogmi, che spegnerebbe la sete di Dio presente nell’animo umano. Al contrario, essa proietta l’uomo, in cammino nel tem-po, verso un Dio sempre nuovo nella sua infinitezza. Il cristiano è perciò contemporaneamente uno che cerca e uno che trova. È proprio questo che rende la Chiesa giovane, aperta al futuro, ricca di speranza per l’intera umanità. Sant’Agostino ha stupende riflessioni sull’invito del Salmo 104 "Quaerite faciem eius semper - Cercate sempre il suo volto". Egli fa notare che quell’invito non vale soltanto per questa vita; vale anche per l’eternità. La scoperta del "volto di Dio" non si esaurisce mai. Più entriamo nello splen-dore dell’amore divino, più bello è andare avanti nella ricerca, così che "amore crescente inquisitio crescat inventi - nella misura in cui cresce l’amore, cresce la ricerca di Colui che è stato trovato" (Enarr. in Ps. 104,3: CCL 40, 1537). IL SIGNORE CI VIENE INCONTRO Non è difficile costatare che in ogni giovane c’è un’aspirazione alla felicità, talvolta mescolata ad un senso di inquietudine; un’aspirazione che spesso però l’attuale società dei consumi sfrutta in modo falso e alienante. Occor-re invece valutare seriamente l’anelito alla felicità che esige una risposta vera ed esaustiva. Nella vostra età infatti si compiono le prime grandi scelte, capaci di orientare la vita verso il bene o verso il male. Purtroppo non sono pochi i vostri coetanei che si lasciano attrarre da illusori miraggi di paradisi artificiali per ritrovarsi poi in una triste solitudine. Ci sono pe-rò anche tanti ragazzi e ragazze che vogliono trasformare, come ha detto il vostro portavoce, la dottrina nell’azione per dare un senso pieno alla loro vita. Vi invito tutti a guardare all’esperienza di sant’Agostino, il quale di-ceva che il cuore di ogni persona è inquieto fino a quando non trova ciò che veramente cerca. Ed egli scoprì che solo Gesù Cristo era la risposta soddi-sfacente al desiderio, suo e di ogni uomo, di una vita felice, piena di signi-ficato e di valore (cfr Confessioni I,1,1). Come ha fatto con lui, il Signore viene incontro a ciascuno di voi. Bussa al-la porta della vostra libertà e chiede di essere accolto come amico. Vi vuole rendere felici, riempirvi di umanità e di dignità. La fede cristiana è que-sto: l’incontro con Cristo, Persona viva che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. E quando il cuore di un giovane si apre ai

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suoi divini disegni, non fa troppa fatica a riconoscere e seguire la sua voce. Il Signore infatti chiama ciascuno per nome e ad ognuno vuole affidare una specifica missione nella Chiesa e nella società. Cari giovani, prendete consapevolezza che il Battesimo vi ha resi figli di Dio e membri del suo Corpo che è la Chiesa. Gesù vi rinnova costantemente l’invito ad essere suoi discepoli e suoi testimoni. Molti di voi li chiama al matrimonio e la preparazione a questo Sacramento costituisce un vero cammino vocazio-nale. Considerate allora seriamente la chiamata divina a costituire una famiglia cristiana e la vostra giovinezza sia il tempo in cui costruire con senso di responsabilità il vostro futuro. IL CAMMINO DELLA CONVERSIONE Non possiamo pensare di vivere subito una vita cristiana al cento per cen-to, senza dubbi e senza peccati. Dobbiamo riconoscere che siamo in cam-mino, che dobbiamo e possiamo imparare, che dobbiamo anche convertirci man mano. Certo, la conversione fondamentale è un atto che è per sem-pre. Ma la realizzazione della conversione è un atto di vita, che si realizza nella pazienza di una vita. È un atto nel quale non dobbiamo perdere la fiducia e il coraggio del cammino. Proprio questo dobbiamo riconoscere: non possiamo fare di noi stessi dei cristiani perfetti da un momento all'al-tro. Tuttavia, vale la pena andare avanti, tener fede all'opzione fondamen-tale, per così dire, e poi permanere con perseveranza in un cammino di conversione che talvolta diventa difficile. Può capitare infatti che mi senta scoraggiato, così da voler lasciare tutto e restare in uno stato di crisi. Non ci si deve subito lasciar cadere, ma con coraggio bisogna ricominciare. Il Signore mi guida, il Signore è generoso e con il suo perdono vado avanti, diventando anch'io generoso con gli altri. Così impariamo realmente l'a-more per il prossimo e la vita cristiana, che implica questa perseveranza dell'andare avanti. I VERI VALORI DELLA VITA In una società e in una cultura che troppo spesso fanno del relativismo il proprio credo - il relativismo è diventato una sorta di dogma -, in una si-mile società viene a mancare la luce della verità, anzi si considera perico-loso parlare di verità, lo si considera “autoritario”, e si finisce per dubitare

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della bontà della vita – è bene essere uomo? è bene vivere? - e della validi-tà dei rapporti e degli impegni che costituiscono la vita. Come sarebbe possibile, allora, proporre ai più giovani e trasmettere di generazione in generazione qualcosa di valido e di certo, delle regole di vita, un autentico significato e convincenti obiettivi per l’umana esistenza, sia come persone sia come comunità? Perciò l’educazione tende ampiamente a ridursi alla trasmissione di determinate abilità, o capacità di fare, mentre si cerca di appagare il desiderio di felicità delle nuove generazioni colmandole di og-getti di consumo e di gratificazioni effimere. Così sia i genitori sia gli in-segnanti sono facilmente tentati di abdicare ai propri compiti educativi e di non comprendere nemmeno più quale sia il loro ruolo, o meglio la mis-sione ad essi affidata. Ma proprio così non offriamo ai giovani, alle nuove generazioni, quanto è nostro compito trasmettere loro. Noi siamo debitori nei loro confronti anche dei veri valori che danno fondamento alla vita. I “COMPAGNI” DI VIAGGIO Nella vita di ciascuno di noi ci sono persone molto care, che sentiamo par-ticolarmente vicine, alcune sono già nelle braccia di Dio, altre condividono ancora con noi il cammino della vita: sono i nostri genitori, i parenti, gli educatori; sono persone a cui abbiamo fatto del bene o da cui abbiamo ri-cevuto del bene; sono persone su cui sappiamo di poter contare. E’ impor-tante, però, avere anche dei “compagni di viaggio” nel cammino della no-stra vita cristiana: penso al Direttore spirituale, al Confessore, a persone con cui si può condividere la propria esperienza di fede, ma penso anche alla Vergine Maria e ai Santi. Ognuno dovrebbe avere qualche Santo che gli sia familiare, per sentirlo vicino con la preghiera e l’intercessione, ma anche per imitarlo. Vorrei invitarvi, quindi, a conoscere maggiormente i Santi, a iniziare da quello di cui portate il nome, leggendone la vita, gli scritti. Siate certi che diventeranno buone guide per amare ancora di più il Signore e validi aiuti per la vostra crescita umana e cristiana. Come sapete, anch’io sono legato in modo speciale ad alcune figure di San-ti: tra queste, oltre a san Giuseppe e san Benedetto dei quali porto il no-me, e ad altri, c’è sant’Agostino, che ho avuto il grande dono di conoscere, per così dire, da vicino attraverso lo studio e la preghiera e che è diventato un buon “compagno di viaggio” nella mia vita e nel mio ministero. Vorrei sottolineare ancora una volta un aspetto importante della sua esperienza umana e cristiana, attuale anche nella nostra epoca in cui sembra che il

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relativismo sia paradossalmente la “verità” che deve guidare il pensiero, le scelte, i comportamenti. Sant’Agostino è un uomo che non è mai vissuto con superficialità; la sete, la ricerca inquieta e costante della Verità è una delle caratteristiche di fondo della sua esistenza; non, però, delle “pseudo-verità” incapaci di dare pace duratura al cuore, ma di quella Verità che dà senso all’esistenza ed è “la dimora” in cui il cuore trova serenità e gioia. Il suo, lo sappiamo, non è stato un cammino facile: ha pensato di incontrare la Verità nel prestigio, nella carriera, nel possesso delle cose, nelle voci che gli promettevano feli-cità immediata; ha commesso errori, ha attraversato tristezze, ha affron-tato insuccessi, ma non si è mai fermato, non si è mai accontentato di ciò che gli dava solamente un barlume di luce; ha saputo guardare nell’intimo di se stesso e si è accorto, come scrive nelle Confessioni, che quella Verità, quel Dio che cercava con le sue forze era più intimo a sé di se stesso, gli era stato sempre accanto, non lo aveva mai abbandonato, era in attesa di poter entrare in modo definitivo nella sua vita (cfr III, 6, 11; X, 27, 38). Come dicevo a commento del recente film sulla sua vita, sant’Agostino ha capito, nella sua inquieta ricerca, che non è lui ad aver trovato la Verità, ma la Verità stessa, che è Dio, lo ha rincorso e lo ha trovato (cfr L’Osservatore Romano, giovedì 4 settembre 2009, p. 8). Romano Guardini commentando un brano del capitolo terzo delle Confessioni afferma: sant’Agostino comprese che Dio è “gloria che ci getta in ginocchio, bevanda che estingue la sete, tesoro che rende felici, […egli ebbe] la pacificante certezza di chi finalmente ha capito, ma anche la beatitudine dell’amore che sa: Questo è tutto e mi basta” (Pensatori religiosi, Brescia 2001, p. 177). Sempre nelle Confessioni, al Libro nono, il nostro Santo riporta un collo-quio con la madre, santa Monica la cui memoria si celebra il prossimo ve-nerdì, dopodomani. È una scena molto bella: lui e la madre stanno a Ostia, in un albergo, e dalla finestra vedono il cielo e il mare, e trascendo-no cielo e mare, e per un momento toccano il cuore di Dio nel silenzio delle creature. E qui appare un’idea fondamentale nel cammino verso la Verità: le creature debbono tacere se deve subentrare il silenzio in cui Dio può parlare. Questo è vero sempre anche nel nostro tempo: a volte si ha una sorta di timore del silenzio, del raccoglimento, del pensare alle proprie azioni, al senso profondo della propria vita, spesso si preferisce vivere solo l’attimo fuggente, illudendosi che porti felicità duratura; si preferisce vi-vere, perché sembra più facile, con superficialità, senza pensare; si ha

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paura di cercare la Verità o forse si ha paura che la Verità ci trovi, ci af-ferri e cambi la vita, come è avvenuto per sant’Agostino. Vorrei dire a tutti, anche a chi è in un momento di difficoltà nel suo cam-mino di fede, a chi partecipa poco alla vita della Chiesa o a chi vive “come se Dio non esistesse”, di non avere paura della Verità, di non interrompere mai il cammino verso di essa, di non cessare mai di ricercare la verità pro-fonda su se stessi e sulle cose con l’occhio interiore del cuore. Dio non mancherà di donare Luce per far vedere e Calore per far sentire al cuore che ci ama e che desidera essere amato.

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PERCHÉ È DIFFICILE CREDERE IL “RITORNO” DELL’ILLUMINISMO Nel mondo occidentale oggi viviamo un'ondata di nuovo drastico illumini-smo o laicismo, comunque lo si voglia chiamare. Credere è diventato più difficile, poiché il mondo in cui ci troviamo è fatto completamente da noi stessi e in esso Dio, per così dire, non compare più direttamente. Non si beve alla fonte, ma da ciò che, già imbottigliato, ci viene offerto. Gli uomi-ni si sono ricostruiti il mondo loro stessi, e trovare Lui dietro a questo mondo è diventato difficile. Questo non è specifico della Germania, ma è qualcosa che si verifica in tutto il mondo, in particolare in quello occiden-tale. D'altra parte l'Occidente oggi viene toccato fortemente da altre cultu-re, in cui l'elemento religioso originario è molto forte, e che sono inorridite per la freddezza che riscontrano in Occidente nei confronti di Dio. E que-sta presenza del sacro in altre culture, anche se velata in molte maniere, tocca nuovamente il mondo occidentale, tocca noi, che ci troviamo al cro-cevia di tante culture. E anche dal profondo dell'uomo in Occidente e in Germania sale sempre nuovamente la domanda di qualcosa "di più gran-de". Lo vediamo nella gioventù, nella quale c'è la ricerca di un "più": in certo modo il fenomeno religione - come si dice - ritorna, anche se si tratta di un movimento di ricerca spesso piuttosto indeterminato. Ma con tutto ciò la Chiesa è di nuovo presente, la fede si offre come risposta. LA “SUPERBIA” DELLA RAGIONE Più recentemente la globalizzazione, per mezzo delle nuove tecnologie dell’informazione, ha avuto non di rado come esito anche la diffusione in tutte le culture di molte componenti materialistiche e individualistiche dell’Occidente. Sempre più la formula "Etsi Deus non daretur" diventa un modo di vivere che trae origine da una specie di "superbia" della ragione – realtà pur creata e amata da Dio – la quale si ritiene sufficiente a se stes-sa e si chiude alla contemplazione e alla ricerca di una Verità che la supe-ra. La luce della ragione, esaltata, ma in realtà impoverita, dall’Illuminismo, si sostituisce radicalmente alla luce della fede, alla luce

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di Dio (cfr Benedetto XVI, Allocuzione per l’incontro con l’Università di Roma "La Sapienza", 17 gennaio 2008). Non possiamo nasconderci, tuttavia, che si è verificato uno slittamento da un pensiero prevalentemente speculativo a uno maggiormente sperimen-tale. La ricerca si è volta soprattutto all’osservazione della natura nel ten-tativo di scoprirne i segreti. Il desiderio di conoscere la natura si è poi tra-sformato nella volontà di riprodurla. Questo cambiamento non è stato in-dolore: l'evolversi dei concetti ha intaccato il rapporto tra la fides e la ratio con la conseguenza di portare l'una e l'altra a seguire strade diverse. La conquista scientifica e tecnologica, con cui la fides è sempre più provocata a confrontarsi, ha modificato l'antico concetto di ratio; in qualche modo, ha emarginato la ragione che ricercava la verità ultima delle cose per fare spazio ad una ragione paga di scoprire la verità contingente delle leggi della natura. La ricerca scientifica ha certamente il suo valore positivo. La scoperta e l'incremento delle scienze matematiche, fisiche, chimiche e di quelle applicate sono frutto della ragione ed esprimono l'intelligenza con la quale l'uomo riesce a penetrare nelle profondità del creato. La fede, da parte sua, non teme il progresso della scienza e gli sviluppi a cui conduco-no le sue conquiste quando queste sono finalizzate all'uomo, al suo benes-sere e al progresso di tutta l'umanità. Come ricordava l'ignoto autore della Lettera a Diogneto: “Non l'albero della scienza uccide, ma la disobbedien-za. Non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera” (XII, 2.4). Avviene, tuttavia, che non sempre gli scienziati indirizzino le loro ricerche verso questi scopi. Il facile guadagno o, peggio ancora, l'arroganza di sosti-tuirsi al Creatore svolgono, a volte, un ruolo determinante. E’ questa una forma di hybris della ragione, che può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità. La scienza, d'altronde, non è in grado di elaborare principi etici; essa può solo accoglierli in sé e riconoscerli come necessari per debellare le sue eventuali patologie. La filosofia e la teologia diventa-no, in questo contesto, degli aiuti indispensabili con cui occorre confron-tarsi per evitare che la scienza proceda da sola in un sentiero tortuoso, colmo di imprevisti e non privo di rischi. Ciò non significa affatto limitare la ricerca scientifica o impedire alla tecnica di produrre strumenti di svi-luppo; consiste, piuttosto, nel mantenere vigile il senso di responsabilità che la ragione e la fede possiedono nei confronti della scienza, perché permanga nel solco del suo servizio all'uomo.

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Emerge che c’è un duplice uso della ragione e un duplice modo di essere sapienti o piccoli. C’è un modo di usare la ragione che è autonomo, che si pone sopra Dio, in tutta la gamma delle scienze, cominciando da quelle naturali, dove un metodo adatto per la ricerca della materia viene univer-salizzato: in questo metodo Dio non entra, quindi Dio non c’è. E così, infi-ne, anche in teologia: si pesca nelle acque della Sacra Scrittura con una rete che permette di prendere solo pesci di una certa misura e quanto va oltre questa misura non entra nella rete e quindi non può esistere. Così il grande mistero di Gesù, del Figlio fattosi uomo, si riduce a un Gesù stori-co: una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, un uomo che è ri-masto nel sepolcro, si è corrotto ed è realmente un morto. Il metodo sa “captare” certi pesci, ma esclude il grande mistero, perché l’uomo si fa egli stesso la misura: ha questa superbia, che nello stesso tempo è una grande stoltezza perché assolutizza certi metodi non adatti alle realtà grandi; en-tra in questo spirito accademico che abbiamo visto negli scribi, i quali ri-spondono ai Re magi: non mi tocca; rimango chiuso nella mia esistenza, che non viene toccata. È la specializzazione che vede tutti i dettagli, ma non vede più la totalità. E c’è l’altro modo di usare la ragione, di essere sapienti, quello dell’uomo che riconosce chi è; riconosce la propria misura e la grandezza di Dio, aprendosi nell’umiltà alla novità dell’agire di Dio. Così, proprio accettando la propria piccolezza, facendosi piccolo come realmente è, arriva alla veri-tà. In questo modo, anche la ragione può esprimere tutte le sue possibilità, non viene spenta, ma si allarga, diviene più grande. IL PROGRESSO SENZA DIO Sì, la ragione è il grande dono di Dio all'uomo, e la vittoria della ragione sull'irrazionalità è anche uno scopo della fede cristiana. Ma quand'è che la ragione domina veramente? Quando si è staccata da Dio? Quando è diven-tata cieca per Dio? La ragione del potere e del fare è già la ragione intera? Se il progresso per essere progresso ha bisogno della crescita morale dell'umanità, allora la ragione del potere e del fare deve altrettanto ur-gentemente essere integrata mediante l'apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male. Solo così diventa una ragione veramente umana. Diventa umana solo se è in grado di indi-care la strada alla volontà, e di questo è capace solo se guarda oltre se stessa. In caso contrario la situazione dell'uomo, nello squilibrio tra capa-

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cità materiale e mancanza di giudizio del cuore, diventa una minaccia per lui e per il creato. Così in tema di libertà, bisogna ricordare che la libertà umana richiede sempre un concorso di varie libertà. Questo concorso, tut-tavia, non può riuscire, se non è determinato da un comune intrinseco cri-terio di misura, che è fondamento e meta della nostra libertà. Diciamolo ora in modo molto semplice: l'uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza. Visti gli sviluppi dell'età moderna, l'affermazione di san Paolo citata all'inizio (cfr Ef 2,12) si rivela molto realistica e semplicemen-te vera. Non vi è dubbio, pertanto, che un « regno di Dio » realizzato senza Dio – un regno quindi dell'uomo solo – si risolve inevitabilmente nella « fine perversa » di tutte le cose descritta da Kant: l'abbiamo visto e lo ve-diamo sempre di nuovo. Ma non vi è neppure dubbio che Dio entra vera-mente nelle cose umane solo se non è soltanto da noi pensato, ma se Egli stesso ci viene incontro e ci parla. Per questo la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bi-sogno l'una dell'altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione. LA LIBERTÀ COME VALORE ASSOLUTO L’importanza fondamentale della libertà deve essere rigorosamente salva-guardata. Non è quindi sorprendente che numerosi individui e gruppi ri-vendichino ad alta voce in pubblico la loro libertà. Ma la libertà è un valo-re delicato. Può essere fraintesa o usata male così da non condurre alla fe-licità che tutti da essa ci aspettiamo, ma verso uno scenario buio di mani-polazione, nel quale la nostra comprensione di noi stessi e del mondo si fa confusa o viene addirittura distorta da quanti hanno un loro progetto na-scosto. Avete notato quanto spesso la rivendicazione della libertà viene fatta, senza mai fare riferimento alla verità della persona umana? C’è chi oggi asserisce che il rispetto della libertà del singolo renda ingiusto cercare la verità, compresa la verità su che cosa sia bene. In alcuni ambienti il par-lare di verità viene considerato fonte di discussioni o di divisioni e quindi da riservarsi piuttosto alla sfera privata. E al posto della verità – o me-glio, della sua assenza – si è diffusa l’idea che, dando valore indiscrimina-tamente a tutto, si assicura la libertà e si libera la coscienza. È ciò che chiamiamo relativismo. Ma che scopo ha una “libertà” che, ignorando la verità, insegue ciò che è falso o ingiusto? A quanti giovani è stata offerta una mano che, nel nome della libertà o dell’esperienza, li ha guidati

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all’assuefazione agli stupefacenti, alla confusione morale o intellettuale, alla violenza, alla perdita del rispetto per se stessi, anzi alla disperazione e così, tragicamente, al suicidio? La verità non è un’imposizione. Né è semplicemente un insieme di regole. È la scoperta di Uno che non ci tradi-sce mai; di Uno del quale possiamo sempre fidarci. Nel cercare la verità arriviamo a vivere in base alla fede perché, in definitiva, la verità è una persona: Gesù Cristo. È questa la ragione per cui l’autentica libertà non è una scelta di “disimpegno da”. È una scelta di “impegno per”; niente di meno che uscire da se stessi e permettere di venire coinvolti nell’ “essere per gli altri” di Cristo (cfr Spe salvi, 28). LA SECOLARIZZAZIONE La secolarizzazione, che si presenta nelle culture come impostazione del mondo e dell’umanità senza riferimento alla Trascendenza, invade ogni aspetto della vita quotidiana e sviluppa una mentalità in cui Dio è di fatto assente, in tutto o in parte, dall’esistenza e dalla coscienza umana. Questa secolarizzazione non è soltanto una minaccia esterna per i credenti, ma si manifesta già da tempo in seno alla Chiesa stessa. Snatura dall’interno e in profondità la fede cristiana e, di conseguenza, lo stile di vita e il com-portamento quotidiano dei credenti. Essi vivono nel mondo e sono spesso segnati, se non condizionati, dalla cultura dell’immagine che impone mo-delli e impulsi contraddittori, nella negazione pratica di Dio: non c’è più bisogno di Dio, di pensare a Lui e di ritornare a Lui. Inoltre, la mentalità edonistica e consumistica predominante favorisce, nei fedeli come nei pa-stori, una deriva verso la superficialità e un egocentrismo che nuoce alla vita ecclesiale. La "morte di Dio" annunciata, nei decenni passati, da tanti intellettuali cede il posto ad uno sterile culto dell’individuo. In questo contesto cultura-le, c’è il rischio di cadere in un’atrofia spirituale e in un vuoto del cuore, caratterizzati talvolta da forme surrogate di appartenenza religiosa e di vago spiritualismo. Si rivela quanto mai urgente reagire a simile deriva mediante il richiamo dei valori alti dell’esistenza, che danno senso alla vi-ta e possono appagare l’inquietudine del cuore umano alla ricerca della fe-licità: la dignità della persona umana e la sua libertà, l’uguaglianza tra tutti gli uomini, il senso della vita e della morte e di ciò che ci attende do-po la conclusione dell’esistenza terrena.

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LA LAICITÀ ci sono molteplici maniere di intendere e di vivere la laicità, maniere talo-ra opposte e persino contraddittorie tra loro … Per comprendere l’autentico significato della laicità e spiegarne le odierne accezioni, occorre tener conto dello sviluppo storico che il concetto ha avu-to. La laicità, nata come indicazione della condizione del semplice fedele cristiano, non appartenente né al clero né allo stato religioso, durante il Medioevo ha rivestito il significato di opposizione tra i poteri civili e le ge-rarchie ecclesiastiche, e nei tempi moderni ha assunto quello di esclusione della religione e dei suoi simboli dalla vita pubblica mediante il loro confi-namento nell'ambito del privato e della coscienza individuale. È avvenuto così che al termine di laicità sia stata attribuita un’accezione ideologica opposta a quella che aveva all’origine. In realtà, oggi la laicità viene comunemente intesa come esclusione della religione dai vari ambiti della società e come suo confino nell’ambito della coscienza individuale. La laicità si esprimerebbe nella totale separazione tra lo Stato e la Chiesa, non avendo quest’ultima titolo alcuno ad interve-nire su tematiche relative alla vita e al comportamento dei cittadini; la laicità comporterebbe addirittura l’esclusione dei simboli religiosi dai luo-ghi pubblici destinati allo svolgimento delle funzioni proprie della comuni-tà politica: da uffici, scuole, tribunali, ospedali, carceri, ecc. In base a que-ste molteplici maniere di concepire la laicità si parla oggi di pensiero laico, di morale laica, di scienza laica, di politica laica. In effetti, alla base di ta-le concezione c'è una visione a-religiosa della vita, del pensiero e della mo-rale: una visione, cioè, in cui non c'è posto per Dio, per un Mistero che tra-scenda la pura ragione, per una legge morale di valore assoluto, vigente in ogni tempo e in ogni situazione. Soltanto se ci si rende conto di ciò, sì può misurare il peso dei problemi sottesi a un termine come laicità, che sem-bra essere diventato quasi l’emblema qualificante della post-modernità, in particolare della moderna democrazia. È compito, allora, di tutti i credenti, in particolare dei credenti in Cristo, contribuire ad elaborare un concetto di laicità che, da una parte, riconosca a Dio e alla sua legge morale, a Cristo e alla sua Chiesa il posto che ad es-si spetta nella vita umana, individuale e sociale, e, dall'altra, affermi e ri-spetti la «legittima autonomia delle realtà terrene», intendendo con tale espressione, come ribadisce il Concilio Vaticano II, che «le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare» (Gaudium et spes, 36). Tale autonomia è

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un'«esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche è conforme al volere del Creatore. Infatti, è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la propria consisten-za, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l’uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte» (ibid.). Se, invece, con l'espressione «autonomia del-le realtà temporali» si volesse intendere che «le cose create non dipendono da Dio, e che l'uomo può disporne senza riferirle al Creatore», allora la falsità di tale opinione non potrebbe sfuggire a chiunque creda in Dio e al-la sua trascendente presenza nel mondo creato (cfr ibid.). Questa affermazione conciliare costituisce la base dottrinale di quella «sana laicità» che implica l’effettiva autonomia delle realtà terrene, non certo dall'ordine morale, ma dalla sfera ecclesiastica. Non può essere per-tanto la Chiesa a indicare quale ordinamento politico e sociale sia da pre-ferirsi, ma è il popolo che deve decidere liberamente i modi migliori e più adatti di organizzare la vita politica. Ogni intervento diretto della Chiesa in tale campo sarebbe un'indebita ingerenza. D’altra parte, la «sana laici-tà» comporta che lo Stato non consideri la religione come un semplice sen-timento individuale, che si potrebbe confinare al solo ambito privato. Al contrario, la religione, essendo anche organizzata in strutture visibili, co-me avviene per la Chiesa, va riconosciuta come presenza comunitaria pubblica. Questo comporta inoltre che a ogni Confessione religiosa (purché non in contrasto con l'ordine morale e non pericolosa per l'ordine pubblico) sia garantito il libero esercizio delle attività di culto - spirituali, culturali, educative e caritative - della comunità dei credenti. Alla luce di queste considerazioni, non è certo espressione di laicità, ma sua degenerazione in laicismo, l'ostilità a ogni forma di rilevanza politica e culturale della reli-gione; alla presenza, in particolare, di ogni simbolo religioso nelle istitu-zioni pubbliche. Come pure non è segno di sana laicità il rifiuto alla co-munità cristiana, e a coloro che legittimamente la rappresentano, del di-ritto di pronunziarsi sui problemi morali che oggi interpellano la coscienza di tutti gli esseri umani, in particolare dei legislatori e dei giuristi. Non si tratta, infatti, di indebita ingerenza della Chiesa nell'attività legislativa, propria ed esclusiva dello Stato, ma dell'affermazione e della difesa dei grandi valori che danno senso alla vita della persona e ne salvaguardano la dignità. Questi valori, prima di essere cristiani, sono umani, tali perciò da non lasciare indifferente e silenziosa la Chiesa, la quale ha il dovere di proclamare con fermezza la verità sull'uomo e sul suo destino.

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GLI IDOLI DEI CRISTIANI Tutto ciò deve oggi far pensare anche noi come cristiani: è la nostra fede abbastanza pura ed aperta, così che a partire da essa anche i "pagani", le persone che oggi sono in ricerca e hanno le loro domande, possano intuire la luce dell’unico Dio, associarsi negli atri della fede alla nostra preghiera e con il loro domandare diventare forse adoratori pure loro? La consapevo-lezza che l’avidità è idolatria raggiunge anche il nostro cuore e la nostra prassi di vita? Non lasciamo forse in vari modi entrare gli idoli anche nel mondo della nostra fede? Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo puri-ficare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? I “NO” DELLA CHIESA Come si sceglie la vita? Come si fa? Riflettendo, mi è venuto in mente che la grande defezione dal Cristianesimo realizzatasi nell'Occidente negli ul-timi cento anni, è stata attuata proprio in nome dell'opzione per la vita. È stato detto - penso a Nietzsche ma anche a tanti altri - che il Cristianesi-mo è una opzione contro la vita. Con la Croce, con tutti i Comandamenti, con tutti i "No" che ci propone, ci chiude la porta della vita. Ma noi, vo-gliamo avere la vita, e scegliamo, optiamo, finalmente, per la vita liberan-doci dalla Croce, liberandoci da tutti questi Comandamenti e da tutti que-sti "No". Vogliamo avere la vita in abbondanza, nient'altro che la vita. Qui subito viene in mente la parola del Vangelo di oggi: "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà" (Lc 9, 24). Questo è il paradosso che dobbiamo innanzitutto tener presente nell'opzione per la vita. Non arrogandoci la vita per noi ma solo dando la vita, non avendola e prendendola, ma dandola, possiamo trovarla. Questo è il senso ultimo della Croce: non prendere per sé ma dare la vita. IL MALE NEL MONDO Dio o c'è o non c'è. Ci sono solo due opzioni. O si riconosce la priorità della ragione, della Ragione creatrice che sta all'inizio di tutto ed è il principio di tutto - la priorità della ragione è anche priorità della libertà o si sostiene la priorità dell'irrazionale, per cui tutto quanto fun-

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ziona sulla nostra terra e nella nostra vita sarebbe solo occasionale, marginale, un prodotto irrazionale - la ragione sarebbe un prodotto della irrazionalità. Non si può ultimamente "provare" l'uno o l'al-tro progetto, ma la grande opzione del Cristianesimo è l'opzione per la ra-zionalità e per la priorità della ragione. Questa mi sembra un'ottima op-zione, che ci dimostra come dietro a tutto ci sia una grande Intelligenza, alla quale possiamo affidarci. Ma il vero problema contro la fede oggi mi sembra essere il male nel mondo: ci si chiede come esso sia compatibile con questa razionalità del Creatore. E qui abbiamo bisogno realmente del Dio che si è fatto carne e che ci mostra come Egli non sia solo una ragione matematica, ma che questa ragione originaria è anche Amore. Se guar-diamo alle grandi opzioni, l'opzione cristiana è anche oggi quella più ra-zionale e quella più umana. Per questo possiamo elaborare con fiducia una filosofia, una visione del mondo che sia basata su questa priorità della ragione, su questa fiducia che la Ragione creatrice è amore, e che questo amore è Dio.

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LE RISPOSTE DELLA FEDE ALL’INIZIO L’AMORE DI DIO La fonte della gioia cristiana è questa certezza di essere amati da Dio, amati personalmente dal nostro Creatore, da Colui che tiene nelle sue mani l'universo intero e che ama ciascuno di noi e tutta la grande famiglia umana con un amore appassionato e fedele, un amore più grande delle no-stre infedeltà e peccati, un amore che perdona. Questo amore "è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso", come appare in maniera defini-tiva nel mistero della Croce: "Dio ama tanto l'uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore" (Deus caritas est, 10). Questa certezza e questa gioia di essere amati da Dio deve essere resa in qualche modo palpabile e concreta per ciascuno di noi, e soprattutto per le giovani generazioni che stanno entrando nel mondo della fede. In altre pa-role: Gesù ha detto di essere la "via" che conduce al Padre, oltre che la "verità" e la "vita" (cfr Gv 14, 5-7). La domanda è dunque: come possono i nostri ragazzi e i nostri giovani trovare in Lui, praticamente ed esisten-zialmente, questa via di salvezza e di gioia? È proprio questa la grande missione per la quale esiste la Chiesa, come famiglia di Dio e compagnia di amici nella quale veniamo inseriti con il Battesimo già da piccoli bam-bini e nella quale deve crescere la nostra fede e la gioia e la certezza di es-sere amati dal Signore. È indispensabile quindi - ed è il compito affidato alle famiglie cristiane, ai sacerdoti, ai catechisti, agli educatori, ai giovani stessi nei confronti dei loro coetanei, alle nostre parrocchie, associazioni e movimenti, finalmente all'intera comunità diocesana - che le nuove gene-razioni possano fare esperienza della Chiesa come di una compagnia di amici davvero affidabile, vicina in tutti i momenti e le circostanze della vi-ta, siano esse liete e gratificanti oppure ardue e oscure, una compagnia che non ci abbandonerà mai nemmeno nella morte, perché porta in sé la promessa dell'eternità. … Colui che sa di essere amato è a sua volta sollecitato ad amare. Proprio così il Signore, che ci ha amati per primo, ci domanda di mettere a nostra volta al centro della nostra vita l'amore per Lui e per gli uomini che Egli ha amato.

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INCONTRARE IL SIGNORE La fede nasce dall’incontro personale con Cristo risorto, e diventa slancio di coraggio e di libertà che fa gridare al mondo: Gesù è risorto e vive per sempre. E’ questa la missione dei discepoli del Signore di ogni epoca e an-che di questo nostro tempo: "Se siete risorti con Cristo – esorta san Paolo – cercate le cose di lassù… pensate alle cose di lassù, e non a quelle della terra" (Col 3,1-2). Questo non vuol dire estraniarsi dagli impegni quoti-diani, disinteressarsi delle realtà terrene; significa piuttosto ravvivare ogni umana attività come un respiro soprannaturale, significa farsi gioiosi annunciatori e testimoni della risurrezione di Cristo, vivente in eterno (cfr Gv 20,25; Lc 24,33-34). Scoprire la bellezza e la gioia della fede è un cammino che ogni nuova ge-nerazione deve percorrere in proprio, perché nella fede viene messo in gio-co quanto abbiamo di più nostro e di più intimo, il nostro cuore, la nostra intelligenza, la nostra libertà, in un rapporto profondamente personale con il Signore che opera dentro di noi. Ma la fede è, altrettanto radical-mente, atto ed atteggiamento comunitario, è il "noi crediamo" della Chie-sa. La gioia della fede è dunque una gioia che va condivisa: come afferma l'apostolo Giovanni, "quello che abbiamo veduto e udito (il Verbo della vi-ta), noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi... Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta" (1Gv 1, 3-4). Perciò educare le nuove generazioni alla fede è un compito grande e fondamentale che coinvolge l'intera comunità cristiana. Cari fra-telli e sorelle, voi toccate con mano come questo compito sia diventato oggi per vari aspetti particolarmente difficile, ma proprio per questo ancora più importante e quanto mai urgente. È possibile individuare infatti due linee di fondo dell'attuale cultura secolarizzata, tra loro chiaramente in-terdipendenti, che spingono in direzione contraria all'annuncio cristiano e non possono non avere un'incidenza su coloro che stanno maturando i propri orientamenti e scelte di vita. Una di esse è quell'agnosticismo che scaturisce dalla riduzione dell'intelligenza umana a semplice ragione cal-colatrice e funzionale e che tende a soffocare il senso religioso iscritto nel profondo della nostra natura. L'altra è quel processo di relativizzazione e di sradicamento che corrode i legami più sacri e gli affetti più degni dell'uomo, col risultato di rendere fragili le persone, precarie e instabili le nostre reciproche relazioni. Proprio in questa situazione tutti noi abbiamo bisogno, e specialmente i nostri ragazzi, adolescenti e giovani hanno bisogno, di vivere la fede come

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gioia, di assaporare quella serenità profonda che nasce dall'incontro con il Signore. NESSUNO CREDE DA SOLO "Come arrivare ad una fede viva, ad una fede realmente cattolica, ad una fede concreta, vivace, efficiente?". La fede, in ultima istanza, è un dono. Quindi la prima condizione è lasciarsi donare qualcosa, non essere auto-sufficienti, non fare tutto da noi, perché non lo possiamo, ma aprirci nella consapevolezza che il Signore dona realmente. Mi sembra che questo gesto di apertura sia anche il primo gesto della preghiera: essere aperto alla presenza del Signore e al suo dono. È questo anche il primo passo nel rice-vere una cosa che noi non facciamo e che non possiamo avere, nell'intento di farla da noi stessi. Questo gesto di apertura, di preghiera - donami la fede, Signore! - deve essere realizzato con tutto il nostro essere. Noi dob-biamo entrare in questa disponibilità di accettare il dono e di lasciarci permeare dal dono nel nostro pensiero, nel nostro affetto, nella nostra vo-lontà. Qui, mi sembra molto importante sottolineare un punto essenziale: nessuno crede solo da se stesso. Noi crediamo sempre in e con la Chiesa. Il credo è sempre un atto condiviso, un lasciarsi inserire in una comunione di cammino, di vita, di parola, di pensiero. Noi non "facciamo" la fede, nel senso che è anzitutto Dio che la dà. Ma, non la "facciamo" anche nel senso che essa non dev'essere inventata da noi. Dobbiamo lasciarci cadere, per così dire, nella comunione della fede, della Chiesa. Credere è un atto cat-tolico in sé. È partecipazione a questa grande certezza, che è presente nel soggetto vivente della Chiesa. Solo così possiamo anche capire la Sacra Scrittura nella diversità di una lettura che si sviluppa per mille anni. È una Scrittura, perché è elemento, espressione dell'unico soggetto - il Popo-lo di Dio - che nel suo pellegrinaggio è sempre lo stesso soggetto. Natu-ralmente, è un soggetto che non parla da sé, ma è un soggetto creato da Dio - l'espressione classica è "ispirato" -, un soggetto che riceve, poi tradu-ce e comunica questa parola. Questa sinergia è molto importante. Sap-piamo che il Corano, secondo la fede islamica, è parola verbalmente data da Dio, senza mediazione umana. Il Profeta non c'entra. Egli solo l'ha scritta e comunicata. È pura parola di Dio. Mentre per noi, Dio entra in comunione con noi, ci fa cooperare, crea questo soggetto e in questo sog-getto cresce e si sviluppa la sua parola. Questa parte umana è essenziale, e ci dà anche la possibilità di vedere come le singole parole diventano

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realmente Parola di Dio solo nell'unità di tutta la Scrittura nel soggetto vivente del popolo di Dio. Quindi, il primo elemento è il dono di Dio; il se-condo è la compartecipazione nella fede del popolo pellegrinante, la comu-nicazione nella Santa Chiesa, la quale, da parte sua, riceve il Verbo di Dio, che è il Corpo di Cristo, animato dalla Parola vivente, dal Logos divi-no. Dobbiamo approfondire, giorno dopo giorno, questa nostra comunione con la Santa Chiesa e così con la Parola di Dio. Non sono due cose opposte, così che io possa dire: sono più per la Chiesa o sono più per la Parola di Dio. Solo unitamente si è nella Chiesa, si fa parte della Chie-sa, si diventa membri della Chiesa, si vive della Parola di Dio, che è la forza di vita della Chiesa. E chi vive della Parola di Dio può viverla solo perché è viva e vitale nella Chiesa vivente. UNA LUCE NEL BUIO Intorno a noi può esserci il buio e l’oscurità, e tuttavia vediamo una luce: una piccola fiamma, minuscola, che è più forte del buio apparentemente tanto potente ed insuperabile. Cristo, che è risorto dai morti, brilla in que-sto mondo, e lo fa nel modo più chiaro proprio là dove secondo il giudizio umano tutto sembra cupo e privo di speranza. Egli ha vinto la morte – Egli vive – e la fede in Lui penetra come una piccola luce tutto ciò che è buio e minaccioso. Chi crede in Gesù, certamente non vede sempre soltan-to il sole nella vita, quasi che gli possano essere risparmiate sofferenze e difficoltà, ma c’è sempre una luce chiara che gli indica una via, la via che conduce alla vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Gli occhi di chi crede in Cristo scorgono anche nella notte più buia una luce e vedono già il chiaro-re di un nuovo giorno. La luce non rimane sola. Tutt’intorno si accendono altre luci. Sotto i loro raggi si delineano i contorni dell’ambiente così che ci si può orientare. Non viviamo da soli nel mondo. Proprio nelle cose importanti della vita abbia-mo bisogno di altre persone. Così, in modo particolare, nella fede non sia-mo soli, siamo anelli della grande catena dei credenti. Nessuno arriva a credere se non è sostenuto dalla fede degli altri e, d’altra parte, con la mia fede contribuisco a confermare gli altri nella loro fede. Ci aiutiamo a vi-cenda ad essere esempi gli uni per gli altri, condividiamo con gli altri ciò che è nostro, i nostri pensieri, le nostre azioni, il nostro affetto. E ci aiu-tiamo a vicenda ad orientarci, ad individuare il nostro posto nella società.

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FEDE E RAGIONE I Padri della Chiesa si trovavano confrontati con diverse filosofie di tipo platonico, nelle quali si presentava una visione completa del mondo e del-la vita, includendo la questione di Dio e della religione. Nel confronto con queste filosofie, loro stessi avevano elaborato una visione completa della realtà, partendo dalla fede e usando elementi del platonismo, per rispon-dere alle questioni essenziali degli uomini. Questa visione, basata sulla rivelazione biblica ed elaborata con un platonismo corretto alla luce della fede, essi la chiamavano la "filosofia nostra". La parola "filosofia" non era quindi espressione di un sistema puramente razionale e, come tale, distin-to dalla fede, ma indicava una visione complessiva della realtà, costruita nella luce della fede, ma fatta propria e pensata dalla ragione; una visione che, certo, andava oltre le capacità proprie della ragione, ma che, come ta-le, era anche soddisfacente per essa. Per san Tommaso l'incontro con la filosofia pre-cristiana di Aristotele (morto circa nel 322 a.C.) apriva una prospettiva nuova. La filosofia ari-stotelica era, ovviamente, una filosofia elaborata senza conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento, una spiegazione del mondo senza ri-velazione, per la sola ragione. E questa razionalità conseguente era con-vincente. Così la vecchia forma della "filosofia nostra" dei Padri non fun-zionava più. La relazione tra filosofia e teologia, tra fede e ragione, era da ripensare. Esisteva una "filosofia" completa e convincente in se stessa, una razionalità precedente la fede, e poi la “teologia”, un pensare con la fede e nella fede. La questione pressante era questa: il mondo della razio-nalità, la filosofia pensata senza Cristo, e il mondo della fede sono compa-tibili? Oppure si escludono? Non mancavano elementi che affermavano l'incompatibilità tra i due mondi, ma san Tommaso era fermamente con-vinto della loro compatibilità - anzi che la filosofia elaborata senza cono-scenza di Cristo quasi aspettava la luce di Gesù per essere completa. Questa è stata la grande “sorpresa” di san Tommaso, che ha determinato il suo cammino di pensatore. Mostrare questa indipendenza di filosofia e teologia e, nello stesso tempo, la loro reciproca relazionalità è stata la missione storica del grande maestro. E così si capisce che, nel XIX secolo, quando si dichiarava fortemente l'incompatibilità tra ragione moderna e fede, Papa Leone XIII indicò san Tommaso come guida nel dialogo tra l'u-na e l'altra. Nel suo lavoro teologico, san Tommaso suppone e concretizza questa relazionalità. La fede consolida, integra e illumina il patrimonio di verità che la ragione umana acquisisce. La fiducia che san Tommaso ac-

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corda a questi due strumenti della conoscenza – la fede e la ragione – può essere ricondotta alla convinzione che entrambe provengono dall’unica sorgente di ogni verità, il Logos divino, che opera sia nell’ambito della creazione, sia in quello della redenzione. Insieme con l'accordo tra ragione e fede, si deve riconoscere, d'altra parte, che esse si avvalgono di procedimenti conoscitivi differenti. La ragione ac-coglie una verità in forza della sua evidenza intrinseca, mediata o imme-diata; la fede, invece, accetta una verità in base all’autorità della Parola di Dio che si rivela. Scrive san Tommaso al principio della sua Summa Theo-logiae: “Duplice è l’ordine delle scienze; alcune procedono da principi cono-sciuti mediante il lume naturale della ragione, come la matematica, la geometria e simili; altre procedono da principi conosciuti mediante una scienza superiore: come la prospettiva procede da principi conosciuti me-diante la geometria e la musica da principi conosciuti mediante la mate-matica. E in questo modo la sacra dottrina (cioè la teologia) è scienza per-ché procede dai principi conosciuti attraverso il lume di una scienza supe-riore, cioè la scienza di Dio e dei santi” (I, q. 1, a. 2). Questa distinzione assicura l’autonomia tanto delle scienze umane, quan-to delle scienze teologiche. Essa però non equivale a separazione, ma im-plica piuttosto una reciproca e vantaggiosa collaborazione. La fede, infatti, protegge la ragione da ogni tentazione di sfiducia nelle proprie capacità, la stimola ad aprirsi a orizzonti sempre più vasti, tiene viva in essa la ricer-ca dei fondamenti e, quando la ragione stessa si applica alla sfera sopran-naturale del rapporto tra Dio e uomo, arricchisce il suo lavoro. Secondo san Tommaso, per esempio, la ragione umana può senz’altro giungere all’affermazione dell’esistenza di un unico Dio, ma solo la fede, che acco-glie la Rivelazione divina, è in grado di attingere al mistero dell’Amore di Dio Uno e Trino. D’altra parte, non è soltanto la fede che aiuta la ragione. Anche la ragione, con i suoi mezzi, può fare qualcosa di importante per la fede, rendendole un triplice servizio che san Tommaso riassume nel proemio del suo com-mento al De Trinitate di Boezio: “Dimostrare i fondamenti della fede; spiegare mediante similitudini le verità della fede; respingere le obiezioni che si sollevano contro la fede” (q. 2, a. 2). Tutta la storia della teologia è, in fondo, l’esercizio di questo impegno dell’intelligenza, che mostra l’intelligibilità della fede, la sua articolazione e armonia interna, la sua ragionevolezza e la sua capacità di promuovere il bene dell’uomo.

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LA FORZA CHE PURIFICA LA RAGIONE La fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente — un in-contro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell'ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stes-sa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi accecamenti e per-ciò l'aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. È qui che si colloca la dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a colo-ro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente contribuire alla purificazio-ne della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto pos-sa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato. La dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano. E sa che non è compito della Chiesa far essa stessa valere politicamente questa dottrina: essa vuole servire la formazione della co-scienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad es-se, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale. Questo significa che la costruzione di un giusto ordinamento sociale e sta-tale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un com-pito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico imme-diato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affin-ché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente rea-lizzabili. A DIFESA DELL’UOMO Il Magistero della Chiesa intende offrire il proprio contributo alla forma-zione della coscienza non solo dei credenti, ma di quanti cercano la verità e intendono dare ascolto ad argomentazioni che vengono dalla fede ma an-che dalla stessa ragione. La Chiesa, nel proporre valutazioni morali per la ricerca biomedica sulla vita umana, attinge infatti alla luce sia della ra-

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gione che della fede (cfr Istruzione Dignitatis personae, n. 3), in quanto è sua convinzione che “ciò che è umano non solamente è accolto e rispettato dalla fede, ma da essa è anche purificato, innalzato e perfezionato” (Ibid., n. 7). In questo contesto viene altresì data una risposta alla mentalità diffusa, secondo cui la fede è presentata come ostacolo alla libertà e alla ricerca scientifica, perché sarebbe costituita da un insieme di pregiudizi che vizie-rebbero la comprensione oggettiva della realtà. Di fronte a tale atteggia-mento, che tende a sostituire la verità con il consenso, fragile e facilmente manipolabile, la fede cristiana offre invece un contributo veritativo anche nell’ambito etico-filosofico, non fornendo soluzioni precostituite a problemi concreti, come la ricerca e la sperimentazione biomedica, ma proponendo prospettive morali affidabili all’interno delle quali la ragione umana può ricercare e trovare valide soluzioni. Vi sono, infatti, determinati contenuti della rivelazione cristiana che get-tano luce sulle problematiche bioetiche: il valore della vita umana, la di-mensione relazionale e sociale della persona, la connessione tra l’aspetto unitivo e quello procreativo della sessualità, la centralità della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna. Questi contenuti, iscritti nel cuore dell’uomo, sono comprensibili anche razionalmente come elementi della legge morale naturale e possono riscuotere accoglienza an-che da coloro che non si riconoscono nella fede cristiana. LASCIAR PARLARE L’AMORE L'amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi. Ma questo non significa che l'azione caritativa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte. È in gioco sempre tutto l'uomo. Spesso è proprio l'assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza. Chi esercita la ca-rità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l'amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la miglior testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l'amore. Egli sa che Dio è amore (cfr 1 Gv 4, 8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient'altro viene fatto fuorché amare.

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LA FEDE È DONO Vorrei, a questo punto, delineare un percorso che aiuti a comprendere in modo più profondo non solo i contenuti della fede, ma insieme a questi an-che l’atto con cui decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà. Esiste, infatti, un’unità profonda tra l’atto con cui si crede e i contenuti a cui diamo il nostro assenso. L’apostolo Paolo permette di entrare all’interno di questa realtà quando scrive: “Con il cuore … si crede … e con la bocca si fa la professione di fede” (Rm 10,10). Il cuore indica che il pri-mo atto con cui si viene alla fede è dono di Dio e azione della grazia che agisce e trasforma la persona fin nel suo intimo. L’esempio di Lidia è quanto mai eloquente in proposito. Racconta san Lu-ca che Paolo, mentre si trovava a Filippi, andò di sabato per annunciare il Vangelo ad alcune donne; tra esse vi era Lidia e il “Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo” (At 16,14). Il senso racchiuso nell’espressione è importante. San Luca insegna che la conoscenza dei contenuti da credere non è sufficiente se poi il cuore, autentico sacrario della persona, non è aperto dalla grazia che consente di avere occhi per guardare in profondità e comprendere che quanto è stato annunciato è la Parola di Dio. Professare con la bocca, a sua volta, indica che la fede implica una testi-monianza ed un impegno pubblici. Il cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato. La fede è decidere di stare con il Signore per vivere con Lui. E questo “stare con Lui” introduce alla comprensione delle ragioni per cui si crede. La fede, proprio perché è atto della libertà, esige anche la responsabilità sociale di ciò che si crede. La Chiesa nel giorno di Pentecoste mostra con tutta evidenza questa dimensione pubblica del cre-dere e dell’annunciare senza timore la propria fede ad ogni persona. È il dono dello Spirito Santo che abilita alla missione e fortifica la nostra te-stimonianza, rendendola franca e coraggiosa. La stessa professione della fede è un atto personale ed insieme comunita-rio. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede. Nella fede della Co-munità cristiana ognuno riceve il Battesimo, segno efficace dell’ingresso nel popolo dei credenti per ottenere la salvezza. Come attesta il Catechi-smo della Chiesa Cattolica: “«Io credo»; è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto al momento del Battesimo. «Noi crediamo» è la fede della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o più generalmente, dall’assemblea liturgica dei fedeli. «Io cre-

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do»: è anche la Chiesa nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire «Io credo», «Noi crediamo»” (n. 167). Come si può osservare, la conoscenza dei contenuti di fede è essenziale per dare il proprio assenso, cioè per aderire pienamente con l’intelligenza e la volontà a quanto viene proposto dalla Chiesa. La conoscenza della fede in-troduce alla totalità del mistero salvifico rivelato da Dio. L’assenso che viene prestato implica quindi che, quando si crede, si accetta liberamente tutto il mistero della fede, perché garante della sua verità è Dio stesso che si rivela e permette di conoscere il suo mistero di amore. D’altra parte, non possiamo dimenticare che nel nostro contesto culturale tante persone, pur non riconoscendo in sé il dono della fede, sono comun-que in una sincera ricerca del senso ultimo e della verità definitiva sulla loro esistenza e sul mondo. Questa ricerca è un autentico “preambolo” alla fede, perché muove le persone sulla strada che conduce al mistero di Dio. La stessa ragione dell’uomo, infatti, porta insita l’esigenza di “ciò che vale e permane sempre”. Tale esigenza costituisce un invito permanente, in-scritto indelebilmente nel cuore umano, a mettersi in cammino per trova-re Colui che non cercheremmo se non ci fosse già venuto incontro. Proprio a questo incontro la fede ci invita e ci apre in pienezza.