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CESARE PESCE

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STORIA E VITA MISSIONARIA

Collana diretta da P. Piero GheddoUfficio Storico del Pime - Via F.D. Guerrazzi, 1100152 Roma - Tel. 06.58.39.151

1 - Piero Gheddo, Missione Brasile. I 50 anni del Pime nella Terra di SantaCroce (1946-1996), pagg. 384 + 32 fotografiche, € 12,91

2 - Paolo Manna, Virtù apostoliche, pagg. 460, € 15,493 - Piero Gheddo, Dai nostri inviati speciali. 125 anni di giornalismo missiona-

rio da Le Missioni Cattoliche a Mondo e Missione (1872-1997), pagg. 124, €5,68

4 - Piero Gheddo, Missione Amazzonia. I 50 anni del Pime nel Nord Brasile(1948-1998), pagg. 484 + 32 fotografiche, € 15,49

5 - Giuseppe Butturini, Le missioni cattoliche in Cina tra le due guerre mondia-li, pagg. 334, € 15,49

6 - Piero Gheddo, Missione America. I 50 anni del Pime negli Stati Uniti,Canada e Messico (1947-1997), pp. 176 + 16 fotografiche, € 9,30

7 - Piero Gheddo, Missione Bissau. I 50 anni del Pime in Guinea-Bissau (1947-1997), pag. 464 + 32 fotografiche, € 15,49

8 - Amelio Crotti, Noè Tacconi (1873-1942), il primo Vescovo di Kaifeng (Cina),pag. 368, € 14,46

9 - Mauro Colombo, Aristide Pirovano (1915-1997), il Vescovo dei due mondi,pag. 384 + 32 fotografiche, € 12,91

10 - Piero Gheddo, Pime, 150 anni di missione (1850-2000), pagg. 1230, € 25,8211 - Domenico Colombo (a cura), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione,

pagg. 462, € 15,4912 - Piero Gheddo, Il santo col martello: Felice Tantardini, 70 anni di Birmania,

pagg. 240 + 16 fotografiche, € 10,3313 - Angelo Montonati, Angelo Ramazzotti Fondatore del PIME (1800-1861),

pagg. 224 + 8 fotografiche, € 10,3314 - Piero Gheddo, Paolo Manna (1872-1952), Fondatore della Pontificia Unione

Missionaria, pagg. 400 + 4 fotografiche, € 14,4615 - Pino Cazzaniga, Giappone missione difficile. I 50 anni del Pime nel Paese del

Sol Levante, pagg. 304 + 16 fotografiche, € 13,0016 - Amelio Crotti, Gaetano Pollio (1911-1991), Arcivescovo di Kaifeng (Cina),

pagg. 186 + 32 fotografiche, € 13,0017 - Piero Gheddo, Carlo Salerio, Missionario in Oceania e Fondatore delle Suore

della Riparazione (1827-1870), pagg. 288, € 12,0018 - AA.VV., Le missioni estere di Angelo Ramazzotti. Radici storiche e spirituali,

pagg. 192, € 10,0019 - Domenico Colombo (a cura), Un pastore secondo il cuore di Dio. Lettere del

Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti (1850-1861), pagg. 592, € 20,0020 - Piero Gheddo (a cura), Alfredo Cremonesi (1902-1953). Un martire per il

nostro tempo, pagg. 240 + 8 fotografiche, € 12,0021 - Domenico Colombo (a cura), Un pastore secondo il cuore di Dio. Testimonianze

sul Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti, pagg. 416, € 16,0022 - Piero Gheddo, Cesare Pesce. Una vita in Bengala (1919-2002), pagg. 208, € 10,00

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PIERO GHEDDO

CESARE PESCE

Una vita in Bengala(1919-2002)

Prefazione di mons. Martino CanessaVescovo di Tortona

EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA

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© 2004 EMI della Coop. SERMISVia di Corticella, 181 - 40128 BolognaTel. 051/32.60.27 - Fax 051/32.75.52e-mail: [email protected]: http://www.emi.it

N.A. 2079ISBN 88-307-1375-9

Finito di stampare nel mese di settembre 2004 dalle Grafiche Universalper conto della GESP - Città di Castello (PG)

Copertina e inserto fotografico di Bruno MaggiFoto a colori di copertina di Giampiero Sandionigi

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PREFAZIONE

A Padre Piero Gheddo, noto giornalista e scrittore, va tutta lamia fraterna e affettuosa riconoscenza, poiché lo scorso anno, nelprimo anniversario della morte di Padre Cesare Pesce, nostro mis-sionario e Suo confratello, ha accolto con entusiasmo l’invito delCentro Missionario Diocesano di Tortona a scriverne la biografia.

Personalmente ho incontrato solo poche volte Padre Pesce, percui ho acquisito una certa conoscenza di lui solo attraverso il suo epi-stolario.

Le sue 154 lettere conservate nell’archivio del nostro CentroMissionario, lasciano trasparire una vita offerta per il regno di Dioe i poveri con dedizione serena, generosa e appassionata, facendoemergere la figura di un missionario pieno di fede e di buon senso,dall’anima giovanile.

Il presente libro, uscito dalla mente e dal cuore di PadreGheddo, è sicuramente il migliore contributo per veicolare il mes-saggio umano e religioso di Padre Cesare Pesce.

Leggo nell’introduzione dell’autore: “Questo libro dovrebbeessere letto soprattutto dai giovani. È un libro di avventure nonromanzesche ma reali che dovrebbe suscitare il desiderio di percor-rere le strade del mondo, avvicinare altri popoli, spendere la vita nelgettare ponti di comprensione e di aiuto verso i continenti e l’uma-nità più lontana”.

Auspico veramente che il ricordo vivo di Padre Pesce sospingaqualcuno a raccogliere il testimone di chi nella vita ha preso sul serioil Vangelo.

+ MARTINO CANESSA

Vescovo di Tortona

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CRONOLOGIAdi padre Cesare Pesce tratta dai suoi testi

1919 - Nasce a Novi Ligure il 26 settembre daMichelangelo (sacrestano della Collegiata di NoviLigure, morto nel 1955) e da Ernestina Montessoro,morta poco più di un anno dopo la nascita di Cesare,ultimo figlio preceduto dal fratello Natale (nato nel1906) e dalla sorella Maria (nata nel 1912 e morta nel2001).

1930 - Entra nel seminario diocesano di Tortona per laprima ginnasio. Nel 1937, dopo il liceo, entra nelPime a Milano per gli studi teologici.

1942 - Ordinato sacerdote il 29 marzo dal card. Schuster,per un anno è prefetto degli alunni dell’Istituto aMonza, poi mandato ad aiutare nella parrocchia diAlzate Brianza (Como), dove si interessa dei perse-guitati politici e degli ebrei, aiutandoli a fuggire inSvizzera. Ricorda che “nell’ultimo anno di guerra,sulle colline della Brianza (1945), strano partigianosenza fede politica, invece di ammazzare le stupiderepubblichine, le facevo scappare a casa loro a farela calza, firmato ‘Comitato di Liberazione’” (Stradedella Vita, pag. 12).

1944 - Mons. Lorenzo Maria Balconi, superiore generaledel Pime, dice a padre Pesce che è destinato inBengala: si prepari a partire appena finita la guerra.

1945 - Dopo la fine della guerra è destinato viceparrocoalla parrocchia di San Rocco a Voghera, provinciadi Pavia ma diocesi di Tortona.

1948 (18 aprile) - Padre Pesce, a San Rocco di Voghera, partecipaattivamente alla campagna elettorale per la D.C.(vedi Strade della Vita, pag. 11).

1948 (10 ottobre) - Parte da Genova a Napoli e poi a Port Said; a

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Bombay il 4 novembre: in treno a Nagpur eCalcutta e poi ancora in treno e in barca a Dinajpur,dove arriva il 14 novembre (Pakistan orientale).

1949 (1° gennaio) - Pesce attraversa il confine fra Pakistan e India e siferma a Mal Bazar, dove vive con il parroco padreGiuseppe Milozzi. Rimane poco più di tre mesi inIndia e nell’aprile 1949 viene espulso dal governoindiano.

1949 - Il vescovo di Dinajpur, mons. Giuseppe Obert,accoglie padre Cesare nella casa episcopale perimparare l’inglese e il bengalese.

1950 - A giugno padre Pesce va a Daulighat (Nariampur),paese in mezzo alla giungla, per imparare il santulprima con padre Luigi Martinelli, poi con padreFerdinando Sozzi.

1951 - Il vescovo di Dinajpur nomina padre Pesce diretto-re del collegio e della scuola di Dinajpur (dove vivecon padre Stefano Monfrini) e incomincia la scuolasuperiore della missione per suggerimento delNunzio. Rimane a Dinajpur fino al dicembre 1951,quando finiscono le scuole. Poi chiede egli stesso diandare in una missione fra la gente e il vescovo loaccontenta.

1952 (1° gennaio) - Raggiunge Ruhea, una missione quasi abbandonatache deve rilanciare: è l’unico prete. Vengono poicon lui i padri Luigi Verpelli, Luigi Carrea e MarioAlvigini, che sarà il suo successore a Ruhea.

1955 - Muore il papà di padre Cesare che era sacrestanodella Collegiata di Novi ligure (Alessandria, diocesidi Tortona).

1956 - Padre Pesce accoglie a Ruhea fratel MassimoTeruzzi, un fratello col carisma di curare i malati:aveva contratto la lebbra e accoglierlo in missioneera un atto di coraggio. Massimo si dedica alla curadei malati, specialmente dei lebbrosi, con grandecarità e spirito di sacrificio.

1957 - Negli ultimi anni della sua permanenza a Ruhea,padre Cesare avvicina i Khotryio, popolazione indùdi bassa casta che promette di farsi cristiana. Poimuore il figlio piccolo del “thakur” (santone) che

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guida il movimento e si mormora che questa è lavendetta degli dei perché i Khotryio abbandonanola fede indù. La conversione dei Khotryio sfuma inun attimo: una grande delusione per Cesare!

1960 - Primo ritorno in Italia a marzo, ci rimane otto mesie mezzo. Riparte il 10 dicembre e arriva in Bengalail 20 dicembre: pochi mesi in Italia lo avevano fattoaumentare di 15 chili! Ritorna a Ruhea, ma si accor-ge che il giovane padre Alvigini fa molto bene echiede al vescovo di lasciare a lui la missione.

1963 - Il 19 luglio muore a Dinajpur, in concetto di santi-tà, fratel Massimo Teruzzi, compagno di missionedi padre Pesce, lebbroso ed eroe della carità.

1963 - Padre Pesce va a Thakurgaon a iniziare una nuovamissione.

1965 - All’inizio dell’anno Cesare incomincia a costruire lanuova chiesa di Thakurgaon, ma poco dopo scop-pia un conflitto fra India e Pakistan e il governato-re della provincia ordina a tutti gli stranieri diabbandonare il paese. Il vescovo di Dinajpur richia-ma Pesce e, invece di mandarlo in Italia, lo mandain una missione vicina alla capitale Dacca, lontanadalla frontiera con l’India.

1965 (15 dicembre) -Pesce scrive da Mothbari (Dacca) a mons.Pirovano. Da tre mesi è in una missione dispersanella giungla non lontano dalla capitale, con unanziano missionario americano che ha problemi dicuore. È responsabile di una grande scuola e inven-ta per gli alunni cristiani un concorso, per stimolar-li a conoscere la Bibbia.

1966 - In estate, cessato ogni pericolo di guerra, ritorna aThakurgaon e rilancia la sua iniziativa intitolata“Bible Contest by Correspondence”, Concorsobiblico per corrispondenza. Con l’aiuto della cate-chista suor Vincenza, prepara uno schema di rego-le chiare e precise per i partecipanti, con le normedel concorso, gli esami finali, i premi, ecc. Stampacentinaia di volantini e li manda a tutte le parroc-chie e organizzazioni diocesane di Dinajpur: ricevein breve più di mille adesioni e iscrizioni, dalle

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scuole elementari fino alle superiori e agli adulti.1968 - Il vescovo di Dinajpur, mons. Giuseppe Obert, dà

le dimissioni. La Nunziatura avvia l’inchiesta fra isacerdoti diocesani per comporre una terna di nomifra i quali scegliere il nuovo vescovo. Padre CesarePesce risulta il primo della terna fra i diocesani: ilvescovo poi sarà scelto fuori diocesi, il bengalesemons. Michael Rozario, oggi arcivescovo di Dacca.

1969 - Il superiore generale del Pime, mons. AristidePirovano, richiama temporaneamente Pesce inItalia per dirigere l’associazione “Mani Tese", natanel 1963 al Centro missionario del Pime a Milano.

1969 - In maggio padre Cesare diventa segretario di ManiTese a Milano, ma intanto si iscrive alla PontificiaUniversità Lateranense a Roma e ottiene il diplomadi teologia pastorale con specializzazione catecheti-ca, che gli servirà molto in Bengala. Nell’infuocatoambiente “sessantottino”, padre Pesce non si è piùadattato, specie in “Mani Tese”, che sembrava stes-se sfuggendo di mano agli Istituti missionari: tra-sformandosi da associazione fondata dai missionariper aiutare i progetti di sviluppo delle missioni, ingruppi politicizzati per “la liberazione dei popolipoveri”.

1970 (novembre) - Cesare arriva a Dinajpur dall’Italia e il vescovo lomanda a Mariampur, dove vive i tempi drammaticidella lotta per l’indipendenza del Bengala dalPakistan, da cui nasce il Bangladesh. A Thakurgaonè andato padre Mario Alvigini.

1971 - Nel marzo 1971 scoppia la rivolta dei bengalesicontro l’esercito pakistano. Il 17 aprile, in India, ungoverno provvisorio in esilio proclama l’indipen-denza del Bangladesh, riconosciuta dal governoindiano il 6 dicembre 1971.

1973 - Nel marzo 1973 il vescovo chiama padre Pesce aDinajpur per metterlo a capo del “Centro catechi-stico diocesano". Risiede nella Bishop’s House,continuando anche a lavorare nella parrocchia diMariampur.

1974 (marzo) - Pesce finisce il suo impegno a Mariampur e si stabi-

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lisce a Dinajpur per il Centro catechistico diocesa-no

1975 - A maggio il vescovo lo manda a sostituire il parro-co di Saidpur, mantenendo ancora l’incarico didirettore del Centro catechistico diocesano.

1977 - 8 gennaio – Dopo una breve vacanza in Italia allafine del 1976, riparte da Roma per il Bangladesh; il14 gennaio è a Dinajpur (Lettera a mons. Meriggidel 25 gennaio 1977).

1977 maggio - È nominato parroco di Saidpur, dove già si recavala domenica per ministero; continua a mantenere lacarica di direttore del Centro catechistico diocesa-no.

1979 - P. Pesce stampa la prima edizione del volumettoStrade della vita (con la prefazione dell’amico fran-cescano padre Nazareno Fabbretti), paga le speseacquistando un certo numero di copie, che affida aldirettore del Centro missionario diocesano diTortona, mons. Libero Meriggi, perché le vendarealizzando qualcosa per la sua missione (la secon-da edizione è del 1989).

1979 (inizio luglio) -Lascia la parrocchia di Saidpur e si trasferisce aPathorgata, dove rimane fino al 1995.

1981 - Tra maggio e luglio padre Cesare ritorna rapida-mente in Italia, per visitare la sorella gravementeammalata.

1988 - A Natale 1988, il vescovo di Dinajpur, mons.Theotonius Gomes, consacra a Pathorgata il primoprete della parrocchia e anche il primo oraon delladiocesi di Dinajpur: 36 anni, “contadino di nascitae di carattere, quindi tenace nelle sue idee”: unuomo di fede che rappresenta una delle massimesoddisfazioni e consolazioni spirituali del ministerodi padre Pesce in Bangladesh.

1989 - «Il Popolo» del 16/7/89 scrive che padre Pesce “èrientrato nella sua città... da dove mancava dal1981”. Ancora su «Il Popolo» del 5 novembre 1989c’è la notizia che Pesce ancora una volta è ripartitoper il Bangladesh. Il 31 ottobre 1989 egli scrive daPathorgata a mons. Meriggi: “Eccomi da quattro

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giorni finalmente alla mia vecchia Pathorgata...”. 1992 - Nel marzo-maggio 1992, la diocesi di Dinajpur e i

missionari del Pime organizzano feste e celebrazio-ni in onore di padre Pesce per il suo cinquantesimodi sacerdozio. Prima l’hanno festeggiato i pretilocali ed esteri, con i catechisti; una settimana dopo,festa alla casa del Pime a Dacca, alla presenza ditutti i quaranta membri dell’Istituto e del Nunzioapostolico; infine la solenne e festosa giornata diaugurio a livello della diocesi di Dinajpur, volutadal vescovo locale.

1992 - In luglio ritorna in Italia per problemi di ischemiacardiaca, pochi mesi dopo ritorna in Bangladesh,nella sua Pathorgata.

1995 - In aprile è ricoverato alla clinica Gulsan di Dhakaper l’operazione di ernia inguinale. In maggio èobbligato a tornare in Italia per convalescenza eriposo.

1995 - Durante la vacanza in Italia, riceve l’offerta di assu-mere una parrocchia sull’Appennino Ligure, mapadre Cesare ritorna in Bangladesh, come raccontalui stesso in una intervista a fratel MassimoCattaneo.

1995 (Natale) - Il vescovo mons. Theotonius gli chiede di diventareparroco di Kalisha, per riportare pace nell’ovile enei prossimi quattro anni il lavoro non gli manca.

1998 - In ottobre p. Pesce è in Italia: a Novi Ligure riceveil Premio “La Torre d’Oro” dal Municipio e dalcentro studi “In Novitate”, come cittadino che piùsi è distinto nel corso dell’anno. Ritorna subito inBangladesh, prima di Natale, perché deve prepara-re la festa per l’ordinazione del primo prete dellaparrocchia di Kalisha.

2000 - Il 1° gennaio viene inaugurato il santuario marianodi Rajarampur vicino a Dinajpur e p. Pesce nediventa il primo rettore.

2002 - In febbraio padre Cesare ritorna in Italia e muore il13 luglio dello stesso anno a Rancio di Lecco, nellacasa di riposo del Pime. È sepolto a Novi Ligure.

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INTRODUZIONE

Giunto al termine di questa biografia, la rileggo e dico a mestesso: ma Cesare era meglio di come tu lo descrivi! È vero quelche padre Nazareno Fabretti scrive nella prefazione al suo libroStrade della Vita (che riporto nell’ultimo capitolo): “I missionarisono quasi sempre di più e meglio dei libri che li celebrano”. Glido pienamente ragione. D’altra parte, quello che Fabretti nonsapeva, e io invece l’ho sperimentato tante volte, è questo: ingenere i missionari scrivono poco, le loro lettere non sono con-servate e quando muoiono, il loro ricordo si perde in fretta inquelle giovani Chiese, formate appunto da giovani. Infatti dopo15-20 anni è già cambiata una generazione e quella successiva nonricorda più; i confratelli, sempre travolti dalle emergenze, sonoanch’essi poco propensi a conservare ricordi e documenti del pas-sato.

* * *

Quindi, scrivere le biografie dei missionari, se non si vuol faropera di agiografia buonista, è una consolazione (perché ci sonodavvero bei personaggi), ma anche una disperazione. Il caso dipadre Ferdinando Sozzi, missionario in Bangladesh e parroco aMariampur di padre Pesce, è esemplare. Quando è morto a 75anni (1977), tutti dicevano che era un santo; qualche anno primaera stato in vacanza in Italia e l’avevamo intervistato e ascoltato alungo: sapeva raccontare così bene le sue avventure di missione,che noi giovani non ci stancavamo mai di sentirlo; dava a tuttigrandi esempi di preghiera, mortificazione, amore al suo popolobengalese.

Quando morì mi sono proposto di scriverne la biografia, madopo alcuni mesi di ricerche e di contatti per farmi mandare sue

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lettere o testimonianze di chi l’aveva conosciuto in Bengala, hodovuto desistere. Il materiale trovato nell’Archivio generale delPime a Roma, presso i parenti e fra i confratelli in Bangladesh erascarsissimo. L’unica vera sintesi della sua vita era il “servizio spe-ciale” con la sua lunga intervista, pubblicato su «Mondo e Mis-sione» dopo molte difficoltà (lui non voleva fosse stampato) e poiristampato tre volte in estratto 1, perché era piaciuto moltissimo:è stato uno dei più bei testi in «Mondo e Missione» (e, prima del1968, in «Le Missioni Cattoliche») nei miei 35 anni di direttoredella rivista. Non c’era altro materiale da aggiungere per una bio-grafia!

Cesare Pesce scriveva molte lettere, quasi tutte andate disper-se, eccetto quelle conservate dal Centro missionario diocesano diTortona. Per fortuna, altrimenti questo volume non avrei potutoscriverlo. E mi rimprovero perché delle lunghe conversazioni cheho avuto con Cesare quando era tornato in Italia nel 1969-1970come segretario di “Mani Tese” (anch’io ero in quel movimentocome animatore), non mi è rimasto nulla, non ho scritto nulla.Era un momento difficile nella sua vita: dopo venti e più anni diBengala era stato chiamato dai superiori a dare qualche anno perun servizio all’animazione missionaria in Italia. Era venuto volen-tieri, all’inizio si era impegnato, ma in “Mani Tese” e nel “Sessan-totto” italiano non si trovava affatto (si leggano i motivi al capi-tolo III). Ecco perché discuteva con me e con altri missionari, siconfidava, esprimeva i suoi sentimenti e la sua sensibilità di mis-sionario in modo a volte commovente, perché si sentiva radical-mente contro-corrente rispetto alla linea dei gruppi giovanili (enon giovanili) di “Mani Tese” in quegli anni: lui aveva esperien-za molto concreta dei popoli poveri, gli altri erano ammalati dischematismo ideologico, che Cesare non poteva soffrire.

Si discuteva volentieri con lui. Eppure non ho scritto né con-servato nulla di quei mesi. Ma trent’anni fa, chi andava a pensa-re che il Centro missionario di Tortona mi avrebbe chiesto di scri-vere la biografia di “Pesciolino”?

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1 GHEDDO P., BORDIGNON S., I miei 44 anni di Bengala, “Mondo e Missio-ne”, ottobre 1974, pp. 501-522.

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* * *

Credo però che quanto c’è in questo libro è più che sufficien-te per tramandare il ricordo di un missionario di non comuneumanità e anche santità. Oltre alle lettere e alle interviste, che hoampiamente usato, padre Pesce ha lasciato anche tre volumi (Lestrade della Vita, Bangladesh Jindabad! e Pack up and go) nei qua-li ricorda la sua esperienza di immersione nella terra bengalese,“la sua capacità di dialogo con tutti, il suo farsi amico e fratellodel prossimo superando ogni discriminazione, relativizzandosituazioni in modo a volte scanzonato, con grande cuore e carità,strappando a noi sorrisi e lacrime, suscitando un’ondata diimmensa simpatia”. Così il grande amico mons. Libero Meriggi,per lunghi anni direttore del Centro missionario diocesano diTortona, nella prefazione del secondo volume citato.

Leggendo questi racconti, mi sono sentito crescere dentro lacommozione per la sua bontà e disponibilità verso tutti. Nulla inlui di straordinario. Ricorda situazioni comuni ai missionari, inte-ressante è come le viveva: più da bengalese che da italiano, da“prete scugnizzo” come lo definiva un amico prete tortonese, da“uomo nato e maleducato a Novi Ligure”, come scriveva lui stes-so. Insomma, una personalità originale e complessa, a volte fuoridalle righe, spregiudicato o scanzonato, ma sempre fedeleall’ideale cristiano e missionario a cui ha dato la vita e soprattut-to sereno e pieno di gioia.

Ho pubblicato alcuni di questi testi al termine del presentevolume, altri li lascio alla curiosità di chi vorrebbe saperne di più:presentano bene l’ambiente e la gente fra cui padre Pesce vivevae lavorava. Egli racconta le sue avventure col tono ottimistico delvero missionario, che avendo consacrato la vita a Gesù Cristo:non è mai scoraggiato, prende tutto in senso positivo, trovando ilati buoni anche nelle situazioni più difficili.

Quando ha già superato la “terza età” ed è sistemato benenell’antica missione di Saidpur, il vescovo lo manda a Pathorgatadove parroco e fedeli non vanno d’accordo, sono nati contrasti efastidi per la diocesi (“il vescovo era in un ginepraio”, scriveCesare). Il parroco dà le dimissioni e Pesce deve andare a tenta-

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re di sistemare le cose. Sa cosa lo aspetta: oltre alle difficoltà fisi-che, gente poco malleabile e rivoltata contro la Chiesa. Entra nelvillaggio cristiano in bicicletta. Tempo di piogge, strade che sonofiumi di fango in mezzo ai campi di riso. “Ogni cento metri mifermavo a togliere il fango tra il parafango e la ruota” scrive, magiunge finalmente a destinazione: “Che malinconia! Dalla splen-dida chiesetta di Saidpur, forse la più bella chiesa del Bangladesh,ad uno stanzone fatto di fango e lamiere; poi nella canonicacostruita di fango e pezzi di mattone non intonacati, nemmenoimbiancati di calce. Oscurità, tetraggine”.

"Così, aggiunge, lasciati i piccoli comforts che può offrire lacittà, trovo fango e campi di riso, strade impossibili e capanne dipaglia e bambù”. Però è in foresta dove ci sono “alberi e uccellie fiori, fiori... Orrido e bello. Immensamente bello, Dio mi ha sca-raventato qui a cogliere i fiori, non le spine. Lo so già che perimpossessarmi dei fiori dovrò pur lottare con le spine. Forse sarànecessaria qualche goccia di sangue. Naturale. Ma ne vale la pena:inebriarmi del profumo di questi fiori, anche se punzecchiato daqualche spina maligna della jungla”. Conclude: “Non so neppu-re io da dove incominciare. Che avverrà? I miei amici musulma-ni rispondono in arabo: “Wallaha a’am” (Solo Dio lo sa). Io dicoin italiano: “Qualche santo provvederà”. E va a dormire tranquil-lo. Questa l’immagine e la sintesi più significativa di Cesare Pesce.

Altrove scrive: “Sono sempre stato contento di essere unseguace di Teilhard de Chardin, definito da Paolo VI ‘un uomoindispensabile del nostro tempo’. E cerco di autoconvincermi cheogni avvenimento che mi riguarda è sempre il migliore per me eper gli altri”.

* * *

Interessante, nella vita di padre Pesce, il senso di ammirazio-ne che ha per indù e musulmani. Certo non si addentra a parlaredei problemi che oggi crea il mondo islamico per l’Occidente cri-stiano (terrorismo, ecc.), ma semplicemente esprime i suoi senti-menti vivendo per lunghi anni la vita del suo popolo contadino,che è in grandissima maggioranza islamico. Non è un ingenuo,

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conosce benissimo i limiti e i vizi dei bengalesi, dell’islam e del-l’induismo (qua e là li ricorda, li descrive), ma è veramente inna-morato del suo popolo, come ogni missionario è o dovrebbe esse-re. Innamorato perché? Perché vivendo immerso nelle vicendequotidiane del Bengala viene a contatto con le persone, vede ecomprende la loro umanità, le loro sofferenze, i loro sentimentipiù profondi. Non può “parlare male di loro”, come dice lui stes-so quando gli viene chiesto, in una vacanza italiana, di descriverela miseria e la fame del popolo! Lui si rifiuta e scrive che gli ita-liani mangiano troppo e il loro cibo è più pesante e fa meno benedi quello bengalese…

Un’altra volta, scrive che si è fermato a sentire le storie didiverse giovani donne (“poveracce”) che si narrano le loro disgra-zie, i loro timori mentre sono in attesa della “zakat”, l’elemosinache si distribuisce ai poveri al termine del mese di Ramadan.Quelle donne, accoccolate per terra, “si raccontano storie pienedi dolori: mariti morti in giovane età, mariti senza cuore scappa-ti chissà dove con altre donne, figli e figlie perduti perché emigra-ti nelle città più grandi in cerca di lavoro, padri in prigione.Un’antologia di racconti buttati giù al vivo, in un dialetto dolce eondulato con tutte le sfumature, le espressioni dialettali dellaregione, resi più impressionanti dai gesti stanchi delle mani, daglisprazzi di luce dei loro occhi neri bellissimi. È meraviglioso, inmezzo a tutto quel dolore, il fortissimo sentimento religioso dirassegnazione, di sottomissione alla volontà di Allah, il misericor-dioso, il sostenitore degli afflitti”.

Caro padre Cesare, ecco la grandezza della tua umanità. Ticommuovi se incontri una persona sofferente, anche se non l’haimai vista prima. Il Bengala è proprio la tua patria, quello benga-lese il tuo popolo. La tua vita era davvero orientata a trasmetterea quel popolo la convinzione che tutto dipende da Dio, che ilsegreto di una vita serena è vivere intensamente questa dipenden-za dall’Onnipotente e Misericordioso Padre di tutti gli uomini.

Uno degli elementi più caratteristici di Cesare Pesce è la suareligiosità non pietistica, non trionfalistica. Sa benissimo ed è piùche convinto che i bengalesi e i tribali (oraon, santal, munda,mahali, ecc.) hanno bisogno di Gesù Cristo: altrimenti non sareb-

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be andato in Bengala né vi avrebbe lavorato per 54 anni! Ma haquasi pudore a dirlo, a proclamarlo. Credo che questo derivi dalsuo grande rispetto per la persona umana e dal privilegiare il dia-logo nell’annunzio di Cristo ai non cristiani. La proposta evange-lica voleva che fosse una vera “proposta” (cioè che lascia libertàdi scelta), senza nessunissimo elemento che sapesse di “imposi-zione” o di “sopraffazione”. L’importante, per lui, era essere ami-co di tutti e dialogare con tutti, specie con i più lontani, come gliindù di casta e i musulmani; e naturalmente dimostrare loro, conla vita, come pensa e agisce un cristiano.

Ci sono in proposito diversi episodi molto significativi, qua elà nella sua biografia. Credo che questo sia uno dei suoi insegna-menti più profetici e attuali. La missione ad gentes, infatti, tra-montato il tempo del trionfalismo, vediamo che sta orientandosisempre più in questo senso.

* * *

Questo libro dovrebbe essere letto (e fatto leggere) soprattut-to dai giovani. È un libro di avventure non romanzesche ma rea-li che dovrebbe suscitare il desiderio di percorrere le strade delmondo, avvicinare i popoli altri, spendere la vita nel gettare pon-ti di comprensione e di aiuto verso i continenti e l’umanità piùlontana. Viviamo nel tempo della globalizzazione e la sfida è l’in-tegrazione tra i popoli e le culture, il dialogo fra le religioni, latestimonianza e l’annunzio di Cristo di cui tutti gli uomini e tut-te le culture hanno bisogno. Questi i grandi ideali da trasmettereai giovani d’oggi. Non in un modo teorico, astratto, ma appuntopresentando biografie di missionari come questa, capaci di farsognare e di dare un orientamento altruistico all’esistenza.

Ci chiediamo sempre cosa dobbiamo fare per i popoli altri,diversi, poveri, in via di sviluppo o sottosviluppati. E si parla qua-si sempre e solo di soldi, soldi, soldi: finanziamenti, debito este-ro, commerci, prezzi delle materie prime, trasferimento di tecno-logie, ecc. Tutto giusto e necessario. Ma se non c’è incontro fra-terno, dialogo e scambio fra i popoli, se non ci sono più (o dimi-nuiscono di numero) giovani capaci di dare la vita (o parte della

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vita) per gli altri, tutto il resto vale poco, conta poco. L’ha dettoGesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vitaper i propri amici” (Gv 15, 13).

Non riesco proprio a capire come mai, quando si parla di aiu-ti ai popoli poveri anche in giornali e libri e congressi fatti da cat-tolici, i missionari non sono mai (o quasi mai) ricordati, almenocome promotori di sviluppo. Giovanni Paolo II nell’enciclica“Redemptoris missio” scrive (n. 58): “Lo sviluppo di un popolonon deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali,né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscien-ze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi. È l’uomo ilprotagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica. La Chie-sa educa le coscienze rivelando ai popoli quel Dio che cercano manon conoscono, la grandezza dell’uomo creato ad immagine diDio e da Lui amato, l’eguaglianza di tutti gli uomini come figli diDio, il dominio sulla natura creata e posta al servizio dell’uomo,il dovere di impegnarsi per lo sviluppo di tutto l’uomo e di tuttigli uomini….”.

Il Papa aggiunge: “La Chiesa ha sempre saputo suscitare, nel-le popolazioni che ha evangelizzato, la spinta verso il progressoed oggi i missionari più che in passato sono riconosciuti comepromotori di sviluppo da governi ed esperti internazionali, i qua-li restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati conscarsi mezzi…”.

Ebbene, anche in campo cattolico tutto questo è spessodimenticato nel dibattito, oggi attualissimo, sul “che fare?” perun’autentica solidarietà con i popoli poveri! I missionari testimo-niano con la loro vita (e padre Cesare Pesce lo dimostra in que-sta biografia) che la chiave dello sviluppo di un popolo è l’educa-zione, la formazione, l’introduzione in culture che stentano adadeguarsi al mondo moderno di quei princìpi che sono alla basedella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dell’ONU(1948) e di tutto il progresso moderno: valore assoluto della per-sona umana, eguaglianza di tutti gli uomini, democrazia, giustiziasociale, superamento di ogni divisione di casta e razzismo, dirittidell’uomo e della donna, sentimento del perdono e del gratuito,la dignità di ogni lavoro umano anche materiale, ecc.

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Valori che, è quasi superfluo ripeterlo, vengono dalla Paroladi Dio, dal Vangelo e dal modello divino-umano di Gesù Cristo(non si trovano in nessun’altra filosofia, cultura o religione del-l’umanità); e sono alla radice del “progresso”, dello “sviluppo”dell’uomo e dell’umanità. Anche se è vero che noi, popoli cristia-ni, non siamo affatto un esempio concreto di questi valori evan-gelici! Ma questo è responsabilità e colpa nostra, non del Vange-lo. Se noi fossimo cristiani migliori, l’abisso fra Nord e Sud delmondo non esisterebbe o sarebbe in via di rapida soluzione…

Ecco perché la “missione alle genti” della Chiesa, a cui Cesa-re Pesce ha consacrato la propria vita, è oggi più che mai attuale;e perché questa sua biografia si propone come testo da leggere edibattere per approfondire la conoscenza dei popoli diversi,attraverso un modello di approccio evangelico, di cui oggi tuttinoi, ma specialmente i giovani, abbiamo bisogno.

Per concludere, ringrazio la diocesi e il centro missionariodiocesano di Tortona che mi hanno chiesto questa biografia di unconfratello del Pime; il vescovo di Tortona per la cordiale prefa-zione; e ringrazio tutti coloro che mi hanno inviato lettere diCesare, testimonianze su di lui, fotografie e correzioni al testo cheho mandato a tanti per questo scopo. Auguriamoci che la cono-scenza di questo grande missionario possa fare del bene: anchenella nostra Chiesa italiana, con duemila anni di cristianesimo allespalle, lo spirito missionario è, specialmente, oggi più che maiindispensabile.

Milano, giugno 2004PIERO GHEDDO

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1.DA NOVI LIGURE AL BENGALA

Tortona è una delle diocesi più estese del Piemonte, che scon-fina in Lombardia e in Liguria; ha una grande tradizione missio-naria e un Centro missionario diocesano fra i più dinamici. Nel1988, il vescovo di Tortona, mons. Luigi Bongianino scriveva 1:

Il cuore missionario tortonese ha fatto pervenire il suo sostegno ainnumerevoli terre di missione. E l’apporto più vitale è stata l’ope-ra dei suoi membri, fattisi missionari e missionarie, al fianco disacerdoti diocesani e di laici impegnati. È stato soprattutto nelperiodo postconciliare che l’azione missionaria ha avuto un’impen-nata, favorita dalle richieste di Vescovi di missione.

La vocazione da libri e riviste missionari

Il Pime è riconoscente alla diocesi di Tortona, che ha dato seipadri missionari al nostro Istituto. Tre hanno lavorato in Bangla-desh: Cesare Pesce (1919-2002), Luigi Carrea (1928-1993) eMario Alvigini (1930-1991); uno in India e Stati Uniti, GiulioCancelli (1920-1985); due sono ancora viventi, Mario Scacheri inBrasile del sud (1922-) e Pietro Belcredi, prima in Guinea-Bissaue oggi in Amazzonia brasiliana (1937). Superfluo aggiungere chedalla diocesi di Tortona la Chiesa missionaria e il Pime si atten-dono anche oggi altri missionari e missionarie. La missione alle

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1 Nella prefazione al libro Tortona Chiesa missionaria pubblicato nel Nata-le 1988 in omaggio a mons. Libero Meriggi, “autentico innamorato delle mis-sioni e dei missionari”, per lunghi anni direttore del Centro missionario dioce-sano.

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genti infatti è cambiata molto dopo il Concilio Vaticano II 2, maal Pime (e agli Istituti missionari) continuano a giungere continuerichieste di personale da parte di vescovi locali dei territori dimissione.

Cesare Pesce nasce il 26 settembre 1919 a Novi Ligure (Ales-sandria), sull’Appennino ligure-piemontese dove “soffiano i ven-ti salmastri del Mediterraneo”, come scrive lui stesso in una let-tera dal Bangladesh, quando soffocava nel caldo torrido dell’esta-te bengalese, prima delle piogge monsoniche. Suo padre Miche-langelo era sacrestano della Collegiata di Novi Ligure e vi rimaseper quarant’anni fino alla morte nel 1955. La madre, ErnestinaMontessoro, muore un anno dopo la nascita di Cesare, ultimofiglio preceduto dal fratello Natale (1906-1957) e dalla sorellaMaria (1912-2000).

La mamma era religiosissima, ma ha lasciato scarse tracce nel-la vita di Cesare, che viene educato fino all’età di tre anni dalla“santa zia” paterna, Carlottina Massa, “donna semplice e grandeche portava nell’animo tutte le virtù della sua gente fraschettana 3,sublimate da una fede eroica”: così la presentava il canonico prof.Raffaele Massa, in un articolo scritto sul mensile «La Lacrimosa»nel 1942, per l’ordinazione sacerdotale di padre Pesce 4.

Accanto a lei, nel contatto dell’animo suo mite e religioso, nei misti-ci silenzi della vecchia Pieve, Cesare maturò la vocazione sacerdota-le, che poi si perfezionerà in vocazione missionaria nell’atmosfera dipietà della Collegiata e nei seminari diocesani.

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2 Nel 2003 ho pubblicato il volume La missione continua - Cinquant’anni aservizio della Chiesa e del terzo mondo (San Paolo 2003, pp. 265) per ricordarei miei cinquant’anni di sacerdozio missionario: descrivo come ho visto cambia-re la missione e perchè i missionari sono sempre e ancor più necessari, anche seimpegnati in ambienti e lavori spesso diversi da quelli del passato.

3 Anche il nipote, futuro padre Cesare, era “figlio della terra novese, piùpropriamente, figlio della laboriosa, fedele e religiosa Fraschetta, la Vandea diNovi”.

4 Testimonianza ripubblicata nell’opuscolo Premio Torre d’Oro 1998 - NoviLigure a padre Cesare Pesce, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere(1948-1998), pp. 3-4.

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Un altro testimone della fanciullezza di padre Pesce, prof.mons. Franco Remotti, direttore dell’Istituto magistrale “Pietri-ne”, così scriveva nel 1942:

Don Cesare, ti conobbi nella tua precoce orfananza e ti seguii neltuo passaggio nelle scuole elementari. Eri un fanciullo pio, ordina-to, studioso, un po’ solitario e sognante. Sembrava che sfiorassiquelle aule, che sorvolassi quegli anni, tanto ti era facile l’apprende-re. Entrato in ginnasio nel seminario di Stazzano, divenisti più sere-no e la tua intelligenza vivace, specie nel liceo a Tortona, si affermònelle varie discipline, ma più particolarmente nelle composizioni ita-liane ricche di vera poesia”.

Ecco due caratteristiche che molti ricordano di padre Cesare:un uomo poetico e “sognante”. Anche per questo, oltre che perla fede e l’amore a Cristo naturalmente, è rimasto fedele alla voca-zione missionaria vivendo 52 anni in Bangladesh: non è facile,nemmeno oggi, essere missionari nel mondo dei poveri, se non sisa prendere la vita con poesia e purezza di cuore.

Anche il canonico G. Balduzzi, della Collegiata, ha conosciu-to da giovane padre Cesare e l’ha mandato in seminario nel 1930,quando aveva undici anni. Così lo ricordava nel 1942:

Al termine del liceo il suo spirito è ancora irrequieto. Mentre leggelibri e riviste missionarie, e ascolta i missionari reduci quando parla-no della loro vita meravigliosa passata in terre lontane, si appassionaper la sorte della moltitudine di infedeli, dei reietti della società. Ilsuo cuore si infiamma, l’orizzonte par si dilati ai suoi sguardi: è quel-la la sua vita. All’insaputa di tutti si mette in relazione col Superioregenerale delle Missioni Estere, l’arcivescovo Lorenzo M. Balconi;chiede, insiste, vince ogni difficoltà, è ammesso nel Pime di Milano.

Interessante notare che in Cesare Pesce la vocazione missio-naria nasce leggendo riviste e libri missionari, e ascoltando i mis-sionari reduci quando raccontano “la loro vita meravigliosa pas-sata in terre lontane”. Questa l’esperienza comune di tutti noi, acui il buon Dio ha concesso il grande dono della chiamata alle“missioni estere”. Difficile capire perché oggi non pochi libri e

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riviste missionari, e a volte gli stessi reduci dalle missioni, invecedi raccontare la loro “vita meravigliosa in terre lontane” trasfigu-rata dalla fede e dalla poesia, hanno preso orientamenti politiciz-zati e secondo le mode ideologiche correnti, che non scaldano ilcuore e non suscitano passione per l’annunzio di Cristo a queipopoli infelici, che ancora non lo conoscono.

“Tutta la mia vita per Gesù”

Poco conosciamo della giovinezza di padre Cesare, come stu-dente e seminarista. Un testimone privilegiato di quegli anni è donBenedetto Padrini, sacerdote diocesano di Tortona nato a NoviLigure nel 1920 e ordinato nel settembre 1942, oggi parroco aBorghetto Barbera (AL). Nell’ottobre 2003, intervistato da Riccar-da Carrer del Centro missionario diocesano di Tortona, ha detto:

Ho conosciuto da ragazzo Cesare Pesce, eravamo dello stesso pae-se. Cesare aveva un anno più di me ma il canonico Balduzzi, dellaCollegiata, ci ha mandati assieme a Stazzano, nel seminario minoredi Tortona, e abbiamo fatto la vestizione da seminaristi il 4 ottobre1930, davanti all’altare della Madonna Lacrimosa nella Collegiata diNovi Ligure. Siamo rimasti assieme cinque anni nel seminario mino-re. La disciplina era dura, ma avevamo possibilità di fare passeggia-te tra i boschi vicini al seminario, si giocava e si stava allegri. Cesa-re aveva una bella voce e faceva parte del coro. Cantava volentieri,lo chiamavamo “Pesciolino”, aveva un carattere allegro. Dopo ilginnasio siamo passati al liceo nel seminario maggiore a Tortona. Aquell’epoca eravamo tutti balilla e ci sentivamo orgogliosi dellanostra patria, inneggiavamo ai caduti della guerra d’Africa: i raccon-ti delle vittorie in Africa ci entusiasmavano.In seminario avevamo il circolo missionario e io ne ero il presiden-te, con una piccola bibliotechina missionaria, di cui curavo e distri-buivo i libri. Cesare lesse vari libri missionari tra i quali “I miei qua-rant’anni di missione” del card. Guglielmo Massaia e rimase colpi-to dai suoi racconti; ma parlava pure della “tigre del Bengala” per-ché aveva letto racconti di missionari del Pime che lavoravano inIndia. Un giorno Cesare disse a noi compagni che voleva diventare

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missionario ed entrare nel Pime di Milano. I seminaristi non ci cre-devano e, mentre eravamo a passeggio, uno gli dice: “Se davverovuoi fare il missionario, mangia un maggiolino vivo e intero”. Det-to fatto, ricordo bene che Cesare mise in bocca un maggiolino, lomasticò e lo mandò giù nello stomaco. Noi compagni siamo rimastiammirati della sua determinazione, non si fermava nemmeno davan-ti a una prova così difficile per un adolescente!

Nel 1937, dopo il liceo Cesare Pesce entra nel Pime per la teo-logia e don Padrini commenta: “La prima impressione che ebbecambiando di seminario, fu di trovarsi in un mondo libero” e locomunicava ai compagni rimasti a Tortona. “Una cosa che nonaccettava, aggiunge don Padrini, era il bigottismo. Però aveva unsentimento religioso profondo”. Nel Pime compie un “anno diformazione” (sostitutivo del “noviziato” per i religiosi), prima dientrare in teologia. La differenza fra il seminario diocesano e iseminari del Pime l’abbiamo sperimentata in molti. Io vengo dalseminario minore di Moncrivello (archidiocesi di Vercelli), di cuiho un grande ricordo: ottimi superiori, un padre spirituale mor-to in concetto di santità (don Secondo Tagliabue, poi vescovo diAnglona e Tursi, oggi Tursi-Lagonegro, in Basilicata), forte edu-cazione alla pietà e ai sacrifici richiesti a chi sceglie la via dellaconsacrazione totale a Dio, ma anche un certo “perbenismo” eformalismo che da ragazzo, a ripensarci oggi, non mi pesavanoaffatto, perché quella era l’atmosfera, la cultura generale. La dif-ferenza l’ho colta entrando in prima liceo nel Pime nel settembre1945. Provai la stessa reazione che don Padrini riferisce a CesarePesce: “La prima impressione che ebbe cambiando di seminario,fu di trovarsi in un mondo libero”.

Come precisare meglio questa differenza, interessante percapire dove e come nasce il missionario? Nel seminario diocesa-no si mirava a formare il sacerdote adatto per la Chiesa italiana diquel tempo: in un ambiente di “civiltà cristiana”, con un popolobattezzato al 98%, una pratica religiosa e un codice morale fissa-ti una volta per sempre, una liturgia solenne ma quasi imbalsama-ta, l’attività pastorale del prete di parrocchia stabilita nei minimiparticolari e con tendenza al formalismo, due millenni di santatradizione da trasmettere ai giovani.

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La formazione del missionario, almeno 60-70 anni fa era moltodiversa (oggi poi la “globalizzazione” cambia di nuovo tutto!): tificcavano in testa che tu eri l’esploratore di nuovi spazi antropolo-gici e culturali, il fondatore di nuove comunità cristiane in ambien-ti totalmente “pagani”; che dovevi abituarti a vivere da solo, a ba-stare a te stesso; che la tua fede e la tua pietà dovevano essere au-tentiche, personalizzate, altrimenti andavi incontro al fallimento.Il nostro eroe e “mito” era padre Clemente Vismara (prossimobeato) che, giunto in Birmania a 26 anni (nel 1923), il vescovo diKengtung lo porta a cavallo a 120 chilometri dalla sede episcopa-le, sta con lui tre mesi aiutandolo a costruirsi una capanna di pa-glia e fango, gli lascia poche rupie e lo abbandona dandogli la suabenedizione e dicendogli che deve darsi da fare. Clemente scrive-va in una lettera: “Se voglio incontrare un altro cristiano nel rag-gio di cento chilometri, debbo guardarmi allo specchio”.

Interessante la lettera che Cesare Pesce scrive al Superioregenerale del Pime, mons. Lorenzo M. Balconi, per chiedere l’am-missione al Pime5:

Il sottoscritto, alunno del Seminario vescovile maggiore di Torto-na... domanda di essere ammesso nel PIME, per dedicarsi totalmen-te alla salvezza delle anime in terra straniera. “Tutta la mia vita perGesù e per la salvezza delle anime!”. Questo è stato il mio sogno dapiù di quattro anni ed ora, col permesso del mio direttore spiritua-le, sta per diventare dolce realtà. Come esulterà il mio cuore se leg-gerà d’essere stato accettato a far parte della famiglia dei valorosieroi di Cristo Redentore!

Questa la richiesta ufficiale di ammissione nell’Istituto missio-nario. Ma Cesare manda a Balconi un’altra lettera con i documen-ti necessari per essere accettato e si scusa perché non è riuscitoad avere il permesso del vescovo 6: “Sono stato già tre volte a Tor-

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5 In data 13 settembre 1937. Documento conservato nell’Archivio genera-le del Pime di Roma, come tutti quelli citati qui di seguito riguardanti la vita dipadre Pesce da giovane seminarista e sacerdote.

6 Il permesso del vescovo Cesare lo manda il 19 settembre seguente.

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tona per parlare con Sua Ecc.za, ma mai lo potei trovare. Adessogli ho scritto ma non ho ancora ricevuto risposta. Scriverò ora amons. vicario generale...”. Nella stessa lettera Cesare aggiunge:

Il consenso della mia famiglia è unanime: anzi i miei familiari sonoassai contenti di avere un figlio dedicatosi totalmente alla salvezzadelle anime. Mio padre, le assicuro, è contentissimo. Spero di veni-re domenica a Milano con mio fratello.

Il 18 aprile 1948 a Voghera

Cesare Pesce è ordinato sacerdote dal card. beato IldefonsoSchuster nel Duomo di Milano, il 26 marzo 1942. Erano gli annidella II guerra mondiale, partire per le missioni era impossibile,anzi il superiore generale del Pime non aveva più notizie dallamaggioranza dei suoi missionari. L’Istituto aveva in quel tempo15-20 nuovi sacerdoti all’anno, che non potevano rimanere neiseminari e case del Pime. Mons. Balconi li mandava come vice-parroci in parrocchie delle loro diocesi, a servizio del rispettivovescovo diocesano secondo la tradizione del Pime7.

Per un anno scolastico (1942-1943) padre Pesce è prefettodegli alunni nel seminario del Pime a Genova-Nervi e l’annoseguente è destinato ad Alzate Brianza (Como), in zona di resi-stenza partigiana abbastanza vicina al confine svizzero. Qui siimpegna con i giovani nell’oratorio e nella pastorale parrocchia-

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7 Il P.I.M.E. di Milano è nato nel 1926 dal precedente “Seminario lombar-do per le missioni estere” fondato nel 1850 a Saronno (Milano) da mons. Ange-lo Ramazzotti (vescovo di Pavia e patriarca di Venezia) e fatto proprio da tuttii vescovi della Lombardia, per inviare in missione sacerdoti e laici diocesani sen-za che diventassero religiosi. I missionari che tornavano in patria per qualsiasimotivo (salute, età) andavano nelle proprie diocesi nelle quali erano rimastiincardinati. Nel 1926 Pio XI crea il Pime, unendo al Seminario missionario diMilano quello di Roma, fondato nel 1871 da mons. Pietro Avanzini per soddi-sfare il desiderio del beato Pio IX. La mentalità dell’Istituto è rimasta quella diprima: essere a servizio della propria diocesi e di quelle che la Santa Sede man-da a fondare fra i popoli non cristiani.

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le, ma partecipa anche alla rete di aiuto ad ebrei e perseguitatipolitici (che venivano fatti fuggire in Svizzera); poi, nell’immedia-to dopoguerra, contribuisce a salvare diversi militanti dellaRepubblica Sociale, uomini e donne, in pericolo di vita. Purtrop-po non rimangono in archivio notizie precise di questa sua attivi-tà clandestina, che egli però ricordava a volte con una certa fie-rezza ma senza lasciarne una descrizione circostanziata 8. In unvolumetto di ricordi così si descrive rapidamente in un’operameritoria di carità 9:

L’ultimo anno di guerra, sulle colline della Brianza, strano partigia-no senza fede politica che, invece di ammazzare le stupide repub-blichine, le faceva scappare a casa loro a fare la calza: firmato“Comitato di Liberazione”.

Nell’estate 1945 mons. Balconi destina padre Pesce alla par-rocchia di San Rocco in Voghera (provincia di Pavia ma diocesidi Tortona), che stava nascendo in quel tempo. Il parroco di SanRocco (dal 1963 al 2000), mons. Manlio Achilli, lo ricorda come

un sacerdote dal carattere sempre allegro, che non si arrendeva maidi fronte alla difficoltà. In uno dei suoi ritorni in patria venne orga-nizzata una cena in suo onore. Padre Cesare, raccontando la sua vitain Bangladesh, disse che doveva costruire il tetto della nuova scuo-la. Tra i commensali si cercò di conoscere la somma necessaria. Cal-colando i costi in Italia, la cifra si aggirava sui 200 o 300 milioni dilire, ma Cesare spiegò che in Bangladesh con sette od otto milionidi lire si poteva fare il tetto. Ebbene, in quella sera stessa venne rac-colta questa cifra, tanta era la stima e l’affetto che i suoi amici diVoghera avevano per lui.

Ernesto Pesce, figlio di Natale, fratello di Cesare, mi dice 10:

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8 Cesare scriveva bene, era geniale nei suoi scritti ma non sistematico. Anda-va avanti per cenni sommari, trascurava le date, saltava da un tema all’altro, ecc.Non rileggeva i suoi scritti o forse era proprio questo il suo modo di esprimersi.

9 Strade della vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989, p. 12.10 Intervista telefonica del 3 settembre 2003.

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A Voghera lo zio era vice-parroco. C’era un parroco anziano, chenon era portato a curare i ragazzi, ma lasciava fare a padre Cesare,il quale ha subito radunati i giovani attorno a sé ed erano davverotanti. Io andavo a trovarlo da Novi Ligure in bicicletta. Lui ha fat-to dal niente l’oratorio, la sala del cinema e altre iniziative. I ragaz-zi di quel tempo sono ancor oggi amici suoi, gli mandavano soldi,ecc.

Uno di questi “Amici di padre Cesare” è il noto attore voghe-rese, Beppe Buzzi. Ricorda con affetto il giovane missionario evice-parroco a Voghera, che ha lasciato un segno profondo nellasua vita.

“Giocava al pallone con noi ragazzi, con le veste arrotolata attornoalla vita. Una volta, arriva una signora che lo chiama perché vuoleparlargli o forse confessarsi. Cesare, srotola la veste, si pulisce lafronte e la mani col fazzoletto e si ritira con la signora per parlarle diDio. Era un uomo generoso, dava tutto per l’oratorio. Una notte siferma con me fino alla quattro di mattino per dipingere un fondaledel teatro e dato che le canne dell’acqua erano gelate e i rubinettinon davano acqua, prendiamo della neve e la fondiamo per diluire icolori e finire il lavoro. Era un prete che si faceva voler bene”.Il giornalista Antonio Airò scrive 11: padre Cesare “è stato nell’im-mediato dopoguerra viceparroco a San Rocco di Voghera e sonomolti i vogheresi – oggi tra i quaranta e i cinquant’anni (allora ragaz-zi, giovani e signorine dell’oratorio) – che ricordano questo sacer-dote dalla barba sale e pepe, sempre allegro e pronto allo scherzo,alla battuta piena di humour. E don Cesare ricorda con commozio-ne e nostalgia Voghera”.

Infatti padre Cesare ha sempre avuto nostalgia dei pochi annitrascorsi a Voghera, “con il solito massacrante e gradito lavorodell’oratorio e dell’Azione Cattolica, che mi faceva quasi dimenti-care l’eventualità della partenza per le missioni”. Infatti scrive 12:

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11 Il Giornale di Voghera, 8 ottobre 1981.12 Strade della Vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989, p. 11.

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Mi trovavo davvero bene a Voghera! È una bella cittadina con tan-ta brava gente. S. Rocco, poi, era un angolo privilegiato. In canoni-ca il vecchio parroco, un eccezionale gran brav’uomo, intelligente eistruito, quanto semplice e umile; la sua cugina, padrona di casa,una santa non troppo bisbetica. In oratorio, un nugolo di ragazzimeravigliosi che, più che al catechismo, si arrangiavano per strap-pare, nelle finali, le coppe ai “pulcini” della Vogherese e, sui palchicittadini, gli applausi della folla. Negli “slums” (baraccopoli) dell’Il-va, giovanotti e ragazze si prodigavano ad alleviare la miseria diquella povera gente venuta da chissà dove. E poi, il 18 aprile del1948, con tutto il lavoro e il sonno regalati a De Gasperi. Giornatebellissime al Sanrocchino.

Anche qui, come in altri suoi scritti, Cesare lascia un po’ conl’amaro in bocca. Vorremmo saperne di più della sua partecipa-zione alle lotte strapaesane che hanno preparato il 18 aprile 1948:ma lui se la cava con una semplice battuta. Quando ho visitatopadre Pesce a Rajarampur, nel settembre 2001, nel santuariomariano (“St. Mary Shrine Village”) dove ha trascorso i suoi ulti-mi anni bengalesi, a pranzo ci siamo raccontate le vicende dellanostra vita passata. Io sono nato dieci anni dopo di lui (nel 1929),ma avevamo ambedue un forte ricordo di quella primavera 1948- lui già prete, io ancora seminarista - quando la Chiesa italiana siimpegnò fortemente a fianco della Democrazia cristiana, per evi-tare il pericolo di scivolare democraticamente dietro la “Cortinadi Ferro”! Cesare raccontava che a San Rocco di Voghera, in par-rocchia ma soprattutto nell’oratorio maschile, erano mesi febbri-li di lavoro diurno (per gli impegni pastorali) e notturno, a servi-zio della DC!

L’Azione Cattolica cittadina, di cui Cesare era l’assistente par-rocchiale, condusse un’azione sistematica porta a porta, famigliaper famiglia, e poi con l’affissione di manifesti e manifestini,occupando tutti gli spazi liberi sui muri. Ma il problema princi-pale, diceva Cesare, era di impedire che i nostri giovani e uominivenissero a contatto fisico con quelli della parte opposta, speciedi notte quando potevano esplodere scazzottature feroci, da evi-tare ad ogni costo. Ricordo che diceva:

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Siamo giunti ad un accordo sulla parola col comitato elettorale delFronte popolare, sulla base di questi due punti: proibito strapparei manifesti della parte opposta per attaccarci i propri; e stare alla lar-ga da un gruppo avverso già in attività in una strada o piazza. AVoghera non è successo nulla di grave, come in altre cittadine o pae-si, ma il mio compito non era facile: da un lato dovevo animare inostri e dare motivazioni anche religiose al loro impegno, dall’altrotenerli calmi quando c’erano, o pareva ci fossero, provocazioni oviolazioni degli accordi.

Nel mitico Bengala delle foreste e delle tigri

Il 1948 è l’anno della partenza di padre Pesce per il Bengala, acui Cesare era stato destinato nel 1944 da mons. Lorenzo M. Bal-coni. Prima di partire ha avuto una piccola crisi di rigetto della vo-cazione missionaria “alle genti”. I sei anni trascorsi come sacerdo-te diocesano in due parrocchie l’hanno passionalmente coinvoltonei problemi del popolo italiano, gli hanno fatto vedere il bisognoenorme di sacerdoti con spirito missionario qui in Italia:

Nell’attesa, troppo lunga attesa, il Bengala, tanto desiderato qualchetempo prima, s’andava ammantando di nuvolaglie così fitte da nonfarsi più scorgere. Il Bengala, con le sue tigri, con i suoi milioni diindù e musulmani mezzo-morti di fame? Andare laggiù ad arrostireal sole, a battere i denti con la malaria in corpo? E chi me lo fa fare?Vada a farsi friggere il Bengala con tutti i suoi bengalesi 13.Cesare passa giorni e notti nel dubbio: andare in Bengala o

rimanere in Italia, a Voghera? “Brutte ore, brutti giorni, vissuticome in un’eclisse di sole”. Ma ecco, all’improvviso, uno spiragliodi luce. Una domenica, nel cortile dell’oratorio, una ragazza gli siavvicina timida 14, si guarda attorno perché nessuno senta e arros-

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13 Strade della vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989, pp. 11-12.

14 La ragazza si chiamava Elisa Croci, poi Missionaria dell’Immacolata colnome religioso di suor Ancilla, partita fra le prime per il Bangladesh nel 1954 eancor oggi al lavoro in quella giovane Chiesa.

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sendo gli confida: “Don Cesare, ho una cosa da dirle. Io vorreiandare missionaria. Lei cosa ne dice?”. Un fulmine folgora il mis-sionario incerto: ma come? Una ragazzina del popolo vuol farsimissionaria e tu che già lo sei vuoi tirarti indietro? La lotta per lafedeltà alla chiamata di Dio è finita: è Dio stesso che ha messosulla sua strada quella brava ragazza, che senza saperlo ha fattoritornare in sé il missionario pieno di dubbi e di tentazioni.

Poco dopo riceve dal Pime di Milano la cartolina precetto: “Sipartirà da Genova ai primi di ottobre. Preparati e trovati pron-to”. Ogni distacco ha il sapore della morte, “Nessuno s’è maisognato di cantare in versi allegri la partenza”. Ma Cesare ormainon ha più dubbi, ha superato la prova, è tornato il prete allegroe coraggioso che è sempre stato.

Il 10 ottobre 1948 parte con altri missionari da Genova sullamotonave “Taurinia”: alcuni vanno in India, altri in Bengala. Unasosta a Napoli, poi a Pompei e infine i missionari salutano l’ultimolembo d’Italia che scompare, con la prospettiva di non tornare piùindietro, com’era normale a quei tempi. Prime fermata a Port Saidin Egitto, poi a Porto Sudan e infine a Massaua in Eritrea, anticacolonia italiana ora sotto amministrazione inglese. Scendono e suimuri trovano scritte che dicono: “W Italia!”. Un nero

si avvicina e con un largo sorriso, mettendo in mostra i suoi bellis-simi denti bianchi, dice: “Tu italiano? Bello! Italiani stare qui? Bel-lo! Italiani dire ‘porco’, dare calci nel culo, ma dare sempre pane!Inglesi non dire ‘porco’, non dare calci, ma non dare mai pane...”.Lui, da uomo pratico, tra i due preferiva i primi.

Il 4 novembre la Taurinia attracca a Bombay, “la porta del-l’India”. I missionari destinati alle missioni del sud India (stato diAndhra Pradesh) sono arrivati. Invece, padre Cesare e i suoi quat-tro compagni 15 che vanno in Bengala (allora Pakistan orientale)

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15 Padre Angelo Maggioni (1817-1972), ucciso ad Andarkota (Bangladesh)il 14 agosto 1972; p. Luigi Oggioni (1916-1955) morto a Milano dopo la brevemissione in Bangladesh il 26 marzo 1955; padre Luigi Pinos (morto a Raishahiil 20 giugno 2001) e padre Luigi Scuccato, quest’ultimo ancora al lavoro a Bene-edwar in Bangladesh.

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sono respinti dalle autorità indiane di frontiera: hanno solo ilvisto d’ingresso in Pakistan, lo stato islamico nato dalla partizio-ne dell’India al momento dell’indipendenza (15 agosto 1947),quindi nemico dell’India. I cinque missionari hanno due alterna-tive: o tornano in Italia o vanno a Karachi in Pakistan. Ecco unintoppo a cui, in Italia, nessuno aveva pensato. Due giorni di con-segna sulla Taurinia che getta l’ancora al largo, piantonati da poli-ziotti indiani. Poi si muove il vescovo ausiliare (che poi sarà il pri-mo cardinale indiano arcivescovo di Bombay), mons. ValerianoGracias, e il Console d’Italia: riescono a ottenere un permesso diandare in treno verso il Bengala pakistano: Bombay – Nagpur –Calcutta. Un viaggio da incubo per i giovani missionari che esco-no dall’Italia per la prima volta e non avevano mai visto gli aspet-ti affascinanti ma anche le miserie estreme dell’India: fame, folledi mendicanti e di lebbrosi, gente che dorme sui marciapiedi, nel-le stazioni... e poi,

vacche sacre che passeggiano indisturbate per le vie, donne cheimpastano la bovina nei crocicchi, uomini che, accovacciati, orina-no indisturbati ai lati delle vie, migliaia di corvi che gracchianoassordanti sui tetti delle case...

A Calcutta sono ospitati fraternamente dai “Christian Bro-thers”, missionari irlandesi. E poi, in treno, in barca e a piedi,all’inizio di dicembre arrivano a Dinajpur. Finalmente in missio-ne, nel mitico Bengala di Khammamuri e Tremal-Naik, che Cesa-re aveva solo immaginato leggendo i libri avventurosi di Salgari(il quale, però, non c’era mai stato)!

La vita missionaria nella quale si immerge padre CesarePesce, quando il 14 novembre 1948 arriva con i suoi compagni aDinajpur, era radicalmente diversa da quella attuale. Oggi un gio-vane missionario del Pime che giunge dall’Italia in Bangladesh hadavanti a sé un anno o due di tempo per adattarsi al clima, al ciboe ai costumi locali; in un apposito “Centro studi” apprende la lin-gua bengalese (definita “l’italiano dell’Asia” per la sua musicali-tà), le religioni e i costumi locali; inoltre, ha la possibilità di visi-tare tutte le stazioni missionarie disperse nel vasto territorio del-

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la diocesi di Dinajpur e di altre, dove lavora il Pime 16, per ren-dersi conto delle varie situazioni e parlare con i confratelli. Nonsolo, ma oggi il missionario del Pime va in Bangladesh dopo alme-no un anno di studio e di pratica dell’inglese nella sede dell’isti-tuto a Detroit e in una parrocchia degli Stati Uniti (dopo averlogià studiato per almeno quattro anni in Italia).

Un furto definito “opera di carità"

Gli anni trenta e quaranta del secolo scorso (quindi il 1948quando padre Pesce va in missione) sono visti come l’AnticoTestamento del mondo missionario. Cesare, come i suoi compa-gni di quel tempo, non sapeva quasi nulla di inglese, veniva diret-tamente dall’Italia (il primo viaggio che faceva all’estero) e igno-rava del tutto il bengalese. Eppure, meno di un mese dopo che èa Dinajpur il vescovo lo destina a Mal Bazar, una missione nellavicina India, che dipendeva ancora dalla diocesi di Dinajpur inPakistan orientale! È vero che là c’era un anziano padre del Pime,ma destinare un giovane missionario oltre confine in un paesecome l’India (indù), nemica dichiarata del Pakistan (islamico), eraun azzardo non da poco, una sfida alla Provvidenza che però pro-tegge specialmente i giovani missionari non ancora ambientati equindi facili a commettere errori madornali. Questa era la forma-zione ardua e ruvida che veniva data nelle missioni ai novellini,buttati là in situazioni difficili, per vedere come se la cavavano: sispiega quindi perché, come ho già detto, agli alunni dei seminarimissionari si ficcava bene in testa che dovevano imparare a vive-re da soli e bastare a se stessi, sia da un punto di vista spirituale(una pietà non formale ma autentica, profonda), sia in campomateriale (arrangiarsi in ogni situazione).

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16 La diocesi di Dinajpur (fondata nel 1927) ha dato origine alle diocesi diJalpaiguri (nel 1952) e di Dumka (nel 1962) in India; e alle diocesi di Khulna(nel 1956) e di Rajshahi (nel 1990) in Bangladesh. Eppure oggi è ancora estesa17.500 chilometri quadrati (due volte la Basilicata, più di tre volte la Liguria),mentre l’archidiocesi di Milano, forse la più estesa in Italia, conta 4.243 kmq.

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Occorre notare l’assurdità della situazione di padre Pesce,vista con gli occhi e la mentalità di oggi. Viene mandato in Indiamentre doveva lavorare in Pakistan; va con un vecchio e santomissionario col quale avrebbe dovuto imparare l’inglese, l’hindi el’oraon, oltre che adattarsi al clima, cibo, costumi… Ma questaera, a quei tempi, l’accoglienza riservata ai giovani missionari.

Pesce racconta la piccola avventura di una suora di MariaBambina, sua compagna di missione, quando era giunta dall’Ita-lia sapendo solo poche parole di inglese: “bella come tutte leragazze italiane”, scrive. Giunge a Bombay in nave e deve prose-guire in treno, con le sue sorelle, verso Calcutta. Viaggio intermi-nabile e le tre giovani suore dopo un po’ hanno appetito. Il tre-no si ferma in una stazione e lei guarda fuori per acquistare delcibo. Vede un giovanotto che tira un carretto sopra il quale cisono, tra l’altro, dei pezzi di formaggio (così almeno pensava lei,invece era sapone da bucato!). “Grazie, Gesù, pensa, qui si trovaanche il formaggio!”. Consulta il suo piccolo vocabolario italia-no-inglese e poi dice: “Please, give me a kiss!”. Naturalmentevoleva dire “cheese” (cioè formaggio): sapeva che il doppio “ee”si pronunzia “i”, ma ignorava che il “ch” in inglese si pronunzia“c” e non “k”! Il giovanotto sente che quella bella ragazza bian-ca vuole un “kiss” (cioè, un bacio), non ci pensa due volte e subi-to l’accontenta: balza sul treno, l’abbraccia e le stampa due beibacioni sulle bianche e rosse guance paffute, senza che lei abbiail tempo di rendersi conto di cosa sta succedendo.

Il giovanotto ride contento, mentre la suorina grida in italia-no fra l’ilarità dei presenti: “Farabutto, vigliacco! Che razza dipaese è mai questo? Il paese dei mascalzoni?”. Il giovanotto capi-sce di averla fatta grossa e se ne va in fretta, mentre la suora, tut-ta mortificata, si rannicchia sul suo sedile e una donna seduta vici-no a lei le spiega, più a gesti che a parole, che “kiss” vuol dire“bacio”, mentre cheese (pronunzia “ciis””) vuol dire formaggio...Queste le avventure dell’”inculturazione” che i missionari speri-mentavano a metà del secolo scorso.

Padre Cesare resiste in India tre mesi, poi viene espulso sen-za danni. Ma di questo diremo in seguito. Interessa invece, percapire il personaggio, conoscere come ha passato il mese di

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dicembre 1948 a Dinajpur, appena arrivato in Pakistan e prima diandare in India. Uno si immagina che il giovane “Pesciolino”,ignorante delle lingue e di tutto il resto, se ne stia tranquillo eobbediente, guardando a cosa fanno gli anziani e senza prenderenessuna iniziativa personale. Macché, neanche per sogno! Cesaresi guarda attorno, vede la povertà di mezzi che ha la missione e siaccorge che, a poca distanza dalla sede del vescovo, c’è il palaz-zotto abbandonato di un “raja” indiano (ricco proprietario terrie-ro) che nell’estate precedente era fuggito dal Pakistan orientaleverso l’India, temendo le rappresaglie dei musulmani contro gliindù 17. L’antica residenza era ridotta ad uno stato deplorevole inpochi mesi, dopo la stagione delle piogge: le erbe selvatiche, isemi dei pioppi e del cotone selvatico trovano la loro strada ininvisibili fessure, germogliano, affondano le radici tra mattone emattone e rapidamente, aggrovigliandosi come serpi, salgono sultetto trasformandolo in un giardino pensile. Una pacchia per glisciacalli e le termiti.

Padre Cesare e i suoi giovani compagni di viaggio vedonoche, dopo le distruzioni delle lotte nella divisione con l’India, tut-te le missioni sono in piena attività per riparare o ricostruire scuo-le, cappelle, dispensari medici, residenze per preti e suore e l’or-fanotrofio della missione a Dinajpur. La difficoltà principale,oltre che la cronica scarsezza di denaro, è trovare il ferro e ilcemento. Padre Cesare visita con un altro missionario il palazzot-to del raja indiano: entrano e vedono che una parte dello stessosta crollando e una grossa putrella di ferro spunta dalle macerie;altro ferro che sostiene muri e scale è libero, se rimane sul postoarrugginisce inutilmente.

Ecco l’impresa. I cinque missionari entrano nel palazzo conpicconi e badili e rendono trasportabili la putrella e altri utili rot-tami e tondini di ferro. Sollevano un gran polverone, ma nessunodice niente. I contadini che lavorano nei campi vicini guardano

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17 È noto che la divisione fra India e Pakistan nell’estate 1948 ha causatodagli otto ai dodici milioni di morti ammazzati. Si fermavano i treni carichi diprofughi, da una parte e dall’altra del confine, e tutti venivano passati per learmi: ma è solo un esempio.

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stupiti e un po’ timorosi: “Forse gli spiriti degli antenati del rajasono venuti a distruggere il loro palazzo, per non lasciarlo inmano ai musulmani?”. Il problema poi è di trasportare quel pre-zioso materiale nella missione. Bisogna agire di notte, ma non èfacile in una città di frontiera con l’India, percorsa continuamen-te da poliziotti. I giovani missionari ne parlano a tavola per con-sultarsi. Il vicario generale si oppone: “Questo è un furto bell’ebuono” e cita moralisti autorevoli ma che, in quella situazione,appaiono superati. I giovani rispondono: “Usare i beni superfluie abbandonati a beneficio dei poveri è un’opera di carità”. Ma ilvicario continua: “Se la polizia vi prende sul fatto, sarete condan-nati e la fama della missione resterà infangata per sempre”.

Il vecchio vescovo assiste divertito al dibattito e taglia la testaal toro citando un antico proverbio: “Il mondo è bello perché èvario. Fate come vi detta la vostra coscienza”. In pratica è unasorta di benedizione per l’impresa. Che viene messa in atto la not-te stessa. Tutto va bene fino all’ultimo, quando si è finito di lega-re e bisogna tirare per qualche centinaio di metri il tesoro più pre-zioso, la lunga e pesante putrella. Mentre stanno per iniziarel’operazione, i cinque “ladri per amore” sentono dei passi che siavvicinano. I poliziotti! Li vedono in lontananza, sono due e conle scarpe, fatto strano nel Bengala di quel tempo. I tre missiona-ri più vicini ai campi fanno a tempo a saltare il muretto di cintae si disperdono arrivando in missione più tardi. Cesare e un altrosono in trappola: rimangono fermi “come stoccafissi fino all’arri-vo dei due rompiscatole”.

All’ultimo momento, ecco l’idea luminosa. Seminascosti dietro icespugli che costeggiano la strada, caliamo le braghe e, vergognosi,restiamo accovacciati in quella posizione così poco decorosa, maindiana al cento per cento! Nessuno oserà mai disturbare un citta-dino in tale delicata circostanza. Là vicino a noi spunta la testa del-la putrella con la grossa corda attorcigliata: sembra un serpente col-pito a morte. I due poliziotti arrivano, si fermano e scrutano nel-l’oscurità, parlottano fra di loro, si guardano alle spalle un po’ per-plessi e, più in fretta di come sono venuti, proseguono decisi il lorocammino. Che cosa hanno pensato e si sono detti lo sa solo Allah,ma prima che sorga il sole tutto è sistemato, con la grossa putrella

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nascosta in un fossato dell’orfanotrofio in attesa di essere sistemataper sostenere la nuova casa dei bambini abbandonati.

Con un parroco così, bisogna rigare dritto

A mezzanotte del 31 dicembre 1948 padre Cesare Pesce staandando in treno dal Pakistan orientale all’India. Pensa ai suoiamici di Novi Ligure e di Voghera: in questa notte magica, orga-nizzano cenoni, mangiano il panettone, stappano bottiglie di spu-mante, fanno un po’ di baldoria per salutare l’anno nuovo 1949;altri sono in chiesa a pregare, anch’essi in un’atmosfera di gioia.Cesare invece è su un vecchio treno sferragliante, “un lurido tre-no che puzza orrendamente di tabacco, di orina, di sudore”. Cosafa? Prega? Sì, ma vorrebbe festeggiare l’anno nuovo e non sacome fare: bere qualcosa? ha solo un po’ di té che sa di erbe mar-ce. Parlare con qualcuno per condividere la ricorrenza? Non sale lingue e poi, guardando quelli che gli sono vicini, pensa: “Pove-retti, forse non sanno neppure che un altro anno se n’è andato”.Certamente “mi prenderebbero per uno svitato che gira il mon-do. Per carità – conclude – meglio far silenzio e tenermi i mieipensieri e sentimenti ben nascosti”.

Il mattino seguente, quando giunge alla stazione di Mal Bazar,nessuno lo attende. In qualche modo riesce ad arrivare alla missio-ne cattolica, ma il parroco è assente. Però c’è il cuoco factotum chegli dà qualcosa da mettere sotto i denti e poi gli fa visitare il centrodella missione, comprese la nuova scuola e la nuova chiesa ancorain costruzione, “costruite in cemento economicamente armato”; ela vecchia chiesa di bambù e paglia, col tetto di lamiera. Alla seraarriva il parroco, padre Giuseppe Milozzi 18. Lo vede e gli dicetutto d’un fiato, senza dargli tempo di interloquire:

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18 Per capire che tipo era padre Milozzi (1895-1983), ricordo che quandonel 1964 sono andato a trovarlo nella sua missione di Damanpur nel nord Ben-gala indiano (diocesi di Jalpaiguri), avevo avvisato per tempo che visitavo le mis-sioni del Pime in India col permesso dei superiori e come giornalista e diretto-re delle riviste dell’Istituto (ero andato in India con Paolo VI). Alla stazione del

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Lei dunque sarebbe il Pesce, vero? Ieri ricevetti la lettera del vesco-vo. Da che parte viene dell’Italia? Dalla Sicilia, vero? (Pesce avevacapelli, barba e occhi nerissimi, n.d.r.). Non importa, io sono mar-chigiano. Ma anche i siciliani sono brava gente, e intelligente, sesono riusciti a creare la mafia... Bene, bene, ma mi dica: ha fatto ladoccia, ha mangiato qualcosa? È a casa sua. Qui, se si lavora, simangia pure...

Il “Pesciolino” capisce subito che, con un parroco così, biso-gna rigare dritto e rendersi utile. Rimboccate le maniche, lavoracon i muratori per gettare le fondamenta della nuova chiesa.Milozzi

è l’architetto, l’ingegnere, il capomastro, il datore di lavoro, tuttal’anima di questa faccenda e io l’aiuto come mezza cazzuola. Mipesa un poco, dico la verità. Ma con questo meraviglioso tipaccio diprete operaio lo sgobbare diventa un piacere.

Al mattino celebra la Messa alle cinque e mezzo e poi serveMilozzi mentre celebra la sua Eucarestia (allora non c’era ancorala concelebrazione). Alle sette in punto si incomincia a lavorare esi va avanti tutta la giornata. Nei ritagli di tempo padre Cesareimpara un po’ di inglese e un po’ di hindi (la lingua nazionale del-l’India, che poi nel Pakistan bengalese non servirà più). A pran-zo e a cena “è uno spasso sentirlo parlare delle sue avventure”,ma intanto lo studio delle lingue langue per mancanza di tempo.

Ma per Milozzi quei giorni passati sfaticando come muratoredebbono servire al giovane missionario come un esercizio lingui-stico. Per cui, venti giorni dopo che è arrivato, un sabato sera ilparroco gli dice: “Domani è domenica, sarà meglio che lei inco-

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treno nessuno mi aspetta. Con un “risciò” vado alla missione e sulla porta d’en-trata trovo questo biglietto scritto in italiano: “Il padre Giuseppe Milozzi èandato a visitare i villaggi e tornerà a Damanpur quando il missionario-turista-giornalista se ne sarà andato. Padre Giuseppe Milozzi”. Naturalmente è scrittoper nessun altro che per me, unico italiano nel giro di non so quante decine dichilometri. Per fortuna un catechista mi apre la porta della missione e le suoremi danno da mangiare!

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minci ad ascoltare le confessioni della gente”. Cesare rispondeche non sa assolutamente le lingue e l’altro ribatte:

Come, non le ha ancora imparate, dopo un mese di studio? Io, laprima domenica del mese faccio la predica in kuruk (oraon), laseconda domenica in sadri, la terza e la quarta in hindi. Se vedo chec’è un buon numero di santal, aggiungo un pensierino anche in san-tal. Imparare una lingua è la cosa più banale di questo mondo, ècome scrivere un libro. Si tratta solo di volontà. Ogni sera, prima dicoricarmi, quando nessuno viene a rompere le scatole, io leggo, stu-dio, scrivo. Così ho prodotto un catechismo in kuruk e due librettiin hindi, ora sto scrivendone un altro sulla famiglia cristiana. Ripe-to, si tratta soltanto di volontà.

Pesce lo guarda un po’ confuso e scrive: “Dice tutto lui... Ilbello è che non soltanto dice, ma anche fa”. Nei tre mesi cherimane in India, padre Cesare ha anche il tempo di visitare i mis-sionari del Pime nel nord Bengala indiano (diocesi di Jalpaiguri).Nella missione di Nagrakata, fondata dai missionari del Pimeall’inizio del 1900, riesce a fare una visita in Bhutan, il misteriosoregno indipendente dall’India, sulle pendici della catena dell’Hi-malaia, tra foreste secolari. Trova un popolo ancora immerso nel-la vita naturale e visita alcuni villaggi oraon cristiani:

Credo che siano i soli cristiani del paese. Vivono attorniati da unapace infinita, forse la pace che cercano gli europei, assillati dallacontinua ricerca e bramosia di agi effimeri. Qui c’è l’amore purodella Natura, della grande Madre, la Terra, sempre madre anchequando castiga con siccità o alluvioni... Il tramonto scende velocesull’Himalaia, creando una splendida sera d’Oriente.

Poi visita la foresta di Chalsa in India, proprio nel territoriodella missione di Nagrakata: un parco naturale in cui sono con-servate molte specie vegetali e animali già scomparse in altre par-ti dell’India 19.

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19 Ho visitato anch’io questa parte dell’India (nel 1964), in compagnia dipadre Tarcisio Manfredotti, passando una notte di luna piena in un “bungalow”

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Uno spettacolo inimmaginabile, scrive padre Pesce. Alberi di tuttele forme e dimensioni, le cui cime lussureggianti di foglie formanoun’incantevole enorme pittura policroma, che ti ricorda la scenadella creazione. Scimmiette che giocano sulla strada, al rumore delcamion scappano e, nascoste dietro i cespugli, ci osservano con iloro occhietti pensosi. Uccelli dalle piume bellissime volano via,quasi timorosi di essere contaminati dalla vista dell’uomo. Ad una svolta, ecco cinque casette di legno su palafitte altissime. Ilmaestro mi spiega che quelle sono le abitazioni dei tagliatori di albe-ri e dei piccoli impiegati forestali. Per difendersi dalle tigri e daglielefanti costruiscono così le loro case. Per entrare ed uscire si ser-vono di una scala di legno, che gettano dall’alto e ritirano immedia-tamente dopo l’uso. Immerse così in quest’aria balsamica, sono cer-tamente le abitazioni più salubri del mondo. Qui ci vorrebbe Celen-tano, a cantare le sue prigioni di cemento…

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nel parco naturale di Gorumara (presso Chalsha) per vedere gli animali selvati-ci uscire dalla foresta e abbeverarsi nel fiume.

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2.LA PRIMA MISSIONE A RUHEA

Una delle caratteristiche della vita missionaria di padre Pesceè questa: in 54 anni di Bengala, con sei brevi ritorni in patria, ilVescovo lo cambia di posto una decina o dozzina di volte, com-presa la missione di Malda in India per i primi tre mesi. E que-sto, come vedremo, non per un motivo che sarebbe facile imma-ginare: non si adattava bene o non era gradito in nessun posto.Ma proprio per il motivo opposto. Cesare era talmente sereno,con un bel carattere e capace di adattarsi ovunque, che tuttil’avrebbero voluto, ma i Vescovi di Dinajpur (ne ha avuti cinque)lo usavano come un “jolly” per le situazioni difficili. È un trattomolto caratteristico della sua personalità. Fra i missionari non èfacile trovare esempi di questo genere. Ci sono missionari certa-mente bravi e spirituali, che però, quando sono in un posto, guaia toccarli: si attaccano facilmente a tutto e a tutti, diventano ina-movibili. Pesce assolutamente no, era sempre disponibile e obbe-diente; soprattutto sapeva portare la pace dove c’erano divisionie lotte intestine. Aveva una bella personalità, era un personaggionella missione del Pime in Bengala, ma anche molto umile e sen-za ambizioni personali.

“Ma come, non sai ancora il santal?”

Nell’aprile 1949 padre Pesce è rispedito in Pakistan orientaledalle autorità indiane: l’India non ammette, dopo l’indipendenza,altri stranieri sul suo territorio. Deve abbandonare lo studio del-l’indi (in Pakistan non serve) e comincia a studiare il bengalese eil santal. Prima a Dinajpur e due mesi dopo a Daulighat (Mariam-

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pur), dove il vescovo lo manda a “imparare il santal col padreLuigi Martinelli”. Il quale, due mesi dopo, viene trasferito daMariampur e il suo posto è preso da padre Ferdinando Sozzi che,come vedremo, non vuole fare il parroco e dice a Pesce che luinon si assume responsabilità economiche: non firmerà alcundocumento amministrativo. Insomma, nei primi sei mesi di Ben-gala, il povero “Pesciolino” è sballottato da un posto all’altro, daun incarico all’altro, dallo studio di una lingua all’altra, senzasapere ancora l’inglese! Per fortuna aveva un carattere felice emolta fede. Infatti scrive:

Sono sempre stato lettore e seguace di Teilhard de Chardin, defini-to da Paolo VI “un uomo indispensabile”; e cerco di autoconvincer-mi che ogni avvenimento che mi riguarda è sempre il meglio per mee per gli altri.

Interessante (per noi che leggiamo) il viaggio da Dinajpur aDaulighat che Pesce compie in treno e in bicicletta. La distanzaè di circa 90 chilometri, ma lui parte il venerdì mattino e arriva adestinazione la domenica a mezzogiorno! Come mai? Cesare e lasua bici non possono viaggiare sullo stesso treno: lui sale sul tre-no passeggeri, la sua bicicletta sul treno merci. Arrivato alla sta-zione di Parbatipur, rimane una notte in attesa del treno perChorkai, da cui deve proseguite pedalando. Dorme nella salad’aspetto della stazione ferroviaria e il mattino di sabato proseguein treno, ma arriva a Chorkai ben prima della bicicletta. Rimaneuna lunga giornata in attesa nella misera stazione ferroviaria, unasola stanza d’aspetto sovraffollata di povera gente con tutti i suoibagagli. Commenta:

Attendere, parola d’ordine da queste parti. Passano ore e ore d’at-tesa. E tutta questa gente, accoccolata sui talloni, non fa una piega.Abituati da infanti ad attendere il latte della mamma; da bambini adattendere che il papà torni dal lavoro, a sera inoltrata, col fagottinodel riso; da adulti ad attendere che tempi migliori si affaccinoall’orizzonte. Tutta la loro vita è un’attesa!

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Al sabato verso sera, quando il treno merci gli porta la suabicicletta, Pesce pedala fin quando incomincia a far buio, in unmare di fango. Poi si ferma in un villaggio cristiano, perchè nonne può più ed è pericoloso proseguire. Sonno, stanchezza, fame,la voglia di andare subito a letto: ma deve preparare la predicaper il giorno dopo che è domenica, col poco santal imparato indue mesi: un’impresa di vero eroismo. Domenica, celebra la Mes-sa e legge il suo discorsino alla gente, poi si aspetta che qualcunogli faccia le congratulazioni. Per carità! Il capo villaggio gli dice:“Ma come, non sai ancora il santal?”. Vorrebbe mandarli tuttisulla forca, ma si limita a sorridere pensando: “La prossima voltaandrà meglio”. Poi inforca la bicicletta, carica in qualche modotutte le sue proprietà e bagagli legandoli da ogni parte, e

mi butto in quella lunga striscia di melma che si onora di esserechiamata strada. La stagione delle piogge è iniziata e le strade per-dono quel minimo di praticabilità che avevano in primavera. La mia“Bianchi” si fa onore nella corsa campestre di una trentina di chilo-metri: dopo quattro ore taglio il traguardo. Ero il solo concorrente.

Arriva a Daulighat (Mariampur) a mezzogiorno, si lava e sipresenta a tavola con una fame da lupo, ma ecco un’altra delusio-ne. Pranzo domenicale: riso bollito con peperoncino piccante ecavoli anch’essi bolliti. Nient’altro. “Andiamo bene, pensa Cesa-re, se continua così rischio di morire di fame”. Il parroco, tantoper cambiare, non c’è, ma arriva nel pomeriggio e lo porta a visi-tare un villaggio cristiano santal, in bicicletta, seguiti dal grossocane della missione, che viene dal Kashmir. Martinelli e Pesce siseggono sotto un albero a parlare col capo villaggio. Intanto ilcane gironzola attorno e, adocchiata una capra, le salta addosso ela azzanna alla gola uccidendola. Pianti della padrona di casa,occhiate imploranti del capo villaggio.

“Quanto costa questa capra?” chiede Martinelli. “Dieci, dodicirupie pakistane” dice il capo. “Va bene, eccotene quattordici”. Ilpianto della donna cessa all’istante e tutti sono lieti di aver presoparte ad una piccola avventura, grossa variante alla monotonia di

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serate sempre uguali, piatte e sciatte. Tre ragazzotti portano la capraalla cucina della missione.

Padre Cesare è il più contento di tutti. Finisce i tre giorni diviaggio, da Dinajpur a Daulighat (Mariampur), addentando uncosciotto di capra e bevendo addirittura un buon vino da Messa,che il parroco tira fuori per festeggiarlo. “Evviva il cane! pensaCesare. Mi ha vendicato del riso bollito bianco e dei cavoli dimezzogiorno”.

A Mariampur per imparare il santal

La chiesa di Mariampur, in stile dorico, è l’unica chiesa delBengala: sembra un tempio greco antico ed è anche l’unica conun campanile. Meraviglioso! Pesce è entusiasta della chiesa, dipadre Martinelli, dei cristiani e della gente del posto. Aveva que-sta grande qualità: era sempre contento di tutto. Destinato aMariampur, ha avuto la fortuna di vivere con due missionari chela tradizione del Pime in Bengala considera ancor oggi due santi:padre Luigi Martinelli (1901-1968) e padre Ferdinando Sozzi(1904-1977). Commovente la descrizione che Pesce ha fatto diMartinelli:

Mi invitò a visitare il suo dispensario dicendomi: “Ricordati che Gesùera sempre impegnato a curare i malati che lo seguivano con amoree gratitudine”. Si firmava sempre facendo seguire alla sua firma ledue lettere M.O. (ufficiale medico). E quando qualche anno dopo siebbe nel vicino villaggio di Shitolgram un’epidemia di vaiolo tra iMalos, Padre Martinelli convertì immediatamente la sua scuola inlazzaretto per curare i malati. In alcuni casi fu visto addirittura, spin-to dal suo zelo e dalla sua carità, trasportare sulle proprie spalle i ma-lati più gravi e i moribondi dal villaggio al lazzaretto per tentare disalvare dal contagio chi restava. Seguendo l’esempio dei santi, erasempre pronto ad offrire la propria vita per aiutare il prossimo. Dopouna tremenda calamità, un dottore musulmano del luogo gli disse: “Ilfatto che tu sia ancora vivo e non contagiato da questa orribile ma-lattia è una prova sicura della presenza di Dio in te”.

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Padre Martinelli era un uomo che sapeva disseminare amore, tantoin un mendicante come in un re! Un uomo che trascurava tutto,anche la propria vita, per il bene delle sue pecorelle, a partire dalcampo spirituale ma non dimenticando mai i problemi legati allapovertà e alle discriminazioni ormai endemiche.

Nell’estate 1949 il vescovo di Dinajpur, mons. G.B. Anselmo,nomina padre Sozzi parroco a Mariampur, in sostituzione dipadre Martinelli. Il nuovo parroco, padre Ferdinando Sozzi(1904-1977), anche lui un sant’uomo, era un tipo del tutto diver-so. La sua unica vocazione, lo diceva lui stesso, era di fare l’ere-mita, il contemplativo. L’ho conosciuto anch’io e abbiamo pub-blicato nel 1973, quando ero direttore di «Mondo e Missione»,una sua lunga intervista che ebbe un successo strepitoso, ristam-pata più volte in un “estratto” della rivista per circa 30.000copie 1. Padre Sozzi era un uomo di Dio, poetico, carismatico. Ilracconto della sua vita affascina ancor oggi. Padre Pesce scrive:

Molto spesso, nei suoi giri nei villaggi cristiani e non, annunziava laParola di Dio, servendosi anche della sua chitarra e componendodei piccoli canti popolari in lingua santal... Il suo pensiero andavasempre alla piccola capanna, senza alcun conforto, nel piccolo vil-laggio santal di Maldo. Soltanto in quel posto era in grado di trova-re pace con la preghiera e le lunghe ore di meditazione.

Sozzi non voleva assolutamente fare il parroco e avere laresponsabilità delle strutture della parrocchia; si chiedeva: a chidevo obbedire, al vescovo, rappresentante di Dio, o alla miacoscienza, voce di Dio? Passano i giorni e le settimane, con lette-re e visite lampo nel romitaggio di padre Sozzi: niente da fare. Maun bel giorno padre Ferdinando compare a Mariampur e dice a

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1 GHEDDO P. e BORDIGNON S., I miei 44 anni in Bengala – Intervista a padreFerdinando Sozzi, in «Mondo e missione», 1973, pp. 501-528. Dopo la morte diSozzi (11 gennaio 1977) mi ero proposto di scriverne la biografia, ma ho trova-to solo una decina di sue lettere e quasi nessuna testimonianza su di lui nell’Ar-chivio generale del Pime; ho telefonato ai parenti a Saronno e ai confratelli inBangladesh, senza ottenere risposte significative.

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padre Cesare: “Va bene, faccio il parroco ma a due condizioni.Primo, non metterò nessuna firma su un documento importantedella parrocchia. Secondo, non mi occuperò dell’amministrazio-ne economica della parrocchia, che è compito tuo”. Bel tipo dimissionario, no? A Cesare non resta che obbedire, come ha sem-pre fatto.

A Mariampur – scrive padre Cesare – con questo sant’uomo, cheogni notte alle tre esatte si recava in chiesa per prepararsi alla Mes-sa, io ero costretto a seguire il suo esempio e imparare, nell’ammi-nistrazione della parrocchia, che il denaro della Chiesa è denaro deipoveri, altrimenti diventa “escremento del diavolo"! A fianco dipadre Sozzi, che parlava santal meglio degli stessi santal, fui in gra-do di apprendere velocemente la loro lingua, anche se per mia negli-genza in maniera approssimativa. E lui, uomo sempre allegro e ingrado di far sembrare commedia anche una tragedia, imparai comecomportarmi con questi fratelli tanto differenti da me per carattere,mentalità, cultura.

Cesare racconta un episodio significativo del modo di com-portarsi di padre Sozzi. Il primo prete santal ordinato sacerdotedurante la guerra, padre Lambert Kisku, lavora bene per qualchetempo in diocesi; poi si innamora di una ragazza santal e convivecon la stessa, obbligando il vescovo a dimetterlo dall’incarico cheaveva in una parrocchia. Ma cade sotto la legge tribale, moltosevera con chi convive ma non si è sposato secondo la loro tradi-zione. Mentre i capi stanno discutendo su quale punizione inflig-gere al povero Kisku, certamente grave, il vescovo mons. Obert(chiamato “il vescovo baba”, cioè “vescovo nonno") manda aPesce una lettera di raccomandazione ai capi santal e una grossasomma di denaro, pregandolo di usarla per liberare il confratel-lo.

Padre Sozzi dice a Pesce: “Fai quel che vuoi, ma io conoscomolto bene Lambert e Dio lo conosce meglio di me”. Lo saluta ese ne va alla sua capanna, isolata nella foresta, il suo romitaggio:va a pregare e a digiunare tre giorni per Lambert. Cesare agiscecon rapidità e quattro giorni dopo viene a visitarlo in missione ilfratello di padre Kisku, il quale dice: “Tutto è finito bene, è sta-

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to deciso che Lambert potrà tornare libero a casa”. Sozzi è pre-sente e dice: “Sto dormendo in piedi, vado subito a dormire”.Cesare capisce tutto. Le lettere e il denaro del vescovo avevanofatto qualcosa, ma molto più avevano ottenuto un risultato le trenotti che Sozzi aveva passato in preghiera! La storia poi ha avu-to un esito felice: dopo qualche tempo, Lambert è tornato alsacerdozio ed ha ripreso il ministero e l’insegnamento.

“Ciatro Chai”: Vogliamo nuovi studenti

Anche a padre Cesare succede quello che, almeno in passato,era il destino dei giovani missionari: fare da “turabuchi” nellamissione. Il vescovo li spostava spesso, anche per far loro cono-scere le varie situazioni del popolo e della Chiesa. Dopo circa dueanni di lavoro a Mariampur, il vescovo Obert sposta padre Cesa-re a Dinajpur e lo mette a capo della scuola superiore “St. PhilipsJunior’s High School” e di un ostello per giovani che vengono incittà per studiare (“St. Philip’s Hostel”).

Lavoro importante quanto poco gradito, scrive Cesare. Immaginar-si se io, col mio caratteraccio, potevo restare col vecchio prevostodella Cattedrale che a pranzo mi chiedeva: “Come puoi permettereche i tuoi ragazzi, all’uscita della chiesa, guardino le ragazze del col-legio diretto dalle suore?”. Io rispondevo: “Beh, vede, i nostri ragaz-zi sono normali: cioè, mi spiego, non sono omosessuali”. Grossameraviglia del buon vecchio. Quando lui era giovane prete questeparole erano tabù.Un’altra volta successe il finimondo. Un giovanotto della classe VIIIebbe l’infelice idea di impostare una sua letterina rosa in chiesa,proprio sotto la stuoia su cui si inginocchiava una bella ragazzetta 2.La stupidotta non s’accorse di nulla e la lettera rimase là, incustodi-ta, finché venne scoperta dalla suora sacrista. Apriti cielo! La casadi Dio, meglio, la casa del prevosto era profanata da una letterarosa! E il criminale era un ragazzo del collegio, di cui io ero l’inde-

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2 In chiesa non c’erano banchi come in Italia, ci si inginocchiava per terra,con una piccola stuoia sotto le ginocchia.

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gno direttore... Vergogna! Peggio che se quella lettera l’avessi scrit-ta io!

Padre Pesce intanto lavorava bene con i giovani, che defini-sce “splendidi, generalmente anche meglio dei ragazzi del miooratorio italiano”; e ricorda con orgoglio che “alcuni di questiragazzi del convitto St. Philip sono diventati membri importan-ti della comunità cattolica del nostro tempo”. Ricorda pure diaver battezzato diversi dei suoi giovani studenti, dopo un lungocatecumenato, diventati poi catechisti e insegnanti. Ma Cesarevorrebbe innovare parecchio nei metodi dell’educazione giova-nile data in diocesi. Però, in un posto di responsabilità diocesa-na si sente troppo sotto controllo, per un tipo libertario comelui! Le sue proposte sono a volte sospette di “modernismo” e sache se esterna il suo pensiero ha poi finito di star bene e di lavo-rare.

Nel 1952 viene in Bengala il Nunzio apostolico in Pakistan,che era anche arcivescovo di Karachi. È molto contento del lavo-ro che fanno i missionari del Pime, ammira il lavoro degli anzia-ni e loda l’entusiasmo dei giovani, ma rimprovera loro di non ave-re ancora una scuola superiore a Dinajpur; e dà loro questo orien-tamento:

Partite immediatamente con la classe IX della scuola superiore. Tut-to il resto, cioè riconoscimenti, approvazione governativa e aiuti delgoverno verranno come conseguenza. Ma non aspettate di essere inregola per iniziare, adesso è il momento favorevole.

Padre Cesare è entusiasta della proposta e manda subito ingiro nei villaggi santal un piccolo opuscolo stampato dalla missio-ne: “Ciatro Chai” (Vogliamo nuovi studenti), in cui illustra l’ini-zio della scuola superiore e le condizioni richieste per accedervi.Ma non aveva nemmeno avvisato il vescovo, l’anziano, paternoma prudente mons. Giuseppe Obert. Il suo vicario generale, ilruvido padre Francesco Ghezzi, imparte al giovane missionariouna solenne ramanzina e una lunga lezione sulla virtù dell’obbe-dienza, anche se Pesce pensa di aver obbedito al Nunzio che ave-

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va detto: “Incominciate subito, non aspettate il permesso dell’au-torità”. Il Nunzio intendeva l’autorità governativa, sempre lentanel dare i permessi. Ma Cesare, che conosceva bene anche l’auto-rità ecclesiastica, interpreta il suggerimento nel senso secondo luipiù opportuno. Naturalmente, di fronte a Ghezzi si dichiara pen-tito, però la scuola superiore inizia e continua bene e lui ne è con-tentissimo. Così anche Dinajpur ha la sua scuola per la formazio-ne delle élites cristiane.

Passano pochi mesi ed ecco nel dicembre 1951 ancora scattala tradizione del “turabuchi”. Veramente, questa volta è Pescestesso che chiede al vescovo di poter andare in una missione frail popolo. Gli dice che le scuole a Dinajpur sono importantissi-me, ma per questo ci vuole un tipo più in gamba di lui, che nonci si trova. Il vescovo gli dice: “Fa’ il tuo fagotto e va’ a Ruhea”,all’estremo nord-ovest del Bangladesh. Una missione che meritaqualche parola di ambientazione storica, anche perché Ruhea(con la vicina Thakurgaon) è la prima missione in cui padre Pescesi ferma per diversi anni.

“Avevo una casetta piccolina a Ruhea...”

Quando Cesare giunge in Bengala nel 1948, i missionari delPime già vi lavoravano da poco meno di un secolo. Giungono nel1855: partendo da Calcutta dove già c’era un vescovo, salgonoverso il nord e si fermano a Krishnagar dove fondano la primadiocesi del Bengala centrale (poi passata ai salesiani), da cui, inun secolo e mezzo, sono nate altre cinque diocesi: Dumka e Jal-paiguri in India; Dinajpur, Khulna e Rajshahi in Bangladesh.

Nel 1870 viene costituita la prefettura apostolica del Bengalacentrale, con sede a Krishnagar, affidata ai missionari del Pime, lacui meta principale era di “passare il Gange”. Si erano infatti con-vinti che a sud della “Madre di tutti i fiumi”, tra musulmani eindù di forte fede e tradizione religiosa, era molto difficile annun-ziare Gesù Cristo e ottenere conversioni. Nel nord, invece, fra gliaborigeni “animisti” abitatori delle foreste (santal, oraon, munda,pahari, risi, ecc.) era più facile fondare la Chiesa.

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La storia del Pime in Bengala è un’avventura affascinante ecommovente 3. Al tempo della colonizzazione inglese il Bengalaera chiamato “la tomba degli uomini bianchi”. Numerosi missio-nari italiani del Pime (e le suore di Maria Bambina che li aveva-no seguiti) morivano dopo pochi anni di missione, cioè sotto itrent’anni di età (nel 1800 la media di vita dei missionari in Ben-gala era sui 35-36 anni!). Il passaggio del Gange avviene nel 1901da parte di padre Francesco Rocca e di alcuni altri che lo seguo-no e fondano le prime missioni fra i santal del Bengala, fruttuosefin dall’inizio.

Uno dei pionieri della missione oltre il Gange fu padre Pie-tro Costa (1885-1977) che giunse fino a Ruhea; seguito da padreGiuseppe Macchi (1868-1947) e da padre Luigi Bellini (1912-1996). Ma la missione di Ruhea fu chiusa con lo scoppio della IIguerra mondiale, quando i missionari italiani del Pime più gio-vani vennero rinchiusi in campo di concentramento, lasciando ilvescovo di Dinajpur, mons. Giovanni Battista Anselmo, quasisolo con alcuni sacerdoti locali. Le poche centinaia di cristiani diRuhea, da poco convertiti, vennero lasciati senza assistenza reli-giosa per più d’un decennio: le evangeliche pecorelle senzapastore.

Il 1° gennaio 1952 arriva alla stazione ferroviaria di Ruheapadre Cesare Pesce, incaricato di riaprire come residente la mis-sione. Un impiegato della ferrovia lo accompagna a piedi alla casaparrocchiale, aiutandolo a portare i suoi bagagli. Vi trova il sacer-dote locale padre Job Elampacherry, che da alcuni mesi era anda-to a riaprire la missione, chiusa da più di dieci anni. Gli fa visita-re la casetta.

Faccio subito l’inventario. Una casetta in muratura, quattro stanzet-te, piccole ma asciutte: una di esse funziona da cappella, un’altra dastanza da letto, la terza da cucina e sala da pranzo e l’ultima da uffi-cio parrocchiale. A cinquanta metri dalla casa c’è un casottino per i

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3 GHEDDO P., PIME 1850-2000, 150 anni di missione, Emi, Bologna 2000,p. 1.229. Il capitolo Passare il Gange in Bengala (Bangladesh) (pp. 385-462)descrive la storia del Pime in Bengala e Assam.

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servizi. Meglio di un Papa! In vita mia non ho mai avuto tanta robacosì. Non ci sono chiesa, né stalla, né granaio. Più di così si muore.Libero di fare e di non fare. Non ci sono fabbricerie né comitati par-rocchiali. Che bellezza! Monarchia assoluta. Faccio una visita algruppetto di famiglie cristiane al di là della strada: sono cinquecapanne poverissime, che fanno capo alla casetta più decente delcatechista. In tutto 28 persone, compresi i lattanti.

Poi si siedono per il pranzo: in suo onore padre Job ha fattopreparare un pollo arrosto che Cesare mangia con gusto e appe-tito. È felicissimo di essere in una missione tutta sua e ne ringra-zia il Signore nella cappellina. Anche padre Job è felice che lui siaarrivato, perchè così può tornare a Dinajpur, dove insegna allascuola superiore di San Filippo.

Dopo pranzo, Job presenta a Cesare il registro col resocontofinanziario aggiornato al 31 dicembre 1951: nessun debito e nes-sun credito. “Il vescovo mi dà 30 rupie al mese – dice. – Ecco le27,5 di gennaio: quel che manca l’ho usato per comperare il pol-lo che abbiamo mangiato”. Poi gli presenta il cuoco, John Das, lacui moglie li invita a bere il tè nella sua capanna, lì vicino. PadreJob parte e finalmente Cesare si ritrova solo in casa mentre scen-de il sole. È pieno di gioia e commenta:

Mi viene in mente una canzonetta che andava di moda a quei tem-pi: “Avevo una casetta piccolina in Canadà”... pardon, a Ruhea, nel-l’Est Pakistan! Bellissimo e commovente canticchiare mentre scen-de la sera nella pianura bengalese, con la meravigliosa visione deimonti dell’Himalaia baciati dal sole.

Il mattino seguente, Cesare si alza che è ancora notte e va apregare nella quarta stanza, la cappella: è felice di essere final-mente in missione, da solo, in un posto quasi nuovo che sembrafatto apposta per lui. Celebrata la Messa, è l’alba e il cuoco loinvita a salire sulla terrazza della casa: incantevole visione! Si vede“la seconda montagna della terra” dopo l’Everest, il Kanchenjun-ga, sfavillante di luce nelle sue nevi eterne, mentre la pianura ben-galese è ancora nell’ombra. Uno spettacolo che lascia Cesare“senza respiro”. E nota che la neve, da lontano, sembra rosea,

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“un buon auspicio per la missione di Ruhea!” 4. Ecco l’ottimistache non si scoraggia mai ed è sempre contento...

La prima domenica vengono alla Messa 17 cristiani, ma ilcatechista Mahonto, “un bell’uomo, istruito, intelligente, ottimi-sta”, gli presenta la situazione della missione; i battezzati sono cir-ca 500, sparsi in una trentina di villaggi (vicino alla residenza delpadre solo poche famiglie cattoliche) su un territorio “vasto comele province di Alessandria e di Cuneo messe assieme”. Dovrebbe-ro essere di più se alcuni gruppi, durante i lunghi anni di isola-mento e della guerra, non si fossero allontanati. Sono rimasti gli“hari”, bengalesi di una disprezzata casta indù, fattisi cristianiuna ventina d’anni prima. ll piano del catechista è semplice: entrotre mesi visitare col missionario tutta la missione, fermandosi unagiornata o due nei villaggi cattolici e facendo puntate in quelli chesi sono allontanati dalla Chiesa.

Mi descrive l’importanza di quella visita: da dieci anni e più, sonoil primo prete che va a trovare i cristiani nei loro villaggi. La miaresponsabilità è grande. Quella sera, andando a letto dopo le pre-ghiere, mi viene in mente il mio vecchio e santo parroco in Brianza,il quale mi raccontava che la prima notte insonne della sua vita eracoincisa con la data della sua designazione a parroco: “Ero così pre-occupato delle mie responsabilità, che non ho chiuso occhio”. Male teste e le sensibilità sono diverse. Io ho dormito bene tutta la not-te.

L’incontro con “i pazzi di Dio”

Pesce inizia la sua missione a Ruhea con entusiasmo e ungrande spirito di sacrificio. Continuamente in giro, un villaggiodopo l’altro sempre a piedi, mangiando e dormendo dove e comecapita. Per fortuna ha con sé il catechista Mahonto, formidabile.Conosce tutti, se la cava anche nei dialetti locali, è ben visto e pie-

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4 In realtà il Kanchenjunga è la terza montagna della terra (8.586 metri),dopo l’Everest (8.846 m.) e il K2 (8.616 m.), tutti nella catena dell’Himalaia.

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no di buon senso. Assieme si rendono conto che i vecchi cristia-ni, rivisitati tanti anni dopo, sono ancora pieni di fervore e dispo-sti a riprendere il cammino cristiano. Padre Cesare si commuovenel constatare tanta fedeltà! In alcuni villaggi “hari” si dichiara-no disposti a costruire una cappella provvisoria in attesa dellacappella di mattoni. Durante la visita dei villaggi, cristiani e noncristiani, tribali o di basse caste chiedono a Pesce di istituire aRuhea un convitto come quello di Dinajpur, per mandarvi i lorofigli. A quel tempo (anni cinquanta del secolo scorso!), i piùpoveri non potevano attingere acqua al pozzo del villaggio, nonpotevano andare al mercato e meno che mai nelle scuole pubbli-che. Padre Cesare tocca con mano che “le famiglie senza istruzio-ne sono condannate alla morte sociale, peggiore anche di quellafisica”.

Che fare? A Ruhea incomincia a costruire un ostello per ospi-tare i primi 30-40 bambini. E capisce che bisogna presto edificareuna vera chiesa: la stanzetta destinata a cappella non basta più e di-venta anche ridicola. Il 19 agosto 1953 scrive alla Procura del Pimedi Milano: “Sto fabbricando la cappella e sono senza soldi: se nonmi aiuta la Provvidenza è un pasticcio!”. I soldi a poco a poco ar-rivano, specialmente da Tortona, Novi Ligure e Voghera; il 26 gen-naio 1954 scrive ancora a Milano di mandargli un “Aquilotto”, pic-cola moto italiana in uso a quei tempi, già sperimentata dai missio-nari del Bengala: “I soldi, aggiunge, vedrò di farli arrivare in unmodo o nell’altro”. Altra lettera il 1° luglio 1955 a padre Sante Nic-chiarelli, mitico procuratore delle missioni del Pime a Milano, perringraziarlo: “L’Aquilotto è arrivato bene e intatto”. Poi gli chiedenotizia di una “cassetta di medicinali” che il dottor Marcello Can-dia, a cui l’aveva chiesta, ha mandato per lui attraverso l’ALAM(Associazione Laici in Aiuto alle Missioni) 5. E scrive di mandar-gliela subito perché, aggiunge:

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5 Si veda: GHEDDO P., Marcello dei Lebbrosi, De Agostini 1995 (V° ediz.),p. 328.

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Da un mese nel Bengala pakistano non si trova più un accidente infatto di medicine, ma al “black market” (mercato nero) si trova tut-to a prezzi impossibili. Spero arrivi presto l’aiuto italiano e la rin-grazio in anticipo anche a nome del fratello Massimo, incaricato deldispensario medico della missione…. Il programma della missionedi cento battesimi l’anno è mantenuto e superato… Per il nuovoanno missionario incominciato oggi ho una buona massa di catecu-meni tra gli hari indù e i santal animisti.

Ruhea è vicinissima al confine con l’India, in un angolo dellapianura bengalese nel Pakistan orientale, a grande maggioranzaislamico; almeno negli anni cinquanta, buona parte della popola-zione di Ruhea e dintorni era di religione indù. Cesare, curiosoper natura, voleva entrare in contatto con i fedeli all’induismo,non solo con tribali e basse caste come all’inizio della missione.Quando sente che nel villaggio di Barni Mela, proprio ai confinicon l’India, c’è una grande fiera e festa indù, ci va a piedi col suocatechista Mahonto. Il passaggio della frontiera era a quel tempomolto facile e la gente veniva a Barni Mela anche da villaggi del-la vicina India. Una folla notevole di indù, bramini, thakur (san-toni), fachiri, incantatori di serpenti, piccoli commercianti e fede-li, tutti seminudi per prendere il bagno sacro nel fiume vicino. Inpiccolo, un’immagine di Benares sul Gange (oggi Varanasi), cittàsanta dell’Induismo.

Alla sera, racconta Cesare, una decina di “thakur” vennero alla casa“hari” cristiana dove ero ospitato, contenti di conoscere un “tha-kur” cristiano. Si presentarono come “pagol dol” (letteralmente“pazzi di Dio"). Dicevano che facevano divertire il popolo in nomedi Dio e, in suo nome, andavano qua e là senza fissa dimora e sen-za destinazione precisa. In ogni posto trovavano qualcuno che, inuna situazione difficile, aveva bisogno di un buon consiglio. Talvol-ta mi dissero, entravano nella casa di qualcuno che era distrutto daldolore e dalla tristezze c condividevano con lui. E quando in un vil-laggio trovavano gioia e felicità erano contenti di aggiungere, con laloro presenza, altra gioia e felicità. Talvolta non erano accettati ealtre volte erano anche cacciati via. Ma non avevano nessun senti-mento di rimpianto o di odio, altrimenti non sarebbero stati i “pagol

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dol”. Una lezione di giusta filosofia umana e di teologia francesca-na!Naturalmente non mi inserii nel loro registro, ma il mio cuore eracon loro. Mi unii al loro gruppo come un thakur più basso, o megliocome un estraneo che condivideva quel modo di vivere per onora-re Dio. Mesi dopo, quando nei nostri viaggi a volte bagnati di sudo-re come pulcini, facevamo una sosta, Mahonto mi provocava chia-mandomi ancora “pagol Dol” o “pagol thakur”.

Nel 1954 un colpo di fortuna, una benedizione di Dio. Vienein missione padre Luigi Verpelli di Monza, sacerdote diocesanodi Milano dal 1940, entrato nel Pime e destinato al Bengala 6. Ilvescovo mons. Obert lo manda a Ruhea con padre Pesce “perimparare l’inglese e il bengalese”. Cesare commenta:

Imparare il bengalese parlato a Ruhea era come mandare uno stra-niero che avesse voluto imparare l’italiano in un paesino sperdutodella Sicilia, dove non si parlava altro che il dialetto siciliano!

Verpelli è un dono di Dio. Pesce lo affida al catechistaMahonto, chiamato “il maestro”, perché gli insegni l’inglese e ilbengalese classico. Oltre che imparare le lingue, Verpelli imparaanche ad amare quella povera gente ed a lavorare per il loro pro-gresso spirituale e materiale. Con due preti, la missione si esten-de: riescono a visitare anche villaggi di “hari” e di “risi” mai visi-tati prima, ed avere un primo gruppetto di catecumeni santal.

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6 Il PIME è nato a Saronno (MI) nel 1850 come “Seminario lombardo perle missioni estere”, per inviare in missione sacerdoti e laici diocesani senza far-ne dei religiosi (con i voti); e ha sempre accolto numerosi sacerdoti e chiericidiocesani soprattutto dalla Lombardia e dal Veneto. Fino al 1957 erano in media3-4 l’anno, poi, dopo l’Enciclica Fidei Donum, questo flusso è diminuito senzacessare mai del tutto. Anzi, negli ultimi anni, specie dopo le celebrazioni del150° anniversario di fondazione dell’Istituto, è ripreso con una certa intensità.Un fatto nuovo degli ultimi tempi sono i sacerdoti diocesani italiani che si uni-scono al Pime come “associati” (per qualche anno, con impegno rinnovabile) elavorando in missione godendo di tutta l’assistenza dei membri dell’Istituto.

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Purtroppo, dopo circa un anno di permanenza a Ruhea, ancheVerpelli segue la regola generale del “missionario tappabuchi” eviene mandato a Bonpara per costruire una nuova chiesa, “fattanon soltanto di cemento e di mattoni, ma anche di spirito e difede... E fu un successo!” aggiunge padre Cesare.

Padre Pesce venerato come uno spirito

Ad aiutare padre Pesce viene p. Luigi Carrea, suo condioce-sano di Tortona, e nell’estate 1955 egli accoglie fratel MassimoTeruzzi di cui diremo più avanti in questo capitolo: era lebbroso(in fase non infettiva però) e si dedica alla cura dei malati. In unalettera del 21 dicembre 1955 al superiore generale padre LuigiRisso, Pesce scrive che dall’inizio di novembre ha ottenuto comeaiuto provvisorio tre suore e ha fatto con loro un giro nei villag-gi (“moffusil”), durante il quale ha amministrato 70 battesimi, tracui molti di adulti.

Il più grave pensiero che mi tormenta è l’educazione della donna:io ho una maggioranza di cristiani ex-indù e solo le suore possonoeducare le loro donne, per me difficilmente avvicinabili. Mi occor-re un conventino per le suore, ma mi rimane sempre la mancanza dimezzi. Noi, i tre Re Magi di Ruhea, tiriamo avanti bene. Il fratelMassimo fa miracoli con le sue medicine, sempre occupato nella suacapanna, dispensario e farmacia. Il nuovo padre aiutante, Luigi Car-rea, parla il bengalese e mi aiuta davvero. Il numero dei cristianiaumenta, ma incomincio a sentire la mancanza e l’impreparazionedei catechisti. Per fortuna ho un sant’uomo come capo dei catechi-sti e braccio destro della missione.

In una di queste faticose visite ai villaggi, dopo nove giorni divita in foresta dormendo, tutto vestito, su una stuoia di bambùpoggiata sulla nuda terra, con spifferi d’aria che soffiano dallepareti delle capanne, Cesare si trova sulla via del ritorno a Ruhea.Pedala e pedala sognando il suo letto, la possibilità di prendereuna doccia e di fare una buona cena, di andare a dormire fra duelenzuola e senza i pantaloni, in una stanza ben chiusa, quando...

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plafff, uno stecchino di bambù si va a ficcare fra il copertone e ilcerchione della ruota posteriore e, manco a dirlo, lacera la came-ra d’aria. Cesare si ferma e il fedele Mahonto, che viene dopo dilui, fa altrettanto. Che fare? È quasi buio, mancano quindici chi-lometri a Ruhea, impossibile andare avanti.

Mahonto sa che poco distante c’è un villaggio hari: “Sonopoveri, ma buoni e certamente per questa notte ci daranno ospi-talità”. Detto fatto, va verso quel villaggio lasciando Pesce solocon la sua bici rotta. Cesare si siede e si appoggia a un grandealbero, chiude gli occhi e sogna. Quella luna piena lassù in cielogli fa venire la malinconia: vede la sorella a Novi Ligure che stapreparando il minestrone per la cena e si chiede se da Novi vedo-no la stessa luna e le stesse stelle che sta vedendo lui. Un urloimprovviso lo scuote. Apre gli occhi e vede gente che fugge.

Ma da dove è sbucata tutta quella gente? Non avevo visto nessunoal mio arrivo. Un pensiero terribile mi attraversa la mente: la tigre!Scatto in piedi e mi metto a correre anch’io, senza nemmeno sape-re dove. Faccio quattro salti verso il gruppo che fugge e la mia mera-viglia rasenta l’incredibile. Tre donne si fermano, si prostrano a ter-ra davanti a me, come i preti ai piedi dell’altare prima di iniziare laliturgia del Venerdì santo. Io rimango lì impalato come una statuadavanti a loro...

Cesare rivolge alle donne alcune domande, ma quelle riman-gono immobili e prostrate a terra davanti a lui. Che sia una suaallucinazione causata dalla fame? Torna indietro e va di nuovo asedersi sotto l’albero. Poco dopo arriva Mahonto con alcuniuomini del villaggio, che li ospita per la notte. Finalmente ilmistero è svelato. La tigre non c’entrava per niente!

Io mi ero seduto appoggiandomi ad un albero che, manco a dirlo,era un albero sacro. Alle sue radici, dove avevo messo la bicicletta,c’era l’altarino per i sacrifici e le offerte. Il tenue luccichio del manu-brio cromato della bicicletta dava la vaga idea di due occhi lucentinella notte. Volle il caso che proprio quella sera un gruppetto didonne venissero a portare offerte ed a pregare lo spirito residentesu quell’albero maestoso. I due occhi che le guardavano nell’ombra

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non erano altro che il manubrio della bici di un poveraccio comeloro, che sognava il minestrone alla genovese e il materasso di gom-mapiuma!Il racconto dell’apparizione dello spirito a tre donne fece presto ilgiro dei dintorni, reso più colorito e infiorato da dettagli strabilian-ti. Il mattino seguente, uscendo dalla capanna in cui avevo dormitosu un mucchio di paglia, incontro varie persone già al corrente del-l’avvenuto miracolo, che morivano dalla voglia di raccontarmi, perfilo e per segno, la storia. Tentai invano di chiarire la faccenda, dan-do la versione realistica del fatto. Come parlare al vento! Lo spiritoera realmente apparso, in carne ed ossa, ed aveva gradito l’offertadelle tre donne fortunate. Non era ammessa alcuna discussione.

Massimo Teruzzi, il missionario lebbroso

Il missionario che ha segnato più profondamente con la suapresenza la storia della missione di Ruhea è senza dubbio fratelMassimo Teruzzi: un semplice muratore e poi infermiere, mortolebbroso il 19 luglio 1963 a 63 anni, 34 dei quali passati in mis-sione: un autentico eroe della carità. Ecco come lo ricorda, conparole commosse, padre Cesare Pesce 7:

A questa massa di poveracci, di rifiuti della società che continuanoad affluire al nostro dispensario di Ruhea, debbo annunziare: “Nul-la da fare, il dottor Massimo se ne è andato non a Dinajpur a com-perare le medicine per voi, come aveva fatto tante volte nel passa-to; se n’è andato per sempre, non tornerà più, mai più”. Che tristez-za! Non lo senti anche tu, amico lettore? I poveri d’ogni razza,d’ogni lingua e d’ogni fede piangono sconsolatamente il loro bene-fattore. E sono tanti, tanti, quanti neppure noi riuscivamo ad imma-ginare!È sempre stato così, dal giorno in cui Gesù donò la sua vita sullacroce per gli altri. “L’umile sarà esaltato, la sua memoria passerà inbenedizione”. Fratel Massimo Teruzzi, con la sua umiltà, col suo

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7 Riporto quasi integralmente l’articolo pubblicato da p. Pesce in occasio-ne della sua morte, in «Le Missioni Cattoliche» 1963, pp. 392-393.

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disprezzo di tutto ciò che sa di egoismo, con la sua dedizione allacarità, ha scritto una pagina autenticamente gloriosa nella storia deimissionari del Pime.Era nato a Lesmo (Milano), il 14 ottobre 1902, da Carlo e MariaPozzi. Era forse suo desiderio fare qualcosa di più delle elementari,ma in casa per tirare avanti bisognava lavorare. E lui, dopo il servi-zio militare, s’impiegò come muratore. Al mattino una visita in chie-sa, spesso la Comunione, e via col piombino, la cazzuola, un pani-no e il giornale. Lavorava sodo, ma pensava che era meglio costrui-re la casa al Signore che ai ricchi. Piantò tutti in asso e dopo averricevuto l’abito di Fratello del Pime a Milano, nel 1929 s’imbarcòcon un altro missionario per il Bengala, allora ritenuto “la tombadegli europei”.Giunto in missione, dapprima credette che il suo antico mestierefosse il più utile alla missione e si mise di buona lena a costruirechiesette in serie, tetto di lamiera su muri di fango. Ben presto peròs’accorse della miseria enorme imperante nel paese. Troppi gliammalati inesorabilmente condannati a morte per la mancanza dimedicine o per l’impossibilità di comperarle. Abbandonò definiti-vamente gli strumenti del carpentiere e si mise a studiare sui libripopolari di medicina e a praticare in dispensari improvvisati conbambù e paglia. Si sentiva male alla vista di tanta povera gente e nonsi dava riposo finché non avesse visitato tutti. Non c’era orario perlui: gli ammalati poveri erano i suoi padroni e potevano presentarsianche di notte. Poi fecero capolino timidamente i lebbrosi e nel suo singolare cuo-re, un misto di S. Camillo e San Francesco, immediatamente prese-ro il posto principale, divennero nel giro di pochi mesi i suoi benia-mini. Non so se ebbe il tempo di leggere la biografia di P. Damia-no, ma è un fatto che lo imitò fino al sacrificio di se stesso per i leb-brosi.Un giorno era stanco, forse. Nel lebbrosario di Dhanjuri (Dinajpur)non c’era ancora l’attrezzatura moderna di oggi. Come al solito,puliva col bisturi le piaghe dei lebbrosi all’ingresso della capanna.Un momento di stanchezza, un attimo di disattenzione e il bisturiimpregnato di pus e di sangue del malato, colpì il braccio del chi-rurgo. Più nulla da fare, il bacillo di Hansen, come un nemico ven-dicatore non perdonò, invase immediatamente il suo sangue. È faci-le essere poeti a questo punto. Per amore di Gesù, per amore dei

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fratelli più disprezzati del mondo, dei relitti della società, l’ostiaofferta sull’altare del sacrificio... Belle parole in verità, ma la realtàè brutta, tremendamente brutta. Un uomo nel pieno vigore delle sue forze, consapevole d’essere leb-broso, ha poca voglia di fare il poeta e abbandonarsi a sogni di glo-ria. È qui che rifulge maggiormente la grandezza dell’uomo di Dio.Massimo non si scompose. Semplice ed umile, come se si trattassedi una bazzecola, di un avvenimento che doveva ineluttabilmenteaccadere, preparò la sua valigetta e andò a picchiare alla porta dellebbrosario di Calcutta. Lui, direttore e medico di un lebbrosario,diventato un lebbroso, un numero in un lebbrosario.Il fisico era forte allora e, seguendo con scrupolo le cure moderne,in pochi anni la lebbra era ridotta al negativo. Disse grazie al Signo-re e alle suore, rifece la sua valigia e ritornò dai suoi ammalati conuna esperienza medica di più, fatta sul suo corpo. L’anima s’era affi-nata nella comprensione della sofferenza e lui, il malato, il lebbrosodi Cristo si donò senza riserve al servizio del popolo sofferente.Davvero ormai lo si poteva chiamare un eroe della carità.Dopo 24 anni ininterrotti di lavoro ebbe una brevissima parentesidi vacanza in Italia. Qualcuno, vedendo quella lunga barba bianca,quegli occhi stanchi, quelle spalle ormai curve, lo consigliava direstare. “No – rispose fermo in un modo che non ammetteva repli-ca – il mio posto è là, tra i miei poveri”. E ripartì per una missionepiù povera della precedente, Ruhea, all’estremo nord del PakistanOrientale. Dapprima in una capanna di paglia, poi in una casettaangusta e soffocante, seppe intessere la sua corona di gloria più bel-la, raggiungendo l’apogeo dell’amore cristiano. E come seppe ama-re fu amato. Oh, come fu amato! Io penso, e non temo di sbaglia-re, che l’uomo più amato di Ruhea e dintorni fu proprio il “Bro-ther” (fratello).La sua fama di bontà e abilità medica era giunta lontano. Da Tetu-lia, da Dinajpur, venivano i malati poveri, i lebbrosi, i disperati del-la scienza medica: il “Brother” era diventato l’ultima loro speranza.E lui, burbero benefico, a tentare e ritentare con successo, coninsuccesso. Con quegli occhiali più vecchi di lui sul naso, a rincuo-rare con barzellette nel dialetto del paese che aveva appreso allaperfezione. Una figura indimenticabile.E così, come è vissuto se ne è andato. Non ne poteva più, ormai tra-scinava le gambe stanche, sembrava un vecchio di cent’anni, ma al

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confratello che amabilmente lo redarguiva e lo invitava al riposo,rispondeva sempre: “Riposerò dopo...”. L’ultimo giorno di lavorotra gli ammalati del suo dispensario “Don Orione” di Ruhea fu ilgiovedì, 11 luglio 1963. Respirava troppo a fatica. “Basta – disse. –Stavolta è proprio finita”. Sabato mattino fece chiamare i suoi pove-ri, vuotò le tasche e l’armadio di quei pochi spiccioli che rimaneva-no e in silenzio, senza importunare alcuno, andò a Dinajpurall’ospedale cattolico. Pochi giorni di degenza, sempre allegro e sor-ridente fino alla notte del giovedì 18 luglio. “Non ce la faccio più”disse, e col nome di Maria sulle labbra spirò all’alba del venerdì,dopo aver ricevuto i sacramenti. Ed ora hanno ragione, oh se hanno ragione, gli sciancati, i lebbro-si, i poveri di ogni genere, le vedove, di piangere mentre tornano piùvolte alla missione e si aggirano in ogni angolo del dispensario qua-si a cercarlo, non sapendo capacitarsi di tanta perdita. Il pianto è unbalsamo, ma il balsamo non riempie il vuoto del cuore. Nessuno almondo lo potrà mai sostituire. La morte dell’uomo della caritàlascia lo sconforto più sincero. Fratel Massimo ha lasciato l’esempiodi una vita interamente spesa nell’amore del prossimo nel nome diGesù. Il bengalese, ignaro del senso di pura carità e gratuità, ha avu-to una scossa da questo esempio: forse non diventerà cristiano, masarà più buono perché ha costatato che soltanto il Cristianesimopuò produrre uomini così.

Padre Pesce non lo dice, ma i missionari del Bangladesh ricor-dano (almeno i più anziani), che proprio lui ha compiuto forse ilgesto più bello ed eroico della sua vita missionaria, accogliendofratel Massimo a Ruhea nel 1956, quando tutti sapevano che eralebbroso; correndo così coscientemente il pericolo di prendere luistesso, inavvertitamente, la terribile malattia, in anni in cui la leb-bra era quasi incurabile. E faceva paura a tutti. Suor Franca Nava,che era giunta in Bangladesh nel 1953 e lavorava nel lebbrosariodi Dhanjuri come infermiera, ricorda:

Fratel Massimo, quando è uscito dal lebbrosario di Dhanjuri èandato a Ruhea. Padre Pesce l’ha accolto mentre altri lo rifiutava-no, per non creare problemi alla loro missione: avere in casa un leb-broso, a quei tempi, era un fatto terrificante per tutti. Quando sonoarrivata io a Dhanjuri, tutti dicevano: Massimo s’è infettato perché

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lo voleva. Nel senso che viveva del tutto con i lebbrosi, mangiavacon loro, dormiva con loro, fumava con loro. Per me, che in queglianni ero nel lebbrosario, uno dei gesti più eroici che ha fatto padrePesce è stato proprio di accogliere Massimo come un fratello e divivere con lui senza problemi.

La figura di fratel Massimo merita ancora di essere illumina-ta con alcuni passaggi di quanto ha scritto padre Mauro Mezza-donna nel necrologio pubblicato su «Missionari del Pime» (set-tembre 1963, p. 2).

Fratel Massimo era un autodidatta, ma pur non avendo alcun diplo-ma di medico o infermiere, tutti lo chiamavano “dottore”, tanto chemolti medici andavano da lui a chiedere pareri e consigli… Massi-mo non ha mai fatto un giorno di riposo, dedicando anche la dome-nica alla cura dei lebbrosi. È stato un apostolo degli ammalati eanche dei poveri. Adorava i poveri, li aveva sempre con sé. Gentedi ogni razza, buoni e cattivi, dopo la sua morte continuano a veni-re a Ruhea da tutte le parti perché hanno sentito che il vecchio non-no è morto… Sembra a loro impossibile che il dottore tanto buono– che spesso, oltre le medicine, dava loro anche qualche spiccioloper nutrirsi – li abbia lasciati per sempre.Soccorreva i poveri col poco che aveva: di molto grande aveva soloil cuore. Quando nel 1962 fu pubblicato un articolo che parlava dilui, giunsero delle offerte che gli furono trasmesse. Ebbene, quasinon si riusciva a convincerlo che ci fossero anche dei buoni che pen-savano a lui! Da notare che quando era andato in missione, non ave-va mai avuto un benefattore proprio. Le uniche offerte erano quel-le dei suoi fratelli. Eppure trovava modo di dare egualmente: dan-do del suo, di ciò che era a lui destinato dai superiori. Quando nel1954 celebrò il suo 25° di missione, p. Luigi Verpelli che allora eracon lui dovette comperargli un paio di scarpe e di calze, perché neera privo; e quando era a Ruhea, il padre Alvigini lo convinse adaccettare una sua veste bianca, dato che quella che aveva era ormairidotta a condizioni pietose. Massimo non aveva neppure un letto,ma dormiva su un intreccio di nodose canne di bambù; per coper-te e lenzuola usava addirittura dei sacchi vecchi. Il padre Alvigini lisostituì con qualcosa di più decente; identica operazione per la zan-zariera – residuo dell’esercito americano nell’ultima guerra – che

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egli si sforzava di tappare con dei grandi cerotti. Per scrivania ave-va una cassa da imballaggio.A dargli una maglietta o un uovo in più da mangiare, nel 99% deicasi trovava subito il modo di disfarsene. A riprenderlo di questozelo eccessivo, diceva che ormai era troppo vecchio per cambiare eil risultato era che faceva la carità il più nascostamente possibile.Qualche volta anche fratel Massimo, tra malanni e strettezze, era dihumour nero, ma appena si presentava la prospettiva di riceveredall’Italia qualche cassetta di medicinali, si metteva a cantare ed ascherzare come un bambino. Le medicine erano la sua passione, manon sono valse a salvarlo da quella che egli diceva fosse un sempli-ce raffreddore e che invece si rivelò una polmonite; e neppure gligiovò il trasporto all’ospedale di Dinajpur, ove andò allegro e scher-zando con tutti. Ma pochi giorni dopo, il 18 luglio scorso, senzatroppo soffrire e senza dar fastidio a nessuno, se ne è andato al Cie-lo, a ritrovare tanti ex-poveri ed ex-ammalati diventati ricchi peropera sua.

Mario Alvigini, il missionario delle pompe

Com’era la vita di padre Cesare nella missione di Ruhea?Sempre in movimento per visitare i villaggi, anche quelli più lon-tani e difficili da raggiungere. Nella tradizione pastorale e missio-naria del Pime in Bengala, il “moffusil” (visita ai villaggi) è sem-pre stato il sistema migliore di annunziare Cristo e aiutare i pove-ri, anche dove il Vangelo di Cristo non è conosciuto. Ma che fati-che!

In Italia è difficile immaginare cosa vuol dire partire da casa estar via una settimana o 10-15 giorni e vivere più o meno come lepersone del luogo in Bengala. Nella pianura bengalese quasi sen-za strade (a quel tempo), fra risaie, foreste, fiumi maestosi e villag-getti, un popolo cordiale ma all’estremo limite della miseria: ciboscarso e molto povero, dormire per terra su una stuoia di bambù,in capanne soffocanti e piene di animaletti, lontani da ogni como-dità della vita moderna, col sole che batte a picco, difficoltà di tro-vare un bicchiere d’acqua pulita, ecc. E poi, piogge torrenziali,inondazioni, piccole guerre tra villaggi ed etnie diverse, malattie

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epidemiche senza strutture sanitarie adeguate per combatterle(malaria, colera, lebbra, febbre gialla, dissenteria, ecc.).

Padre Pesce è giovane ed entusiasta della sua missione. Nonsi risparmia: Dio gli dà la forza e la gioia di praticare questa mis-sione itinerante col suo Mahonto, catechista e maestro di vitabengalese.

Talvolta eravamo distrutti dal caldo e dalla fatica, ma era sempre unsollievo e una profonda gioia considerare che in un piccolo angolodi questo mondo per la prima volta arrivava la verità di Cristo e unnuovo battezzato si sarebbe svegliato nel suo nome. In ogni villag-gio cristiano vi era una persona che aveva la responsabilità di cura-re il decoro della cappella e guidare il servizio domenicale. Io ciclo-stilavo parecchie copie di semplici omelie che venivano lette nei vil-laggi. Ero ben consapevole che non tutte queste persone riusciva-no a capire il senso di quanto era scritto, e meno che mai capirequanto riguardava la fede; alcune avevano anche difficoltà a legge-re. Ma mi andavo ripetendo che almeno l’uno per cento sarebberimasto. Molto del mio tempo e di quello di Mahonto era speso perinsegnare ai bambini e agli adulti analfabeti (in maggioranza don-ne) le preghiere e il catechismo di base. Mandammo nei villaggiuna schiera di catechisti a svolgere questo lavoro, indispensabilema troppo lungo.

Nel suo scritto, Pesce ringrazia gli amici dall’Italia che lo aiu-tano con le loro preghiere e offerte; li definisce suoi “angeli” edice: “Senza di loro non potrei fare nulla”. La crescita della mis-sione di Ruhea è stata graduale ma costante. I frutti spirituali nontardano a venire. Nel 1955 le conversioni sono in aumento, i vil-laggi con cappelle di paglia e fango una cinquantina. Nel 1956Pesce decide di costruire una chiesa decorosa a Ruhea, in matto-ni e cemento, materiale non facile da reperire. Il missionarionovese si improvvisa artigiano e costruttore: incomincia a fareuna fornace per cuocere i mattoni e le tegole, poi tira su i muried infine provvede all’intonaco. Nel 1957 benedice e inaugural’ospedaletto intitolato al suo caro Don Orione.

La vita missionaria di padre Cesare ha questa caratteristica:tutte le imprese che progetta gli sembrano all’inizio quasi impos-

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sibili; poi, a poco a poco, con molte fatiche, vede che si stannorealizzando, naturalmente con l’aiuto di Dio e dei molti amici cheha lasciato in Italia. La costruzione della bella chiesa di Ruhea, adesempio, è continuata dal padre Mario Alvigini, che viene aRuhea nel 1958 e terminata nel 1960. Alvigini viene anche lui dal-la diocesi di Tortona, anzi è nato proprio a Tortona nel 1930(morirà a Lecco, dopo un’operazione al cuore, il 15 novembre1991), Anche padre Mario è un grosso personaggio che andreb-be riscoperto con uno studio delle sue lettere e delle testimonian-ze su di lui: ha lasciato un forte e positivo ricordo sia nel Pimeche nella diocesi di Dinajpur. Lo incontreremo ancora più avan-ti. Così lo ricorda padre Pesce 8:

Con uno zelante catechista da poco convertito, Dhorjio Das, padreMario andava in giro in bicicletta nei villaggi della zona, alla ricer-ca dei parenti dei cristiani che ancora non avevano seguito il loroesempio e non erano ancora entrati nella Chiesa di Cristo. Fin dal-la sua giovinezza, Mario era sempre stato attratto dai malati e nellesue visite ai villaggi era pronto non soltanto ad un lavoro spirituale,ma anche a visitare e curare i malati. Io ero entusiasta nel vedere chela missione di Ruhea, iniziata dai pionieri, Macchi, Costa, Bibini,Bellini... ora stava continuando bene al di là di ogni speranza…Erano gli anni della mietitura di battesimi in quel di Ruhea: due-tre-cento all’anno. Me lo rivedo vivo, reale... Come il buon contadinoche ritorna a casa curvo sotto il peso dei covoni di riso, con la fron-te madida di sudore splendente di gioia agli ultimi raggi del sole deltramonto, così padre Mario Alvigini al ritorno, stanco, dopo unalunga settimana passata nei villaggi degli Hari. Prima di sedersi acena eccolo riempire di nomi un paginone del registro dei battesi-mi. Una partita a scacchi e giù, una lunga dormitona, finalmente suun letto, dopo tante notti passate sulla nuda terra o, se la fortuna gliaveva sorriso, su un avaro mucchietto di paglia.Un giorno, il catechista che lo accompagnava nelle sue escursionimissionarie viene a lamentarsi con me: “Io non ce la faccio più conlui. L’ultima volta a Tulsipara mi ha fatto digiunare con lui un’inte-ra giornata: solo acqua e anche quella cattiva. Mi assicurava che col

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8 Citato da varie fonti fra le quale il volume Bangladesh Jindabad!.

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nostro digiuno di penitenza avremmo ottenuta la grazia del ritornodi una famiglia che aveva apostatato dalla fede”.“Magnifico! E dopo il vostro digiuno sono ritornati?”.“Sì, dopo due giorni li abbiamo incontrati nella cappella di Kisto-pur”.Capito che razza d’un santo? Troppo all’antica? Digiuni, preghiere,prediche e giaculatorie soltanto? Sbagli di grosso se la pensi così.Nei villaggi lui osservava le donne a fare la spola, cariche di grosseanfore, tra la casa e il “pukur” (laghetto) vicino, nel quale vedevaanche bufali e buoi godersi beati il fresco dell’acqua, mentre i pasto-relli spensierati giocavano in gare di nuoto. Poi, ahimè, dolori dipancia tremendi, diarrea e vomito, amebe e vermi a non finire.“Qui ci vuole una pompa per questa gente altro che pillole. Il“pukur” lasciamolo ai buoi!”, grida il Mario. Detto, fatto. Scrive inItalia ai suoi benefattori, va in città, compra le canne ed eccoti l’ac-qua pura, ridente, salubre sgorgare dal sottosuolo! Decine di pom-pe in decine di villaggi. Insieme con la grazia soprannaturale dell’ac-qua battesimale, la grazia naturalissima dell’acqua potabile. Evvivail Mario, il missionario delle pompe!E così la parrocchia, innaffiata da quelle acque limpide, s’ingrandi-sce sempre di più. In una decina d’anni la popolazione della parroc-chia s’era quintuplicata. Una quarantina di villaggi cristiani da visi-tare mentre altri non cristiani chiedevano la nostra visita. Pressantequindi la necessità di aprire un nuovo centro per servire con mag-gior facilità ed efficienza tutta la gente della zona.Il lavoro tra gli Hari non è facile. Sono indù di bassa casta, poveriin canna. Harijan, come li chiamava la buonanima di Gandhi, cioè“figli di Dio”, perché solo Dio si cura di loro. Di costumi piuttostofacili. Seguendo l’antico costume indù, fanno matrimoni precoci,causa poi di eventuali interminabili liti tra i vari suoceri e capivillag-gio. Amano intensamente i loro bambini. Il bambino, per gli hari, èil re della famiglia: a lui tutto è concesso. Capita così che al ragaz-zino coccolato, viziato dai genitori, non piace andare a scuola: conil loro stupido consenso rimarrà analfabeta, non si potrà mai rende-re conto della sua dignità umana, rimarrà un harijan per tutta la vita.P. Mario ha capito la situazione critica: senza educazione si farà unbuco nell’acqua, forza dunque all’educazione quell’esercito dimonelli! Ne arruola un centinaio e te li spedisce al nostro ostello delcentro Diocesano di Dinajpur. Non possono pagare la retta? Ci pen-

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sa lui. Nel termine di una quindicina di anni molti di quei moccio-setti indisciplinati diventano persone istruite, educate, abili a svol-gere impieghi dignitosi, redditizi.P. Mario è pieno di gioia. La nostra eredità (ottomila nuovi cristia-ni nelle due parrocchie di Ruhea e Thakurgaon) è sicura ormai innuove buone mani. I preti locali, gli ex mocciosetti, ex discoletti sene occuperanno... Lui è stanco ormai: il suo cuore non regge più allavoro intenso del Bangladesh. Qualche anno in Italia, a Busto Arsi-zio, a pregare per i suoi bengalesi e poi, in punta di piedi, se ne vaa consultare la pagina “Pakistan-Bangladesh” del registro di SanPietro, meglio ad ispezionarla, dato che lui era ragioniere. Micamale! Ottomila battesimi uguale a “otto più” in condotta. Con l’ag-giunta dello “straordinario” si arriva a “dieci”. Più il “premio” perzona pericolosa “musulmana” e siamo al “dieci maxima cum lau-de”. Bravo Mario! Bravissimo.

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3.IL PRIMO RITORNO IN ITALIA

A metà degli anni cinquanta inizia per i missionari del Pime(anzi per tutti i missionari) la rivoluzione del ritorno in patriadopo dieci anni di lavoro in missione, poco dopo portati a otto,poi a cinque e oggi a tre. Una rivoluzione indispensabile perchéla Chiesa e la missione stavano radicalmente cambiando:l’“aggiornamento” del missionario diventava un imperativo pertutti. Prima, il missionario partiva per non tornare mai più inpatria. La tradizione nel Pime era forte e coltivata con cura daivecchi missionari (ancor oggi ne abbiamo alcuni che da più dimezzo secolo non sono tornati in Italia), come segno di fedeltàalla vocazione missionaria. Nel 2003 ho scritto la biografia dipadre Alfredo Cremonesi, missionario di Crema in Birmaniamorto martire nel 1953 a 51 anni, di cui è stata iniziata la causadi canonizzazione. Figura affascinante, avventurosa, poetica. Cre-monesi ha scritto molte e interessanti lettere su questo tema: par-tire per non più tornare, non voltarsi indietro, fare il sacrificioestremo di non veder più i genitori e la patria, come lui ha fattononostante le forti pressioni ricevute dalla famiglia. Scriveva chesarebbe tornato solo se glie lo comandavano il vescovo e i supe-riori dell’Istituto, nonostante le necessità dei suoi cari 1. PadreCesare Pesce fa parte della generazione successiva a quella dipadre Cremonesi. In Italia c’è tornato più volte.

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1 GHEDDO P., Alfredo Cremonesi, un martire per il nostro tempo (1902-1953), Emi, Bologna 2003, pp. 235.

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Sfuma il sogno di convertire i Khotryio

L’avventura apostolicamente più interessante, che padrePesce ha vissuto a Ruhea e di cui ci ha lasciato il ricordo, è l’ini-zio del movimento di conversione dei Khotryio, una delle tantecaste e sottocaste del mondo religioso e sociale dell’induismo. IlBengala indiano, dove incomincia l’avventura, era a quei tempipoliticamente dominato dal Partito comunista bengalese, al pote-re nella capitale dello stato del Bengala indiano, Calcutta. L’in-flusso politico ma anche culturale del comunismo si estendevaanche al di là dei confini del Pakistan orientale, cioè nel Bengalapakistano a grande maggioranza islamico (futuro Bangladesh).Tutto comincia quando la propaganda del Partito convince imembri delle caste più basse che ogni uomo è comunque unuomo, sia un bramino che uno spazzino. Quindi bisogna corag-giosamente violare le regole che governano il sistema delle caste:la separazione assoluta (“apartheid”) fra i membri delle variecaste, secondo la quale i membri delle basse caste (o i fuoricasta)non possono impunemente toccare quelli delle altre caste o, peg-gio ancora, mangiare con loro.

Un “thakur” (santone) dei Khotryio, per mostrare pubblica-mente la sua ribellione contro il sistema delle caste, in un affolla-tissimo mercato nel villaggio di Bhamradaha, prende una focac-cia dal banchetto di un paria e se la mangia. Il povero “Thakur”è immediatamente ostracizzato, non solo dai membri delle altecaste, ma anche da quelli delle caste inferiori. Ma questo gesto fariflettere molti. Avanza tra i poveri una mentalità nuova, rivolu-zionaria rispetto al sistema delle caste e favorevole al Partitocomunista che ha innescato questo processo di coscientizzazione.Gli anziani e le donne obiettano che le pratiche religiose tradizio-nali non si possono abolire; gli attivisti comunisti rispondono:“L’Italia è il paese che ha il maggior numero di comunisti, eppu-re è anche il miglior paese cristiano al mondo”.

Così, senza che padre Cesare sapesse nulla, i Khotryio deci-dono di entrare nel Partito comunista e di farsi cristiani e orga-nizzano a Ruhea una grande assemblea a cui invitano il missiona-rio e il suo catechista Mahonto a spiegare chiaramente la religio-

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ne cristiana e la posizione della Chiesa riguardo alle caste e allasocietà indiana. Mahonto fa un discorso che padre Cesare defini-sce “brillante”: insiste sulla predilezione di Gesù per i poveri, peri fuori casta, in una società in cui comandano i ricchi e i potenti,suscitando impressione positiva nella gente.

Dopo alcune settimane, il missionario e il suo catechista sonoinvitati a celebrare i servizi cristiani in tre cappelle che i Khotryioavevano costruito nei loro villaggi. Poi, nel tempo natalizio, essiinvitano i Khotryio alle cerimonie in un villaggio cristiano: riman-gono stupiti per la solennità e la gioiosità di quei riti e di avere lapossibilità di pregare con i cristiani, recitando preghiere così bel-le. Intanto il “thakur” (santone) da cui è nato il movimento, inco-mincia a prendere parte alle riunioni mensili dei catechisti che sitengono a Ruhea ed esprime il desiderio non solo di essere bat-tezzato, ma di diventare catechista presso i Khotryio e gli indù dibassa casta. Padre Pesce è felice e lo manda da padre Ferdinan-do Sozzi che in 15 giorni lo restituisce dopo averlo tenuto con sée istruito nella fede e nella preghiera cristiana.

Tutto troppo bello e splendido per essere vero! – commenta padreCesare. – Io avevo paura di tanta euforia e nell’anticamera del miocervello girava un detto latino che mi tornava spesso alla mente: “Incauda venenum!” (il veleno sta nella coda!). Purtroppo ho dovutoimparare che spesso sensazioni di questo tipo portano a qualcosa dispiacevole.

Infatti, un bel mattino dopo la Messa, Mahonto gli dice:

Notizie brutte dai Khotryio. La settimana scorsa è morto il picco-lo figlio del “thakur” e nel villaggio si mormora che questa è lavendetta degli dei contro chi ha abiurato la fede indù. Il thakurnon solo ha dovuto sopportare la sofferenza per la morte del figlio,ma anche gli insulti della sua gente. Rimangono con noi solo il vec-chio carpentiere e sua moglie. Inoltre ieri sera un gruppo di quel-li che hanno costruito le cappelle sono venuti a dirmi che non pos-sono entrare nella Chiesa perché i proprietari delle terre su cuihanno costruito le loro povere capanne, minacciano di buttarli sul-la strada.

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Il catechista vorrebbe denunziare i proprietari di terre al tri-bunale pakistano, ma padre Cesare non è d’accordo. Non è benecreare altre inimicizie alla missione. Se si va in tribunale, la que-stione diventa lunga e finirà per esasperare i rapporti con il mon-do non cristiano. Dice a Mahonto: “I Khotryio hanno aspettatotanto per incontrare Cristo, aspetteranno ancora. Aspettiamoanche noi” 2.

“Dopo tredici anni, per adesso può bastare”

È il 1960. Il sogno di convertire i Khotryio sfuma in un atti-mo per un motivo assurdo. È una pesante sconfitta che pesa sul-l’animo di padre Pesce: ne esce umiliato e prostrato sia fisicamen-te che psicologicamente. Aveva pregato e nutrito grandi disegnisu questa bassa casta indù che voleva entrare nella Chiesa: pote-va essere l’inizio di un cammino nuovo nell’apostolato in Benga-la. Non più solo tribali che vivono (vivevano) nelle foreste, sepa-rati dalla società bengalese, ma anche indiani, indù. Invece, nul-la. La morte del bambino del thakur, il capofila di quelli che vole-vano diventare cristiani, è interpretata secondo la mentalità paga-na: gli dei indù si sono vendicati. E Cesare vede crollare tutto ilcastello di sogni e speranze che aveva costruito nella sua testa, nelsuo cuore e che sicuramente aveva comunicato ai confratelli, alvescovo. Un fatto quasi assurdo, difficile da digerire. Pregando eriflettendo scrive:

Un contadino non è mai arrabbiato quando semina e io ho sempli-cemente seminato. Altri raccoglierà. Il maestro Theilard de Chardindiceva: ‘Ogni cosa avviene per un domani migliore’. E allora, per-ché lamentarsi?...Dopo dodici anni ininterrotti di vita con questa realtà tanto diversadalla mia e tanto difficile, con le caste differenti, le varie tribù: hari,

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2 Chi raccoglierà i frutti di questa semina sarà padre Luigi Pinos, che neglianni ottanta e novanta entrerà ancora in contatto con i Khotryio e otterrà con-versioni.

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santal, oraon, risi, metors, ciascuna con le proprie abitudini, tradi-zioni, usanze talvolta noiose, divertenti... Una realtà di fratelli spar-pagliati in una miriade di piccoli villaggi sperduti e difficili persinoda trovare... Sognavo il panorama delle mie vallate sull’Appenninoligure, l’aria salmastra proveniente dal Mar Ligure. Un giorno con-sultai i registri dei battesimi e vidi che dal 1952 avevo amministra-to oltre tremila battesimi; nel 1959 (l’anno migliore) circa 300 bat-tesimi. Questa volta dissi a me stesso: per adesso può davvero basta-re. Fa’ il tuo fagotto e va’... Era la prima volta che questa frase veni-va pronunziata da me in Bengala. Così partii per Novi Ligure, congià in tasca il biglietto del mio ritorno e nel mio cuore uno splendi-do sogno.

Quando padre Cesare sbarca dall’aereo a Roma, l’Italia non èpiù quella che aveva lasciato dodici anni prima. Era partito nel1948, con un paese distrutto dalla guerra, ancor molto povero,radicalmente diviso e attraversato da odi, vendette e violenze.Dopo dodici anni in Bengala, il missionario di Tortona scrive 3:

Arrivo a Roma e tutto mi stupisce: un altro mondo per me. Parloitaliano, ma a volte mi intoppo, non mi viene subito la parola... Eche differenza con le mie abitudini e mentalità acquisite in Benga-la. Gli amici mi invitano a pranzo e non riesco a far onore alla tavo-la. Mi invitano a parlare dei miei dodici anni passati laggiù e io,dopo le prime battute, rimango impappinato, nel dubbio che miprendano per uno che le sballa grosse. Mi invitano a fare qualcheconferenza e alla fine gli organizzatori mi rimproverano: “Ma per-chè non parli dell’infelicità, della miseria, dei morti di fame, deisacrifici che fai laggiù?”. Sacrifici? Come se buttar giù tutti gli anti-pasti sofisticati e sti piattoni di ogni ben di Dio, pesanti come ilpiombo, per poi ingoiare medicine amare come il tossico nel tenta-tivo di combattere il colesterolo, non fossero sacrifici più grossi!

Questa la prima impressione, ma poi Cesare si ambienta nuo-vamente in Italia, anche se non vuole parlare della miseria dei

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3 In Le Strade della vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989,p. 65.

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bengalesi, per non dare un’immagine errata della sua nuova patriae del suo carissimo popolo. In un’intervista a «Il Popolo di NoviLigure» dice4:

Sono tornato volentieri, ma il mio pensiero è sempre là, alla missio-ne... Mi fermo in Italia sei mesi, ma le dico che ho lasciato il cuorea Ruhea. E se è umana la gioia di ritrovarsi in questa breve paren-tesi coi parenti e gli amici, sento che la mia vita è laggiù, dove hopiantato la mia vocazione e dove il sacerdozio assume dimensionicosì sconfinate, che non saprei concepirlo né più bello, né più entu-siasmante.

Otto mesi passano in fretta e Pesce si ritrova sul piede di par-tenza nel dicembre 1960. Notare che è aumentato di 15 chili e cheil portafoglio è pieno dei generosi aiuti di parenti e amici. Ades-so gli spiace lasciare la patria, ma parte con entusiasmo perché hadei piani per la missione di Ruhea, che spera di mettere in attocon l’amico padre Mario Alvigini, suo condiocesano di Tortona.Quando giunge alla missione, in pochi giorni si accorge che padreMario

durante la mia assenza, aveva svolto uno splendido lavoro. Pensavo:lasciamolo continuare col suo entusiasmo e il suo sistema, che hadato così eccellenti risultati, io andrò più a sud, come Lot lasciòAbramo per andare nella valle del Giordano. Oltre tutto, la città diThakurgaon si stava sviluppando velocemente e per la Chiesa eradavvero indispensabile essere presente, senza altri indugi.

Il pranzo di Natale fugge nella giungla

La vita di padre Cesare era veramente fondata sulla fede.Questo viene fuori da un dato di fatto basilare, dimostrato da tan-ti episodi precisi: era a servizio del Regno di Dio e non del pro-prio interesse. Ecco perché, quando si rende conto che a Ruhea

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4 «Il Popolo di Novi Ligure», 3 aprile 1960.

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padre Alvigini fa “uno splendido lavoro”, invece di arroccarsinella parrocchia che ha fondato e dove ormai si è “sistemato”,abbandona a poco a poco Ruhea nelle mani del giovane missio-nario e fissa la sua residenza a Thakurgaon, ricominciando dacapo la fondazione di una nuova missione, con tutte le difficoltàche questo comporta: acquisto del terreno, costruzione della pri-ma residenza e della cappella, della scuola e della casa per le suo-re, presa di contatto con i gruppi di cristiani dispersi nel mareislamico, formazione dei catechisti, visita ai villaggi annunziandoe testimoniando la carità di Cristo...

Ha solo 41 anni, le forze e l’entusiasmo non gli mancano.Anche la Provvidenza si ricorda di lui: a Novi Ligure gli hannoregalato una macchina per fare i mattoni e gli “Amici di DonCesare Pesce” di Voghera gli mandano addirittura una sufficien-te quantità di cemento per la prima costruzione, “che arrivò comeacqua benedetta in un deserto, data la quasi impossibilità di com-prare cemento sul posto”. Dio l’aiuta a trovare un buon capoma-stro “bihari” (musulmani fuggiti dall’India durante il periodo del-la partizione del territorio fra India e Pakistan nel 1947), che siprodiga a insegnare il mestiere “agli inesperti operai, che per laprima volta costruivano in cemento e mattoni e non in paglia efango”.

Ogni giorno, all’alba, arrivavo a Thakurgaon in treno o in motoci-cletta e alla sera tornavo a Ruhea, talvolta con lunghi tratti a piedi,quando la moto non voleva procedere nel viscido fango. Che incre-dibili fatiche! Ma alla fine potevo dire: “Grazie, mio Dio! Grazieancora di tutto. Ora, per favore fammi dormire in pace in questopiccolo buco che ho riservato per me nella veranda e tu puoi pren-derti la stanza grande che adesso sarà adibita a chiesa, ma in futuroservirà da ufficio e da stanza da letto”.

Padre Cesare rimane a Thakurgaon fino all’estate 1965. NelNatale 1964 sono andato a trovarlo, dopo essere stato da Alvigi-ni a Ruhea. La missione era ancora formata dalla semplice caset-ta del missionario, con una cappella provvisoria e un bel terrenosulla strada e verso la campagna, dove stava sorgendo la scuola.In occasione del Natale 1964 qualche centinaio di cattolici triba-

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li (santal e oraon) sono venuti alla missione per celebrare assiemela grande festa di Gesù e per fare i loro incontri annuali, sia reli-giosi che civili.

Rimangono nella missione due notti, in pratica circa tre gior-ni, dormono sotto tettoie di paglia, per terra, su stuoie di bambù.Nel cortile hanno costruito delle tettoie di bambù e paglia; ovun-que festoni di carta colorata, sulla facciata della chiesa una gran-de stella di Natale illuminata, visibile nella notte anche da lonta-no. Il momento forte della festa, oltre alla Messa solenne dellavigilia e quella del mattino di Natale, è il pranzo comunitario amezzogiorno. Le feste riescono bene quando si può mangiare acrepapelle. La missione ha preparato quintali di riso e poi verdu-re, frutta, peperoncino (per la salsa piccante), miele, zucchero efarina per i dolci. I tribali hanno portato dai loro villaggi in fore-sta sei cinghiali catturati in trappole, vivi. Sono nel recinto, ver-ranno uccisi il mattino di Natale per il pranzo. Secondo la tradi-zione dei cacciatori oraon e santal, il cinghiale catturato in fore-sta con l’inganno non può essere macellato a freddo. Deve poterfuggire, avere una via di scampo, e poi cacciato e ucciso.

Così il mattino di Natale, dopo la Messa all’alba, un rullo ditamburi segna l’inizio della caccia. I cinghiali escono uno per unodal recinto, si lanciano pancia a terra verso la vicina foresta, ma,quando il capo-caccia dà il segnale abbassando una bandierina,cadono trafitti da varie frecce scoccate anche da notevole distan-za dai cacciatori, che sono una decina posti in varie parti del ter-reno, quindi non devono sbagliare. L’ultimo cinghiale, il più gros-so, riserva una sorpresa. Appena uscito, invece di fuggire, si pian-ta sulle quattro zampe fuori del recinto, sta fermo e muggisceminaccioso. Forse ha capito che se scappa come i cinghialetti chel’hanno preceduto, è finito. Ma come si fa a tirare su un animaleche non fugge? Sarebbe una vergogna per questo popolo di cac-ciatori. Cercano di stimolarlo, ma il cinghiale grugnisce di bruttoe manda a gambe levate due giovani che gli si sono avvicinatitroppo, con della paglia incendiata per mettergliela sotto la pan-cia. Il capo-caccia non sa cosa fare.

La gente ormai ride, la tensione si allenta, i cacciatori abbas-sano l’arco. Allora il grosso cinghiale, improvvisamente, parte

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sparato come un razzo, travolge alcuni che erano sulla sua via escompare nella vicina foresta. Impossibile mettersi a mangiare inquelle condizioni di spirito. La fuga del cinghiale è uno scaccoper i tribali che hanno fama di formidabili cacciatori; per di più,i musulmani, che sono la maggioranza a Thakurgaon, sono venu-ti numerosi ai bordi del cortile e campo da pallone per vedere lafesta e se raccontano questa incredibile sconfitta dei cristiani, neva di mezzo anche l’onore della fede e della Chiesa… I capi orga-nizzano cinque squadre di battitori e dicono: “Non si mangia fin-ché il cinghiale non è abbattuto”.

La caccia in foresta dura fino alle quattro del pomeriggio.Lunga l’attesa, ma trionfale il momento del ritorno dei cacciato-ri, che mostrano il grosso cinghiale penzolante da due lunghe egrosse aste di bambù portate a spalla da otto uomini. La gioiaesplosiva dei tribali non conosce limiti. Un pranzo di Natale daricordare per generazioni. Si è continuato a mangiare fino a not-te, con canti e danze, al chiarore della luna piena.

Inventa il “Concorso biblico per corrispondenza”

All’inizio del 1965, Cesare incomincia a scavare per le fonda-menta della nuova chiesa di Thakurgaon. Ma, come sappiamo, lasituazione di padre Pesce è spesso questa: quando ha fatto i suoipiani e si crede sistemato, ecco che qualcosa lo sbalza da cavalloe deve ricominciare da capo. Nell’estate 1965, fra India e Paki-stan scoppia uno dei tanti incidenti di frontiera che a volte por-tano ad un conflitto più o meno vasto e duraturo. La cittadina diThakurgaon è vicina al confine dell’India e il governatore dellaprovincia ordina a tutti gli stranieri (“per la loro sicurezza”) dilasciare il paese. È un nuovo “Fa’ il tuo fagotto e va’” (“Pack upand go”) come spesso succede nella vita di padre Cesare.

Il Signore però gli risparmia l’umiliazione di dover tornareuna seconda volta in Italia. Così, andato a Dacca, l’arcivescovoottiene il permesso dalle autorità di trattenerlo mandandolo nel-la missione di Mothbari, vicina alla capitale, per aiutare unanziano e ammalato missionario americano, “ben felice di trova-

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re in me un assistente”, scrive Cesare. Anche a Mothbari si tro-va coinvolto in una costruzione impegnativa: una nuova grandescuola.

Ogni giorno mi svegliavo all’alba e andavo in giro, in motocicletta,nei vari villaggi per le confessioni, le messe, qualche parola veloce,per poi tornare a dirigere i lavori della scuola... Secondo il mio soli-to, lavoro specialmente tra i ragazzi e le ragazze della scuola, pen-sando al bene spirituale e umano di queste 1400 anime. Tutto som-mato mi trovo bene, ma il pensiero della mia chiesetta lasciata ametà, là sulla strada che unisce la cittadina alla stazione ferroviariadi Thakurgaon, alla scuola nuova non del tutto finita, mi fa stare unpo’ in ansia. Pazienza!

Padre Pesce comunica poi al Superiore generale 5 che i suoialunni di Thakurgaon hanno preso tre delle quattro medaglied’oro nel concorso catechistico diocesano 1965: così gli scrive ilpresidente diocesano dell’Azione Cattolica di Dinajpur. Invece, aMothbari, Cesare studia un nuovo sistema di insegnamento delcatechismo. Scrive:

Non ero affatto soddisfatto di me stesso. La mia eccessiva passioneper i mattoni e le costruzioni stava diventando pericolosa per me!Allora cercai di realizzare qualcosa di esclusivamente religioso, chepotesse attrarre di più gli uomini verso Dio.

Così, leggendo il «Morning News» di Dacca si accorge che ilquotidiano sta facendo un concorso sulla lingua bengalese, pro-ponendo ai lettori vari quiz per dimostrare di conoscere bene lalingua nazionale. Questo lo ispira per una iniziativa intitolata“Bible Contest by Correspondence”, Concorso biblico per corri-spondenza. Con l’aiuto della catechista suor Vincenza, preparauno schema di regole chiare e precise per i partecipanti, con lenorme del concorso, gli esami finali, i premi, ecc. Quando ritor-na a Thakurgaon nell’estate 1966, Cesare stampa centinaia di

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5 Lettera da Mothbari a mons. Aristide Pirovano del 28 dicembre 1965.

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volantini e li manda a tutte le parrocchie e organizzazioni dioce-sane di Dinajpur: riceve in breve più di mille adesioni e iscrizio-ni, dalle scuole elementari fino alle superiori e agli adulti.

Era per me un’ottima cosa avere il modo di occupare il mio tempoin modo piacevole e utile, nelle lunghe serate di solitudine: esami-navo e correggevo ogni foglio, dando le relative valutazioni. Ero feli-ce di questa mia iniziativa che, grazie a Dio e anche grazie ai molticollaboratori, stava dando risultati insperati.

Confortante anche il progresso della missione e della città diThakurgaon. Terminata la costruzione della chiesa e dell’edificiodestinato a scuola: “Ero felice nel vedere questi fabbricati, bagna-ti dal mio sudore, nei luoghi in cui appena qualche anno primaandavo a cacciare nella giungla qualche cinghiale per il Natale”.Intanto, “la mia piccola Thakurgaon si trasformava da un bruttovillaggio in una città, con scuole, palazzi, negozi e attrezzaturemoderne”.

Segretario di «Mani Tese» a Milano

Ma ancora una volta, come sempre, quando Cesare incomin-cia ad avvertire che finalmente si sta realizzando nei suoi piani disviluppo della missione, ecco che arriva l’imprevisto: “Fa’ il tuofagotto e va’!”. Nel 1968 mons. Giuseppe Obert, vescovo diDinajpur dà le dimissioni 6 e la Nunziatura avvia l’inchiesta fra isacerdoti diocesani per conoscere una terna di nomi fra i qualiscegliere il nuovo vescovo. Padre Cesare Pesce risulta il primodella terna fra i diocesani: il vescovo poi sarà scelto fuori diocesi,il bengalese mons. Michael Rozario, oggi arcivescovo di Dacca.Ma il fatto è significativo della stima di cui godeva padre Cesaretra il clero diocesano, anche locale, nella sua diocesi.

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6 Mons. Obert era nato a Lignod di Ayas in Valle d’Aosta nel 1890, nel 1968aveva 78 anni. Morì in Italia nel 1972.

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Il superiore generale del Pime, mons. Aristide Pirovano,richiama temporaneamente Pesce in Italia per dirigere l’associa-zione “Mani Tese”, nata nel 1963 al Centro missionario del Pimea Milano. In quegli anni in Italia furoreggiava la “Campagna con-tro la fame nel mondo”, lanciata dalla Fao nel 1960 e subito cor-dialmente appoggiata da Giovanni XXIII. La rivista «Le Missio-ni Cattoliche», di cui ero direttore (oggi «Mondo e Missione»), siimpegnò fortemente con servizi giornalistici e studi a documen-tare la tragedia del mondo moderno, di cui solo allora si prende-va coscienza: il mondo spaccato in due fra un Nord sviluppato,democratico, pacifico, istruito e un Sud affamato e afflitto daguerre, dittature, analfabetismo, ecc.

Anni appassionanti per noi missionari in Italia: eravamo con-tinuamente invitati a parlare in parrocchie, scuole, associazioni,centri culturali, comuni, università, radio, televisioni e via dicen-do. Così, nella primavera 1963 sono stato, con i padri AmelioCrotti, Giacomo Girardi e Carlo Torriani, tra i fondatori di “ManiTese” (il titolo era quello di una rubrica di aiuti ai missionari del-la rivista per gli adolescenti «Italia Missionaria»): un’associazionelaicale di sostegno al Pime nella campagna contro la fame, conmostre, conferenze, visite alle scuole, articoli, ecc. A fondamentodi Mani Tese c’era ogni settimana un incontro spirituale (letturadella Bibbia e preghiera) e organizzativo, poi il contatto con i mis-sionari reduci e sul campo per avere notizie, fotografie e proget-ti di sviluppo da finanziare.

All’inizio Mani Tese, il primo organismo nato in Italia per lacampagna contro la fame, venne lanciato da giornali e radio-tele-visioni ed ebbe una diffusione rapidissima e imprevista in ogniparte del nostro paese. Nascevano spontaneamente gruppi conquesto nome, che si costituivano in diocesi e parrocchie, maanche in scuole, comuni, industrie, banche, ambienti laici; e poiavvisavano il nostro Centro missionario a Milano e chiedevano diassisterli, di mandare materiale, visitarli. Tanto che, nel 1966 ilsuperiore generale del Pime, mons. Aristide Pirovano, chiede aglialtri tre istituti missionari italiani (Comboniani, Saveriani e Con-solata) di associarsi al Centro missionario Pime di Milano perrispondere a queste richieste di assistenza, conferenze, progetti di

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sviluppo. Mani Tese diventa in pochi anni un’associazione diffusaovunque: finanziava progetti di sviluppo (“micro-realizzazioni”),organizzava campi di lavoro per giovani, congressi e conferenze,pubblicava libri, riviste e manifesti, visitava scuole e ditte, ecc.

Quando nel maggio 1969 entra in campo padre Pesce, era dapoco scoppiato il “Sessantotto” e Mani Tese stava sfuggendo dimano agli Istituti missionari, che nel 1976 si ritirano lasciandoliberi i laici di continuare nell’impostazione politicizzata che imissionari non condividevano: da associazione di preghiera per lemissioni e di aiuto ai popoli poveri attraverso il finanziamento dimicro-progetti proposti dai missionari, stava diventando un movi-mento politicizzato “sessantottino”, secondo la moda culturale diquel tempo. Anni dopo padre Pesce dice in un’intervista 7:

La metodologia un po’ troppo “filantropica” di Mani Tese non col-limava pienamente con la dimensione più “verticale”, verso Dio,che è la mia e a cui non volevo rinunziare.

Personalmente, io sono l’unico del Pime e fra i missionari ita-liani che ha vissuto ininterrottamente in Mani Tese gli anni dal1963 al 1976 (all’inizio ero direttore delle pubblicazioni e anima-tore) e li ricordo con un po’ di nostalgia, ma anche come un tem-po di sbandamento collettivo: quasi tutte le sere ero invitato inqualcuno dei circa 80 gruppi che si erano costituiti in Lombardiaa discutere non di fame, di aiuti allo sviluppo e di micro-realizza-zioni, ma sui disastri del capitalismo e le felici prospettive delsocialismo (naturalmente il fallimento del comunismo dovegovernava era argomento tabù), rivoluzione violenta o non vio-lenta (quasi tutti erano per la prima ipotesi!), Cuba, Che Gueva-ra, Mao Tze Tung e la sua “rivoluzione culturale”, la “guerra anti-imperialista” in Vietnam e le “guerriglie di liberazione” in Africae America Latina, ecc.

Padre Pesce veniva dalle campagne del Bangladesh e avevaperso il contatto con la società italiana, ma soprattutto era rima-

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7 Intervista rilasciata a fratel Massimo Cattaneo, Dinajpur, 22 ottobre 2001(ciclostilato).

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sto un missionario autentico, non poteva approvare l’impostazio-ne politicizzata e ideologizzata di Mani Tese: era cosciente chenon aiutava i popoli poveri. Ecco due fatti da lui stesso racconta-ti 8:

Un propagandista di Mani Tese rifiutò un milione dall’industrialeDe Agostini, perché ritenuto frutto di sfruttamento. Il presidente diMani Tese, ing. Silvio Ghielmi, lo rimproverò: per colpa tua, doma-ni molti bambini del terzo mondo moriranno di fame. Una sera cri-ticavano Madre Teresa e le sue opere di carità. Prima di addormen-tarmi pensavo: “E quel poveraccio mendicante, nel momento dellasua morte, invece del sorriso amorevole della suora, avrebbe forsesentito sul suo volto l’alito di un cane rognoso…”.

Padre Pesce non capisce questa logica “sessantottina”, fa dif-ficoltà ad inserirsi nella bolgia di quegli anni; svolge il suo com-pito con grinta e coraggio, ma non può continuare a lungo. Ilpadre Venanzio Milani, comboniano, è stato segretario di “ManiTese” dopo padre Pesce e mi dice (intervista del 10 giugno 2004):

Padre Cesare s’è trovato in grave difficoltà perché in quegli annipost-sessantotto i gruppi giovanili erano una baraonda. Io ero statoall’inizio di Mani Tese e poi sono entrato come segretario avendogià un’esperienza di gruppi giovanili di quegli anni. Avevo 31 annie Cesare ne aveva 50, però con una bella esperienza di missione frai poveri. Era un uomo cordiale, saggio, equilibrato. Infatti il perso-nale della segreteria era contento di lui, soprattutto perché era unodei pochi che aveva veramente esperienza di popoli poveri. Però, difronte a tutta la rivoluzione di quegli anni, con proteste critiche,accuse, sostegno alle “guerre di liberazione”, non sapeva più chepesci pigliare. Inutilmente cercava di raccontare le sue esperienze,per far vedere che molte idee non erano giuste. Ma inutilmente, aquel tempo specie i giovani erano ammaliati dalle ideologie rivolu-zionarie e spesso perdevano il senso della realtà.Però padre Pesce ha lasciato in tanti, e anche in me, un bel ricordo

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8 In «Infor-Pime», bollettino interno di collegamento fra i missionari delPime, n. 36, aprile 1979, p. 14.

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di saggezza, equilibrio e capacità di decidere: partiva dalla cono-scenza della povertà e del terzo mondo, non dalle ideologie. Poi eraun uomo cordiale e spirituale, sarebbe stato un buon segretario diMani Tese, se non fosse capitato in momento quasi impossibile. Eraun vero missionario, ma allora i missionari, se non dicevano quelloche volevano quei gruppi scatenati, non erano ascoltati.

Padre Cesare approfitta di quel periodo in Italia per conse-guire un diploma di teologia pastorale con specializzazione dicatechetica, presso la Pontificia Università Lateranense a Roma 9.E nel novembre 1970 ritorna in Bangladesh. Il 16 novembre scri-ve da Dinajpur a mons. Aristide Pirovano:

Eccomi arrivato finalmente a Dinajpur, da dove a giorni partirò perla nuova destinazione nella giungla, lontano dal mondo civile o inci-vile... Che disastro in questo povero paese! Mi è parso più brutto diquando lo lasciai due anni fa... Sono arrivato con un’amarezza indi-cibile, ho ancora negli occhi lo spettacolo desolante degli slums(baraccopoli) di Bombay e Dacca... E mi rammarico di essere statotentato di rimanere in Italia, abbandonando questa gente alla suatriste sorte 10. E d’altra parte sono ancora tentato di essere perples-so sull’utilità, meglio, sul successo del nostro lavoro in un campocosì enorme, sproporzionato alle nostre forze. Siamo una gocciad’acqua nell’oceano, realmente! Beh, faremo quel che possiamo,fidandoci della verità del Vangelo. Oggi sto vincendo le emozioniinevitabili e “tirem innanz”.

La guerra per l’indipendenza del Bengala

Intanto, giorni oscuri si preparano per il Bengala, allora“Pakistan orientale”: la guerra civile sta covando sotto la brace

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9 Diploma conseguito il 19 giugno 1970. 10 Nel testo al computer Pack up and go padre Cesare scrive: “Sarebbe sta-

to un atto di codardia restare in Italia quando il mio paese di adozione si trova-va in enormi difficoltà. E così tornai nel Pakistan orientale, in tempo per poterdire: ‘Ci sono anch’io’”.

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del nazionalismo bengalese. Il Pakistan, nato nel 1947 per uniretutti i musulmani dell’India, che diventava indipendente dall’In-ghilterra, si divideva in due tronconi separati dall’India stessa:Pakistan occidentale con la capitale nazionale Rawalpindi (oggi lacittà nuova di Islamabad) e Pakistan orientale con la capitalelocale Dacca. Le due parti non si sono mai integrate ed era anchequasi impossibile integrarle! La classe dirigente, tutta del Paki-stan occidentale, impone ai bengalesi la “lingua nazionale”, l’ur-du, mentre in Bengala si parla e si scrive il bengalese, nobile lin-gua di elevata musicalità (la definiscono “l’italiano dell’Asia”)derivata dal sanscrito, con una letteratura di grande valore.

È solo una delle prepotenze che le popolazioni del Pakistanoccidentale (punjabi, pashtun, sindi, belucistani, ecc.) esercitanoverso i bengalesi; così, mentre il Pakistan occidentale si sviluppacon industrie e molte opere pubbliche (strade, dighe, ferrovie,ecc.), la parte orientale del paese rimane povera e quasi abbando-nata dal governo. L’opposizione cresce, specialmente dopo che ilgenerale Yahya Khan, presidente del Pakistan, il 29 marzo 1969proclama la “legge marziale” per imporre la dittatura militare. Lareazione nel Pakistan orientale è fortissima e alle elezioni politi-che generali del 7 dicembre 1970 l’“Awami League”, guidata daMujibur Rahman, conquista 167 seggi sui 169 riservati al Benga-la; mentre nel Pakistan occidentale il “Partito del Popolo” di Zul-fikar Ali Bhutto (opposizione ai militari) ottiene 83 seggi su untotale di 144. Nelle elezioni provinciali in Bengala la “Awami Lea-gue” conquista 269 seggi su 279!

Logicamente, secondo la volontà del popolo pakistano, Muji-bur Rahman avrebbe dovuto diventare presidente del Pakistan.Ma spesso le elezioni vanno in un senso e la politica in un altro.L’assemblea nazionale è tramandata di settimana in settimana,finché nel marzo 1971 scoppia in Bengala la rivolta contro i mili-tari e la burocrazia governativa del Pakistan occidentale. Le mani-festazioni violente, con centinaia di morti, incendiano tutte le cit-tà e per la prima volta sventola una nuova bandiera: sullo sfondoverde, un disco rosso e la carta geografica schematizzata del Ben-gala. È il segno della volontà dei bengalesi: indipendenza o alme-no autonomia totale dal Pakistan occidentale.

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Probabilmente, un paese come il Pakistan, diviso in due tron-coni da 2000 chilometri di India, non aveva alcuna possibilità disopravvivere. Ma l’errore madornale lo compie il presidenteYahya Khan, che dichiara: “Io sono un soldato, non un politico ecome soldato ho il dovere di difendere l’integrità nazionale”; così,invece di scendere a patti con i bengalesi e trovare un compro-messo, scatena una repressione feroce, con carneficine spavento-se. Questa storia della guerra civile in Bengala è sconosciuta inOccidente, come tanti altri massacri del genere che succedonofuori del nostro mondo. Basti dire che nelle città venivano uccisisoprattutto studenti, intellettuali, professionisti, cioè le élites ben-galesi: “In quei giorni – scriveva un missionario in una lettera delsettembre 1971, riferendosi alla primavera precedente – bastavaessere studenti e intellettuali, o con l’apparenza di intellettuali,per essere passati per le armi. L’Università di Dacca era diventa-ta un cimitero”.

Il 17 aprile 1971 l’indipendenza del Bengala viene proclama-ta in India, dove si instaura un governo in esilio: è la nascita delBangladesh. Intanto la guerra civile continua feroce. Milioni dibengalesi, braccati dalle truppe pakistane, si rifugiano in 156campi profughi in India, dove il primo ministro, Indira Gandhi,attende il momento opportuno per intervenire contro il Pakistan,dal 1947 in conflitto con l’India, soprattutto a causa del Kashmir(ancor oggi diviso in due). Il 6 dicembre 1971, la Gandhi ricono-sce ufficialmente il Bangladesh e comanda alle truppe indiane diintervenire per sostenere i patrioti bengalesi (“mukti bahini”). Letruppe pakistane, lontane dalla loro base del Pakistan occidenta-le, non possono nulla contro l’esercito indiano. Il 16 dicembre1971, il generale A.K. Niasi accetta la loro resa quasi incondizio-nata. Le folle bengalesi deliranti acclamano l’eroe nazionale e“bongobondhu” (“padre della patria”) Mujibur Rahman, libera-to dalla prigione: “Mujib joe, joe! Joe Bangla!”.

Naturalmente, come sempre succede nelle guerre civili parti-colarmente sanguinose, alle feste per l’indipendenza seguono i tri-sti giorni delle vendette e dei massacri di ex-militari del Pakistanoccidentale che non hanno fatto a tempo a ritornare nel loro pae-se (distante 2.000 chilometri!) e dei loro “collaborazionisti”,

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soprattutto i “bihari”, musulmani indiani fuggiti in Bengala nel1947-1948 dallo stato indiano di “Bihar”, per non rimanere nel-l’India indù dove si sentivano discriminati.

La Chiesa cattolica, che nella guerra per l’indipendenza ave-va protetto i partigiani bengalesi e la popolazione civile dalle vio-lenze assurde dei militari pakistani, si impegna a fondo per ospi-tare, nascondere, proteggere i nuovi perdenti e perseguitati! Lemissioni diventano centri di accoglienza di questi poveracci, mol-ti dei quali riescono, grazie anche ai buoni uffici degli organismidell’Onu e del governo stesso di Dacca, a uscire indenni dal Ban-gladesh.

Nel dicembre 1970, appena giunto in Bengala, padre Cesareè destinato dal vescovo a Mariampur, dove già aveva lavorato neiprimi tempi della sua permanenza in missione. Scrive:

Dopo circa vent’anni passati al nord del Bengala, eccomi di nuovoa Mariampur. I miglioramenti sono visibili dappertutto. Le vecchiecase dei soldati “bihari” ora hanno i loro giardini ordinati e curatie non mancano bellissimi alberi; la scuola della missione non è sol-tanto riparata, ma anche allargata, i laghetti vicini alle abitazioni deisantal sono pieni di pesci... Attorno alla chiesa dozzine di campi col-tivati a riso che aspettano la mietitura.I miei vecchi conoscenti sono felici di incontrarmi di nuovo, dopotanto tempo. Come assistente ho padre Gregorio Schiavi, sempre in-daffarato con le sue motopompe, che mai si arrende di fronte a nes-suna difficoltà. La sua presenza è una iniezione di fiducia e di sicu-rezza per eventuali pericoli. Vicino alla chiesa è stato costruito unnuovo convento per le suore di Maria Bambina. Ricordavo, vent’an-ni prima, suor Erminia che da sola e in compagnia di un enorme caneabitava in un tugurio diroccato e dispensava incessantemente paroledi conforto e consigli a tutti, nel suo bengalese mischiato all’italianogermanizzato del suo dialetto trentino. Dopo vent’anni suor Erminianon è affatto cambiata, sempre uguale, sempre sorridente, forse unpo’ più magra. Ma con lei adesso vi sono altre tre suore che lavoranonel dispensario medico dal mattino alla sera, ricevendo centinaia dipersone, ascoltando pazientemente le loro pene e sofferenze fisiche,rassicurando quella povera gente, timorosa e impaurita dagli eventiche si stanno profilando all’orizzonte.

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Testimone allibito di atrocità e massacri

A Mariampur Pesce si trova bene, ma dalla quiete italiana(per modo di dire, in quei tempi di “contestazione”!) precipita inun periodo di emergenza grave per i venti di guerra che soffianosul Bengala; e nel posto meno raccomandabile, cioè a pocadistanza dalla frontiera con l’India. La rivolta dei bengalesi con-tro i soldati del Pakistan occidentale è ormai generale, la repres-sione militare durissima, la gente scappa in India, specie i tribaliaborigeni e gli indù: finiscono negli affollati campi profughi chegli organismi internazionali hanno preparato. Persino il catechi-sta più importante della missione di Mariampur chiede a padreCesare di ricevere, lui e la sua famiglia, la Comunione come Via-tico per poi scappare in India.

Nella guerra civile dei bengalesi contro le truppe pakistane,diversi missionari del Pime hanno avuto avventure drammatiche,rischiando la vita e alcuni fuggendo in India, anche per assisterei profughi bengalesi nei campi di accoglienza. Padre GregorioSchiavi è brutalmente preso e minacciato di morte dai militari,per aver protestato contro l’uccisione di civili; padre AdolfoL’Imperio pure lui arrestato per diverse ore e minacciato di mor-te. A Ruhea (diocesi di Dinajpur), il 24 aprile 1971 viene uccisodai militari pakistani il sacerdote santal, don Luca Marandi, men-tre il padre Mario Alvigini, che ha preso il posto di padre Pescea Thakurgaon, così racconta la sua storia 11:

Fino al 14 aprile (1971) sono stato testimone allibito di atrocità estermini inesorabili: i fratelli contro i fratelli, senza alcuna pietà! Poivenne il peggio. Il giorno 15 aprile, verso mezzogiorno, essendomirecato in città in bicicletta, trovo tutto vuoto in un silenzio di tom-ba. Improvvisamente vedo la morte di fronte. Stanno entrando incittà reparti dell’esercito per occuparla, sparando all’impazzata conun volume di fuoco impressionante e assurdo, poiché nessunooppone resistenza. Salto giù dalla bici e mi nascondo dietro un albe-

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11 GHEDDO P., Testimonianze di missionari dal Bangladesh in «Mondo eMissione», aprile 1972, pp. 228-260.

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ro, poi vedo che è inutile nascondersi perché le pallottole fischianoda tutte le parti. Salto i reticolati della caserma-prigione saccheggia-ta nei giorni precedenti e vedo diverse persone fuggire impazziteverso il fiume. D’un balzo mi getto anch’io in acqua in una pioggiadi proiettili che falciano diversi disgraziati in fuga con me. Appenain acqua prendo a nuotare con la forza della disperazione. Un ragaz-zetto accanto a me, sebbene nuoti sott’acqua, viene colpito e l’ac-qua si arrossa del suo sangue.Arrivo all’altra sponda e mi butto a terra completamente espostoalla sparatoria di quei pazzi di soldati, che fanno il tiro a segno suifuggitivi. Sento le grida dei colpiti a morte e i fischi delle pallotto-le. Per più di mezz’ora rimango fermo come un sasso col cuore ingola, aspettando da un attimo all’altro di essere colpito anch’io. Noipreti diciamo: quando stai per morire, raccomandati l’anima a Dio.Storie, io pensavo solo (guarda che pazzo): se mi uccidono, pazien-za; ma se mi colpiscono e non muoio dovrò passare lunghe ore quisulla sponda, nessuno mi verrà in aiuto, morirò dissanguato col soleche mi picchia addosso… Però ogni tanto pensavo anche al buonDio e gli dicevo: “Se mi aiuti a non morire, giuro che scappo inIndia”. Adesso, a ripensarci, mi metto a ridere, ma in quei momen-ti il terrore mi penetrava lentamente nel cervello e nell’immobilitàassoluta pensavo: “Mario, stai calmo e non muoverti, se ti muovi tiprendono di mira e sei spacciato!”. Avevo già passato altri momen-ti terribili, come quella volta che un leopardo mi saltò addosso dal-la boscaglia e mi ferì con una unghiata, mentre lo facevo fuori conuna fucilata: ma questa volta era peggio!La cosa durò a lungo. Dopo mezz’ora non sparavano più perchéavevano fatto fuori tutti quelli che si muovevano. Vedo sull’altrasponda i soldati avvicinarsi al fiume e bere le sue acque, poi vannoverso la città, incendiando diverse casette. Tutto questo mentre con-tinuavo a rimanere immobile ed osservavo con gli occhi socchiusi:per fortuna tra me e loro c’era il fiume, ma morivo dal caldo, daicrampi e dal sudore che mi inondava il volto e tutto il corpo. Final-mente, i militari pakistani montano sui loro camions e se ne vanno.Aspetto ancora un po’ e poi mi alzo e vedo che altri disgraziati comeme si levano: anche loro hanno avuto salva la vita rimanendo per-fettamente immobili, alcuni anche feriti.

Alvigini, tornato alla missione, prende i suoi documenti epoche cose e scappa in India, dove potrà lavorare nei campi pro-

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fughi allestiti dagli organismi internazionali, ritrovandovi parec-chi dei suoi cristiani anche di Ruhea. Quando quasi un annodopo ritorna a Thakurgaon e viene a sapere che poche ore dopola sua fuga, i militari erano tornati e avevano saccheggiato la mis-sione.: “Se mi trovavano sul posto, scrive, chissà che brutta fineavrei fatto!”.

“Gesù è con noi, perché essere preoccupati?”

Cesare Pesce ha lasciato pochi ricordi del come ha vissuto laguerra civile in Bengala. Padre Angelo Rusconi, a quel tempomissionario in Bengala, ha scritto alla mamma una lunghissimalettera (gennaio 1972), in cui dice che padre Pesce “ha passatobrutti momenti sotto l’accusa di essere a capo della resistenzalocale, lui che aveva già fatto il partigiano in Italia ed era praticodi queste cose!” 12. Padre Adolfo L’Imperio scrive: “Padre Pesceè stato salvato all’ultimo momento dall’intervento di militari”.Cos’era successo? Lo stesso padre L’Imperio racconta (intervista-to nell’aprile 2004 a Milano):

Quando io ero a Dhanjuri e lui a Mariampur (due missioni vicine econfinanti, n.d.r.), nel 1970-1971, era il tempo della repressione pa-kistana nei confronti del nazionalismo bengalese e specialmente aiconfini con l’India i militari sorvegliavano la frontiera. Molta gente,di notte, scappava dal Pakistan orientale in India, c’era confusione erepressione, le missioni si erano mobilitate per aiutare la gente chescappava. C’erano i “bihari”, fedeli al Pakistan, che volevano assalta-re la missione di Mariampur perché cercavano i profughi. Noi inve-ce, a Dhanjuri, ospitavamo i profughi che arrivavano alla spicciolatadi giorno, gli davamo da mangiare e di notte scappavano nella vicinaIndia. Ma i militari del vicino accampamento di Fulbari facevanofinta di non vedere e dicevano sempre: “Tutto è regolare”.Un giorno, mi arriva una jeep militare a Dhanjuri e il maggiore vuolvisitare il lebbrosario e la missione. Lo porto in giro e poiché c’era

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12 GHEDDO P., Testimonianze di missionari del Bangladesh, «Le MissioniCattoliche», aprile 1972, pp. 228-260 (testo citato a p. 241)

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molta gente che con la missione non c’entrava per niente, sono sta-to sincero e gli ho detto che di notte scappavano in India. Lui midice: “Non si preoccupi, tutto è regolare”. In quel momento arrivaun catechista da Mariampur e mi porta una lettera di padre Pesceche diceva di essere assediato dai militari pakistani e che era pron-to a morire per la Chiesa e il popolo bengalese. Diceva: “Ormai sia-mo agli sgoccioli, prima o poi assaltano la missione. Ma io ho pre-parato le mie difese e se vengono non mi arrendo, mi difendo. Pre-gate per me e il mio popolo”.Allora io faccio vedere questa lettera al maggiore e gliela traducodicendogli: “Vede? Lei dice che è tutto regolare, ma nella missionequi vicina succede questo e sono i militari pakistani che disturbanoil padre e il popolo”. Il maggiore prende con sé il catechista sullajeep e vanno a Mariampur. La jeep aveva un cannoncino davanti epadre Pesce, quando vede il cannoncino, si prepara a dare fuocoalle difese che aveva preparato.

– Quali difese?

– Aveva fatto scavare attorno alla missione un profondo e largo fos-sato che aveva riempito di nafta ed era pronto a dargli fuoco. Poic’erano i santal con le loro frecce micidiali. In seguito, Cesare mi rac-contava di essere sicuro che avrebbero davvero respinto i militari.Non è che dicesse: mi arrendo alla violenza. No, aveva organizzato ladifesa. Fatto sta che, vedendo la jeep col cannoncino, allerta i suoiuomini e si prepara a difendersi; ma il catechista va avanti a mani al-zate e grida: “Padre, sono amici, sono amici!”. Così riceve il maggio-re nella missione, gli fa visitare tutto, profughi compresi, e gli dicechiaramente che i militari dell’accampamento vicino disturbano il la-voro caritativo della missione. Il maggiore chiama il comandante e isuoi aiutanti del campo vicino e dice loro: “Se i vostri militari fannodel male al padre e alle persone ospitate nella missione, voi siete re-sponsabili e vi accuserò di fronte alla corte marziale”. Padre Pescenon ha più avuto fastidi. Era il tempo fra marzo e giugno del 1971,quando i bengalesi si erano rivoltati contro i militari pakistani e bi-hari; soprattutto questi ultimi erano i più feroci oppressori dei ben-galesi. La guerra civile è scoppiata il 25 marzo 1971 e terminata, gra-zie all’intervento dell’India, il 16 dicembre 1971.

Perché padre Pesce non è fuggito in India come altri missio-nari del Pime che vivevano vicino al confine, che hanno seguito

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il loro gregge nei campi profughi indiani? Cesare racconta chequando il suo catechista è fuggito in India (vedi sopra), gli giun-ge, da un confratello che lavora nei campi profughi in India (pro-babilmente lo stesso padre Alvigini già ricordato), una letteraaccorata in cui gli dice di fuggire anche lui con le suore in India:restando in Bengala sono in grave pericolo, tanto più che in queigiorni varie voci avevano avvisato che era possibile un prossimoattacco alla missione di Mariampur da parte delle truppe pakista-ne. Cesare scrive:

Avevo paura, una incontrollabile paura. Convocai una riunionesegreta e per sicurezza ci riunimmo nel convento delle suore perdiscutere come comportarci in quella difficilissima situazione.Quando arrivammo al punto cruciale della situazione, e cioè seabbandonare la missione, suor Erminia, la donna più semplice cheio abbia mai incontrato, scese dalle scale e sorridendo ci disse: “No,fratelli, non andate via, per favore. Niente mai avverrà qui, poichéGesù è con noi. Perché essere preoccupati?”. E il suo volto, ormaicon molte rughe ma ancora bello, si illuminò tutto nel buio dellanotte. Così restammo e non avvenne niente.

Superata l’emergenza della guerra civile, la missione diMariampur riprende a marciare a pieno regime. Cesare scrive chela missione tenta di far entrare nelle cooperative agricole e nelle“credit unions” anche i musulmani e gli indù, ma le difficoltà chesi incontrano, “per i loro pregiudizi e ignoranza”, sono notevoli.Comunque, gli alunni della scuola della missione sono duplicatiin pochi anni, da 300 a 600 e sono “obbligati a fare scuola sottole piante” 13. In un’altra lettera Pesce butta giù uno spaccato divita missionaria quotidiana, quasi eroica se vogliamo, ma per luiera la normalità. Scrive 14:

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13 Lettera del 2 ottobre 1972 a mons. Libero Meriggi, direttore del Centromissionario diocesano e Vicario generale della diocesi di Tortona (morto il 15marzo 1996). Le lettere a mons. Meriggi e al Centro missionario diocesano diTortona, conservate in trascrizione al computer nell’Archivio generale del Pime(più di cento dal 1965 al 1999), costituiscono il materiale archivistico più impor-tante che abbiamo trovato per questa biografia.

14 Lettera a mons. Meriggi il 13 dicembre 1972.

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Sono le cinque del mattino e attendo che si rischiari per fare unamotociclettata a Belewa, un villaggio cristiano a una quindicina dichilometri, per preparare quella buona gente al Natale. Questomese è così: ogni mattina la messa in un villaggio e alla sera qui alcentro. Il tempo passa veloce e lieto. Mi rimarranno purtroppo unadecina di villaggi da visitare: ho sbagliato i calcoli e per Natale nontutti potranno confessarsi e comunicarsi. Sarà per dopo Natale.Sono ancora solo, essendo l’altro prete in Italia per le sue vacanze.Così mi rimane un monte di cose da fare e da pensare. Adessoabbiamo iniziato una quindicina di cooperative agricole e ti dico ioche non rimane neppure il tempo di fare il bagno prima del pranzo(se si può chiamare pranzo un piatto di riso bollito da solo). Doma-ni mattino, se mi sveglio alle 4,30 come oggi, scriverò alla tua segre-taria missionaria sulle nostre cooperative. Ciao e grazie di tutto anome mio e di tutta questa gente che ormai ti conosce di nome senon di persona.

Per completare il quadro, vale la pena di leggere quanto Cesa-re scriveva alla segretaria dell’Ufficio missionario diocesano(Camilla Brambilla). Dopo averle chiesto di interessare i lettoridel settimanale diocesano di Tortona per aiutare le sue coopera-tive agricole, aggiunge 15:

Io non ho proprio più il tempo materiale e poi non sono più capa-ce di scrivere articoli. Da quindici giorni mi alzo alle cinque, vadoin moto a dir Messa in qualche villaggio cristiano, magari a 30-40km. da qui (con quelle strade! n.d.r.). Ritorno, pranzo e lavoro inufficio fino alle sei di sera, celebro la seconda Messa con i cristianidi questo villaggio e i duecento ragazzi del “boarding” (ostello perstudenti), ceno in fretta perché alla sera c’è sempre qualche adu-nanza della S. Vincenzo o del Corr (Caritas bengalese) o delle coo-perative o qualche altro accidente che mi manda a dormire oltre ledieci. Ora debbo smettere perché mi accorgo che sono le 6 e deb-bo correre a Cheargaon dove mi aspettano per la Messa e le con-fessioni.

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15 Lettera del 16 aprile 1974 da Dinajpur.

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“I morti di fame non s’incontrano più per le strade”

Non so quanti missionari hanno fatto l’esperienza di padreCesare Pesce: credo pochi, pochissimi. Lui era un prete dispo-sto a tutto, malleabile, flessibile, aperto, generoso, sorridentenonostante tutto. Addentrandomi nell’esame delle sue lettere edella sua vita di missione, mi accorgo che il vescovo e i superio-ri del Pime lo usavano come un “jolly”: sapevano che col suocarattere cordiale, disponibile e molto concreto, ovunque anda-va faceva bene e lo mandano dove c’è bisogno di iniziare unlavoro o risolvere qualche problema o rimpiazzare altri che han-no realizzato poco oppure hanno combinato qualche pasticcio.Fatto sta che anche la seconda volta che va a Mariampur (Dau-lighat), vi rimane poco più di tre anni (dicembre 1970 – marzo1974), durante i quali crea le cooperative agricole e (come dicein una lettera del 27 giugno 1973) fonda un’azienda agricola edecine di scuolette nei villaggi che ne erano privi. Gli amici diNovi Ligure gli avevano regalato pompe per l’acqua e quelli diVoghera un trattore. Il parroco di Novi Ligure, don FrancoZanolli, ricorda:

In una lettera che mons. Brenta aveva scritto a padre Cesare, gli ave-va messo alcuni semi di pomodoro e qualche mese dopo Pesce gliscriveva: “Qui i pomodori vengono grossi come zucche”; e raccon-tava che nella sua fattoria si facevano tre e anche quattro raccolti diriso l’anno. La lettera venne letta nelle Messe qui alla Collegiata.Quando era in vacanza a Novi, padre Cesare parlava nelle scuole emeravigliava gli alunni quando affermava che nella scuola della suamissione i bambini ci andavano molto volentieri, ma poi aggiunge-va: “Almeno sono sicuri di mangiare per quel giorno una scodelladi riso con un po’ di pomodoro o altro condimento”.

Mentre era a Mariampur, il 24 giugno 1972 scrive a mons.Meriggi una delle poche lettere in cui traspare un certo sconfor-to, lui che era sempre così ottimista e pieno di speranza:

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Grazie della tua lettera e dell’aiuto generoso per questo povero pae-se disgraziato fino alle midolla delle ossa. Io davvero alle volte midomando quale diavoleria sia venuta a ficcarsi in questa terra. Dopotutte le traversie del ciclone e della guerra civile, siamo venuti oraalla siccità che ha impedito la semina del primo riso: si prospetta lafame, mi correggo, siamo già alla fame. Il C.O.R.R. (“ChristianOrganisation Relief and Rehabilitation”, la Caritas del Bangladesh)fa un lavoro immenso per tappare qualche falla, ma ci vuole altrocon 70 milioni di poveracci. Noi non ce la facciamo più: morti dallavoro per questo relief, i nervi cedono dopo un anno di guerra fral’esercito pakistano e i partigiani bengalesi (Mukti-Bahini) e unsecondo anno di lotta contro la fame, le malattie, la mancanza dilavoro di un popolo intero.I superiori e il Vescovo ora provvedono a darci un mese di vacan-za. Molti ne approfittano perché hanno davvero bisogno per la salu-te fisica e psichica. Sto pensando anch’io a questa possibilità, masono qui da solo e lasciare tutto questo ufficio e la parrocchia perun mese è un problema… Ad ogni modo per ora tiro avanti più conla fede e la forza morale che con la forza e la volontà fisica.

Nel marzo 1973 il vescovo chiama padre Pesce a Dinajpur permetterlo a capo del “Centro catechistico diocesano” da poco fon-dato (ma continua il suo impegno a Mariampur fino al marzo1974). Infatti a Mariampur Cesare si era già distinto per la capa-cità di fare “il catechista dei catechisti” come lui stesso scrive.Avrebbe potuto dire: “Ma insomma, basta, lasciatemi un po’ tran-quillo in questa missione che ho rimesso in piedi!”. Invece no:tace, obbedisce e va sereno dove lo mandano, come al solito, pie-no di entusiasmo. Qui non si tratta solo di bel carattere, c’è qual-cosa d’altro, che è la santità di vita, la forza di Dio che era in lui.Al massimo si confida con mons. Meriggi, direttore dell’Ufficiomissionario diocesano di Tortona 16:

Con dolore e sacrificio immaginabile ho lasciato il mio distretto mis-sionario e sono venuto qui col misero bagaglio di cognizioni appre-se qualche anno fa all’Università Lateranense, per tentare qualcosa

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16 Lettera del 16 aprile 1974 da Dinajpur.

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nella formazione dei nostri catechisti e formarne dei nuovi. È unlavoro massacrante di preparazione, ma bisogna che qualcuno siprenda questa briga. Speriamo che qualcosa riesca a fare, con l’aiu-to del Signore. Mi è spiaciuto molto, molto davvero lasciare quellamia buona gente di Mariampur, a cui mi ero affezionato come e piùdella mia famiglia. Ormai è fatta e ho cominciato a lavorare nel mionuovo campo. Certamente non avrò le soddisfazioni che può avereun pastore nella sua parrocchia, ma sono convinto che quest’operadeve avere la priorità sul lavoro stesso della parrocchia. E così sonoqui a chiederti una preghiera per aiutarmi a compiere il mio dovere.

Il corso residenziale per catechisti organizzato da padre Cesa-re a Dinajpur, centro della diocesi, durava due anni, con lezioni evita comunitaria come in un seminario. I suoi primi diplomatisono 28 (14 uomini e 14 donne, di cui 5 suore), “che dovrebbe-ro diventare i leaders del prossimo futuro, una specie di diaconianche sposati senza l’ordine”; poi ci sono i corsi brevi di uno odue giorni ai catechisti delle singole missioni, che Cesare tieneovunque venga richiesto. L’anno 1974, giudicando dalle sue lette-re, è stato uno dei peggiori, per le turbolenze politiche e soprat-tutto per una grave carestia, che egli a dicembre così ricorda 17:

Qui in Bangladesh la va un po’ meglio: i morti di fame non si incon-trano più per le strade. Il riso ormai matura nei campi e per un po’di tempo, almeno, i tristi giorni delle morti per fame non sorgeran-no più. Poi sui giornali leggo di grossi aiuti elargiti dalle NazioniUnite e da vari paesi: tutto fa sperare in un anno nuovo, miglioredel passato.

Nel 1975 gli viene affidato anche l’impegno domenicale nellaparrocchia di Saidpur (una quarantina di chilometri da Dinaj-pur), dove si trasferisce nel maggio 1977, mantenendo ancoral’incarico di direttore del Centro catechistico diocesano.

Padre Pesce era amicissimo di mons. Aristide Pirovano, aquel tempo superiore generale del Pime. Erano cresciuti assiemenel seminario teologico del Pime e diventati sacerdoti a poca

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17 Lettera a mons. Meriggi, 3 dicembre 1974.

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distanza l’uno dall’altro: Pirovano il 21 dicembre 1941 e Pesce il29 marzo 1942. Il missionario di Novi Ligure scrive al vescovo (4dicembre 1974) per gli auguri di Natale, ma anche, e forse soprat-tutto, per presentargli, “da buon amico”, un lamento che lui stes-so e altri fanno al “raja del Pime”: “raja” è il principe, il capo, ilpadrone. Cesare scrive che il vescovo di Dinajpur è tornato daRoma e lui gli ha chiesto come ha trovato mons. Pirovano. “È unpo’ invecchiato – risponde – e non ha idea di venire in Bangla-desh”. Cesare aggiunge: “Che tu abbia poca voglia di venire inBangladesh non è necessario un Einstein per intuirlo”.

La lettera va spiegata perché è interessante per inquadrare lospirito di padre Pesce. Mons. Pirovano era stato in Bangladeshqualche anno prima (1969) e diversi membri dell’Istituto l’aveva-no accolto freddamente e anche in modo sgarbato. Erano gli annidel “sessantotto” e un certo spirito di fronda e di contestazionedell’autorità si era diffuso nelle missioni, attraverso i missionarigiovani che vi venivano inviati, ma anche per la stampa interna-zionale e cattolica che diffondeva lo “spirito del sessantotto”. InBangladesh poi esistevano motivi più precisi per questo atteggia-mento: i missionari vivevano un’agonia continua: guerra di libe-razione, violenze e vendette dopo la liberazione; inondazioni ecarestie, povertà estrema della loro gente; epidemie di colera ealtre malattie... Come spesso succede nelle missioni più provate,i missionari avevano l’impressione che il Bangladesh fosse trascu-rato dai superiori del Pime e dall’Istituto stesso. Così quandoPirovano va in visita ai missionari del Bangladesh (con moltosacrificio perché non stava bene) un suo missionario gli dice:“Perché è venuto a trovarci? Lei qui è superfluo”; e poi in varimodi gli fanno pesare la sua presenza. In seguito manda il suovicario generale e alcuni consiglieri, ma lui non ci va più.

Il 19 febbraio 1975 Pirovano risponde a Pesce e gli ricorda imomenti belli del loro seminario. Il “caro Pesciolino” aveva, da“buon giovincello”, la passione del pallone e al lunedì, con altricompagni, comperavano «La Gazzetta dello Sport» per leggerladi nascosto, “giornale proibito agli occhi del buon e innocentepadre Caminada” (il rettore del tempo). Pirovano aggiunge chele sue “grane” sono ben altre che quelle! I seminaristi “almeno

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leggessero e studiassero solo la «Gazzetta dello Sport»: sarei sicu-ro, sicurissimo di avere dei missionari in gamba”. Invece in que-gli anni c’era la contestazione sistematica alla Chiesa, al Papa e aivescovi, ecc. Tanto che Pirovano era stato da poco costretto achiudere il seminario teologico del Pime, per riaprirlo l’annoseguente con nuovi superiori, professori e circa metà degli ottan-ta alunni di prima. Tutto questo per capire la situazione del vesco-vo superiore generale. Il quale scrive a Cesare:

Non è che non abbia voglia di vedere e visitare il Bangladesh. Laverità è che non ci sono più venuto e non penso di venire perché èstato scritto dalla... comunità che la mia è stata una visita inutile; equesto in un documento ufficiale esprimente la volontà della comu-nità. Deo gratias, mi sono detto; una bella grana di meno. Grazie alCielo non mi sono mai rifiutato di affrontare le grane, quando que-ste mi cercano e mi piovono addosso; ma il senno della vecchiaia (e,confessiamolo, un po’ di “puntiglio” nei vostri riguardi) mi ha inse-gnato a non rincorrerle e a non cercarle. Si sta meglio tutti: voi e io.D’altra parte, in coscienza sono tranquillo perché non si può dire,nonostante il “puntiglio”, che la Direzione generale abbia tralascia-to di curare e provvedere il Bangladesh: uomini e mezzi non sonomancati e siete la missione più aiutata; visite di membri della Dire-zione generale pure non sono mancate. Quindi, in pace voi e in paceio. Del resto sono sicuro che anche voi, pian piano, troverete la viagiusta non solo per aiutare questa povera gente morta di fame, maspecialmente per farne... discepoli del Signore: punto centrale dellamissione.

Naturalmente questa è la visione del problema che ne avevamons. Pirovano. La verità è forse più complessa, ma ho citatol’episodio per dare un’idea molto concreta delle tensioni che vive-vano i missionari del Bengala in quelle tragiche situazioni e di altri“incidenti” simili che capitavano in quegli anni post-sessantottinianche in altre missioni affidate al Pime (Filippine, Guinea-Bissau,Amazzonia, Brasile del sud). Pirovano conclude la sua letteraincoraggiando l’amico “Pesciolino”:

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Auguri per il tuo lavoro al Centro catechistico: per me lo consideroil lavoro più importante di tutta la diocesi: centro catechistico eseminario sono le due colonne della Chiesa. Coraggio: tu sei anco-ra giovane (relativamente) e non ti manca l’intelligenza, l’esperien-za missionaria e la scienza. Coraggio, Pesciolino, e resisti: è il più bellavoro e il più importante che ti possa capitare.

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4.PARROCO A PATHORGATA

La vita del missionario, specialmente di uno come padrePesce, sempre allegro perché prendeva tutto dalle mani di Dio, èquanto mai varia e ogni giorno nuova. Nei suoi 45 anni di Ben-gala, Cesare ha cambiato una dozzina di posti e di compiti, sem-pre mettendo in ciascuno di essi tutta la sua passione e agendocome se fosse il più importante e quello definitivo della sua vita.Ancora negli ultimi tempi, quando aveva più di ottant’anni, ci sia-mo visti nel santuario di Rajarampur (nel settembre 2001, era làdal gennaio 2000) e ho passato con lui una giornata a sentirlo illu-strare i suoi progetti non solo per il piccolo e nuovo Santuario diMaria, ma di contatti con musulmani e indù, di iniziative nuoveda intraprendere, di un libro che stava scrivendo sulla sua vitamissionaria. Ricordo che gli ho detto: “Tu non andrai mai in pen-sione”. Infatti, nel gennaio 2002 ha dovuto tornare in Italia ed èmorto a Rancio di Lecco il 13 luglio dello stesso anno. Libero daogni attaccamento, disponibile a tutto! Che bella vita! Che belmissionario!

Espulso dal Bangladesh per una bottiglia di cognac?

Nel 1975 padre Pesce riceve dal Vescovo l’incarico di assiste-re i fedeli della parrocchia di Saidpur, mentre è ancora direttoredel Centro catechistico diocesano. Saidpur, importante centroferroviario e cittadina moderna, è la più antica parrocchia delladiocesi di Dinajpur, fondata dai missionari del Pime all’inizio delsecolo XIX; ma anche quella con il minor numero di cristiani,quindi adatta a padre Cesare che dirigeva anche il Centro cate-chistico diocesano a Dinajpur. Due impegni faticosi, anche per icontinui viaggi dalla sede episcopale alla parrocchia, circa 60 chi-

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lometri, con le strade bengalesi di quel tempo! Ma Cesare nonaveva ancora 60 anni, era appassionato del suo lavoro e si impe-gnava ad organizzare la pastorale a Saidpur, mentre nel centrodella diocesi dirige il movimento catechistico con sempre nuoveiniziative a livello popolare, soprattutto producendo sussidi inbengalese per le scuole di catechismo. Nell’autunno 1976 si con-cede una breve vacanza in Italia e due mesi dopo, il 14 gennaio1977, è di ritorno a Dinajpur (lettera a mons. Meriggi del 25 gen-naio 1977). In un’altra lettera a mons. Meriggi (del 3 dicembre1977) così descrive i suoi due incarichi:

Io continuo a dirigere il centro catechistico e giro le parrocchie del-la diocesi per i corsi di istruzione e preparazione pastorale ai cate-chisti e leaders dei villaggi. Nello stesso tempo reggo questa vecchiaparrocchietta di Saidpur. Sto a casa poco tempo, ma questo sparu-to gruppo di cristiani ha un prete, dopo tanti anni che non avevanessuno, almeno alla domenica e alle feste religiose. Sto tentando inqualche villaggio indù di far conoscere che Gesù è nato anche perloro, speriamo bene! E poi sto scrivendo qualche libretto religiosoin bengalese, per aiutare i catechisti e i catecumeni. Così la mia gior-nata passa veloce e, spero, non inutilmente.

A Saidpur Pesce visita i villaggi in compagnia di due suore delCentro diocesano e scrive che “senza suore permanenti il lavoromissionario è sempre a metà: bambini e donne sono più curatidalle suore che dal missionario, senza contare poi la scuola ele-mentare e il dispensario medico”. Infatti a Saidpur avvia subito lacostruzione di una casa per le suore e ringrazia mons. Meriggi chegli ha mandato “una grossa somma, proprio necessaria” ancheper costruire la nuova scuola.

I suoi amici della diocesi di Tortona non lo abbandonano. Glimandano continuamente soldi, materiale da costruzione, attrez-zature per le sue opere e naturalmente molti pacchi e pacchetti.La signora Rita Mora (che Cesare ricordava con affetto come “labionda”), racconta un episodio degli anni settanta:

A quel tempo nelle missioni si spediva di tutto, si può immaginarel’impegno del gruppo San Paolo nei riguardi di padre Cesare Pesce.

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Era anche un modo per fargli sentire la nostra amicizia, in partico-lare nell’avvicinarsi delle grandi feste come Natale. Fu in una occa-sione simile che suggerii di occultare una bottiglia di cognac tra gliindumenti e le varie cose. Già gustavamo la sua gradita sorpresa.Ahimè, come ci sbagliavamo!!Da un suo ritorno in patria (perché di scrivere queste cose non sene parlava) in occasione della malattia della sorella che desideravavederlo, ci raccontò quali furono i grattacapi che ebbe all’ufficiopostale per sdoganare quel famoso pacco contenente la bottiglia dicognac. Il personale dell’ufficio, che ficcava il naso nei pacchi altruispecie se non musulmani, scoprì la bottiglia e padre Cesare dovettefaticare parecchio per non urtare i funzionari ultrazelanti, assicuran-do che lo usava come medicinale, e asserendo che, se credevano, lopotevano buttare a mare.Alla fine riuscì a sdoganare il pacco, compresa la bottiglia di cognac.Se la vide parecchio brutta, perché esisteva il reale pericolo di espul-sione dal paese. Il ricordo è vivo dentro me, perché mentre lui cirimproverava e ci raccomandava di non fare più una simile “genti-lezza”, guardava proprio me, eppure su quella bottiglia non c’eramica il mio nome. Avevamo però capito che padre Cesare conosce-va perfettamente il suo popolo bengalese, ma anche noi di NoviLigure. Mi viene spontaneo dire a padre Cesare: “Che bella vita èstata la tua!”.

“Ma i soldi arriveranno lo stesso”

Nel luglio 1979 padre Pesce è trasferito da Saidpur a Pathor-gata, dove rimane fino al 1995. Aveva 60 anni, che in Bangladeshvalgono più che in Italia, in quel clima e in quella povertà. In unalettera dei primi giorni della sua permanenza a Pathorgata, doveil vescovo l’ha mandato per sistemare i contrasti nati nella parroc-chia, scrive all’amico mons. Libero Meriggi di Tortona (24 luglio1979):

In Italia la gente della mia età (aveva sessant’anni, n.d.r.) è forzataad andarsene in pensione. Prende la canna da pesca e se ne va inriva al fiume in attesa dell’ultimo tramonto. Qui fortunatamente lecose sono un po’ differenti. Vedi l’intestazione della lettera? Cam-

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bio di indirizzo, vero? Già, il vescovo mi ha mandato a fare il par-roco di Pathorgata, dove il parroco e un gruppo di cristiani nonandavano più d’accordo. A rompere la pace erano sorte questionisulla scuola e sulla cooperativa agricola. Il parroco pensò bene didimettersi e di andarsene. Il Vescovo, che, oltre al resto, è nuovo, sitrovò in un ginepraio. Che fare? Pensò che un vecchio lupo del Ban-gladesh – 31 anni di missione ormai – potrebbe essere ancora utilea sciogliere la matassa. Ed eccomi qui.Due settimane fa feci il mio ingresso trionfale (!?)… in bicicletta, dal-la stazioncina ferroviaria di Panchbibi su una strada fangosa e visci-da. Ogni tanto mi fermavo a togliere il fango che si incastrava fra ilparafango e la ruota posteriore. Era la preparazione alla mia primamessa nella nuova parrocchia. Finalmente arrivo in chiesa. Chemalinconia! Dalla splendida chiesetta di Saidpur, forse la più belladel Bangladesh, ad uno stanzone fatto di fango e lamiere… poi nellacanonica costruita con fango e mattoni non imbiancati di calce.Per rendere l’avvenimento più solenne, all’aperto, tre o quattroragazze si mettono a danzare. Ce la mettono tutta, poverine, per sol-levare il mio spirito. Io sorrido, applaudo, continuo a ripetere: “Bel-lo! Magnifico! Artistico!”, ma rivedo nella mia fantasia le splendi-de ragazze musulmane della città lasciata, istruite nella loro piccolaaccademia di arte e musica. Che differenza! Nel ritmo, nelle moven-ze, nella grazia, nella bellezza …beh, ma forse il cuore è lo stesso, ilfine è lo stesso: versare un po’ di gioia nel mio vecchio cuore, pre-pararlo e scuoterlo al nuovo amore verso questa mia nuova famiglia.Uno studente legge un address (indirizzo) di benvenuto e d’augu-rio. “Bellissimo! Grazie!”, dico io e penso alla dolcezza della linguabengalese massacrata dalla pronuncia di un aborigeno… eppure lasostanza è la stessa. Ciò che vuole esprimere lo studente della cam-pagna di Pathorgata non è diverso da ciò che esprime il raffinato eil sofisticato studente cittadino di Saidpur. “Sta allegro don Cesare”,mi dico: “Ti vogliono già bene al tuo arrivo. Su, su, guarda il sole ele ombre rimarranno alle tue spalle!”. Così, a Pathorgata ormai, inun angolo della campagna del Bangladesh, lasciati i piccoli confor-ti che può offrire la città. Fango e campi di riso, strade impossibilie capanne di fango e paglia, ma alberi uccelli e fiori, fiori: orrido ebello. Immensamente bello. Dio mi ha mandato qui a cogliere i fio-ri, non le spine. Ma so già che per impossessarmi dei fiori dovrò lot-tare con le spine; forse è necessaria qualche goccia di sangue. Beh,

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è legge di natura. Ma ne vale la pena: inebriarmi del profumo diquesti fiori, anche se punzecchiato da qualche maligna spina dellagiungla. Ho un po’ di paura, è logico. Non so neppure da dove incomincia-re. Che avverrà? I miei amici musulmani mi rispondono in arabo :“Wallaha a’am” (solo Iddio lo sa) ed io aggiungo in italiano: “Qual-che santo provvederà”. Ricordati di me che sto tentando di coglie-re fiori fra le spine.

Infatti, gli amici di Tortona, Novi Ligure e Voghera non lodimenticano e gli mandano aiuti consistenti. Ma spedire i pacchiai missionari è spesso un’avventura. Una volta Cesare riceve unpacco da Tortona, ringrazia e scrive che quanto gli hanno spedi-to è graditissimo… però un’altra volta scrive: “State attenti: lafarina di polenta, lo zucchero e il caffè macinato sono usciti daicartocci e s’è creato un bel miscuglio. E adesso, che faccio?”. Mai problemi del missionario erano ben altri. Ad esempio, a Pathor-gata trova una chiesa che è un capannone di fango con tetto dilamiera. Bisogna costruirne una nuova, anche perché lì vicino“c’è una moschea nuova fiammante a fianco della tomba di unsantone musulmano, meta quotidiana di pellegrinaggi. Natural-mente i pellegrini vengono a curiosare da noi e io mi trovo sem-pre pieno di vergogna nel mostrare il capannone-chiesa…”. Peròle suore sono una priorità assoluta. Cesare incomincia a costruirela loro casetta, ma quando al sabato sera i muratori vengono achiedere la giusta ricompensa, lui si avvicina alla “cassaforte”(che, scrive, bisognerebbe chiamare “cassadebole”) e per fortuna,chissà come, ci trova il necessario. Aggiunge (lettera del 7 febbra-io 1980):

Quand’ero ragazzo, c’era un uomo che dal balcone di Palazzo Vene-zia a Roma gridava: “Chi si ferma è perduto!”. Lui non si è ferma-to e si è perduto. Spero che la stessa disgraziata vicenda non si ripe-ta per me. Quello là, volere o no, aveva una bella dose di temerarie-tà, io invece ho sempre una paura maledetta di fallire, se dall’altonon scende un raggio di sole o almeno un pallido chiarore di lunapiena.

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Gli amici italiani non lo lasciavano solo e lui scriveva: “Tidevo ripetere che ho ricevuto tutto: e pacchi e roba e soldi e pre-ghiere e amore. E ti devo ripetere il mio grazie e le manifestazio-ni di gratitudine e di gioia da parte dei miei ragazzi e delle suo-re”. Però poi gli amici vogliono che egli scriva articoli sul settima-nale diocesano di Tortona e su quello di Novi Ligure. Cesare,come abbiamo visto, sapeva scrivere bene, era geniale ed effica-ce. Ma spesso rispondeva scusandosi di non aver mandato artico-li: non aveva tempo, le sue mani da contadino erano ormai ina-datte a maneggiare la penna e via dicendo. Una volta finalmentescrive il suo articolo: come mai? perché? (Lettera del 4 ottobre1980).

Oggi finalmente scriverò, sebbene malamente perchè ho un denteche mi fa vedere le stelle. Non ho dormito tutta la notte e qui nonc’è un accidente di medicina per calmare il dolore. Beh, passerà.Forse, scrivendo e pensando ad altro, si sente meno.

A volte Pesce manda lettere e anche foto, ma tutto va perso.Allora si arrabbia, ma il massimo grado delle sue imprecazioni è“Orco cane!”. Oppure i pacchi e il materiale che gli amici manda-no non arrivano: allora Cesare diventa una belva e impreca controil personale delle poste o le dogane del Bangladesh. Nota che, datala difficile situazione politica del paese (colpi di stato e legge mar-ziale), i controlli sono diventati asfissianti e le dogane costano ildoppio dell’anno precedente. Non riceve quasi più il settimanalediocesano, nemmeno i numeri sui quali c’è un suo articolo: “Cosavuoi farci? Qualche volta al post-office hanno bisogno della bellacarta estera e ringraziano Allah quando essa cade facile preda nelleloro mani”. Così come quando i pacchi che contengono “food”,cibo, spariscono senza lasciare traccia e il povero “Pesciolino”legge costernato l’elenco di quel che c’era dentro: scatolette dicarne e sugo di pomodoro ad esempio, per insaporire ogni tanto ilriso bollito e non finire sempre nella solita salsa “curry”, cioè pic-cante. Come nel Natale 1983, quando gli mandano il necessarioper una “spaghettata” che doveva essere memorabile nella sua vitain Bangladesh. E invece deve accontentarsi del “solito curry”.

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Ma queste sono piccole pene, a confronto di quelle che suc-cedono nel periodo in cui si celebrano i matrimoni (dal Natalealla Quaresima), quando il missionario deve stare attento a nontrasgredire non solo le leggi della Chiesa, ma anche quelle dellatradizione tribale (non scritta) dei suoi oraon e santal, che sono“un rompicapo terribile”. Lui, dopo trent’anni di Bengala, ci faspesso “la figura dello stupidotto” ed esclama: “Il periodo deimatrimoni è finito, grazie al Padreterno e ad Adamo che li han-no inventati”. Ma padre Cesare è un appassionato del ministerosacerdotale, pur con tutti i fastidi che procura. Il 2 agosto 1981,dopo una rapida visita in Italia, scrive:

Eccomi arrivato a casa. Stamattina ho celebrato la Messa domenica-le e la chiesa era piena. I bambini naturalmente erano i più nume-rosi e i più adatti a farmi scappare la nostalgia di Novi e dell’Italia.Logico, oggi abbiamo pregato per i miei parenti, amici, benefattori,per tutta l’Italia e quelli che ci sono dentro, buoni e cattivi, sani emalati, felici e infelici. Sono lieto di essere ritornato. Ci saranno igrattacapi accumulatisi durante la mia assenza, oltre i soliti di ognigiorno. Lo sai che questa parrocchietta non è poi delle più facili eci vuole tutta la diplomazia di un … affezionato al Vaticano comesono io per cavarmela? Speriamo bene.Qui ora sono impegnato, un po’ troppo, per i corsi annuali ai matri-moniandi, ai genitori, ai catechisti, ecc. Oltre al resto, ho due suoreche tentano di dare un po’ di istruzione religiosa nei villaggi ed èlogico che debba seguirle un po’, almeno per la Messa nei diversiluoghi. Il Vescovo poi verrà in visita pastorale alla metà di novem-bre. Bisogna preparare i bambini alla Cresima: è dal 1975 che nonla si amministra. Per fortuna i 78 ragazzi e ragazze dell’hostel (pen-sionato scolastico) non danno fastidi. Mi porta via un po’ di calmail progetto di irrigazione, dato che non piove e i canali sono in unostato pietoso. La gente è sottosopra per la faccenda. Porterò la sab-bia e aggiusterò, almeno per il grano. Poi ci sarà la grossa porche-ria del tetto della scuola da cui, durante la stagione delle piogge,pioveva a catinelle e abbiamo dovuto far andare gli scolari a seder-si altrove, in posti di fortuna. Mi dico spesso: “Calma!” e tiro avan-ti. Così, Joy Bangla! (Lettera del 22 ottobre 1981).

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La vita quotidiana di padre Cesare, come degli altri missiona-ri, era strettamente dipendente dalla preghiera e dall’aiuto di Dio,ma anche dai soldi, che in genere non bastano mai: costruzioni,catechisti, aiuti ai poveri, mantenimento di orfani, scuole, dispen-sari medici e di altri servizi sociali, riparazione delle costruzioni(che in quel clima caldo umido si sfasciano presto!), ecc. Nellesue lettere Pesce non chiede quasi mai direttamente aiuti a paren-ti ed amici. Ringrazia sempre chi gli manda qualcosa, ma ha unagrande fiducia nella Provvidenza ed è distaccato anche dal dena-ro. A volte vorrebbe ringraziare ma dall’Italia riceve sommeanche consistenti e non capisce chi glie le manda! Il 22 febbraio1994 scrive a don Franco Zanolli, parroco della Collegiata diNovi Ligure:

Grazie della grossa somma che mi hai mandato. Caspita, che colpo!Ma a chi devo scrivere i ringraziamenti? C’è il nome ma non riescoa leggerlo e poi non c’è l’indirizzo. Anche mons. Meriggi mi mandala ricevuta e si ripete la stessa faccenda: nome indecifrabile e man-canza di indirizzo!

Nel 1979 Pesce stampa la prima edizione del volumetto Stra-de della vita (con la prefazione dell’amico francescano padreNazareno Fabretti), paga le spese acquistando un certo numerodi copie, che affida al direttore del Centro missionario diocesano,mons. Libero Meriggi, perché le venda realizzando qualcosa perla sua missione (la seconda edizione è del 1989). Nel 1981 gli scri-vono da Tortona che hanno ancora in deposito un buon numerodi libri: cosa ne facciamo? Cesare risponde di darli in omaggio edistribuirne una decina di copie a ciascuna delle zelatrici missio-narie, affinché le distribuiscano a chi può essere interessato, gra-tis. Se poi viene su qualcosa per la missione, tanto meglio, altri-menti va bene lo stesso; e anche se le offerte, invece di andare aPathorgata vanno a qualche altra missione non importa.

A me non importa proprio nulla se qualche bigliettone va a qualchealtra missione, anzi, ne sono arcicontentissimo. In generale nonchiedo mai per Pathorgata, come non ho mai chiesto per Thakur-

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gaon. Eppure là s’è costruito quasi tutto e qui ho il “boarding”(pensionato per studenti) da riparare, quelli di Jantuli vogliono lachiesa in muratura, ecc. Ma i soldi verranno lo stesso. Non temere,ce la faremo, vedrai (Lettera del 3 dicembre 1981).

Questa la vita missionaria: magnifica!

Negli anni ottanta, uno dei più forti ostacoli alle missioni cri-stiane in Bangladesh viene dai militari al potere, che hanno mes-so delle “regole tremende” per controllare il lavoro dei missiona-ri e gli aiuti che ricevono dall’estero. “Hanno cominciato col volersapere quanti nuovi cristiani vengono registrati, poi quante take(la moneta bengalese, n.d.r.) e in che modo e perché si spendo-no, specialmente se quelle take sono state acquistate con cambiodi denaro estero…”. Temono che con i missionari stranieri siinfiltri nel paese qualche teoria rivoluzionaria o che si “comperi-no le conversioni”. Padre Cesare ammette (lettera del 15 luglio1983) che, secondo quanto si dice, c’è qualche setta pseudo-pro-testante americana o coreana che “giunge alla demenza di daredenaro a questo scopo”. Ma questo non è assolutamente vero perla Chiesa cattolica e le Chiese protestanti storiche (anglicani, lute-rani, ecc.), per cui diventa “un abuso inammissibile” penalizzaretutte le missioni cristiane per qualche “demente” facilmente indi-viduabile e punibile.

Tanto più che proprio le missioni cristiane hanno una massanotevole di aiuti umanitari e di programmi di sviluppo, di cuibeneficiano tutti i bengalesi, senza eccezione di religione o dietnia. Come si fa a scoraggiare questo fiume di aiuti gratuiti, conuna caterva di “regole e regolette”, suscitando disgusto e anchequalche ritiro dal Bangladesh? È vero che le missioni cattoliche eprotestanti dipendono ancora in gran parte dagli aiuti dall’estero,con tutta “la massa di programmi umanitari” che gestiscono.“Come principio – scrive Pesce – anch’io sono convinto che ide-almente la Chiesa del Bangladesh dovrebbe essere indipendentee autosufficiente: ma dalla teoria alla pratica ci passa tutta l’acqua

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del Gange e del Bramaputra”. Nel senso che se la Chiesa pensas-se solo alla sua sopravvivenza e non ad aiutare il popolo, questosarebbe abbastanza facile: ma se vuol contribuire allo sviluppoumano, all’educazione, a lenire le miserie più disumane, deve perforza di cose chiedere l’aiuto dei fratelli cristiani di ogni parte delmondo.

Padre Pesce si interroga: come fare a scrivere articoli, “mani-festando con la stampa idee che non devono essere espresse?Allora, è meglio seguire la strada del vecchio Cincinnato: prende-re l’aratro e andare su e giù per i sentierucoli che dividono i cam-petti di riso”. E aggiunge:

Da trentacinque anni mi sembra di tirare a riva, in questo oceano dipovertà che è il Bengala, almeno qualche disgraziato naufrago e tivengono a immobilizzare le braccia. Ora sembra che le cose pren-dano una piega migliore, almeno più moderata. Il popolo, in gene-rale, vuole uno stato più laico, eccettuata la solita fascia di fonda-mentalisti. A domare i bengalesi non sono riusciti né gli inglesi né ipakistani e neppure le idee medievali e gli ulema del mondo arabohanno avuto successo. Io sono ottimista per natura e credo di nonandare errato a pensarla così.

Nella stessa lettera del 15 luglio 1983 (citata), padre Pescedescrive la visita pastorale del Vescovo alla sua missione, dove habenedetto due nuove cappelle in due paesini da tempo cristiani:“Mi sono costate un sacco di take. Sono contento però di averlespese in questo paese, tanto più che le cappelle durante la settima-na sono trasformate in aule scolastiche per i bambini aborigeni”.

Durante la visita ad un villaggetto santal, la cui popolazione è inmaggioranza “battista”, ho avuto la gioia di assistere ad un bel con-vegno ecumenico tra cattolici romani e battisti. Il Vescovo stessonon riusciva a realizzare la situazione, credeva di trovarsi in mezzosoltanto a cattolici, tanto i fratelli battisti andavano a gara a manife-stare la loro gioia di avere un Vescovo in mezzo a loro e a manife-stare il loro amore al rappresentante di Gesù indiviso, tra tante divi-sioni di uomini. Le scuole sono ancora chiuse in occasione del mese sacro di Rama-

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dan. È finito con la famosa festa dell’Eid celebrata questa settima-na. Fra giorni ricominceranno la solita storia: sacchi di riso e di takeper l’educazione di migliaia di ragazzi e ragazze dall’avvenire incer-to in una nazione della Mezzaluna (segno e simbolo del mondo isla-mico, n.d.r.). Adesso sono maledettamente affaccendato con lapiantagione del riso e nelle riparazioni del “boarding”. I vicini noncristiani (i cristiani qui sul posto, possiedono ben poche terre) sonosempre sul punto di azzuffarsi per prendere l’acqua dal progettod’irrigazione della missione. Eccoti qui la mia missione di raffred-dare con parole evangeliche e coraniche gli spiriti bollenti e butta-re soldi per tirar su acqua che servirà a sfamare centinaia, forsemigliaia di gente che si chiama “il nostro prossimo”. Altro che com-prare cristiani! Quest’anno si preannuncia nero: non piove per nul-la e senza acqua qui siamo come i pesci all’asciutto. Allah Rahamandega! Altrimenti povero Bangladesh, che Kissinger ha definito “Abottomless basket” (“Una cesta senza fondo”)!

Padre Cesare ama appassionatamente il popolo bengalese eha legato la sua vita di italiano alla nuova patria di adozione. Perlui è una sofferenza constatare, a volte, che la situazione genera-le pare vada peggiorando, non migliorando. Buona parte del suotempo lo impegna nelle opere sociali e di promozione umana edeconomica. Ad esempio ha varato un “progetto irrigazione” conuna pompa per tirar su l’acqua dal terreno e un canale di distri-buzione, che quando tutto va bene funziona. Ma, ad esempio, nel1984 manca l’elettricità per tre mesi e si rischia di perdere il rac-colto del riso. Il 7 luglio 1984 scrive a mons. Meriggi 1.

Per tre mesi siamo rimasti senza corrente elettrica. Puoi immagina-re la costernazione di tutta questa gente che si serve del progettod’irrigazione della missione. Senz’acqua non c’è alcuna possibilità dicoltivare il riso. Da una settimana, grazie a Dio e ai capi di questopovero paese, le lampadine stanno accendendosi… E pensare chementre noi diventiamo matti per avere l’acqua, in altre parti del pae-

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1 Testo pubblicato in occasione del Premio “Torre d’Oro” ricevuto a NoviLigure nell’ottobre 1998 (vedi opuscolo pubblicato in quella circostanza); e in«Missionari del Pime», dicembre 1998, p. 3.

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se più della metà del Bangladesh è allagato con la perdita del rac-colto di questa stagione.

Quel che preoccupa soprattutto padre Cesare è la situazionegenerale del paese. I militari, dopo il primo tumultuoso decenniodi nazione indipendente (due presidenti uccisi e vari colpi di sta-to, scontri di fazioni e partiti, scioperi continui), hanno impostola legge marziale e rimandato le elezioni politiche, dato che i par-titi d’opposizione avevano promesso di boicottarle. Il 2 novem-bre 1984 Cesare scrive:

Noi che siamo in campagna abbiamo e commentiamo soltanto lenotizie che vengono dalle città. Cosa vuoi che si interessino di poli-tica questi poveri contadini che lottano soltanto per avere un piat-to di riso condito malamente con un po’ di sale e due peperoncini?Il paese va avanti con gli aiuti che vengono dall’estero. Non siamonelle condizioni dell’Etiopia, ma i prezzi sono proibitivi… La vitapolitica è uno sfacelo. E di conseguenza l’economia nazionale va arotoli, le cose vanno di male in peggio.

Ma Cesare non ha tempo di scoraggiarsi. Deve mantenere,oltre a tutto il resto, 115 ragazzi e ragazze che ospita nel pensio-nato della missione per farli studiare. Dalla poca terra che la mis-sione possiede deve ricavare il vitto per tutta la tribù che dipen-de da lui: preti e suore, insegnanti e catechisti, orfani e studenti,poveri, vedove e ammalati (che non possono pagare nulla); e poiricavare il necessario per pagare lo stipendio agli otto insegnantiche istruiscono 300 studenti nella scuola della missione e agli altriche servono nella missione. Cosicché, scrive, quattro buoi e treuomini lavorano ogni giorno sui campi tentando di ricavare dal-la madre terra, anche variando le colture, il massimo che essa puòdare.

Il Presidente Zia (il capo del governo del Bangladesh, n.d.r.) – scri-ve in una lettera del settembre 1980 a don Franco Zanolli di NoviLigure – grida ai quattro venti che nemmeno un centimetro quadra-to di terra del Bengala deve rimanere incolto. Ma anche senza le sueparole, questo è un problema di vita o di morte. La Chiesa cattoli-

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ca del Bangladesh è tremendamente preoccupata di questo proble-ma dell’alimentazione ed è logico che i preti, insieme al Paternoster,insegnino a coltivare riso e grano e passino la maggior parte delleore del giorno nei campi o nelle aie a tentare di far capire come fun-zionano pompe e attrezzi agricoli. Allora, anch’io divento contadi-no. E ti assicuro che così la vita è bella anche senza la televisione eil cinema, il dancing e l’automobile. Di sera, dopo aver ascoltato ilgiornale radio con le solite terribili notizie di attentati e atti terrori-stici, mi butto sul letto e mi addormento all’istante al ritmico graci-dare delle rane, mandando a quel paese tutti gli stupidi, picciniegoismi nazionali e personali di chi siede sui cadreghini governatividel mondo.Buona notte a me! Domani all’alba mi attende quel campo in rivaal fiume, che mi fa sempre “girar l’anima” con le sue falle. Dovròsvegliare presto il mio uomo, per tamponarle ancora una volta: tre,quattro quintali di riso raccolto laggiù vogliono dire il rancio perdieci giorni dei miei studenti e studentesse all’Hostel! Buona nottea te e ai tuoi bravi giovani e ragazze di Novi Ligure! Buon riposo edolci sogni guadagnati col vostro sacrificio e le vostre offerte, neltentativo di tamponare le numerose falle morali, economiche esociali di questo povero campo del Bangladesh. Grazie.

Padre Pesce prende tutto con fede e amore a Dio e al prossi-mo. Quindi è sempre su di giri. Il 3 dicembre 1984, dopo averdescritto le situazioni di miseria del popolo e il lavoro delle mis-sioni per aiutare la povera gente, scrive:

La vitaccia, intanto, va più o meno come al solito: per Natale la visi-ta ai villaggi per le confessioni e le Messe, su e giù per le fantasti-che, impensabili strade (ma chi ha il coraggio di chiamarle strade?)del Bangladesh. Ritiri ai giovani, a uomini e donne… e poi la mie-titura del riso, semina del grano e delle patate. Tutto fa brodo. È lavita missionaria: magnifica!

Qualche anno dopo conferma (lettera del 28 maggio 1990):“La vitaccia continua, la più bella del mondo, perché è quella diun prete: la mia, la tua”.

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“Mi godo la povertà felice del Bangladesh”

Nella corrispondenza di padre Pesce si trovano lettere chesono quasi da antologia letteraria, almeno della letteratura missio-naria. Questa ad esempio del 1° maggio 1985, all’amico mons.Libero Meriggi (l’unico che ha conservato tutte le sue lettere!) daPathorgata, la parrocchia dove padre Pesce resta dal 1979 al1995. A Pasqua, per mancanza di tempo, non ha fatto gli auguria don Libero e a tutti quelli che, con le loro preghiere e aiuti, per-mettono alla sua missione di vivere e progredire. Cesare se neaccorge in ritardo, scrive all’amico e si presenta a lui “come il bar-bone della Piazza del Duomo (di Tortona), a testa bassa, umileumile, per dirti che sono contrito e umiliato, e chiedo scusa…”.Poi aggiunge:

Ma mi viene il dubbio: non è la mancanza di tempo per questi usua-li ritardi nello scrivere. Dolorosamente, ahimé, devo ammettere chedivento vecchio e il brio d’un tempo va a farsi benedire. Per scrive-re ci vuole concentrazione e io ora ne possiedo poca. Diventato par-roco contadino di questa missione che, grazie alle fatiche del miopredecessore, ha fama di essere all’avanguardia nei nuovi sistemi diproduzione agricola, mi piace un mondo sporcarmi le mani, aspira-re l’odore acido del diesel e mobil-oil presso la vecchia pompa cheirriga i campi dei miei compaesani.Che farci? Se non funziona la pompa della missione qui non c’èacqua. Caspita, se non c’è acqua non si mangia. Da un anno quimanca l’elettricità e il motore elettrico che pompava acqua per unacinquantina di famiglie contadine ora è inattivo. Mi hanno regalatoun vecchio Slanzi che mi fa diventar matto per le sue continuemalattie. A forza di altrettanti continui interventi chirurgici riesceperò, quando sta bene, a far contente una ventina di famiglie.Meglio che niente, no? E allora giù diesel e su acqua. Giù semi e suriso. Qualcosa si ottiene, una goccia nell’oceano, per sfamare ‘sticento milioni di gente che mangia quando può.Il manager della missione tempo fa è caduto giù dal secondo pianodella scuola ed è ritornato dopo qualche mese d’ospedale un po’menomato dal collo in su. Ora fa il pensionato, va a pescare, giron-zola e ritorna quando vuole; un piatto di riso, caldo o freddo, qui

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lo trova sempre. Mi ha lasciato però le sue incombenze di far semi-nare oggi la iuta, domani di piantare il riso e i peperoni, le patate evia via i prodotti propri di ogni stagione. Tutta roba che andrà a for-mare le ossa degli orfani e dei ragazzi del boarding. Io ci guazzodentro lieto come un pesce del vicino Tulsiganga (non per nulla michiamo “pesce”).Due settimane fa è stato qui a trovarmi il Vescovo Joakim (di Chit-tagong), un amico di vecchia data. Dopo una mia predichetta (inbengalese), a colazione mi fa gli elogi: “Parli bene, ti ho ascoltatocon gusto”. E va bene. Dopo qualche ora capita qui un amicomusulmano, l’ex sindaco del paese. Mentre toglie la chiavetta dallamotocicletta: “Magnifico!” grida tra gli scoppi del motore morente:“Questo è il campo di cipolle più bello del paese” e indica il cam-petto che costeggia la casa. Debbo dirti la verità? Mi ha fatto piùpiacere la lode delle cipolle che quella della predica. Cibo dell’ani-ma e cibo della pancia. Tento di dispensarne un po’ dell’uno e unpo’ dell’altro. Ma a sentire le mie prediche purtroppo, eccetto queiquattro buoni gatti di cristiani, non viene quasi nessuno, anche se ilVescovo di Chittagong così, per consolarmi, mi dice “bravo!”. Unseme tra cento milioni per caso germoglia nel deserto cristiano o,meglio, nella serra opulenta musulmana del Bangladesh. Le cipolleinvece, nascoste sotto terra, escono abbondanti e panciute nellemani dei poveri. E chissà che domani quel riso e quelle cipolle, irro-rate dal sudore del missionario, non vadano a formare nei cervelli lamateria grigia necessaria a far trovare la via della verità!E così tra una benedizione agli sposi, una maledizione ai vermi delriso, un titolaccio da facchino al pistone che rifiuta di muoversi euna sgridata ai ragazzi della scuola che, invece di studiare vanno acaccia di uccelli e di pesci, arrivo alla sera contento d’essere ancoravivo a godermi la povertà felice del Bangladesh. E le lettere di rin-graziamento dei benefattori e amici delle missioni? Alla sera. Giu-sto il tempo di buttarle giù. Ma… non c’è la luce… ci sono le zan-zare… c’è quell’articolo interessante sulla tal rivista… Piuttosto c’èla pigrizia, bestia nera, da combattere. Ricordi il vecchio funereogesuitone? “L’ozio è il padre dei vizi. No, reverendi, l’ozio è il viziodei padri!”. Ti saluto e grido forte forte a te, a tutti gli amici: Gra-zie! O alla maniera islamica del mio Paese d’adozione: “Khodaafez!”. Ma gira e rigira il più bello e il più cordiale è sempre“CIAO”.

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Mentre leggo le lettere del nostro missionario, spesso mi vie-ne in mente questo pensiero: che grande cosa la fede! Pensate unpo’: Cesare Pesce di Novi Ligure, a 66 anni è contento come unaPasqua di vivere nel paese tra i più poveri e miseri del mondo, nelmare dell’islam e in mille difficoltà, privo delle gioie più normaliper un vecchietto italiano della sua età in pensione: un po’ di tele-visione, una partita a carte o a bocce, buoni risotti e arrosti, pas-seggiate e chiacchiere con gli amici, e poi le gioie della famiglia,tra nipoti e nipotini, gli impegni possibili di volontariato senzaimpedire il giusto e meritato riposo, ecc. Cesare invece è superimpegnato tutto il giorno, anche sabato e domenica, e le sue sera-te sono occupate da incontri, conferenze, visite ai villaggi, lettereagli amici e benefattori. Eppure è felice della vita che fa, della suavocazione missionaria.

Che grande cosa la fede!Padre Pesce è contento quando riesce a fare qualcosa per la

sua gente. Il 17 giugno 1985 scrive che è felice perché è riuscitoa realizzare, ed è andato bene, un “corso di preghiera” di diecigiorni (e di vita comunitaria con tanti giochi e istruzione elemen-tare) per i bambini e bambine dalla seconda alla quinta elemen-tare: erano 104! Ma soprattutto è soddisfatto perché il “progettosociale” che sta realizzando va avanti bene. Di cosa si tratta? Diuna cooperativa di produzione e di consumo? No! Di una scuo-la di alfabetizzazione per uomini e donne? No! Di una “banca delriso” per i più poveri? No! Di una nuova casa di accoglienza e dicura per poveri e ammalati? Nemmeno per sogno… Pesce si èmesso in testa di costruire (e le autorità civili hanno approvato ilprogetto) 400 latrine per la gente nei villaggi che egli visita (due-tre per villaggio). Il “cesso” è un segno del progresso che avanza.Ma Cesare scrive:

Faccio difficoltà a convincere la gente, specie gli aborigeni, che èmeglio avere un cesso vicino a casa. Loro invece preferiscono anda-re liberi nei campi, contro ogni norma di igiene e di modestia. Fino-ra ne ho costruiti cinquanta, continuerò dopo i mesi della stagionedelle piogge. È un progetto che ha poco successo. Invece per lepompe per l’acqua tutti sono d’accordo: capiscono bene che l’acqua

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della pompa è più salubre di quella dello stagno presso casa. I sol-di che spendo in questi due progetti non saranno poi spesi in medi-cine contro la diarrea, il tifo e il colera 2.

Un altro “progetto di sviluppo” realizzato a Pathorgata neglianni ottanta è questo, che Pesce stesso racconta 3:

Un bel giorno, intento a scovare il guasto nel motore dell’acqua perl’irrigazione in un villaggio alla periferia di Panchbibi nella provin-cia di Bogra, vengo chiamato d’urgenza dal Sindaco. Inimmaginabi-le! L’Ambasciatore della Danimarca in Bangladesh si presenta sen-za tante premesse e chiede la mia collaborazione, con quella del Sin-daco, per un progetto che il suo governo finanzierebbe: un “gono-biddaloy” (in inglese “Popular educational Centre”), dove i giovaniavrebbero appreso nozioni di agraria moderna, meccanica, cucito,economia domestica, ecc. Il Sindaco era già al corrente della faccen-da e aveva già visitato un altro centro simile in altra zona del Ban-gladesh... Era entusiasta e io più di lui. Il mio vecchio sogno si rea-lizzava: un lavoro fatto assieme, abbattute finalmente tutte le nefa-ste barriere di casta e religione, in unione di intenti per il bene di

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2 Il fatto raccontato da padre Pesce non deve meravigliare. Meno di unsecolo fa, in Italia, nel piccolo paese di Viancino (Vercelli), la famiglia Gheddoaveva nel 1907 una trattoria. L’hanno venduta per questo motivo: in quell’annoc’erano i primi aerei e uno di questi è atterrato in un campo vicino a Viancino.Tutta la gente è corsa a vedere, il pilota aveva bisogno del bagno ed è andato inpaese con tutta la gente che gli andava dietro. Ma a Viancino gli hanno dettoche nessuna delle case aveva un gabinetto, nemmeno l’unica trattoria. Allora ilpilota ha fatto un rapporto al Prefetto di Vercelli, lamentandosi dell’arretratez-za di quel paesino. Il Prefetto ha firmato un decreto col quale imponeva a Pie-tro Gheddo (mio nonno!) di costruire un gabinetto nella trattoria. E il nonnoha venduto la casa per 8.000 lire! Il gabinetto in casa allora era impensabile, ilnonno non voleva spendere soldi per qualcosa che non serviva a nessuno!

3 L’ho già detto ma è bene ripeterlo. Mi è stato possibile scrivere questa bio-grafia di padre Pesce solo perché il direttore del Centro missionario diocesanodi Tortona, mons. Libero Meriggi, e i suoi collaboratori, specialmente CamillaBrambilla e Riccarda Carrer, hanno conservato gelosamente tutte le lettere delmissionario, che sono oggi la fonte principale per conoscere la sua vita. Quan-do non indico il destinatario delle sue lettere, significa che è mons. LiberoMeriggi e il Centro missionario di Tortona.

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questa nostra gente, per renderla “self-supporting” (auto-sufficien-te) con il proprio lavoro reso più razionale, meno pesante e più red-ditizio.Ed ora eccoci impegnati in questa nuova avventura. È un piacerelavorare con questo Sindaco, un dotto e pio musulmano del luogo.Fa il medico, specializzato in ginecologia. Mi è riuscito simpatico allaprima occasione in cui erano coinvolte la salvezza di uno studentedella mia scuola e la sua arte medica… Come dicevo, è un uomo dicompagnia. La sua sincerità e onestà nel trattare con gente semplicee poco istruita mi spinge a seguire il suo esempio. D’altra parte, lasua fermezza con chi tenta di imbrogliare o di fare il furbo mi dàcoraggio e sicurezza nella mia condizione di straniero, quindi ritenu-to meno furbo di un bengalese, a cui la cronica necessità aguzza l’in-gegno. Insomma, siamo diventati amici, gli voglio bene.

Non abbiamo altre notizie su questa iniziativa di sviluppo. In-teressante però notare che l’ambasciatore della Danimarca (e quin-di il suo governo) per realizzare un progetto per il popolo da lorofinanziato si rivolgono al missionario cattolico, oltre che all’autori-tà civile del posto. Fatto strano, non comune nella distribuzione diaiuti da parte dei governi di paesi ricchi che realizzano progetti inquelli poveri: l’ambasciatore danese aveva capito, che coinvolgen-do il missionario cristiano del posto, è più facile che il progettovenga realizzato, che il denaro non si perda per altre vie… È unadimostrazione della verità di quanto dice Giovanni Paolo II nel-l’enciclica del 1990 Redemptoris Missio (n. 58):

La Chiesa ha sempre saputo suscitare, nelle popolazioni che haevangelizzato, la spinta verso il progresso, ed oggi i missionari, piùche in passato, sono riconosciuti anche come promotori di sviluppoda governi ed esperti internazionali, i quali restano ammirati del fat-to che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi.

Padre Cesare vive “in una girandola di fuochi artificiali”

Il culmine della gioia e della consolazione spirituale padreCesare lo raggiunge nei giorni del Natale 1988, quando a Pathor-

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gata il Vescovo mons. Theotonius Gomes consacra il primo pre-te della parrocchia e anche il primo oraon della diocesi di Dinaj-pur: già un po’ anziano, 36 anni, “contadino di nascita e di carat-tere, quindi tenace nelle sue idee. Spero faccia bene anche perchénon pretenzioso come qualcuno dei giovani preti locali”. Unafesta preparata con cura da mesi (restauri, nuove strade, tendoni,canti e danze, cerimonie e cori, allestimento dei vettovagliamen-ti) che ha riunito i cristiani nella preghiera, ma anchenell’“immancabile pranzone semi-religioso con un migliaio diinvitati”.

Nel Diario di un curato di campagna, Georges Bernanos iniziail romanzo con queste parole del suo curato di Ambricourt, par-rocchietta sperduta nella Fiandra che è l’immagine del mondo omeglio della cristianità occidentale:

La mia è una parrocchia come tutte le altre. Si rassomigliano tutte.Le parrocchie d’oggi, naturalmente… La mia parrocchia è divoratadalla noia, ecco la parola. Come tante altre parrocchie. La noia ledivora sotto i nostri occhi e noi non possiamo farci nulla. Qualchegiorno forse saremo vinti dal contagio, scopriremo in noi un similecancro. Si può vivere molto a lungo con questo cancro in corpo.

Cesbron semplifica ed esagera, ma non sbaglia nel descriverel’atmosfera del nostro “Occidente cristiano” con la parola “noia”:basta pensare a come le prime pagine di giornali e telegiornalisono occupate dalle spesso futili schermaglie del ceto politico, dafatti giudiziari gonfiati all’inverosimile, dalle sfilate stucchevoli(sempre uguali) della moda e via dicendo. Abbiamo tutto, moltopiù di quanto sarebbe necessario alla vita, e non sappiamo piùgoderne in modo umano. Per “divertirci” inventiamo le discote-che, lo sballo notturno che invecchia anzitempo: ecco la noia, ilcinismo, l’aridità dei rapporti umani. In fondo, l’egoismo e l’ari-dità dei ricchi.

Tutto il contrario di quel che sperimenta padre Cesare Pescenella parrocchietta di Pathorgata, sperduta nella pianura del Ben-gala, fra il Gange, il Bramaputra e le foreste dei Dooars. Una par-rocchia di nuovi cristiani in un mare islamico, fra popoli ancora

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un po’ “primitivi”, cioè ai primi passi verso il progresso e il mon-do moderno, ma più autentici, più “umani” di noi. I problemi dipadre Cesare sono molti e l’ultima parola che gli sarebbe venutain mente per descrivere il suo popolo e la sua stessa vita, se aves-se tenuto un diario come il curato di Ambricourt, era “noia”.Infatti lui a volte scrive che vive “in una babilonia da Torre diBabele”, in una “situazione caotica”, in “un pasticcio dell’ira”,persino “in un casino da non credersi”. Ma in una “situazione dinoia”, no! Ecco come descrive la sua esistenza quotidiana in unalettera dell’11 novembre 1991:

Sto vivendo in una girandola di fuochi artificiali: scoppi intermitten-ti, via l’uno arriva l’altro: questo ti racconta i suoi guai in famiglia edella moglie ammalata; quello ti domanda un consiglio per la figlia,pronta a sposarsi; ed eccoti i soliti ammalati che domandano il bene-stare – lettera firmata e timbrata – per entrare nell’ospedale cattoli-co di Dinajpur, cosicché poi io dovrò pagare i soliti salati bills (con-ti). Un po’ di respiro? No, neppure un attimo. Sulla porta si delineala faccia del “mistri” (muratore capo): bisogna andare d’urgenza astabilire le misure per un pilastro nell’erigenda casa delle monache.E dietro al mistri l’immancabile manager delle terre che ti viene adomandare quanti kg. di urea e potassio deve dare sul campo deicavoli. Così la ruota gira tutto il santo giorno.Senza contare la fila dei poveri diavoli colpiti dall’inondazione delnord. Perché lo sai, dopo il ciclone verso il mare, il Bangladesh (il“servo sofferente” della Bibbia) ha avuto l’inondazione dalle mieparti: case crollate, campi di riso andati alla malora e, di conseguen-za, migliaia di persone colpite dalla diarrea e influenza. Io ho distri-buito centinaia di pacchetti di “saline” e “terramicin”. Anche lamissione ha avuto due cappelle col tetto di lamiera completamentedistrutte. Puoi immaginare quanti ammalati avevamo: su 97 ragazzie ragazze dell’orfanotrofio-hostel, 45 rimasero a letto per una setti-mana o una decina di giorni. Grazie a Dio nessuna vittima tra i cri-stiani, se si eccettua un padre di famiglia annegato nel fiume vicinonel tentativo di ritornare a casa “prima di notte”.Ora è ritornato il sereno sia nel cielo che nell’animo. Posso lavora-re anche un po’ nello spirituale. Il 3-4-5 di questo mese abbiamoavuto il raduno della gioventù cattolica, 136 giovanotti e giovanot-te. Riuscito abbastanza bene. Gli oratori erano il direttore del cen-

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tro catechistico e una suora molto brava. Dal 7 al 10 novembre hoorganizzato il “Bible Dibosh” (Festa della Bibbia) con 150 ragazzie ragazze dei paesi vicini alla missione. Riuscito bene. I partecipan-ti sono rimasti qui con me giorno e notte e il loro entusiasmo ha col-pito persino me, dall’animo ormai incartapecorito! Ed ora sto pre-parando il corso dei candidati al matrimonio: sarà verso la fine diquesto mese. E così fra lo spirituale e il materiale tentiamo di farequalcosa per un domani migliore del passato. Davvero? Mah, spe-riamo col gesuitico A.M.D.G. (“Ad Maiorem Dei Gloriam”, Per lamaggior gloria di Dio). Ciao, Be cheerful! (sii pieno di gioia).

Nel marzo-maggio 1992, la diocesi di Dinajpur e i missionaridel Pime organizzano feste e celebrazioni in onore di padre Pesceper il suo cinquantesimo di sacerdozio. Prima l’hanno festeggia-to i preti locali ed esteri, con i catechisti: “Una giornata passatain allegria e fraternità intima senza tanti fronzoli; un bel ‘mee-ting’, una Messa concelebrata con molto fervore e commozionedate le circostanze, un bel pranzone alla bengalese e chi s’è vistos’è visto”. Una settimana dopo, festa alla casa del Pime a Dacca,alla presenza di tutti i quaranta membri dell’Istituto e del Nunzioapostolico, mons. Piero Biggio. Il 15 maggio 1992 Cesare scrive adon Libero Meriggi:

Se ne sono dette di tutti i colori sul mio conto, lasciando perderenaturalmente le magagne. È ovvio, non dare pennellate inutili e dan-nose ad un quadro d’artista come era stato concepito dall’amicosuperiore regionale, padre Gino Goduto. Là tutto all’italiana, da“Nel nome del Padre” fino all’ultimo pezzetto di torrone “Pernigot-ti” di Novi Ligure. E anche quella festa è passata. Poi la celebrazio-ne in parrocchia, a Pathorgata, il 3 maggio, preparata dalla gioven-tù maschile e femminile. Da tutti i buchi sono spuntati i miei cristia-ni (più di mille) a ringraziare il Signore, o meglio, a perdonare ilSignore d’aver mandato in mezzo a loro un accidente di prete qua-le sono io. E canti e suoni e danze dalla mattina alla sera. La messasolenne all’aperto mi ricordava la Collegiata di Novi gremita all’in-verosimile di 50 anni fa quando celebrai la prima Messa. Commo-zione? Eh, sì, un po’. Per fortuna erano presenti quel buontempo-ne del Vicario generale e un altro amico, che sparavano battute pertenermi nell’umiltà.

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L’ultima festa, per ora, a Dinajpur, al centro della Diocesi. Il Vesco-vo Theotonius Gomes non si è lasciato vincere dalle mie proteste eobiezioni, ha voluto fare a tutti i costi una cosa enorme, solenne.Troppo, davvero troppo. Ha fatto venire una rappresentanza da tut-te le parrocchie della Diocesi e da tutte le istituzioni cattoliche. Egiù discorsi, ricordi di fatti che io avevo ormai dimenticato… Qua-si mi convincevano ad ammettere che ho fatto qualcosa in questamia patria d’adozione… Ho detto “quasi” bada bene: non ne sonoper nulla convinto. Statistiche? Beh, quattro – cinquemila battesi-mi… Se c’era un altro al mio posto ne avrebbe amministrato sei osettemila. Centinaia, migliaia di chilometri sulle strade (strade permodo di dire) del Bengala a dare la Messa magari a quattro famiglieche sanno a stento il Pater Noster, a dire loro soltanto di non averpaura che ci sono io: se ci sono io, c’è Dio in mezzo a loro. Fatica, pericoli? La gioia che provi dopo una fatica superata, dopoun pericolo da cui sei uscito vittorioso è già ricompensa umanamen-te valida. Quel sorriso affiorato sul volto di quella ragazzina dispe-rata, perché tradita, ti fa dire: “Valeva la pena di fare 50 km per dir-le una parola, e ottenere per me questa gioia del successo”. E quan-do dopo tanta strada torni a casa a mani vuote, vergognosamentefallito?…Te possino… Alle feste mia sorella era solita fare dolci aforma di cuore o di fiore: tra i tanti alcuni venivano fuori sformati,schiacciati. Erano quelli i più gustosi. Il fallimento ti sollecita a faremeglio domani, ad evitare gli errori stupidamente commessi.E così nella gioia del lungo andare di 50 anni di sacerdozio vanno infrantumi le fide due biciclette e le malfidate cinque motociclette. Lasesta è buona. Agli amici musulmani che non tollerano il celibato, dicosempre indicando la moto: “This is my wife (questa è mia moglie). Èuna giapponesina”. E la questione del celibato dei preti cattolici fini-sce con una risata. Altrimenti Dio ti salvi dalle loro argomentazioni co-raniche e bibliche vetero-testamentarie. Tutto sommato, pensando almio passato mi convinco sempre più che tutto fu predisposto da Dioa farmi cercare, e molte volte ottenere, la gioia di vivere la mia vita mis-sionaria senza patemi d’animo, terra terra, senza misticismi. Come ilcontadino bengalese che suda e fatica attendendo la gioia di mietereil riso sorgente di gioia e di vita dei suoi bambini, così arrivi alla finecon il dubbio di aver accumulato ben pochi meriti per l’al di là. Ripe-to, la ricompensa per il poco bene mal fatto mi è ormai stata elargitacon la gioia provata giornalmente nel mio lavoro.

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Non mi rimane che dire grazie a Dio, grazie a chi amo e a chi miama. Quel “chi” sei tu. Ciao, tuo don Cesare. (La prossima settima-na ancora mi festeggiano a Thakurgaon e poi basta, basta per amordi Dio. Ne ho piene le scatole di tutte queste feste).

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5.IL TRAMONTO NEL SANTUARIO DI MARIA

Quando nel 1983 sono andato a trovare padre ClementeVismara in Birmania, a 86 anni era ancora parroco di Mong Pinge a me che lo intervistavo sulle sue avventure, che avevo spessoletto e anche pubblicato sulle riviste del Pime, diceva: “Lasciaperdere le storie del passato, queste cose le ho scritte tante volte.Parliamo invece del mio futuro, del futuro di questa missione diMong Ping…”. Mi sono accorto che, pur avendo superato gli 86anni, non era mai invecchiato! Tutto bianco, ma con l’animo diun giovane che guarda al futuro. Ecco, leggendo le lettere dipadre Pesce mi è venuto in mente Vismara, che diceva: “Diventivecchio quando ti accorgi che non sei più utile a nessuno”. Cosìanche il “Pesciolino” di Novi Ligure: leggendo le sue lettere, miaccorgo che anche lui non è mai invecchiato. È morto a 83 annicon lo stesso spirito di quando ne aveva trenta o quaranta: guar-dando al futuro pieno di speranza, programmando nuove impre-se apostoliche. Infatti, quando è costretto a tornare stabilmentein Italia nel gennaio 2002 perché non ce la fa più a stare in Ben-gala, muore sei mesi dopo, felice e contento di andare incontro alPadre e ai suoi bengalesi che lo aspettano anche in Paradiso.

Missione di pace tra due feudi oraon a Kalisha

Naturalmente non si può dire: ecco questo è il missionario.No, ciascuno ha la sua vita, il suo percorso segnato da Dio, i suoidoni e carismi, le sue avventure. Non esiste un modello unico dimissionario, anche se Cristo è il modello di tutti. Ma possiamodire che il nostro “Pesciolino” è invecchiato bene. Quando siaccorge che fisicamente sta diventando anziano, non pensa di

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mettersi a riposo o di fare chissà cosa per ritardare la decadenzadella vecchiaia. Canta le lodi di Dio e va avanti come prima. Eccocosa scrive agli amici il 9 dicembre 1992 (morirà dieci anni dopo):

Carissimo, dura lex sed lex et senectus ipsa morbus (la legge è dura,ma è la legge: la stessa vecchiaia è una malattia). Te possino (era unadelle sue imprecazioni preferite, n.d.r.), sono giunto a questa tristeconclusione ineluttabile nella mia vita. Una piccola conseguenza diquesta situazione è proprio la pigrizia nello scrivere. Era il mio hob-by, il mio relax: buttar giù quattro righe e compiacermi della mag-giore o minore riuscita. Ora, preso tutto il giorno da mille cosette,la costruzione del convento delle monache, la sequela di “training”(addestramento) per ogni categoria di persone, la scuola, il boar-ding, la fila dei poveri di pecunia e di spirito… e alla sera, guardola penna addormentata sul tavolo e tiro un sospiro pieno di malin-conia. Adagio adagio si chiude il sipario. Per fortuna torna il vec-chio Isaia a gridare: “Sali su un alto monte, tu che rechi liete noti-zie in Sion…”. Penso: io sono sceso in una terra piana, bassissima,ma in qualche modo, più male che bene, ho recato liete notizie e staarrivando il Natale 1992! E ciò con il tuo aiuto. Auguri di un bel-lissimo Natale e di uno splendido Anno Nuovo.

Due le novità dell’inizio anni novanta. Anzitutto, padre Pescesi mette a scrivere in inglese la storia generale della Chiesa catto-lica, che voleva poi far tradurre in bengalese. Lui parla di “som-mario della storia” e dice che fa questo lavoro perché non c’èancora un libro in bengalese sulla storia della Chiesa. Si è docu-mentato, ha raccolto sette-otto autori i cui testi gli riempiono iltavolo e, appena ha un po’ di tempo, si mette a lavorare congusto. Scrive a macchina su fogli di quaderno (metà di A4) e giun-ge fino a pag. 398, fino a Napoleone compreso.

Il testo originale è conservato nell’Archivio generale del Pimea Roma. I fogli sciolti sono stati mandati dal Bangladesh dopo lamorte di p. Pesce. L’archivista padre Angelo Bubani, con unpaziente lavoro, li ha ordinati e numerati, ha fatto l’indice e li haraccolti in un volume. Credo sia il lavoro letterario più importan-te di padre Cesare. L’opera è incompleta, ma scorrendola sonorimasto colpito dalla sua capacità narrativa. Non è facile scrivere

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la storia della Chiesa, dagli inizi ad oggi, in uno stile adatto ai gio-vani cristiani del Bangladesh, in una cultura radicalmente diversada quella europea. Da una rapida lettura, mi pare che Cesare c’èriuscito. Di ogni periodo mette in risalto i fatti principali, perso-nalizzando le vicende con la presentazione dei vari Papi e santi,dando spazio anche ai personaggi degli eresiarchi e alle loro idee,per mostrare come la Chiesa, attraverso duemila anni di storiatormentata, è stata guidata dallo Spirito Santo a mantenersi fede-le al Vangelo e al modello di Cristo.

Nel 1992 padre Pesce ha problemi di ischemia cardiaca chelo obbligano a ritornare in Italia per un po’ di riposo; e nel gen-naio 1993 cade malamente: si riempie di escoriazioni e tumefazio-ni, cammina con difficoltà e deve stare un po’ fermo. Il superio-re regionale del Pime gli manda in aiuto, a Pathorgata, padre Giu-lio Berutti. Cesare è contentissimo e ci fa subito su la battuta:

Lui si chiama Giulio e io Cesare. Somma: Giulio Cesare. Te possi-no… Andremo alla conquista della Gallia e Britannia ancora paga-ne. Ho già qui due bei villaggi quasi pronti per entrare nel grandeOvile, con la “O” maiuscola. Sarà per Pasqua, spero… E le tre scuo-le elementari con 500-600 alunni, di cui 105 interni. E le cooperati-ve e casse di risparmio. E poi trainings e meetings di continuoseguendo la moda dei tempi. E via via… Così, con tutte queste bel-le storie a cui pensare e badare, eccomi diventato vecchio, vecchis-simo, da ammazzare… “Forza che ce la fai” mi dicono i nuovi mis-sionari che stanno studiando il bengalese e il santal. “Pedalate,pedalate – rispondo loro – qui ce n’è per tutti giovani e vecchi. Evvi-va il Bangladesh!” (lettera a mons. Meriggi del 15 febbraio 1993).

Nell’aprile 1995 padre Pesce è ricoverato nella clinica Gulsandi Dhaka per essere operato di ernia inguinale. Da tempo gli davafastidio e rimandava sempre l’intervento, fin che diventa indi-spensabile. Quando esce dalla clinica vorrebbe tornare alla suaparrocchia di Pathorgata, ma scrive (5 maggio 1995):

Ho ricevuto l’ordine di riposare. Il capo mi consiglia di venire inItalia per qualche mese, il Vescovo idem… “Sei calato di dieci chi-li e in Bangladesh chi te li ridà?”. E va bene, seguiamo i consigli di

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“color che sanno”. Mi spiace lasciare la mia famiglia di qui, puoiimmaginarlo. Ma con la speranza di non sbagliare verrò. Spero soloper qualche mese in modo da rimettermi.

In altra lettera scrive: “Il Vescovo e i capi del Pime mi consi-gliano, meglio, mi forzano di venire per qualche mese in Italia arimettermi un po’. Ho accettato a malincuore, pensando alla buo-na occasione di vedere la mia vecchia sorella”.

A maggio 1995 ritorna in Italia per convalescenza e riposo.Mentre nell’estate 1995 è a Novi Ligure in vacanza, riceve nuova-mente l’offerta di assumere una parrocchia nella sua diocesi diTortona, sull’Appennino Ligure. Questa volta il missionario siinterroga seriamente su quale strada scegliere, forse perché capi-sce che, a 76 anni in un paese caldo umido come il Bangladesh,non può resistere molto e potrebbe anche diventare di peso aiconfratelli e alla missione. Il consiglio di un vecchio amico lo con-forta nel tornare in missione, come racconta lui stesso nell’inter-vista a fratel Massimo Cattaneo (del 22 ottobre 2001 a Rajaram-pur). Il suo grande amico don Franco Zanolli, parroco della Col-legiata di Novi Ligure, scrive:

Dopo le cure avute a Dhaka, arrivò a Novi stanco e sfiduciato, pen-sieroso nel dubbio di non poter più ripartire. La cucina della sorel-la Maria, il conforto degli amici, l’aria buona della città natìa benpresto lo restituiscono alla piena salute e alla ilarità del suo caratte-re esuberante. Dopo una visita di controllo a Milano, che lo diagno-stica guarito, esultava: “Guarito! Guarito!” diceva e riparte per ilBangladesh.

Ma ecco che, appena arrivato a Dinajpur poco prima delNatale 1995, il Vescovo mons. Theotonius conferma la bontà diquesta sua libera scelta: gli chiede di diventare parroco di Kali-sha, ancora per lo stesso motivo per cui 15 anni prima l’avevamandato a Pathorgata: per riportare pace nell’ovile di questa nuo-va parrocchia, “tra i soliti capricciosi feudi oraon (aborigeni)”. Ilgiovane padre Luca Galimberti, missionario in Bangladesh dal1992, mi racconta (il 3 giugno 2004 a Roma):

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Ero per caso a Dinajpur (dalla sua missione di Boldipukur, n.d.r.) eun pomeriggio il vescovo mi chiede di portare padre Pesce a Kali-sha, che è poco distante da Boldipukur. Vado da Pesce: quandovuole andarci? “Domani”, mi risponde. Gli chiedo quando il vesco-vo gli ha detto di andare a Kalisha, dato che da poco è tornato dal-l’Italia. “Ieri sera, mi dice, ma sono già pronto”. Il giorno dopo sia-mo partiti in jeep. Lui aveva due borsette a mano con tutto quel chegli occorreva. Gli ho detto che sarei andato a trovarlo un mesedopo, se aveva bisogno di qualcosa. “No, rispose, grazie, non hobisogno di nient’altro”. Ricordo che rimasi ammirato da questadisponibilità ad accettare, sui due piedi, una nuova destinazione chesapeva non facile.

In una lettera al nipote Ernesto del 22 dicembre 1995, cosìpadre Cesare descrive il suo compito a Kalisha, dov’è arrivato dapochi giorni:

Una missione di pace tra due partiti formatisi in questa parrocchiauna decina di anni fa tra gente della stessa tribù. Una lite tra feudi,come capita anche in Sardegna. Lite in cui è stato coinvolto, qual-che mese fa, anche il missionario fondatore della missione cattolica,assalito e derubato non si sa da chi (probabilmente qualche musul-mano assoldato da cristiani per la perfida azione). Il posto è ancoradegno del secolo scorso sia per le scarse comunicazioni che per lostile di vita degli abitanti. Porto un esempio capitatomi ieri: mandoun uomo al post-office più vicino (due buoni chilometri) a spedireun libretto nelle Filippine. Il direttore dell’ufficio postale rispondeche non sa dove sia quella nazione e quindi quanto si debba paga-re in francobolli e del resto non ha i francobolli per spedire unaroba simile… Mando a comperare un mezza dozzina di tazzine peril tè o il caffè e il bottegaio dice al mio uomo che non ha le tazzine:“Dì al tuo padrone di usare il bicchiere”. E così si tira avanti… Lacosa più fastidiosa è la mancanza di una strada decente: si può usa-re solo la jeep, che io non ho. Penso che dovrò farmi aiutare un po’dal Vescovo e decidermi a comprarla…

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Obak, in bengalese significa “senza parola”

Tornando dall’Italia per il Natale 1995, padre Pesce pensavadi non essere più utile alla missione; invece il Vescovo (mons.Moses Costa) e il superiore regionale del Pime in Bangladesh(allora padre Mariano Ponzinibbi di Lodi) sono di parere contra-rio. Infatti, nei quattro anni seguenti, fino al 1° gennaio 2000 (a81 anni compiuti) il Pesciolino svolge un ottimo lavoro a Kalisha,sistemando una situazione difficile. Sapeva trattare con la gente,non potevano non volergli bene: con lui i motivi di dissenso e dicontrasto non duravano a lungo. Questo era certo frutto di un belcarattere, ma anche di soda virtù e di grande umiltà (che permet-te di essere realisti in tutte le situazioni) e, in fondo, di fede auten-tica. Cesare ha sempre lavorato per il Regno di Dio, mai per sestesso! Nel volumetto “Pack up and go!” pubblicato in inglesenel 2000 a Dinajpur (Unique Press), ricordando i primi tempidella sua missione a Ruhea, la povertà, le faticacce e le molte con-versioni di quegli anni, scrive:

Talvolta eravamo distrutti dal caldo e dalla fatica, ma era sempre unsollievo e una profonda gioia considerare che in un piccolo e sco-nosciuto angolo di questo mondo, per la prima volta era arrivata laverità di Cristo e un nuovo battezzato si sarebbe svegliato nel SuoNome.

Il 14 febbraio 1999 scrive a mons. Francesco Giorgi, segreta-rio del vescovo di Tortona e direttore del Centro missionario dio-cesano, dicendogli che tre anni prima era stato mandato dalVescovo a Kalisha “per tentare di riportare la pace fra i capriccio-si feudi oraon”; e a Natale del 1999 comunica gioioso: “Ebbi lagioia di partecipare al grande cenone (“puruti choi”, cena d’affet-to) con 800 commensali, esclusi i bambini”. La pace è tornata,padre Cesare è al massimo della felicità.

A Kalisha padre Pesce lavora come parroco con tutte leincombenze pastorali e di promozione umana a cui era abituato,dando particolare risalto alla formazione cristiana delle famiglie edei giovani: catechismo, preparazione ai Sacramenti, predicazio-

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ni speciali, direzione spirituale, visite ai malati. Non un percorsodi “routine” pastorale come spesso succede in Italia: in Bengalala “routine” è continuamente interrotta dagli imprevisti.

Ad esempio, in una lettera a Camilla Brambilla del Centromissionario diocesano (14 novembre 1998) Cesare scrive che han-no avuto una pioggia torrenziale continua per tre giorni: una nuo-va alluvione, in attesa della prossima… o del periodo di siccità;lui riceve gli aiuti della Caritas di Tortona e della Caritas localedel Bangladesh, poi distribuisce il “relief “ (parola inglese chesignifica “aiuto per le emergenze”), che anche gli analfabeti cono-scono e pronunziano bene! E scrive:

Per sette-otto giorni, dal mattino alla sera, la sfilata ininterrotta deglialluvionati: quelli delle case distrutte o danneggiate… quelli chehanno perduto il raccolto dei campi… quelli che chiedono per com-perare le sementi per l’orto… quelli che non vogliono passare perscemi perdendo l’occasione buona per arraffare a ufo qualcosina…Tutti mi dicono “GRAZIE!”. Certo, quel grazie non è per me. Dabuon postino lo giro, per posta superaerea, a chi se lo merita.

Padre Cesare ha potuto realizzare tante opere in Bengala per-ché riceveva molti aiuti. Ma bisogna dire che era un missionariomolto preciso nella sua corrispondenza. Ringraziava sempre chigli mandava un’offerta, anche con lettere lunghe e gustose. Que-sta ad esempio, scritta da Pathorgata il 5 luglio 1988 al prof. Egi-dio Mascherini di Novi Ligure, che aveva mandato al missionarioil ricavato dalla vendita di un suo libro:

Obak! In bengalese significa “senza parola”. Ecco, ricevendo la suagenerosa offerta io sono rimasto senza parola. Volevo mandarlesubito i miei ringraziamenti e invece sono rimasto senza parola finoad oggi. Adesso lei mi dirà: “Va n’sla furca!”, pur sapendo che ionon ci vado. Invece le racconto come e dove è finito il malloppo dicui ancora la ringrazio.Il primo venerdì di ogni mese si radunano i membri del Consiglioparrocchiale e qualche capo dei villaggi cristiani. Lo scorso venerdìc’era da decidere alcune cose sulla scuola e sull’istruzione religiosadei ragazzi residenti nei villaggi periferici della missione… Il suo

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aiuto ci ha permesso di approvare dei lavori urgenti di riparazioninella nostra scuola. Poi, al secondo punto dell’agenda, bisognavadiscutere se realizzare in parrocchia la settimana di istruzione reli-giosa dei ragazzi e ragazze cattolici che vivono lontani dalla missio-ne. Facce lunghe e preoccupate, sospiri. Uno dice: “Quest’anno,questa settimana non possiamo farla. L’alluvione ha rovinato il rac-colto di molte famiglie, che non potranno più portare il riso per iloro ragazzi…”. Il progetto rischiava di essere bocciato.Allora io dico: “Fidatevi della Provvidenza! Calcolate le spese chedobbiamo sostenere per questa indispensabile iniziativa”. Vengonofuori delle grosse cifre. Allora dico: “Non preoccupatevi, un amicoprofessore della mia città ha mandato quanto basta anche per que-sto”. I volti si illuminano, tutti sorridono e applaudono. La suorinabengalese membro del Consiglio parrocchiale, che non aveva anco-ra parlato, si alza e dice: “Sapete cosa dobbiamo fare? Diciamo gra-zie a Dio e recitiamo insieme un’Ave Maria per quel brav’uomo ita-liano. Che Dio lo benedica tanto, tanto!”. E senza aspettare rispo-sta intona: “Pronam Maria proshadpurna…”.Così, caro professore, questa piccola storia di Pathorgata, scono-sciuto villaggio in un angolino del Bangladesh, le sia segno delnostro ringraziamento.

Nei quattro anni che è stato a Kalisha (1995-1999) padrePesce ha scritto meno lettere del solito. Lui stesso lo dice al vesco-vo di Tortona mons. Luigi Bongianino 1, ringraziandolo per tut-to quello che ha fatto per la diocesi e per i missionari diocesaniall’estero; e lo ripete a don Franco Zanolli (lettera del 25 giugno1999):

Divento vecchio davvero. Me ne accorgo perché, mentre il mio hob-by era lo scribacchiare, ora non amo più prendere la penna in mano.E allora, ai vecchi si perdona ogni errore, ogni mancanza.

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1 Sacerdote diocesano di Vercelli e mio professore al seminario minore diMoncrivello nella prima metà degli anni quaranta, prima che io entrassi nelPime.

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Il fatto che si sente diventare vecchio è quasi un ritornello nel-le sue lettere degli ultimi anni. Al prof. Carlo Mandessaro scriveda Kalisha (16 maggio 1997):

Grazie per la gioia procuratami dalla vostra letterina. Dico la veri-tà, l’aspettavo sul serio. E grazie per il colpetto sulla spalla per rin-cuorare il vecchietto che non vuole cedere, che non vuole ammette-re, con umiltà, di essere ormai sul punto di mettersi nell’angolo pol-veroso dei rottami. La salute fisica è abbastanza buona. Qualchegiorno, magari dopo qualche corsa in più, mi sento stanco, ma lastanchezza passa come una nuvola che ti gira sul capo.Non ho più fatto visite mediche, dato che per andare a Dhaka, fraandare e venire e starci, mi ci vuole una settimana e l’aeroporto piùvicino è a 150 km. Impossibile andare in corriera o in treno, essen-do il “ferry” (trasporto su barca per attraversare lo sconfinato fiu-me Bramaputra, n.d.r.) in condizioni pietose. Fare un viaggetto conla mia piccola ‘jeep’ indiana sarebbe bello, ma il mio autista teme iltraffico matto, inimmaginabile della capitale; e poi ci sarebbe sem-pre quel benedetto fiume da passare (in seguito è stato inauguratoil ponte sul Bramaputra, che dimezza i tempi del percorso fraDakha e la regione di Dinajpur, n.d.r.)…D’altra parte è meglio stare lontani dai camici bianchi, che ti trova-no anche le malattie e i mali che non hai... Qui ormai c’è da fare, dalavorare, dopo che un po’ di pace e tranquillità è rientrata fra lefamiglie della parrocchia: vedo che necessitano iniziative, associa-zioni, programmi impegnativi. E io non me la sento più, come pochianni fa, di stare in ballo giornate intere e serate lunghe, a parlare,proporre, discutere, decidere e poi prendere parte attiva ai lavori.Dio me la mandi buona!

500-600 pellegrini alla domenica nel Santuario mariano

Negli ultimi anni di vita, padre Cesare è ritornato due voltein Italia, nel 1998 e 1999. Per quest’ultimo ritorno, l’11 luglio1999 scriveva a don Zanolli: “Dato che sono vecchio, vecchissi-mo, il Vescovo mi dà una nuova vacanzina in Italia”. Venivasoprattutto per trovare la sorella Maria a cui era molto affeziona-

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to (nata nel 1912 e morta nel 2000), Era profondamente attacca-to alla sua famiglia a Novi Ligure. La signora Marilena Leone inPesce, moglie di Ernesto nipote di padre Cesare (figlio di suo fra-tello Natale), intervistata il 1° giugno 2004, ricorda:

Lo zio Cesare era un uomo cordiale, vivace, originale. Quando arri-vava, portava sempre allegria. Era ottimista e allegro, con le sue bat-tute un po’ in italiano, un po’ in dialetto. Aveva sempre da raccon-tare qualcosa di interessante, quegli episodi che ha messo nei suoilibri. E poi sapeva dare coraggio, speranza. Per noi era uno zio sim-patico e gradito.Quando mia figlia Emanuela si è sposata nel 1989, aveva avvisatoper tempo padre Cesare e lui è tornato per celebrare il matrimonio;mentre era in Italia, ha battezzato anche il nipotino Nicolò, figlio dimio figlio Fulvio. Quando veniva in Italia era sempre con noi. Abi-tava dalla sorella Maria, ma ci visitava spesso. C’è stata una estate incui padre Cesare ci ha invogliati ad andare in giro con lui: mio mari-to, zia Maria, zio Cesare e io, con l’auto di mio marito. Andavamoa fare delle gite e delle merende qui attorno, in luoghi che avevaconosciuto bene da giovane, santuari, chiese e altri posti. È rimastomolto affezionato alla famiglia.Noi scrivevamo poco, ma anche lui scriveva poco. Ci passavamoquelle poche lettere che scriveva. Mio marito andava sempre adaccompagnarlo in auto a Milano. Dormiva là al Pime, lo portavaall’aeroporto e poi tornava a casa. Quando è venuto nel 1960, ed erala prima volta che tornava, l’abbiamo accompagnato al porto diGenova perché è ripartito per nave. Un ricordo commovente per-ché lui partiva felice e noi capivamo che aveva una grande missioneda compiere.

Il marito di Marilena, Ernesto (figlio di Natale, fratello mag-giore di padre Cesare), intervistato a Milano il 15 giugno 2004,aggiunge:

Lo zio Cesare mi manca molto. Era una presenza importante nellanostra famiglia. Quando tornava in Italia era una festa, raccontavale sue avventure e si stava ad ascoltarlo volentieri per delle ore, nonsolo noi parenti, ma anche gli amici e altri. Era un sostegno per lafamiglia e per tutti. Ricordo quando è tornato la prima volta dal

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Bengala nel 1960, è stato in Italia diversi mesi con parecchie visitee permanenze in famiglia. All’ultimo giorno, prima di ripartire pernave da Genova verso il Bengala, era a Novi Ligure e la sera abbia-mo fatto una cena con parecchi amici: ha incominciato a racconta-re e siamo andati avanti fino alle cinque del mattino! Cosa faccia-mo? Ci siamo lavati la faccia, abbiamo fatto colazione e l’abbiamoportato a Genova per prendere la nave!Di serate e nottate come questa ne ricordo diverse. Con lui le orepassavano e non ce ne accorgevamo. Un altro ricordo che ho di luiè quando era viceparroco a San Rocco di Voghera, negli anni dal1945 al 1948. Io andavo spesso a trovarlo in bicicletta da Novi Ligu-re a Voghera (Ernesto è nato nel 1933, n.d.r.). In parrocchia nonc’erano ragazzi: c’era già il cortile e i locali, ma i ragazzi non veni-vano, l’oratorio praticamente non esisteva. Padre Cesare ne ha por-tati a centinaia, ha fondato l’oratorio, ha fatto il cinema e tante altreiniziative. L’oratorio di San Rocco era famoso e i ragazzi della cittàvenivano tutti. Lui attirava i bambini, i giovanotti e gli uomini.

Nell’ottobre 1998 a Novi Ligure padre Cesare riceve “LaTorre d’Oro”, premio annuale del Comune e del Centro studi“In Novitate” (nato nel 1985), ad un cittadino che si è distintonel corso dell’anno. Prima un concerto d’organo nella Collegiataeseguito dal maestro Giancarlo Parodi in onore del festeggiato;poi la consegna del premio in Municipio alla presenza delle auto-rità e di un folto pubblico. Quel prestigioso e pubblico ricono-scimento della sua città natale riempie di gioia il cuore di padreCesare. Ne era orgoglioso e quando ritorna in Bangladesh, dico-no i confratelli, mostrava a tutti il suo premio, raccontando comeerano giunti a quell’assegnazione che lui non si sognava nemme-no.

Nell’estate 1999 è ancora brevemente in Italia e, quando anovembre ritorna a Dinajpur, padre Carlo Calanchi ricorda chedi nuovo parlava di una piccola parrocchia che gli avevano offer-to di assumere sull’Appennino ligure. Ma lui preferisce ritornarein Bengala. Scrive Calanchi (lettera a Gheddo del 9 maggio 2004):

La ragione – aveva detto testualmente – era che il posto che gliavrebbero dato in Italia comportava così poco lavoro, che lui… non

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se la sentiva di assumerlo. Mi pare si trattasse di una parrocchiettadi montagna. Lui, il Pesce!

Giunto in Bengala, Cesare scrive a don Franco Zanolli (lette-ra del 25 novembre 1999):

Come avevo subodorato, ieri il Vescovo (Mons. Moses Costa) mi hachiesto la disponibilità di lavorare in quel famoso santuario maria-no di cui ti parlavo. La costruzione è già a buon punto: verrà fuoribellissimo, degno del 2000! Ora vedrò di accordarmi per l’eventua-le necessaria costruzione di una piccola casa per il cappellano.

Il Santuario è stato realizzato in collaborazione da tre padri delPime con il bernoccolo delle costruzioni: Faustino Cescato (diretto-re prima della Caritas diocesana e poi del “St. Vincent Hospital”),Adolfo L’Imperio (parroco della cattedrale di Dinajpur) e GiovanniBeretta (direttore della scuola tecnica “Novara Centre” di Suihari).“Questo – dicono i confratelli maliziosi – è il primo miracolo dellaMadonna del Rosario venerata nel Santuario”: una costruzione ve-ramente bella, realizzata da tre missionari che lavorano assieme!Padre Cesare è contento della sua destinazione. Vi vede

un posto di non eccessiva responsabilità e nello stesso tempo unlavoro abbastanza utile al prossimo… come auspicata oasi spiritua-le di pellegrini, in cerca di conforto e di pace in momenti trepididella vita e per dire “grazie” in momenti di gioia per favori ricevu-ti. Qui per ora c’è soltanto la chiesa. Sto pensando di sostituire lapresente mia abitazione che è in sacrestia (con attaccata una cuci-netta di tre metri quadrati fatta di bambù e lamiere), con una veracasetta fatta di cemento e mattoni. Poi, se non servirà a me, serviràal mio successore (lettera a don Franco Zanolli del 3 febbraio 2000).

In altra lettera a don Zanolli (14 agosto 2000), l’anziano“Pesciolino” ricorda i canonici del Duomo di Tortona di sessan-t’anni prima, quando lui era giovane, “patriarchi cariatidi di unaChiesa indistruttibile”, che salmodiavano in coro dietro l’altaremaggiore. Li ricorda con nostalgia perché si trova anche lui nellastessa situazione:

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Te possino, ci sono arrivato anch’io. Non salmodio perché purtrop-po non è mai stata la mia attrazione. Non alzo le mani o braccia ver-so il cielo perché non è mai stata la mia ginnastica spirituale, peròci sono arrivato a fare la cariatide, anche se un po’ moderna perchésono in Bangladesh.

Poi ricorda i giovani monaci della Certosa di Pavia che han-no cambiato sistema di evangelizzazione rispetto al passato. Sie-dono al bar della Certosa e mentre sorseggiano un caffé tengonobanco in una fraterna chiacchierata con gente sconosciuta, venu-ta ad ammirare l’arte e a bere un bicchierino di elisir eremitico.Cesare scrive che tenta di imitare quei monaci con i molti visita-tori del Santuario.

I pellegrini non mancano: gente di ogni cultura e formazione, diogni credo politico e religioso, individui che racchiudono nel lorocuore una biografia, fatta di gioia e di dolori nascosti, il prodotto diamori e di odi indicibili. Il passare le ore con questa gente è per meun’esperienza bellissima: ne ringrazio il Signore! (Lettera a mons.Francesco Giorgi, 9 febbraio 2000).

Nel settembre 2001 sono stato in visita ai confratelli del Ban-gladesh e il 12 settembre ero da padre Pesce a Rajarampur, confratel Massimo Cattaneo. Pochi mesi dopo, nel febbraio 2002,Cesare sarebbe tornato in Italia per morirvi il 13 luglio dello stes-so anno nella casa del Pime di Rancio (Lecco). Ma nel settembre2001 era ancora in forma, pieno di progetti per il futuro del San-tuario dov’era dal gennaio 2000. Ho scattato parecchie foto, chedimostrano il suo ottimo stato di salute, meno di un anno primadella morte.

Mi ha fatto visitare la sua casetta in muratura da poco termi-nata e la chiesa luminosa, veramente bella. Poi siamo andati ingiro per vedere l’ambiente in cui sorge il Santuario: il grande piaz-zale davanti alla chiesa, i campi di riso, diversi villaggi e il villag-getto cristiano accanto al Santuario. Tutti quelli che abbiamoincontrato conoscevano padre Cesare e si fermavano a parlarecon lui. Ricordo che ogni tanto mi diceva: “Questo è musulma-no, un buon amico” (per Cesare erano tutti amici). Riporto inte-

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gralmente la breve intervista che mi concesse quel giorno, nonancora pubblicata. Mi sono complimentato con lui per quel postocosì adatto alla sua età e alla sua personalità, cordiale e di facilicontatti con tutti. Mi dice:

– Debbo dire che il venire qui lo considero una grande grazia diDio. Non potevo immaginare un compito e un posto migliori diquesto, per la mia età e il mio stato di salute. Il Santuario diocesa-no non è parrocchia, anche se sono convinto che fra qualche annolo diventerà. Ma il suo valore è proprio quello di essere una chiesaal di fuori della struttura parrocchiale, che ha tanti valori ma anchetanti limiti per un’affluenza di pellegrini in qualsiasi giorno emomento.– Com’è nata l’idea del Santuario?– Per celebrare il Giubileo del 2000 si voleva lasciare un segno visi-bile di questi duemila anni di Redenzione. È stato comperato il ter-reno che era del raja di Dinajpur, il capo indiano che è fuggito inIndia nel 1948, dopo la divisione fra India e Pakistan. Abbiamodato la terra e costruito le case per 28 famiglie cattoliche che han-no formato il villaggio vicino al Santuario, in modo che questo pos-sa avere una comunità cattolica vicina, per tutti i servizi alla chiesae alle cerimonie.– Sono molti i pellegrini che vengono a pregare la Madonna?– È poco più di un anno che il Santuario è aperto e la gente inco-mincia a venire. La domenica abbiamo 500-600 fedeli, alla Messaquotidiana molti meno. Non vengono solo i cattolici, ma anche imusulmani e credo che nel futuro aumenteranno perché l’immagi-ne di Maria e la sua devozione sono molto popolari fra i bengalesi.Penso anche che, come Santuario ben visto dai musulmani, col tem-po si potranno promuovere amicizie, incontri, collaborazioni, inizia-tive di dialogo.– Tu sei sempre stato amico di tutti e anche dei musulmani, quindisei facilitato in questo.– Non c’è dubbio, il mio carattere in questo senso mi aiuta, non homai fatto differenza di religione, ho sempre accolto e fatto amiciziacon tutti. Anche qui a Rajarampur, appena arrivato, le prime fami-glie che ho avvicinato e di cui sono diventato amico erano musul-mane perché quelle cattoliche stavano appena arrivando. Sono con-vinto che dal Santuario mariano è forse più facile che da una par-

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rocchia (bisognerà poi vedere se è vero, perché è solo un’ipotesi)portare avanti il dialogo inter-religioso di cui tanto si parla anche inBangladesh, ma che è difficile realizzare. Ci sono troppi pregiudizida ambedue le parti e pochi tentativi concreti. A livello popolare c’èil cosiddetto “dialogo della vita”: l’80-90% delle nostre opere edu-cative, caritative, di promozione umana e di sviluppo economicosono a vantaggio dei musulmani; ma a livello di dialogo religioso edi élites religiose non si va oltre gli incontri formali.Quindi tu sei impegnato tutti i giorni nel Santuario o hai anche altriimpegni?Il vescovo mi ha chiesto di scrivere i ricordi della mia vita missiona-ria in Bengala e sono contento di questo impegno. Poi sto scriven-do la storia della Chiesa in inglese, da tradurre in bengalese. Unlibro non impegnativo ma popolare perché non c’è nulla del gene-re nella lingua bengalese. A me è sempre piaciuto scrivere, anche secon l’età mi sono un po’ impigrito. Infine, sono disponibile ad aiu-tare dove c’è bisogno di un prete, per confessioni o altro.

“Tento di portare la pace e di dare gioia”

Nel 2000 p. Pesce ha passato 52 anni in Bengala! Il 22 otto-bre firma a Rajarampur la “Premessa” di Pack up and go!, con iricordi della sua vita missionaria. “L’ho scritto in inglese perchéi preti locali possano leggerlo”, dice in una lettera. Il titolo, “Fa’il tuo fagotto e va’!”, ricorda la frase che mons. G.B. Anselmo,Vescovo di Dinajpur, disse nel 1948 al giovane padre Pesce,meno di un mese dopo il suo arrivo dall’Italia, per mandarlo oltrefrontiera, in India, nella sua prima missione: Malda. Dopo quelprimo Pack up and go! ne sono seguiti molti altri e padre Cesarericorda i suoi “vagabondaggi” fra una missione e l’altra dellavasta diocesi di Dinajpur, nel 1948 estesa più o meno come Pie-monte e Lombardia uniti. Ma racconta solo fino al 1972. Il restolo rimanda ad un testo seguente, che non farà a tempo a prepa-rare.

Nel 2001 pensa ancora di tornare in Italia per un’operazionedi cataratta che i medici locali gli hanno consigliato, ma poi fini-sce per restare nel suo Santuario mariano, lavorando fino all’ulti-

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mo ai progetti che aveva in corso. Ha ancora trascorso bene ilNatale del 2001, ma nel gennaio 2002 preoccupa i confratelli chevedono una sua rapida decadenza. Il padre e dottore in medicinaFrancesco Rapacioli, che lo seguiva da vicino, il 18 gennaio 2002manda questa Email al vicario generale del Pime, p. Luigi Bona-lumi, per annunziargli che il 20 gennaio padre Pesce arriva aRoma, accompagnato da un confratello:

Dal punto di vista medico ha il cuore un po’ scompensato (stanco) equesto gli ha provocato edema ai piedi e una tosse fastidiosa, peggio-rata dal freddo. Abbiamo tentato di ricoverarlo in una clinica a Dhakaper rimetterlo un po’ in sesto, ma, nella migliore tradizione del Pime,si è rifiutato di rimanere. Il cardiologo comunque gli ha prescritto laterapia che sta assumendo dallo scorso venerdì (12 gennaio). Quelloche ci ha fatto decidere per un pronto rientro in Italia è il fatto chepadre Cesare non sa più gestirsi autonomamente. Probabilmente daqualche giorno o addirittura da qualche settimana mangiava in modosaltuario, non si vestiva adeguatamente e non prendeva le medicineregolarmente… Questa sua incapacità di gestirsi deve essere tenuta amente. Sarebbe impensabile un suo rientro senza un accompagnato-re…. Mi hanno detto che il volo col quale padre Cesare arriva a Romaè della Biman (la compagnia aerea del Bangladesh), direttamente daDhaka alle 10 del mattino del 20 gennaio.

Così padre Cesare Pesce, “il lupo del Bengala”, come lui stes-so a volte si definiva, sbarca a Roma dove lo attende un’autoam-bulanza, che lo trasporta alla casa di cura e di riposo del Pime peri suoi missionari anziani a Rancio di Lecco. Il 23 gennaio è sotto-posto alle prime visite e gli vengono riscontrati vari malanni car-dio-circolatori (“evidente arteriosclerosi”, cuore ingrossato), con“modesto” versamento pleurico e artrosi. Amorevolmente curatodalle infermiere Missionarie dell’Immacolata nella casa del Pimee nella “Casa di Cura Lecco”, nei mesi seguenti si riprende e par-tecipa ai festeggiamenti organizzati per il suo 60° di sacerdozio(29 marzo 2002). In quella circostanza, il Superiore generale delPime, padre Giovanni Battista Zanchi anche lui missionario inBangladesh, gli scrive una sentita lettera di ringraziamento e diaugurio in cui si legge:

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La sua opera non è finita. Le forze non sono più quelle di un tem-po e anche gli impegni hanno cambiato modalità. Ma lei sta testi-moniando la fedeltà gioiosa, contro ogni avversità, ai più giovani ea quelli in formazione; sta dando e può dare sempre più l’aiuto del-la preghiera e dell’invocazione che sale dalla sua vita, anche quan-do entra nella debolezza e nella malattia.

Padre Cesare Pesce, come s’è detto, è morto il 13 luglio 2002a Lecco ed è sepolto nel Cimitero di Novi Ligure (Alessandria).Uno degli ultimi articoli che ha scritto è stata una auto-intervista,in cui finge che un giornalista sia venuto a trovarlo e scriva l’arti-colo, poi pubblicato da «Missionari del Pime» come suo necrolo-gio (ottobre 2002, pag. 3). Cesare immagina che un visitatore glichieda di parlare di sé e poi porti il discorso sul suo testamentospirituale. Scrive:

Il parroco, un lupo del Bengala, è un uomo anziano, per non direvecchio, ma ancora in gamba, lucido di mente, sempre pronto allabattuta. È contento che io sia venuto, inaspettato, a trovarlo. Dopoil caffè, il discorso si avvia su un eventuale “testamento spirituale”.Dice:“Testamento spirituale? Bella idea. Ne ho letto qualcuno ma vorreifare una premessa: cos’è poi questa spiritualità non l’ho mai capi-to… Allora, invece di usare questo nome pomposo, che sa di lega-lismo, chiamiamola invece ‘intervista in vista del traguardo’. Nelcorso della mia lunga vita mi sono proposto di non dare troppofastidio al prossimo. A chi l’ho dato non posso che chiedere scusa.Mi sono proposto di regalare la gioia e una briciola di pace a chi neavesse bisogno. L’eventuale successo di dare anche una sola ora digioia a chi soffriva, mi ha sempre dato l’impressione che quella gio-ia ricadesse moltiplicata su me stesso.“Questo mio hobby, mi scusi per i soliti ricordi di un tempo che fu,è iniziato in una via di Genova, ad un passaggio munito di semafo-ro. Quegli aggeggi a luce verde, rossa e gialla allora erano ancoraquasi sconosciuti. Eravamo una quarantina di persone in attesa diattraversare la strada. Nel gruppo una bimbetta un po’ in ansia,incerta di quanto e come passare. Ad un tratto alzò lo sguardo, cipassò in rivista uno ad uno squadrandoci con cura, prese la miamano sorridendomi dolcemente. Strinsi quella manina orgoglioso

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come un campione stringe la medaglia d’oro del suo successo. Chegioia immensa! Gongolante, attraversai con lei la strada. Io fra tut-ti il prescelto, io a cui fu data la fiducia di proteggere una vita. Ilmio sorriso aveva vinto!“E così, da egoista quale sono, cerco la gioia, la felicità, tentandocon tutte le mie forze di portare la pace e di dare un attimo di gio-ia all’uomo che incontro sulla mia strada. Lui cerca la felicità, comeme, come lei, come tutti i mortali. Camminando insieme, mano nel-la mano, la ricerca diventa più facile, il raggiungere la meta possibi-le”.

L’ultimo saluto: “Grazie, padre Cesare!”

Due i discorsi funebri per padre Pesce, conservati nell’Archi-vio generale del Pime a Roma. Il primo l’ha pronunziato a Leccopadre Gianantonio Baio, superiore regionale dell’Istituto a Mila-no e già missionario in Bangladesh, che dice fra l’altro:

Padre Cesare era un uomo schietto, che non nascondeva fifa, malin-conia, rimpianti. Non è stato un eroe, né un santo e neppure unmartire. Niente retorica e mai contare frottole ai poveri… in nomedi Dio. Un uomo con i piedi per terra, tanta fede e buon senso, conuna “perfetta letizia” che non l’abbandonò mai. Prete scugnizzo,come lo chiamava un suo amico prevosto di Voghera, più bengale-se che italiano. Uomo di dialogo di vita con tutti, anche se la prefe-renza è per i poveri, gli emarginati della società. Si è messo in cam-mino con una varietà di amici d’ogni religione, razza, tribù. Li ascol-tava con stima, li osservava con vero interesse e gioia, senza impor-re nulla e senza imporsi. I suoi amici erano:– il bramino indù, “ambedue pellegrini sulla stessa strada, alla ricer-ca del Vero”;– l’harijan, il fuoricasta analfabeta, umile: “costui sarà il mio uomo,con lui viaggerò tanto”;– il tribale, aborigeno libero e intelligente, senza complessi: “la suastrada sarà pure la mia”;– il musulmano bengalese, tollerante: “mi unisco anche a lui nel mioviaggio”.

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52 anni in cammino con loro, uno di loro, promuovendo la fratel-lanza universale nella concretezza e semplicità, con la vita, mosso dauna convinzione profonda: Dio è Padre di tutti. Una convivenzapacifica ad ogni costo, sdrammatizzando situazioni difficili, magariin modo scanzonato.

Don Franco Zanolli, parroco della parrocchia di padre Cesa-re, la insigne Chiesa Collegiata e Santuario di N.S. Lacrimosa aNovi Ligure, ha dato una bella testimonianza del suo grande ami-co novese durante le esequie presiedute dal Vescovo di Tortona,mons. Martino Canessa, presenti alcuni missionari del Pime (dalBangladesh) e una trentina di sacerdoti diocesani:

Da quando era partito da Novi, 55 anni fa, i parenti, gli amici, lacomunità di fede, la città di Novi Ligure vivevano la gioia di un suoritorno. Padre Cesare era diventato un segno proprio perché mis-sionario, richiamo di generosità nell’attuare la vocazione, punto diriferimento nel compiere la carità. La città è stata generosa con lui,perché sapeva il bene che in Bangladesh andava compiendo. Perquesto padre Cesare ha potuto scolpire, sull’ultima struttura innal-zata vicino al Santuario dedicato alla Madonna a Rajarampur, lascritta: “Padre Cesare con l’aiuto dei novesi”.Carattere schietto e volitivo, sempre pronto a fare perché il suo cuo-re era per dare; dare agli altri quanto aveva ricevuto: la fede e conquesta l’impegno qualificante della vita condivisa nei bisogni e nel-le varie necessità, per la gioia del rispetto di tutto e di tutti. Con lasua parola: semplice, chiara e convincente, educava; con i suoi scrit-ti lascia la testimonianza dell’apostolo che non si risparmia.Padre Cesare è tornato fra noi. Non solo come memoria in una lapi-de, ma come reliquia da venerare perché il suo ricordo sproni adessere ed operare nell’edificare il Regno di Dio. La Chiesa novese etutta la città è orgogliosa del suo missionario, per questo la SocietàStorica lo ha annoverato tra i “Cittadini Illustri”, conferendoglil’ambito Premio “La Torre d’Oro”…È tornato padre Cesare, e noi preghiamo per lui con il suffragio del-la liturgia funebre; preghiamo per lui, come chiedeva nel conclude-re le sue lettere, per quella devozione che aveva nel cuore allaMadonna Lacrimosa.Grazie, padre Cesare! Lo esprime la Chiesa con la presenza di tan-

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ti confratelli e del Vescovo; lo esprime la città con la presenza delSignor Sindaco e delle Autorità. Grazie, padre Cesare! Per la voca-zione attuata, per la missione realizzata, per la vita donata. Resti lasua memoria in benedizione per la Chiesa e la Città di Novi Ligu-re.

La domenica 30 marzo 2003, poco meno di un anno dopo lasua morte, padre Gianantonio Baio, superiore regionale del Pimea Milano e già compagno di Pesce in Bengala, ha portato a NoviLigure il vescovo di Dinajpur mons. Moses Costa, nella cui dio-cesi aveva vissuto e operato il missionario novese. Dopo aver pre-gato e benedetto la sua tomba nel cimitero di Novi, il vescovobengalese ha celebrato la S. Messa delle ore 11. Nell’omelia ricor-dava padre Cesare come uomo di grande fede e di tante buonequalità e capacità umane nel costruire il Regno: per questo halasciato la sua impronta nell’animo dei cristiani e dei non cristia-ni e in tante opere e costruzioni non solo di chiese, ma anche discuole, dispensari, case per i missionari e le suore. Mons. Mosesha evidenziato l’opera svolta dal missionario nell’attività catechi-stica, fino a coprire l’incarico di direttore del Centro catechisticodiocesano ed ha voluto esprimere riconoscenza per quanto ha fat-to padre Pesce per il popolo e la Chiesa del Bangladesh e per gliaiuti che la città di Novi e la diocesi di Tortona hanno dato al mis-sionario e alle sue opere, in assistenza spirituale e materiale, contanta squisita carità. Il vescovo bengalese ha concluso dicendoche il ricordo di padre Pesce è ancora vivo sia in Bengala che inItalia e ha espresso l’augurio che il rapporto di fraternità fra lecomunità ecclesiali del Bangladesh e della diocesi di Tortona, spe-cie della sua città natale di Novi Ligure, continui anche dopo lasua scomparsa per produrre altri frutti di bene e di Vangelo.

Un tramonto dietro l’Himalaya. Il mio

Ecco uno degli ultimi scritti di padre Cesare, pubblicato dopola sua morte a Novi Ligure in un ricordino che lo commemoraper i suoi concittadini, con in prima pagina la foto di lui appog-

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giato al bastone che usava nelle ultime settimane di vita. L’hascritto negli ultimi mesi dell’anno 2001, mentre era in Bangla-desh, nel Santuario di Rajarampur: è un saluto alla vita poetico edi efficace forza evocativa, com’era nelle sue corde espressive. Èintitolato: Un tramonto dietro l’Himalaya. Il mio.

E così, tra un’avventura e l’altra, una più bella dell’altra, sono arri-vato all’ultima, a quella di ieri. È pomeriggio inoltrato. L’ho già vistocentinaia di volte, da quando sono qui in Bangladesh: il sole checade, che va a nascondersi dietro la catena dell’Himalaya. Uno spet-tacolo quotidiano, ordinario, ma sempre splendido e meraviglioso.Ma ieri c’era qualcosa di particolare. Eccomi a Rajarampur, ritto sul-l’altura della scalinata di questo nuovissimo Santuario mariano.Concepito, nato e cresciuto indisturbato in mezzo a centinaia e cen-tinaia di mezzelune, dipinte o scolpite sulle decine di moschee delvicinato. Il Santuario è cresciuto al ritmo dei salmi e delle invoca-zioni del muezzin, al ritmo delle cantilene mattutine, di ninna nan-ne esotiche al Babbo Sole presso i vetusti tempietti indù, di cui èdisseminata la terra di qui.Sto meditando vicino a questo monumento cristiano, eretto a ricor-do dell’avvenimento storico più grande, più importante per l’uma-nità intera: il Giubileo di Cristo nell’anno 2000. Un tesoro impen-sato in mezzo a capanne di aborigeni, tra gente di scarsa cultura, trapersone quasi emarginate dalla società, gente per cui Gesù è natopiù di duemila anni fa. Splendida opera di architettura, che appun-to perché splendida attira, nel buio di questo mondo, l’uomo allaricerca di un’ora di pace e di felicità.Vedo che i gruppetti di pellegrini e di curiosi stanno disperdendo-si. “Oh, sì!”, esclamo a voce alta, ora che sono rimasto solo, liberoda tutta quella gente sconosciuta, qui venuta a dare sfogo ai proprisentimenti di dolore, rabbia, odio, amore…Che gioia! Solo con me stesso, anch’io lasciato un pochino inpace… Libero anch’io di vuotare il sacco delle mie emozioni! Pocoprima, una studentessa universitaria della Facoltà di Agraria dellacittà vicina, con un sorriso angelico, mi ha offerto una rosa, grossacome una dalia, farfugliando: “I miei due nonni sono morti. Gradi-scila, prego, ora il mio nonno sei tu…”.Tramonto. Il mio. Ottant’anni…passati. All’interno della chiesa vi èquella lucetta della lampada rossa presso il Tabernacolo: niente se

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paragonata all’enorme massa di fuoco e luce laggiù, lontano, chescende lentamente fino a scomparire dietro l’Himalaya… Mi lascianell’animo una dolce, inesprimibile mestizia, mista ad una soffusa,mistica, delicata gioia.Volgo lo sguardo verso l’abside del tempio, debolmente illuminatadalle ultime luci del tramonto. Oh, prodigio!… Maria sorride, sor-ride a me… davvero sorride a me? Meravigliosa avventura!

Padre Angelo Rusconi, suo confratello in Bangladesh, ricordai suoi ultimi mesi di vita a Rancio di Lecco nel 2002 2:

Il lunedì di Pasqua 2002 sono andato a trovarlo nella casa di ripo-so del Pime a Lecco. Si era ripreso e stava davvero bene. Mi pren-de in disparte e mi dice: “Dimmi tu con sincerità che cosa debbofare: posso ritornare al mio Santuario di Rajarampur oppure debborestare qui a fare compagnia ai confratelli anziani e più ammalati dime? Io vorrei tentare di tornare in Bengala, ma capisco che altrideve decidere per me”. Caro e dolcissimo padre Cesare: sapeva prendere tutte le cose insenso positivo e aveva la battuta pronta in ogni circostanza. Pochigiorni prima che morisse siamo andati a trovarlo in due del Bangla-desh, padre Mariano Ponzinibbi e io. Dopo la Messa si è sentitomale e l’hanno messo a letto. Quando si è ripreso e ci ha visti assie-me, dice: “Siete venuti a darmi l’estrema unzione? – e sottolineavacon la voce l’aggettivo “estrema” – Oppekka Koro! Aspettate anco-ra!”.– Che uomo era?– Anzitutto era un entusiasta della vocazione missionaria, un estro-verso che tentava tutti i metodi per annunziare Gesù Cristo. Viveree lavorare con lui non era facile perché imprevedibile. Era un gran-de sentimentale, un lavoratore accanito. Si buttava in tutte le vie chevedeva. Era amico di indù e musulmani, si dedicava specialmente aipiù poveri e marginali. Si era fatto nominare re degli Harijans, cioèprimo responsabile del villaggio di una tribù di fuori casta concen-trati a Ruhea, cioè di poveracci veramente miserabili, per tentare ditirarli su.

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2 Intervistato a Milano il 18 aprile 2004.

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– Com’era con voi confratelli?– Amava la nostra compagnia e anche scherzare e fare battute: dove-vi essere pronto alle sue frecciate che però erano amabili, non offen-devano nessuno. Pur essendo un tipo abbastanza individualista,sapeva collaborare con altri e dava la carica a tutti col suo entusia-smo e ottimismo. Era entusiasta della vocazione missionaria, maanche della vita in sé, gli piaceva vivere e far vivere.– Sembra a volte, leggendo le sue lettere, che abbia quasi pudore aparlare della fede e della vocazione missionaria. È indubbiamenteun uomo di fede ed un entusiasta della vocazione missionaria, maquesto risulta più dalla vita che ha fatto che dalle parole che ha scrit-to. – Non so, non ho letto le sue lettere. Io non ho avuto questa impres-sione. Se dovessi dare un giudizio sul suo modo di essere e di eser-citare la missione, direi che la sua preoccupazione maggiore era dicontattare tutti, dialogare con tutti, voler bene a tutti, essere amicodi tutti; e sapeva anche essere libero nell’annunziare la fede, nellaliturgia, ma profondamente credente e missionario. Era scanzonato,originale, gli piaceva anche scherzare e fare battute, ma la sua fedenon era dubbia. Importante ricordare che padre Cesare le ha inven-tate e tentate tutte per annunziare e proclamare Gesù Cristo e laChiesa e ha speso tutta la sua vita per questo scopo. Solo che poi,incontrando i singoli, li accettava nella loro umanità concreta, eramolto rispettoso del cammino che facevano e della libera scelta dicui erano gratificati da Dio. Per fare anch’io una battuta, direi chenon era un “ciellino”, ma piuttosto un “focolarino”.

Il parroco di Novi Ligure, don Franco Zanolli, è il prete chel’ha conosciuto meglio, perché gli è stato vicino con lettere e aiu-ti quando era in Bengala, e poi, soprattutto, quando tornava inItalia come parroco della sua parrocchia a Novi: era il suo amicoe confidente. Ha dato di lui questa testimonianza (in una letteraa p. Gheddo dell’aprile 2004):

Cesare ebbe in alcune circostanze la tentazione di rimanere in Ita-lia, per le contrarietà della situazione locale in Bengala e per le cala-mità naturali come le alluvioni, che in pochi giorni annientano illavoro di tanti anni. Memore del monito del Signore: “Chi ponemano all’aratro e poi si volge indietro non entrerà nel Regno dei cie-

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li”, mai cedette a simili tentazioni e detestava l’idea di dover finirela sua vita in una casa di riposo, rifiutando l’invito dei superiori amettersi in pensione. Da molte sue lettere traspariva l’amore allaChiesa, all’uomo, al paese in cui viveva. Amava scrivere, come ope-ra strettamente legata all’annunzio, coltivando e conservando ami-cizie serene. Alcune di queste lettere, raccolte in CD-Audio ne tra-smettono lo spirito. Quando don Paolo Padrini, giovane sacerdotenovese, espresse il desiderio di realizzare il CD-Audio con alcunesue lettere significative, ebbe tutto il mio incoraggiamento: si intito-la “Harijan – La carezza di Dio – Lettere di padre Cesare Pesce let-te da Arnoldo Foà”. Padre Cesare si presentava in modo dimesso ed umile, ma semprecon tanta proprietà, senza nulla di ricercato. Ispirava fiducia e favo-riva il dialogo con tutti. Quando in alcune circostanze solenni pre-paravo paramenti liturgici festivi di cui la Collegiata di Novi Ligureè fiera, subito diceva: “Ma questi paramenti sono per i monsigno-ri!”. La puntualità era la sua caratteristica. Si presentava per tempoalla celebrazione, a cui faceva precedere una preghiera di prepara-zione e poi restava a lungo a pregare per il ringraziamento.Quando nel gennaio 2002 giunse la notizia che padre Cesare era aLecco nella casa di riposo dei missionari del Pime, siamo andati atrovarlo e ci siamo trovati di fronte ad un uomo debilitato nelle suefunzioni fisiche e psichiche. Appena si accorse della nostra presen-za (ero con due amici, uno dei quali il nipote Ernesto), ebbe unmomento di rianimazione e volle che la suora che lo accudiva pren-desse da un cassetto un plico di cartelle da consegnare a noi per lapubblicazione: era una storia della Chiesa universale in inglese,scritta per i bengalesi. Tornati una seconda volta a visitarlo, si eraripreso e parlava correntemente: diceva che l’opera era ancoraincompleta, ma pensava di poterla terminare. Ora questo testo ènell’Archivio del Pime a Roma (vedi all’inizio di questo capitolo,n.d.r.).Conversare con padre Cesare era piacevole perché arricchiva il suodire con ilarità e facezie, non s’imponeva mai agli altri e restavavolentieri in ascolto. Il nostro dialogare fu sempre rispettoso e sin-cero, animato dall’ansia pastorale per il bene degli altri e quando avolte si perdeva in umane considerazioni, velava il tutto con cristia-na comprensione e carità…. Padre Cesare fu sempre riconoscenteper l’aiuto dato da anime buone per le sue attività missionarie. Ci

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proponiamo di continuare con quello stesso spirito. La memoriadella vita e della missione di padre Cesare Pesce ci ricorda che lasua meravigliosa impresa non solo è possibile, ma è anche un dove-re per la nostra salvezza.

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6.SEMPRE ALLEGRO E GRADITO A TUTTI

Al termine della biografia di p. Pesce, mi rimane un dubbio.Cesare ha avuto una vita molto dedicata al prossimo e sacrifica-ta, ma non ha vissuto avventure drammatiche come altri missio-nari di cui ho scritto la biografia. Forse il momento più avventu-roso è stato durante la “guerra di liberazione” del Bangladesh dalPakistan occidentale, quando era a Mariampur. Ma di quei mesinon ha scritto nulla, mentre ad esempio l’amico e condiocesanopadre Mario Alvigini ha scritto alcune pagine da brivido (vedi alcapitolo III).

Il dubbio che mi rimane è questo. Non vorrei che l’amico let-tore chiudesse questa biografia pensando: beh, tutto sommato, Ce-sare Pesce ha fatto il parroco laggiù in Bangladesh con una vita piùo meno uguale a quella dei nostri preti in Italia. Sarebbe una con-clusione che non corrisponde a verità. Il vero sacrificio di padrePesce (come di tutti gli altri missionari che vivono lunghi anni lon-tani dalla patria) è stato di vivere e lavorare, con fedeltà e costan-za per 54 anni, nel difficile ambiente del Bangladesh, circondatodalla povertà e dalla miseria, adattandosi al clima quasi semprecaldo umido soffocante, al cibo, ai costumi, ad una società islami-ca; dovendo esprimersi in bengalese, in santal, in oraon e qualchevolta anche in inglese. La difficoltà maggiore che incontra il mis-sionario è di ambientarsi in un paese completamente diverso dalnostro. Ci vogliono anni di rinunzie, di sacrifici, di continue ten-sioni, prima di sentirsi a casa propria! Durante una vacanza in Ita-lia nel 1980, in una intervista padre Cesare diceva: “Dopo trenta-due anni passati in Bengala non so neppure io se sono bengalese oeuropeo. Sul mio passaporto è scritto: ‘Nazionalità italiana’, masotto la mia pelle si legge ‘bengalese’”. È la testimonianza più con-vincente della sua fedeltà alla vocazione missionaria.

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Il Bengala era la “La tomba dell’uomo bianco”

Ecco una gustosa descrizione del travaglio quotidiano vissutoda un missionario in Bangladesh, fatta dallo stesso “Pesciolino”in una lettera del 13 novembre 1983 a don Giuseppe Bruniera,parroco del Sacro Cuore di Novi Ligure:

Quindici giorni fa, durante la pioggia torrenziale, è caduto un palodella luce presso la vicina moschea e i fili, a contatto con la terrabagnata, hanno causato un corto circuito nel trasformatore dellalinea principale, riducendolo ad un rogo. Ora siamo al buio, con lapaura di ladruncoli affamati, con la prospettiva di non avere la cor-rente per tutto il resto di questo millennio. L’ingegnere dell’ElectricDepartment del nostro distretto assicura che non si trova un altrotrasformatore neppure pagandolo a peso d’oro. I mulini della zonasono fermi. I contadini pensano ai prossimi mesi in cui avrannobisogno di acqua per seminare il grano e il motore elettrico del pro-getto d’irrigazione della missione sarà inattivo. Qui ora è una pro-cessione di gente che viene a pregarmi di far muovere i capi. Comese io fossi l’onnipotente, che dicendo “fiat lux”, crea la luce. Mah!Lunedì della scorsa settimana mi chiamarono d’urgenza a visitareuna ragazza madre che, dopo aver dato alla luce un bambino mor-to, stava pure lei male da morire. Il paese dove abita dista dalla mis-sione una ventina di chilometri. Domandai al giovanotto che vennea chiamarmi com’era la strada. “Bella” rispose. Allora, via in moto-cicletta. Dopo due miglia, pozzanghere enormi, profonde, carreg-giate pericolose. Che fare? ormai sono in moto e decido di tentarel’impossibile. Dico: Vai!… cado nel fango e il tubo di scappamentomi disegna un virgolone bluastro sulla caviglia del piede destro.Rialzo la moto, ma essa fa le bizze. La pulisco nelle sue parti vitali,l’accarezzo, la sgrido. Niente da fare, non capisce. Si ostina a nonripartire, l’asinaccia. Con l’aiuto del solito stuolo di ragazzi, cheincontri sempre e dappertutto in Bangladesh, la spingo nella primacasa che trovo per la strada e proseguo zoppicando. Coi pantalonie la camicia mimetizzati dal fango sembro un disertore dell’esercitodi Arafat. Una grossa consolazione al mio arrivo: la ragazza rispon-de a monosillabi alle mie benedizioni e parole incoraggiamento. Sela caverà, poveretta. E se la caverà anche la mia “Honda”, sotto lecure d’un meccanico maniscalco del paese. La scottatura alla cavi-

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glia sta ormai asciugandosi regolarmente. In conclusione tutto vabene!Due settimane fa s’è messo a piovere a dirotto e per sei giorni nonvolle saperne di smettere. Un po’ fuori tempo tutta quell’acqua. Icampi bellissimi, coperti dalle piantine di riso in fiore, il giorno pri-ma della pioggia presentavano uno spettacolo meraviglioso. I con-tadini, incuranti della rugiada che inzuppava i loro “longhi” 1, almattino facevano la loro passeggiata tra i campi sorridendo al pen-siero di un prossimo raccolto abbondante. Ora, dopo la pioggia, lelunghe file di spighe neonate, malmenate e sconvolte dall’acqua,danno l’impressione di una processione di frati incappucciati, conle mani nascoste nelle maniche incamminati verso il coro al cantolugubre del miserere. Nelle terre più basse, peggio: nei campi inon-dati le piante del riso stanno annegando. Addio sogni di un raccol-to eccezionale, sogni di autarchia o autosufficienza quotidianamen-te e stucchevolmente gridati dagli amministratori del regime milita-re.Tra inondazioni e siccità che si alternano nel corso dell’anno c’èpoco da stare allegri in un paese così piccolo e così densamentepopolato. Rimane sempre e sola la speranza ultima degli dei paga-ni, del buon Dio per i cristiani e la rassegnazione per i musulmani.E allora, la situazione politica si fa di giorno in giorno sempre piùdelicata. Qui vige la legge marziale del 24 marzo 1982, ma i cin-quanta e più partiti registrati alzano la testa, gridano, protestano,promuovono scioperi e manifestazioni. Ogni tanto ci scappa il soli-to morto e il solito fuocherello divampa in qualche sede di partitoo di club affiliato. Prima della fine dell’anno ci saranno le elezioniamministrative, poi l’anno venturo le elezioni generali, in cui l’attua-le Capo militare farà il solito giochetto e diventerà presidente demo-cratico. E allora tutto andrà bene come è andato fino ad oggi.

Al tempo della prima colonizzazione inglese il Bengala veni-va definito “la tomba degli uomini bianchi” e infatti nel secoloXIX la media di vita dei missionari del Pime in Bengala (vi lavo-riamo dal 1855) era di appena 34 anni, ma quanti missionari

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1 Il “longhi” è il vestito dell’uomo, una lunga striscia di stoffa che si giraattorno alla vita e alle gambe. Le donne vestono il “sari”.

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morivano a 26-27-28 anni, dopo due-tre anni di Bengala! Altrierano urgentemente rimpatriati per salvare la loro vita. Anche lesuore di Maria Bambina, andate in Bengala con i missionari delPime nel 1860, pagarono un prezzo pesantissimo. Nel 1886 lasuperiora provinciale ritira le suore dalla missione di Jessore, acausa del clima “micidiale per eccellenza”: negli ultimi vent’annierano morte a Jessore 14 giovani suore italiane!

Oggi il Bangladesh è molto migliorato, ma le condizioni divita, viste con occhi italiani, sono ancora povere e soprattuttodifficili per la mancanza di spazi e la presenza continua di trop-pa gente. Non bisogna mai dimenticare che il Bangladesh, in unterritorio che è poco meno della metà di quello italiano, ospitacirca 130 milioni di bengalesi: si ha l’impressione di soffocare,manca la possibilità di stare soli, manca la libertà di muoversisenza essere sempre accompagnati e seguiti da nugoli di bambi-ni: simpatici se presi uno per uno, ma quando sono tutti assie-me… Questa la cornice, l’ambiente in cui viveva padre CesarePesce, che ha lasciato di sé un ricordo molto bello in tutti i con-fratelli: proprio perché si era ambientato bene fino al punto diconsiderare il Bangladesh, non a parole ma in modo autentico ecordiale, sua nuova patria. Senza far pesare a nessuno il vivere insituazioni difficili, ma anzi mantenendo uno spirito gioioso e cor-diale con tutti.

Padre Angelo Canton, in Bengala dal 1951 (tre anni dopo l’ar-rivo di Pesce), mi dice:

Padre Pesce era sempre allegro, pieno di brio, di battute. Portavaallegria dovunque andava. Per questo era gradito a tutti. Sapevatirar su anche chi era depresso. In comunità era quello che aveva laparola giusta al momento giusto. E questo non solo per un bel carat-tere, ma perché era un uomo che viveva di fede, sentiva fortementel’amore di Dio e la Provvidenza. Un altro aspetto importante delsuo modo di essere è questo: era un uomo libero, non inscatolato oingabbiato in nulla. Sapeva andare contro-corrente, se necessario.Ad esempio, amava una liturgia creativa, secondo le circostanzesapeva inventare gesti e parole nuove che attiravano la gente. Era unpoeta e un creativo.

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Perché Pesce era “sempre allegro”? Lo dice lui stesso in unalettera a mons. Francesco Giorgi (15 agosto 2000), ringraziandoil Signore di finire la sua vita, a 80 anni compiuti, nel nuovo San-tuario di Maria, circondato da “tutta questa magnifica gente chemi sta attorno. A volte mi rompono l’anima, ma nello stesso tem-po mi rendono felice di vivere, nella gioia di avere qualcuno vici-no a convincermi che non sono venuto al mondo inutilmente”.Chiedo a padre Adolfo L’Imperio che mi spieghi cosa vuol direla “liturgia creativa” che celebrava padre Pesce (intervistato aMilano nell’aprile 2004):

“Anche i ladri a Pasqua fanno festa”

– Voleva che la liturgia fosse espressione di vita e che le cerimoniefossero fatte bene. Però era creativo, cioè libero, andava, veniva,dirigeva i chierichetti e i fedeli... Adattava le cose secondo ilmomento, sempre nello spirito della cerimonia che si stava com-piendo e con il buon senso che aveva innato. Non celebrava la Mes-sa come una stanca abitudine: la viveva, sapeva farla vivere anchecon interventi originali ma autentici, che aveva il dono di sapercomunicare. Questo era il suo modo di essere: era un tipo geniale,aveva sempre la battuta pronta al momento giusto. Quand’era par-roco a Pathorgata, in una Pasqua sono andato ad aiutarlo e alla seradella vigilia abbiamo fatto la funzione solenne in chiesa, con moltacommozione. Alla fine la gente esce di chiesa e nella notte incomin-cia a cantare e danzare, com’era solita fare. Dopo un po’ arrivano idue guardiani di notte della missione e dicono a padre Cesare: “Iladri hanno rubato quattro sacchi di riso”.Io rimango un po’ stupito, ma padre Cesare ferma le danze e i can-ti e al microfono dice a tutti: “Questa notte di Pasqua i ladri hannorubato nel deposito della missione quattro sacchi di riso. Alleluja!Alleluja! Anche i ladri fanno festa e mangiano”. Poi ha continuatoa cantare con la gente. – Che rapporti aveva con i musulmani e gli indù?– Nel Santuario di Rajarampur, in cui era al termine della vita, anda-vano a pregare anche musulmani e indù, portavano fiori, accende-vano lumini alla Madonna... Nella zona ci sono una moschea e un

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tempio indù, ma la gente veniva a pregare anche nel Santuario del-la Madonna del Rosario di padre Cesare. Lui parlava con tutti, eraamico di tutti, aveva un bel modo di trattare con la gente, si facevavoler bene. Poco prima che tornasse in Italia, dopo l’11 settembre2001, c’era tensione in Bangladesh contro i cristiani, gli occidentali.Sono andati da lui un gruppo di giovani estremisti musulmani e conaria minacciosa gli hanno detto: “Padre, noi facciamo saltare la tuachiesa”. Lui risponde calmo: “Va bene, e noi la ricostruiremo piùgrande”. Quella calma e cordialità ha sorpreso quei giovani. Non sisono più visti. Minacce di quel genere ne abbiamo ricevute tante, manoi diamo poco peso ad esse: siamo nelle mani di Dio. In Bangla-desh girano molti predicatori dell’estremismo islamico, girano mol-te armi che vengono dall’India, nel vicino Bengala indiano ci sonoancora i comunisti che commerciano in armi, fanno attentati, ecc.– Cosa ricordi di lui come uomo?– Era un poeta, un uomo di fede e un carattere felice; aveva la capa-cità di dialogare con tutti, non aveva barriere, era spontaneo e natu-rale. Sapeva affrontare qualsiasi situazione con la calma e la sicurez-za che gli venivano dalla fede, dal bel carattere, dalla notevole intel-ligenza con cui giudicava le vicende della vita. Era un uomo con cuiera piacevole stare assieme, discutere, perché lasciava parlare glialtri, ascoltava e poi esprimeva il suo parere in modo semplice, cor-diale, chiaro.

“Mamma, non senti che il tuo bambino ha fame?”

Suor Anna Giudici è una Missionaria dell’Immacolata in Ben-gala dal 1955, ha avuto innumerevoli volte l’occasione di visitarei villaggi in varie missioni e anche con padre Pesce, visite chiama-te “moffusil”: erano sempre due-tre suore con il missionario e ilcatechista. Stavano in giro un mese con il carro tirato dai buoi.Oltre agli oggetti del ministero sacerdotale e alle medicine, por-tavano con sé pochissimo: un cambio di biancheria, qualche pen-tola e piatto, posate e bicchieri, un po’ di riso con peperoncinipiccanti e un po’ di lenticchie; qualcos’altro da mangiare lo tro-vavano nei mercati di villaggio. Per dormire, una coperta ciascu-no, un lenzuolo e la zanzariera.

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Oggi il Bengala è molto cambiato, non è più quello di cin-quant’anni fa: con le strade e le auto è difficile persino per i gio-vani missionari immaginare la vita che i loro predecessori condu-cevano mezzo secolo addietro. Padre Pesce e le suore stavano ingiro un mese fra campi di riso e villaggi con capanne di fango epaglia, strade fangose o polverose, un cibo povero e sempre ugua-le, l’acqua da far bollire per poterla bere, i serpenti e la malariain agguato (oltre a topi, scarafaggi, ecc.), il caldo umido e soffo-cante: questa l’immagine molto concreta dell’eroismo richiesto aimissionari che hanno fondato la Chiesa in Bengala (e in India) edella vita di padre Cesare Pesce. L’eroismo di resistere per anni eanni, mantenendo un’allegria di fondo che “Pesciolino” ha con-servato fino alla morte. Ecco il racconto di suor Anna Giudici,intervistata da suor Franca Nava (nel febbraio 2004):

Padre Pesce era un uomo vivace, allegro, un vero missionario con ilsolo desiderio di far conoscere Gesù. Nelle visite ai villaggi che aRuhea facevamo con lui, ero accompagnata da una suora bengalesedella congregazione diocesana di Dinajpur “Shanti Rani”, che par-lava bene santal, oraon, bengalese. Oltre che visitare le famiglie,dovevamo preparare i catecumeni per il battesimo e i bambini gran-dicelli per la prima Comunione. A volte i battezzati erano molti e lafamiglia preparava il nome da dare secondo la loro tradizione; mapadre Cesare, battezzando, aggiungeva un nome cristiano che io glisuggerivo uno alla volta. La scelta dei nomi era un problema perchéla gente si fidava del nome che sceglieva il padre, per cui bisognavaavere una lista sufficiente per evitare di dare nomi simili a bambinie bambine battezzati nello stesso tempo e luogo. Ogni nome anda-va segnato nel registro dei battesimi e la famiglia poi lo imparava apoco a poco.Una volta, mentre era in corso la cerimonia dei battesimi che eranotanti, mi è venuta in mente suor Ancilla che era anche lei in Bangla-desh: padre Pesce l’aveva mandata dalle Missionarie dell’Immacola-ta quando era viceparroco ad Alzate Brianza (Como) durante glianni di guerra e la considerava sua figlia spirituale. Il suo nome dibattesimo era Elisa. Allora io, suggerendo il nome della bambinache stava per essere battezzata dico: “Elisa”. Padre Pesce incomin-cia con la formula del battesimo: “Elisa, io ti battezzo…” Poi si fer-

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ma prima di versare l’acqua, guarda bene e dice: “Ma questo è unmaschietto! Eliseo, io ti battezzo…”. Ridiamo di gusto tutti e duementre la gente ci guarda sbalordita e padre Cesare mi dice: “Accià,dimmi il nome giusto!” (“Accià” equivale a “perbacco” in bengale-se).Si visitavano parecchi villaggi, in media uno ogni due giorni: visitadelle famiglie, regolarizzazione dei matrimoni, catechismo per bam-bini, donne e uomini, cura dei malati, distribuzione di medicine;soprattutto si pregava assieme alla gente mattino e sera. Per i bam-bini la catechesi avveniva durante il giorno, per gli adulti la sera,quando tornavano dal lavoro dei campi. Dormivamo nello stessovillaggio: il padre nella cappella (se c’era), noi suore all’altro estre-mo del villaggio, nella capanna di una famiglia di buona reputazio-ne, oppure anche da sole. Fuori della nostra capanna c’erano sem-pre due uomini tutta la notte a proteggerci da eventuali male inten-zionati, ma non abbiamo mai avuto problemi. Invece ricordo chequalche volta, svegliandoci di notte e guardando fuori, vedevamo inostri due uomini che parlavano con uno o più musulmani, venutia vedere dove dormivano le suore e ad assicurarsi che con noi nonc’erano uomini. Per loro la verginità di donne giovani consacrate aDio era un fatto incomprensibile e impossibile.Allora vi era molta giungla e spesso la tigre si faceva sentire nellevicinanze, per rubare qualche vitello. Una sera, mentre noi suoreeravamo ancora alzate e chiacchieravamo, sentiamo che le paretidella nostra capanna di bambù si scuotono e ondeggiano come sequalcuno o qualcosa strisciassero contro. Spegnamo la fiammelladella lampada a petrolio e ci fermiamo in silenzio per un po’ diminuti. Sentiamo un respiro profondo proprio vicino a noi, che ciriempie di spavento. Poi più nulla. Quella notte abbiamo dormitomale e al mattino la gente ci dice che era passata la tigre e si era fer-mata proprio vicino alla nostra capanna. Ma padre Pesce ci tran-quillizza: “Non abbiate paura, nessun missionario o suora missiona-ria sono mai stati mangiati da una tigre…”. Era sempre ottimista epieno di speranza perché confidava nella Provvidenza di Dio.Padre Cesare non viveva di rendita, amava trasmettere la Parola diDio con metodi moderni che sapeva rinnovare. Il suo corso di inse-gnamento della Bibbia con domande e risposte che inviava ognimese a più di mille iscritti, con premiazione finale, ebbe molto suc-cesso. Nella predicazione era un piacere ascoltarlo perché, parten-

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do dal brano di Vangelo che si era letto, coinvolgeva gli ascoltatoricon esempi e problemi che tutti sentivano perché si riferivano allavita quotidiana; e inventava sempre qualcosa che rompeva il discor-so e attirava l’attenzione. Una volta, mentre predicava durante laMessa in una di queste visite ai villaggi, un bambino piangeva edisturbava. Padre Cesare dice: “Mamma, non senti che il tuo bam-bino ha fame? Dagli il seno!”. Tutti si sono messi a ridere.

“Sapeva ascoltare, lasciava parlare gli altri”

Una qualità indispensabile nel missionario, specie nei tempimoderni quando i popoli prendono coscienza dei loro diritti edella loro identità anche religiosa, è l’umiltà, la capacità di ascol-tare e di collaborare con Vescovi e clero locale in posizione subal-terna. In passato, quando si trattava di fondare la Chiesa in regio-ni del tutto nuove, al missionario era richiesto di essere un capo.Oggi deve saper obbedire e lasciare spazio ad altri, parlare soloquando necessario e saper ascoltare. Suor Clotilde Brambilla,altra Missionaria dell’Immacolata (intervistata da suor FrancaNava nel febbraio 2004), è stata con padre Pesce a Kalisha, negliultimi anni della sua vita (1995-1999) ed ha per lui una grandeammirazione.

Posso dire che era arrivato a Kalisha in un momento molto diffici-le della missione. Anzi, il vescovo aveva mandato lui perché il suocarisma di saper portare la pace dove c’erano divisioni e lotte eraproverbiale. A Kalisha vi erano pasticci fra i cristiani stessi, divisi inclan e fazioni: una storia che il parroco precedente non era riuscitoa smontare. Quando arrivò padre Pesce, non passarono molti mesie Kalisha aveva un volto nuovo: la pace era tornata, le tensioniscomparse, si riusciva a collaborare con tutti. Ma per sapere chi eraveramente padre Pesce bisognerebbe interrogare i musulmani. Nonconosco molti altri missionari del Bangladesh, ma credo che padreCesare fosse fra i più capaci di stabilire buoni rapporti e dialogarecon i seguaci di Maometto.Lui si interessava dei loro problemi e sapeva ascoltare. Quando eracon i musulmani parlava poco, lasciava che parlassero loro. I suoi

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colloqui con tutti, seduto su una stuoia o semplicemente per terra,si protraevano a volte fino a notte inoltrata. Sempre calmo, lasciavache si sfogassero, gridassero pure (e se la conversazione prendevauna certa piega questo era normale), ma il suo contegno sereno ave-va presto il sopravvento. Con noi suore, e naturalmente anche coni laici cristiani, era sempre gentile e riconoscente per quello che sifaceva per il Regno di Dio. Quando celebrò il 50° della sua venuta in Bengala come missiona-rio (1998), andò in Italia e nella sua città di Novi Ligure venne pre-miato con la “Torre d’Oro”; poi tornò in Bangladesh e ci furonofesteggiamenti in varie parti della diocesi di Dinajpur, con parteci-pazione anche di musulmani e hindù. A tutti mostrava con orgogliola sua “Torre d’Oro” e noi dicevamo che lui era come una torre del-la Chiesa bengalese. Non mancarono nemmeno i pranzi solenni efra gli invitati non pochi erano suoi amici di altre fedi religiose.Una delle sue caratteristiche come parroco era che seguiva i cristia-ni e gli alunni delle nostre scuole personalmente, era davvero unpadre della fede e anche degli aiuti materiali dov’era necessario. Frai suoi alunni e alunne sono nate parecchie vocazioni sacerdotali ereligiose. Significativa quella di don Giuseppe Mardi, un santal chelui chiamava suo figlio: non solo sacerdote, ma laureato in legge. Unsantal capite? Un fatto straordinario.A padre Pesce piacevano le cose fatte bene, godeva dei bei para-menti che egli teneva con cura per le feste solenni; era un bravoliturgista, per le domeniche e le feste preparava un foglietto ciclo-stilato con le letture, le preghiere, i canti e anche dei disegnini, perfar sì che la Messa fosse seguita con attenzione e ben capita. Avevapure attenzione per le scuole, dove andava lui stesso a controllarecome si tenevano le lezioni e i compiti. Ma i suoi prediletti erano ivecchi e gli ammalati. Quanta cura, quante visite nelle loro poverecapanne, quante rupie spese per i medicinali: in Bangladesh non c’èassistenza sanitaria gratuita; se non si è attenti alle persone, ci sonoquelle che muoiono anche per mancanza di una medicina, di unintervento chirurgico. Nessuno poi andava in Paradiso senza iSacramenti. Anche se la loro capanna era molto lontana ed erava-mo nella stagione dei monsoni (cioè delle piogge a catinelle), padreCesare affrontava ogni fatica per andarli a trovare e portar loro ilViatico e l’Olio degli Infermi. A volte si vedeva che era proprio stan-co, ma ci andava lo stesso.

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Insomma, in padre Pesce io ho conosciuto un uomo di grande fede.L’amore al prossimo e lo spirito di sacrificio per lui non erano soloparole, ma fatti quotidiani molto concreti.

Padre Gianantonio Baio, per vent’anni missionario in Bangla-desh e oggi superiore regionale del Pime a Milano, così lo ricor-da:

Quando penso a padre Pesce mi viene in mente una sua espressio-ne caratteristica, che ripeteva spesso in varie circostanze: “Magnifi-co!”. Non si perdeva in lamenti, sapeva vedere gli aspetti positivi ditutte le situazioni, si entusiasmava delle cose buone che trovava. Loricordo come un confratello lucido nei giudizi, ma anche sempresereno e allegro: il suo “Magnifico!” si applica anche a lui.

Padre Giulio Berutti, che è stato con Pesce per alcuni anni,mi scrive (10 maggio 2004):

Padre Cesare aveva una grande dote: non l’ho mai sentito parlaremale di un confratello. Piuttosto faceva silenzio.

Ancora padre Baio, presentando padre Cesare alla città diNovi Ligure il 4 ottobre 1998, in occasione dell’assegnazione del“Premio Torre d’Oro 1998”, diceva:

Don Cesare è tra voi per pochi giorni, ha già fissato la data del ritor-no in Bangladesh, anzi l’ha anticipata di una settimana. Di andare inpensione non vuol neppure sentirne parlare, anche se ha 79 anni suo-nati. Prete scugnizzo, come lo definisce un suo amico prevosto di Vo-ghera, più bengalese che italiano. È vero! Ben 50 anni sulle strade delBengala sono un vanto, un merito, un dono… e tanta gioia. Padre Ce-sare è un testimone della missione alle genti. Resta concittadino vo-stro, certo, ma ancor più figlio di quel popolo di adozione che tantoama e da cui si sente amato. Senza esitazione si è inculturato, immer-so in quella terra e fra quel popolo, vivendo quotidianamente rappor-ti personali di vera amicizia come il grande Tagore, anima poetica emistica, Premio Nobel per la letteratura e simbolo delle virtù del po-polo bengalese, esprime in una preghiera: “Fa’, o Signore, che nel-l’insieme di molti non perda l’attenzione al singolo”.

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Don Cesare è disponibile al dialogo con tutti, senza esclusioni,anche se la sua preferenza è per i poveri, gli emarginati della socie-tà. In cammino con una varietà di amici che ascolta, stima, osservacon interesse e gioia, senza imporre nulla né tentare di imporsi. Bencinquant’anni in cammino con loro, uno di loro, promuovendo lafratellanza universale nella concretezza e semplicità della vita, mos-so da una profonda convinzione: Dio è Padre di tutti. Di Lui ha par-lato con la vita, coi fatti prima che con le parole. Una convivenzapacifica ad ogni costo, sdrammatizzando situazioni difficili, magariin modo scanzonato.

Amava molto il popolo bengalese

Ho già raccontato di quando nel 1960, dopo dodici anni diBengala, padre Pesce ritorna la prima volta in Italia e trova la suapatria così cambiata che gli pare di non trovarsi più a casa sua. Tral’altro, in quel 1960 era iniziata la prima “Campagna contro la famenel mondo” lanciata dalla Fao e ad un missionario reduce si chie-deva di parlare della fame nel mondo. Cesare scriveva 2:

Mi invitano a parlare dei miei dodici anni passati laggiù e io, dopole prime battute, rimango impappinato, nel dubbio che mi prenda-no per uno che le sballa grosse. Mi invitano a fare qualche confe-renza e alla fine gli organizzatori mi rimproverano: “Ma perchè nonparli dell’infelicità, della miseria, dei morti di fame, dei sacrifici chefai laggiù?”. Sacrifici? Come se buttar giù tutti gli antipasti sofisti-cati e ‘sti piattoni di ogni ben di Dio, pesanti come il piombo, perpoi ingoiare medicine amare come il tossico nel tentativo di com-battere il colesterolo, non fossero sacrifici più grossi!

Non voleva parlare della “miseria”, dei “morti di fame” edell’”infelicità” del suo popolo che tanto amava: gli pareva di tra-dirlo! Infatti dice in una intervista 3:

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2 Le strade della vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989, p. 65.3 In «Il Popolo di Novi», senza data.

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Sono tornato volentieri, ma il mio pensiero è sempre là, alla missio-ne... Mi fermo in Italia sei mesi, ma le dico che ho lasciato il cuorea Ruhea. E se è umana la gioia di ritrovarsi in questa breve paren-tesi coi parenti e gli amici, sento che la mia vita è laggiù, dove hopiantato la mia vocazione e dove il sacerdozio assume dimensionicosì sconfinate, che non saprei concepirlo né più bello, né più entu-siasmante.

Cesare era innamorato dei bengalesi, lo diceva spesso chiacchie-rando con gli amici. Vedeva anche i loro limiti e difetti, la miseria egli aspetti negativi di società non cristiane. Ma, ottimista com’era,dei bengalesi aveva un’alta immagine. Ecco cosa dice di loro 4:

Eccoti il popolo bengalese: una massa enorme di poeti, di appassio-nati della musica. Le passioni esplodono violente dal cuore, incon-tenibili e indomabili. L’intelligenza vivida e brillante non riesce aincanalarle in un programma severo e matematico. Eccoti di conse-guenza il famoso 21 febbraio con i suoi morti sulle strade, veri sacri-fici umani in onore della lingua bengalese (si riferisce alle rivoltecontro il Pakistan nel 1952, n.d.r.); eccoti la guerra civile contro ilPakistan orientale (del 1970-1971, n.d.r.)...La passione guida questo popolo meraviglioso, dignitoso nella suapovertà, orgoglioso nei suoi milioni di bambini, che guizzano comepesciolini nella fitta rete di fiumi, torrenti e pantani. La morte for-se non tarda a venire. Che importa? La gioia di vivere è di oggi. Ildomani è in mano ad Allah, che guida i destini dei popoli e del sin-golo. Il futuro è dei giovani. E il bengalese, inconsapevolmente veg-gente come un poeta, attende fiducioso e sicuro, pur in mezzo aisuoi limiti regalatigli dalla sua natura passionale, l’alba di un doma-ni migliore... Noi europei invecchiamo e Roma si addormenta suisuoi colli dorati. A me piange il cuore quando penso, come italiano,all’ineluttabile corso di questa meravigliosa e gloriosa storia europeache va verso la foce. E d’altra parte mi consolo, come bengalizzato,di essere un sassolino portato dalla corrente verso il domani radio-so di questo popolo.

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4 Intervista di don Meriggi a padre Pesce, in «Il Popolo di Novi», senzadata (probabilmente del 1981).

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Padre Cesare, oltre che innamorato dei bengalesi, era ancheun uomo con i piedi per terra, furbo e capace di dire la parolagiusta al tempo giusto. Riusciva a sistemare situazioni conflittua-li e a non essere nemico di nessuno perché era cordiale e sinceronello stesso tempo. Padre Livio Prete, missionario in Bangladesh,mi ha raccontato questo fatto. In una certa missione si erano crea-ti contrasti fra due gruppi di cristiani nei quali era coinvoltoanche il parroco. Uno dei motivi di contrasto era la presenza diuna donna nella casa parrocchiale (cuoca e donna di casa), capa-ce e onesta ma autoritaria, gradita agli uni e non agli altri per varimotivi, soprattutto di appartenenza etnica. Naturalmente, comesempre capita, quando nascono inimicizie per un motivo e nonvengono sistemate, vanno avanti caricandosi sempre di nuovimotivi di contrasto.

Pesce è mandato dal vescovo a sistemare la situazione. Nomi-nato parroco, qualche giorno prima di fare l’entrata in parrocchiamanda ad avvisare la cuoca di preparagli una bella cena perfesteggiare la solennità con gli amici. La donna si impegna, gliprepara un cenone coi fiocchi. Padre Cesare mangia di gusto eringrazia la cuoca. Il mattino dopo chiama la signora e le dice:“Ieri sera ho mangiato bene e la ringrazio, lei cucina veramentebene. Però questa notte non ho dormito, quel tipo di cibo mi hafatto male. Io ho bisogno di un’altra cucina. Abbia pazienza, conle sue capacità troverà altri posti di lavoro”. E dandole anche piùdella giusta ricompensa, la licenzia.

La donna protesta e grida, la sua famiglia interviene, la suaetnia minaccia. Ma Cesare, sempre cordiale e sorridente, mostrameraviglia per queste reazioni: è lui che deve mangiare e quindise prende una cuoca diversa questo non deve meravigliare nessu-no. Però aveva dato un segno preciso e forte a tutta la parrocchiae in breve tempo le cose si sistemano. Padre Livio mi raccontache Cesare amava, quando aveva tempo, andare nei mercatini divillaggio a fare la spesa. I negozianti, vedendo un bianco e rite-nendolo uno sprovveduto, alzavano il prezzo. Cesare, quando sene accorgeva, lo faceva notare, ma poi diceva: “Ti pago come tumi hai chiesto perché voglio essere tuo amico, però non è unprezzo giusto”. Invece, se a volte capitava che gli indicavano il

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prezzo giusto, allora diceva: “Come, così poco? Mi pare che que-sto costi di più” e pagava il doppio. Erano piccole genialità perfarsi degli amici e far parlare bene di sé fra i musulmani.

Padre Luca Galimberti, che ha conosciuto padre Pesce quan-do era a Kalisha (vicino alla sua missione di Boldipukur), mi rac-conta (a Roma, 3 giugno 2004):

È rimasta famosa una sua finta lite con un conduttore di “rikshow”a Dacca. Aveva preso il carretto tirato a mano e quando giunge adestinazione si mette a discutere col povero bengalese che facevaquel lavoro. Padre Cesare finge di scaldarsi e l’altro lo segue: alza-no la voce, ma non parlavano del prezzo della corsa, sebbene dicome si guida il “rikshow” nelle vie superaffollate di Dacca. Fattosta che, come sempre succede in Bangladesh quando due discuto-no, si forma un folto gruppo di ascoltatori (e in questo caso di con-duttori di “rikshow”) che vogliono vedere come va a finire. Quan-do ne ha avuti attorno a sé un buon numero, padre Cesare dice alpoveraccio: “Insomma, non mi hai ancora detto quanto ti debbodare per la corsa”. L’altro risponde: “Trenta take!”. Cesare chiede:“Ma tu sei sposato? Quanti figli hai?”. “Cinque figli”, risponde ilconduttore. “Allora chiedi troppo poco. Come fai a vivere? Devichiedere di più. Ti do cento take!” (circa un Euro). Glie le mette inmano e tutti applaudono.Questa sua generosità era famosa fra noi missionari; lo faceva ancheperché era riconosciuto come prete cattolico e voleva lasciare neimusulmani una buona impressione. Alla sera poi diceva: “Quest’og-gi, attraverso quei conduttori di “rikshow”, la notizia di un missio-nario cattolico molto generoso ha fatto il giro di Dacca”. A suomodo, anche quello era un annunzio del Vangelo.

“Padre Cesare è un uomo solare”

Nei 54 anni di Bengala, padre Pesce ricevette le visite diparecchi parenti e amici. «Il Popolo di Novi Ligure» ha pubbli-cato (24 febbraio 1991) la testimonianza di due visitatrici di Novi,Luciana Bisogni e Barbara Agosti, molto espressiva e significati-va:

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Siamo sul treno Roma-Alessandria che ci riporta a casa. Si sono con-clusi i giorni trascorsi in Bangladesh “Paese d’acqua”. Vorremmorivivere insieme a voi la nostra esperienza, farvi viaggiare tra i nostriricordi, ripercorrere un tragitto tortuoso fra rickshow, bus stracol-mi, in mezzo a persone che lottano per sopravvivere. Vorremmo riu-scire a trasmettervi la simpatia di questo popolo, la spontaneità, ilcalore, la gioia dei loro sorrisi, la semplicità nei gesti, la serenitànegli occhi che condizioni climatiche non sempre favorevoli, pover-tà, malattie, non sono riuscite a cancellare.Vivendo accanto a questo popolo abbiamo riscoperto valori che inoccidente sembrano sfuggire: la corsa alla competizione per un fineprettamente economico ci allontana da quel clima di solidarietà e difesta che si gusta nelle cose più umili. Non esiste, forse, al mondoluogo più idoneo al carattere di p. Cesare Pesce, che da 12 anni, nel-la sua missione di Pathorgata, nostra meta, è maestro di risate ebuon umore oltre che artefice di innumerevoli opere missionarie. Èun uomo solare, vuoi per il sole immagazzinato nelle tante ore dilavoro nei campi, vuoi per le lunghe corse in motocicletta, suo caval-lo di battaglia, che malgrado la sua non più tenera età, non si deci-de ancora a mettere a riposo. Grazie a padre Pesce siamo riuscite aconcretizzare la nostra prima esperienza missionaria. Abbiamo tra-scorso in Bangladesh il nostro primo mese del nuovo anno.All’aeroporto di Dacca ci accoglie come se ci conoscesse da sempre.Siamo ospiti della casa del PIME; una breve sosta in attesa diriprendere il cammino per Pathorgata: respiriamo il primo impattocon la realtà orientale. Ci aspetta un lungo viaggio, in auto e traghet-to per risalire il Bramaputhra; attraversiamo paesi e villaggi, l’atmo-sfera si rinnova nella consuetudine di questi luoghi: immense pianu-re paludose, baracche, bazar, bambini scalzi che giocano, sporcizia,miseria mentre il muezzin chiama alla preghiera. Nel tardo pome-riggio finalmente arriviamo alla missione; siamo esauste, abbiamoimpiegato complessivamente tre giorni per raggiungere Pathorgataed ora che siamo sedute a tavola con padre Cesare abbiamo la sen-sazione di vivere un sogno. Al mattino ci svegliano i canti delle don-ne della missione che ci attendono per salutarci e offrirci fiori dibenvenuto. È un momento magico, siamo emozionatissime, nono-stante le difficoltà della lingua esprimiamo la nostra gratitudine.Entriamo insieme in chiesa per partecipare alla messa, celebrata dapadre Cesare in lingua santal. Numerosissimi i fedeli, siamo colpiti

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da tanta devozione in un paese dalle antiche tradizioni musulmane.La chiesa è costruita di terra, con panche appena sollevate dal pavi-mento. I bambini prendono posto davanti all’altare, le donne adestra e gli uomini a sinistra. Padre Cesare ha ideato e spera di por-tare a termine il progetto per la costruzione della nuova chiesa,capace di accogliere i sempre più numerosi cristiani. Al momento èin costruzione la casa delle suore che padre Cesare spera di termi-nare per l’imminente Pasqua: in collaborazione con maestri locali,assicura l’istruzione elementare e media a circa 200 studenti prove-nienti dai villaggi limitrofi.Le giornate trascorrono serene, la missione è una grande famiglia.Tutti partecipano ai lavori dei campi nell’orto, le donne provvedo-no alla pulitura del riso: si nota un gran fervore per immagazzinareprovviste necessarie nel lungo periodo delle piogge monsoniche. Lamissione di padre Cesare non dispone di un dispensario e di unospedale che possano rispondere ai bisogni di assistenza degli abi-tanti dei villaggi. La notizia, presto diffusasi, dell’arrivo di una infer-miera fa accorrere mamme con richiesta di cure e farmaci per i lorobambini. Con l’aiuto del padre cerchiamo di capire quanto ci chie-dono e di fornire loro le cure di cui necessitano. Vorremmo poterdisporre all’infinito di quanto abbiamo portato con noi dall’Italia:in pochi giorni i cassetti con i farmaci, i cerotti, le garze, sono vuo-ti; sono esaurite le caramelle e i palloncini dalle tasche dei nostri zai-ni. Ci sentiamo impotenti e proviamo un sentimento di vergogna edi imbarazzo di fronte a persone che sono come noi ma costrette aduna vita di rinuncia, di disagio, private dei beni di primaria neces-sità. Siamo ospiti di un paese nel quale la vita media è di 45 anni,c’è denutrizione, mortalità infantile elevata, analfabetismo, colera,lebbra, tubercolosi, tifo.Siamo ormai in Italia. Il Bangladesh per noi è stato un avvicinarsialla spontaneità, alla semplicità, alla ricchezza di chi non ha nulla eriesce a donarti e trasmetterti gioia e serenità. È stato avvicinarsi almessaggio di Gesù, alla fratellanza, alla preghiera, a messaggi dipace e comunione. Ringraziamo il Pime dell’opportunità che ci hadato di vivere questa esperienza e confidiamo nella possibilità ditornare per condividere e collaborare più concretamente all’attivitàdei missionari.

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“L’Italia è un paradiso, ma il Bangladesh la mia patria”

Quando ritorna in Italia nell’estate 1989 padre Cesare haormai 41 anni di vita in Bengala. Rimane pochi mesi, visita tantiamici, raccoglie generosi aiuti per la sua missione di Pathorgata,ma soprattutto, quando riparte in ottobre, dice a se stesso chequella è l’ultima visita al paese natale. Avrebbe potuto fermarsi inItalia: fra i vari inviti ricevuti, anche quello dei superiori del Pimeche gli hanno proposto di fare il direttore del mensile «Missiona-ri del Pime». Ma lui dice che preferisce tornare in Bengala, doveha “alcuni lavoretti in sospeso”; sostanzialmente il motivo è unaltro e risulta da tutto quanto egli dice in questa intervista, pub-blicata da «Il Popolo di Novi Ligure» nell’estate 1989. Ecco iltesto quasi integrale:

Ben tornato in Italia dopo più di otto anni dall’ultima sua breve visi-ta. Come le sembra l’Italia?– Bellissima, molto migliorata. Eccettuate le strade della vecchiaNovi, non so più raccapezzarmi nella periferia diventata un angoli-no del famoso giardino europeo che si chiama Italia. Per chi vienedal Bangladesh è davvero un pezzo di Paradiso. I preti mi diconoche il Paradiso sarà più bello, ma qui mica male. Sarà forse l’antica-mera del Paradiso.– Se parla così vuol dire che il Bangladesh è davvero brutto.– No, per carità. Non mi fraintenda. Il Bangladesh sarà povero, affa-mato, arretrato, disastrato quanto vuole, ma non mi faccia dire cheè brutto. È ormai la mia patria d’adozione e chi è quello scemo cheparla male della sua patria?Non si arrabbi, don Cesare, mi parli piuttosto della sua secondapatria.– Sembra davvero che tutto congiuri contro quel povero paese.Disastri su disastri. L’alluvione dell’anno scorso ha sommerso più dimetà del territorio nazionale. E lei sa che il Bangladesh ha circa 120milioni di abitanti in un territorio vasto meno di metà dell’Italia.Può immaginare cosa vuol dire perdere quasi interamente il raccol-to di un anno, in un paese che basa esclusivamente la sua economiasull’agricoltura. E poi la devastazione di strade, casa, ponti, silos. Ilbrutto è che siamo sempre sotto la minaccia di queste calamità.

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Durante la stagione delle piogge nel Golfo del Bengala il livello delmare si alza di 3-4 metri. La corrente dei 53 fiumi che ricevono l’ac-qua dall’Himalaya e sfociano in quel mare è ributtata indietro,inquinata dalle acque salate. I fiumi ormai hanno il letto pieno disabbia e non riescono più a fluire rapidamente. Oltre che alle inon-dazioni stagionali si è sempre sotto la minaccia di cicloni e tifoni cheseminano rovine e morte. Per colmo di sventura non ci sono indu-strie, non c’è un sistema moderno commerciale per arginare questomare di miseria. Altro che “Bengala dorato”, cantato dal nostro Pre-mio Nobel Tagore! Purtroppo il Bangladesh è diventato una nazio-ne annegata nella miseria. – Però leggo sui giornali che la Banca Mondiale, la F.A.O., l’Ame-rica, l’Europa mandano un sacco di aiuti.– Sì, è vero. Il bilancio statale del giugno scorso mostra che l’80%dell’economia del paese è basata sugli aiuti esteri. Nel mio libro scri-vevo che quella è la terra dei paradossi. Ed è vero: il denaro c’è manon sanno come spenderlo bene. Oltre alla corruzione dilaganteovunque, manca una struttura manageriale degna di uno statomoderno. Conseguenza logica: il caos e la povertà. Non parliamopoi dell’infelice situazione politica , argomento proibito ai preti. – E gli aiuti privati?– Questi forse sono meglio utilizzati. Molte organizzazioni straniereconducono a termine progetti che portano grossi benefici sociali.Mi spiace parlare di me, ma per farle capire come stanno le cose,bando all’umiltà pelosa. Per quattro anni sono stato membro delcomitato esecutivo della “Gonobiddaloy”, un progetto finanziatodal governo della Danimarca per scuole di economia domestica. Ei frutti si stanno raccogliendo. Lavoro con la Caritas Bangladesh ela World Vision: oltre che aiutare in casi di emergenza, si costrui-scono piccoli ponti, argini, strade secondarie, scuolette per gli abo-rigeni a tutto beneficio dei gruppi di gente più abbandonata. La miapiccola missione, con gli aiuti di amici italiani (soprattutto del Cen-tro Missionario di Tortona), ha la possibilità di mantenere un boar-ding (pensionato) con 90 ragazzi orfani o poveri in canna, di con-durre una scuola con oltre 500 scolaretti. Senza parlare poi di unpiccolo progetto d’irrigazione che rende possibile ai contadini vici-ni di ottenere un secondo raccolto annuo.– Mi parli un po’ della situazione in cui si trova la Chiesa.– I cristiani, compresi i protestanti, saranno circa mezzo milione. Un

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vaso di terracotta in mezzo a una caterva di vasi di ferro. E anchein Bangladesh – stato islamico – spira forte il vento di rinascita del-la rivoluzione panislamica scatenata da Khomeini. La Chiesa si sal-va in corner con le sue scuole efficientissime, necessarie come ilpane in una nazione che ha circa l’80% di analfabeti. Si salva ancheper quell’istinto atavico di tolleranza innato nell’animo bengalese. – Ci sono conversioni?– Nessuna tra i musulmani e gli hindu di alta casta. Possiamo anco-ra lavorare, con qualche successo, tra gli aborigeni. – I cristiani sono fedeli praticanti?– In generale sì. Nei villaggi che formano il centro-missione hol’85% di praticanti (messa festiva, associazioni, ecc.). – Avete vocazioni religiose? Preti e suore del posto?– Sì, molti e molte. Anche i Vescovi delle cinque diocesi sono tuttibengalesi.– Gli ideali che hanno spinto lei ad una scelta così impegnativa pen-sa che possano ancora determinare la scelta di un giovane oggi?– Gli stessi, identici ideali con i loro corollari? Credo di no. Sostan-zialmente uguali? Sì. Tento di spiegarmi. Quand’ero giovane si par-lava di portare la civiltà cristiana (con le due “c” maiuscole) a popo-li “immersi nelle tenebre e nell’ombra di morte”. Le riviste di allo-ra, la «Civiltà Cattolica», «Le Missioni Cattoliche», persino i gior-nali di tinta fascista glorificavano Roma caput mundi, il faro di civil-tà. Non credo davvero che quegli ideali possano albergare nell’ani-mo dei giovani d’oggi. Il fascino antico di Roma cristiana ingialliscesui libri di storia. Però sostanzialmente gli stessi ideali possono esi-stere e far fremere la gioventù moderna. È sempre Lui che chiamae manda: “Vieni e seguimi”. Gente come Matteo, Andrea, MariaMaddalena esiste ancor oggi e l’ideale di donarsi senza riserve a Cri-sto non è svanito.– Secondo la sua esperienza, come si potrebbe presentare l’idealemissionario ai giovani oggi preoccupati di star bene e godere la vita?– Sarà proprio la reazione naturale a questo star troppo bene, agodersi “la dolce vita” di fronte al dolore, alle sofferenze dei fratel-li meno fortunati, a generare ideali nobili nel cuore del giovane. Egliaspira a qualche cosa di più alto, di più nobile. La difficoltà sta nelfargli intravedere questo qualcosa, fargli provare la gioia di aiutarechi ha bisogno del suo aiuto. Gesù è il prototipo del giovane cheoffre la sua vita per la salvezza del suo prossimo. L’anno scorso sono

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venuti quattro giovanottoni italiani a visitare il Bangladesh. Li siste-mai nel boarding della scuola. Durante la settimana di permanenzavisitarono i villaggi vicini, si resero conto della miseria e della sem-plicità di quegli aborigeni. Si commossero. Al saluto di addio unodi loro, quasi segretamente, mi disse: “Questa gente ha bisogno dime, l’ho ben capito e Gesù mi chiama. Aspettami. Verrò”.– Se pensa agli anni in cui è maturata la sua vocazione nella Chiesanovese, quale religiosità trova oggi nella sua Novi?– È troppo breve il tempo della mia permanenza a Novi . Ho incon-trato un gruppo di signore a S. Nicolò e un altro gruppo misto del-la parrocchia del Sacro Cuore. Posso dire sinceramente che sonostato ammirato, entusiasta dello spirito che anima quei gruppi mis-sionari delle retrovie. Se penso agli anni in cui è maturata la miavocazione missionaria posso dichiarare di aver ricevuto, a quel tem-po, ben poco moralmente e spiritualmente dalla comunità di Novi.Oggi constato che l’atmosfera è cambiata. Forse la quantità di quel-li che vanno a Messa la domenica è diminuita, ma la qualità èmigliorata. – Quali sono stati i momenti più belli in cui ha sentito maggiormen-te la gioia di aver fatto una scelta giusta?– Lasci che ci pensi un attimo perché sono tanti, tanti, troppi. Fac-ciamo così, scelgo a vanvera. Il giorno del battesimo degli abitantidi Cilarong, in quel di Ruhea nei miei primi anni di missione. Lanotte, disteso sulla paglia nella cappella di bambù e paglia, costrui-ta poco prima, non riuscii a chiudere un occhio per la gioia di averportato a Cristo una sessantina di poveracci Hari. Un’altra notteinsonne per la gioia: al pomeriggio una mia giovane cristiana, anga-riata e costretta a sposare un pagano ricco ed influente, che l’avreb-be costretta poi ad adorare i suoi idoli, era venuta ad assicurarmiche avrebbe coraggiosamente detto “no” davanti ai capi-villaggiodurante la cerimonia pagana del matrimonio. L’ultima grande gioiala provai l’anno scorso quando un mio giovane parrocchiano fuordinato prete. Il mio sostituto è assicurato.– Dopo la lunga esperienza maturata sulle strade della vita, sedovesse riprendere il cammino, lo rifarebbe con altrettanto entusia-smo per tutto ciò che là ha realizzato?– Oh, sì, molto meglio. Bisognerebbe nascere due volte. Furbi ibuddisti che credono nella reincarnazione. Purtroppo non c’è.– Un’ultima domanda. Dopo 40 anni di missione non pensa ora dirimanere in Italia?

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– In confidenza le dico che il mio superiore di Milano mi prega didirigere il giornaletto mensile «Missionari del Pime». Penso però dinon esserne capace e poi ho lasciato là alcuni lavoretti in sospeso.La mia chiesa, per esempio, è uno stanzone con i muri di terra bat-tuta e vorrei sostituirla con una bella chiesetta in muratura, sullo sti-le della parrocchiale del Sacro Cuore di Novi. Sarebbe la terza chie-sa che costruisco: omne trinum est perfectum. Terminato quel lavo-retto, penserei proprio di chiudere il capitolo “Strade della miavita” con gli amici di don Beniamino e allora assalam aleikum.

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7.PADRE PESCE RACCONTA

Quest’ ultimo capitolo della biografia di padre Cesare Pesceè riservato ad alcuni suoi testi in cui egli stesso racconta la suavita missionaria o fatti di cui è stato testimone in Bangladesh,tratti dai tre suoi volumi: Le strade della vita, CooperativaEditoriale Oltrepò, Voghera (Pavia) 1989 (II edizione), pp. 132;e Bangladesh Jindabad, Gruppo Poligrafico Editoriale, NoviLigure (Alessandria) 1995, pp. 122. Nell’ottobre 2000 ha pubbli-cato Pack up and go (Fai il tuo fagotto e va), Unique Press,Dinajpur 2000: ancora un testo sulla sua vita missionaria, che siferma al 1972.

Lo scopo di questo ultimo capitolo è di presentare al lettore lepagine più belle del nostro missionario, cioè i racconti meritevolidi essere letti perché aggiungono qualcosa alla biografia. All’iniziodel capitolo pubblico la prefazione di Strade della Vita del france-scano padre Nazareno Fabretti, grande amico di Cesare Pesce; unestratto della prefazione alla II edizione di Strade della Vita delprof. Egidio Mascherini; e alcuni estratti delle due recensioni diStrade della Vita scritte da Antonio Airò, giornalista di«Avvenire», su «Il Giornale di Voghera». Seguono alcuni raccon-ti originali di padre Cesare Pesce.

“La perfetta letizia” di padre Cesare

Questo, per fortuna, non è un libro. È molto più e meglio diun libro. Fosse un libro, non mi interesserebbe, probabilmentenon interesserebbe quasi a nessuno. Siamo stati sepolti, letteral-mente, sotto piissimi libri che raccontavano - spesso in manieraintollerabilmente noiosa - l’eroismo reale di tanti generosi ed

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eccellenti missionari. I missionari sono quasi sempre di più emeglio dei libri che li celebrano, per quanto dolorosamente since-ri e vissuti. A leggere questi libri, senza conoscere i missionari cheli hanno scritti, si rischia di non avere molta ammirazione nemme-no per i loro autori o protagonisti; e si rischia soprattutto diimmaginare anche la vita del missionario come una routine sbadi-gliosa anche se sacrosanta, come la nostra vita di casa, d’ufficio, difabbrica o di sacrestia.

Questo libro, ripeto, per fortuna non è un libro. Questo libroè padre Cesare. È solo per caso anche un libro, in realtà è unuomo e, solo per “purissimo accidente", per dirla col Manzoni, èun racconto. In realtà è l’avventura imprevedibile, evangelicamen-te “salgariana" di un diavolo di prete che è riuscito ad inventarsila vita con allegria e coraggio ogni giorno da capo, nelle situazio-ni più difficili, dissennate, comiche e patetiche. Sono “31 anni divitaccia” che occupano poche pagine: non c’è tutto ma è il meglio.È il diario d’un gioco del buon Dio, giocato da un santo ragazzac-cio un po’ piemontese un po’ lombardo che è riuscito a viverlosenza mai diluirlo in tragedia, sempre preferendo, anche per lanostra delizia, come prova la vivacità di queste pagine, la comme-dia o addirittura la farsa.

Leggendo questi appunti, “sugo” della “storia” di un trenten-nio di corse e soste, soste e corse dall’Italia al Bangladesh, dalBengala al Pakistan, ho scoperto con irrefrenabile felicità ora cac-ciando le lacrime del pianto per far posto a quelle del riso, e vice-versa, che padre Cesare è un “giullare” di quelli veri, uno di quei“fra Ginepro” di cui San Francesco diceva che avrebbe volutoaverne una selva.

Non c’è, in questi quadretti di vita missionaria, neanche unapia maiuscola, nemmeno un baffo di retorica devozionale. Questoè il Vangelo del “te possino!”, una locuzione romanesca anchetroppo nota, che padre Cesare ha fatto imparare, prima o megliodi ogni altra frase, alla povera gente alla quale, da più di un tren-tennio, ha regalato la vita. Un “te possino!" che non comporta“l’ammazzà”, ma bensí il suo esatto, festoso, burlone ed evangeli-co contrario; come ad un missionario inguaribilmente giovane siconviene.

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Padre Cesare (come l’ho conosciuto 30 anni fa, per subitoperderlo in quanto stava proprio allora partendo per l’India) nonè un eroe. Non è un santo. Spero con tutto il cuore che non fini-sca neanche martire, né per caso né di proposito. Non è, franca-mente, il tipo, per sua e nostra fortuna. È un uomo pieno dischiettezza, di fifa, di malinconia, di rimpianti. Gli dà fastidio ilfreddo, lo distrugge il caldo, lo fanno impazzire le zanzare.

Ricorda spessissimo, con struggimenti umanissimi anche senon rimpiange nulla, tutto quello che ha lasciato, coloro che amae non vede da anni, e qualche volta fa il conto di quanti mesi oanni mancano al suo prossimo viaggio per rivederli. È un verouomo, insomma; e come un vero uomo i suoi poveri di ogni reli-gione, razza o tribù, lo amano, lo divertono e si divertono con lui,col fiuto infallibile dei poveri che sanno sempre e subito distin-guere un uomo fasullo da un uomo genuino.

C’è in questi appunti tirati via, ma che lasciano sempre ilsegno della speranza, una semplice filosofia della vita: quella di unuomo che ha imparato fin da ragazzo a restare con i piedi perterra se voleva dar spazio allo Spirito, e che non ha mai rinunzia-to ad una battuta se doveva preferirla ad un predicozzo. Le pre-diche, invece, bisognerebbe poterle ascoltare là, in Bangladesh,dove le fa. Ma per quel che ne traspare da queste pagine, ce n’èd’avanzo per credere che questo strano missionario riuscirebbe aconvertire anche noi, suoi vecchi, fedeli anche se pigri, distrattiamici.

E c’è, in questo libro, la filosofia di un uomo che si è impegna-to a non contare mai pie frottole ai poveri, tanto meno in nome diDio, e a non nominarlo mai invano, nemmeno per consolarliquando mancano tutti i mezzi e gli argomenti per consolarli e lafame, il dolore, la solitudine sono realtà intollerabili.

Ma c’è anche in questo mazzetto di pagine, soprattutto, lafesta delle cose e il coraggio delle situazioni più imprevedibili.Una sera, a p. Cesare si fora la gomma della bici; lui manda l’ami-co John in cerca di aiuti e si appoggia ad un albero: tre donne chegli si genuflettono davanti e non c’è verso di farle alzare. Solodopo si renderà conto che quello è un albero sacro, che il lucci-chio delle cromature della bici è apparso a quelle donne come

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un’apparizione della divinità, e Cesare, ma sì, è sembrato loro undio. Le risate! Ma lui in quel preciso momento, pensa a ben altro:

Quella retata di stelle, lassù, mi fa venire la malinconia.... Non sonopoi tanto lontane dall’Italia. Siamo sotto lo stesso tetto. Loro guar-deranno forse le stesse stelle...oh, no, che pretesa! Là sono le tre delpomeriggio e altro che guardare le stelle. Saranno nelle ferriere e ledonne presso le macchine da cucire. Mia sorella incomincerà a pela-re le patate, a tagliuzzare il sedano per preparare il minestrone a suomarito. Che bontà! Sarà un secolo che non l’ho mangiato... se neavessi qui un piatto... ah, l’acquolina in bocca.... Che appetito!

La lezione cristiana, in padre Cesare, viene solo dai fatti, maiin astratto. Perché questo è “missione", per questo è “comunio-ne", per questo è Vangelo vivo. E bastano queste poche paginecoraggiosamente, inguaribilmente allegre, piene di fede e dibuon senso, per convincercene, per farci sentire di casa, con lui,in Bangladesh, nel Bengala, dovunque lui sia passato. È per que-sto che, dopo più di 30 anni che non lo vedo, ora leggendo,anch’io mi sento evangelizzato da lui, che trent’anni fa partendomi regalò un brivido di rimorso e di invidia. Grazie, Cesare,testone del buon Dio. “Te possino!"...., caro Cesare, restare sem-pre intatti, nel cuore e nella missione, questi fermenti di “perfet-ta Letizia".

Nazareno Fabbretti(Prefazione alla prima edizione di Strade della Vita, 1980)

“Il Vangelo annunziato con humour”

Scrivo volentieri brevi righe a mo’ di presentazione alla secon-da edizione del libro di padre Cesare, mio concittadino e, inanni… astronomicamente lontani, chierico e giovane sacerdoteamico e compagno di combattutissime partite di calcio. PadreCesare, penna affascinante di vero scrittore, ha qui condensato lasua multiforme esperienza missionaria nel lontano e poverissimosuo Bangladesh.

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Missionario viene da “mittere”: colui che è mandato a porta-re la lieta novella, ma anche a sfamare, educare, curare spessoanche i corpi. A sentir l’Autore, il libro è un po’ il “romanzo”della sua vita in terre lontane. Multiformi vicende, esperienze etalune circostanze nelle quali s’è trovato a vivere ed operarehanno veramente della realtà romanzesca…

Questo libro, mi sforzo di capire, ha la funzione di diffonde-re la mentalità missionaria in mezzo ai popoli del benessere. Nonsi può rimanere indifferenti dinanzi agli infiniti problemi che ilmissionario incontra sulla sua strada, con l’intento di realizzare “ilregno di Dio”, un mondo di pace, giustizia ed amore. Chissà chequalcuno, leggendo queste pagine, ascolti come un’eco la chiama-ta del Signore a seguire questo strano scanzonato missionario. Labella pubblicazione si raccomanda da sola: per la bellezza di stilee per la scioltezza del racconto. Nessuno vi si addormenteràsopra.

Egidio Mascherini(Dalla Prefazione alla seconda edizione di Strade della vita, 1989)

Ecco un libro che raccomandiamo e consigliamo caldamentesoprattutto ai giovani. Lo ha scritto un prete (salvo brevi e desi-derate vacanze in Italia) missionario nel Pakistan prima, ora nelBangladesh. Si chiama don Cesare Pesce: è stato nell’immediatodopoguerra viceparroco a San Rocco e sono molti i vogheresi –oggi tra i quaranta e i cinquant’anni (allora ragazzi, giovani esignorine dell’oratorio) - che ricordano questo sacerdote dallabarba sale e pepe, sempre allegro e pronto allo scherzo e alla bat-tuta piena di humour.

Le Strade della vita come si intitola questo stupendo volumet-to di vita vissuta (edito dalla Emi di Bologna) portano don Cesarea camminare – il più delle volte proprio a piedi o in bicicletta – perle strade di una lontana missione. Ma sbaglierebbe chi volesse leg-gere in queste pagine, rievocative di tanti episodi e di tanti incon-tri, una agiografica esaltazione del lavoro missionario, o una “sdol-cinata” e acritica approvazione di ciò che – con grandi fatiche espesso pagando di persona – tanti missionari compiono.

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Non c’è nel libro la storia di alcuna conversione; c’è invece lapazienza gioiosa e umana di chi sa che c’è un tempo per semina-re ed uno per raccogliere e che non sempre chi semina è colui cheraccoglie. E c’è soprattutto il rispetto dell’uomo, hindu o musul-mano che sia, ateo o religioso. Don Cesare si è accostato a lui dauomo, prima ancora che da sacerdote. Più che alla conversioneformale al cristianesimo, in questi tanti anni “di vitaccia” in mis-sione, come dice lui, don Cesare ha guardato all’uomo:

Su una di quelle strade, una strada fangosa del Bengala, io ho incon-trato un uomo. Era solo. Mi sono fatto suo compagno di viaggio el’ho condotto tra quella folla immensa. Era pellegrino, sfinito dallafame. Gli ho insegnato a liberarsi da quello spettro col lavoro one-sto, umano, non massacrante. Era angariato dai potenti, dai ricchi.L’ho aiutato a liberarsi. Era in preda all’odio e gli ho dato l’amore.Era disperato e io, messaggero di gioia, gli ho donato la gioia divivere. Davvero ho fatto così? almeno ho tentato? Se sì, sonoanch’io nel numero dei facitori del regno dei giusti. Se no, ahimè,ho sbagliato tutto.

Questo è padre Cesare Pesce, un prete entusiasta e capace dientusiasmare, pieno di iniziative, con una dote rara in campo cat-tolico, quella dello humour. Il suo è un libro che fa ridere, conepisodi pieni di equivoci e di vicende che ti mettono una sana alle-gria, ma anche un libro che lascia un segno, che fa piangere. Masono lacrime di felicità perché quello che don Cesare Pesce rac-conta è vita di tutti i giorni. Nulla di eroico, nulla di esaltante,nulla di retorico. Don Cesare si rivela “uomo pieno di stanchezza,di fifa, di malinconia, di rimpianti. Gli dà fastidio il freddo, lodistrugge il caldo, lo fanno impazzire le zanzare”. Quando un suoconfratello sceglie di andare in una parrocchia dove c’è un lebbro-sario, don Cesare Pesce non nasconde la sua gioia:

Splendido! soggiungo con tutto il cuore, perché a Dhanjuri c’è illebbrosario e là necessitano gli eroi. Non che disprezzi o abbiaribrezzo dei lebbrosi, poveretti, prediletti del buon Dio. La faccen-da è che io, davanti ad un comune ammalato rimango impappinatocome un autentico scemo. Immaginarsi poi davanti a un viso in len-ta decomposizione.

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Potremmo continuare piluccando tra un episodio e un altro,ma preferiamo sia il lettore a scoprire e gustare in questo volumet-to che si legge d’un fiato (ma poi quando si rilegge, si scoprequanto amore e quanto coraggio ci sia dietro una battuta, un ….“te possino”… di cui il libro è pieno). Sono – e non pensiamo diesagerare – pagine di un Vangelo vivo, “carnale” non spiritualista,pagine “piene di fede e di buon senso”, come le definisce padreNazareno Fabretti; è il Vangelo di un cristiano, di un prete che cicrede veramente e che ritiene si possa annunciare la Parola chesalva senza cipiglio, ma “in perfetta letizia”.

Il Vangelo di don Cesare Pesce non è sminuito da episodiettio dal rimpianto per il minestrone di sua sorella “Che bontà! Saràun secolo che l’ho mangiato… se ne avessi qui un piatto… ah,l’acquolina in bocca… Che appetito”. Anzi, sono pagine che lorendono ancora più vivo e vivace. Bisogna dire grazie a donCesare per queste pagine. E grazie anche per quelle righe cherichiamano Voghera. Mi pare di vederlo, nella sua missione(quante ne ha girate in questi trent’anni) mentre apre davanti airagazzi un atlante e il suo dito scorre lungo lo stivale italiano eogni tanto si arresta. Prima Novi Ligure, la sua città natale, poiTortona, dove è diventato prete. “E qui c’è scritto Voghera, perme la più cara città del mondo, dove uno stuolo di giovani, quan-do parlai loro di voi mi dissero: ‘Va pure in mezzo ai tuoi indiani.dove Iddio vuole’ – io venni e da quel giorno quei giovani sonodiventati fratelli bianchi di tutti voi”. L’atlante si chiude. Ma ilcuore dei Vogheresi si è chiuso anch’esso?

Grazie don Cesare per questa ventata di Vangelo. Anche tu,come Cyril il giovane primo sacerdote di Pathorgata, continui aripeterti: “E chi me lo fa fare sto mestiere di prete? Io? Dio?L’uno e l’Altro in combutta”. Che bello! Tieni duro don Cesare!

Antonio Airò(Recensioni di Le Strade della vita su «Il Giornale di Voghera», 8ottobre 1981 e 24 agosto 1989)

(Seguono alcuni racconti di padre Cesare Pesce)

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L’ubriacone Moti non beve più

Un bracciante cui piace soprattutto la birra. Ecco Moti diThakurpara. Con la moglie non poteva proprio andare d’accordo,causa quel benedetto liquido che, tra gli aborigeni, si prepara inogni casa, sebbene proibito dalle leggi dello stato. Fra i due, sce-nette gustose per chi parteggiava per Moti, ma disgustose per chistava per Magdalen.

Quella mattina era stato battezzato il quarto figlio del capo-villaggio e alla sera, come al solito, festa in casa, con abbondantilibagioni affinché lo Spirito Santo scenda abbondantemente sulpiccolo nuovo membro della Chiesa. Io stavo nella cappellina pre-parandomi il paglione per dormire, quando sento il Moti, pienocome un otre, tempestare la porta di casa sua. “Non ti apro” gridala donna dal di dentro. “Magdalen apri, altrimenti...”. “No, puoidormire dove sei, ubriacone impenitente?”. “Altrimenti mi buttonel pozzo”... “Buttati, che m’importa?”. “Mi dici buttati? Ah,Magdalen....”.

Nell’oscurità (e chi l’avrebbe studiata così bene?) Moti, affer-rato un grosso vaso che serve per dare da bere alle bestie, lo lasciacadere nel pozzo e fugge, barcollando, nel campo vicino. A queltonfo risponde il tuffo di sangue della povera donna. Mezzo vesti-ta, scarmigliata, corre verso il luogo del disastro, gridando comeun’aquila ferita i nomi più dolci e delicati al suo uomo e le invet-tive più sporche al capo-villaggio.

Tutti noi, accorsi ben presto alle grida, cerchiamo di renderciutili in qualche modo: chi cerca un bambù, chi una corda, tuttidanno consigli e fanno proposte. La scena diventa così pietosa ecomplicata da intenerire persino quel lavativo di Moti. Nel suonascondiglio resiste fin che può, poi sbotta e fa la sua apparizio-ne. Piange, ride, mugola, ripetendo: “È una gran donna, è unagran donna". Tenta persino di abbracciare la sua “gran donna"che scappa in casa e la commedia finisce.

Quella sera Moti vinse con l’astuzia rimanendo vittima del-l’amore. È passato un mese ormai. Tutti affermano che nessuno,fino ad oggi, è mai riuscito a far bere un goccio di birra al famo-so beone di un tempo.

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Cacciare il “Bosonto” (vaiolo) col baccano

Sera d’Oriente. Il cielo stempera il suo azzurro con striature dirosso allucinante, mentre i corvi, a migliaia appollaiati sui bambùche fiancheggiano la strada, gracchiano aspramente, dando un tonolugubre, una nota ferale, tutt’intorno. Che tristezza! Le zanzarenegli angoli della camera, sugli armadi impolverati, accompagnanocon monotono ronzio la loro orrida danza della malaria.

Guardo fuori, vedo un mango che sta davanti alla finestra:nulla. Tutto è immobile, neppure una fogliolina si muove per darsegno di un soffio di vita. Si soffoca davvero, mentre il sudorebrucia la schiena e le braccia. Scrivo un periodo e poi soffio alungo, quasi a svuotare i polmoni dell’aria calda e cattiva, standoattento che le gocce di sudore non macchino questo foglio. Penso,ma anche il pensare è faticoso. Il sopravvivere è già fatica in que-st’afa. Non so cos’abbia nell’animo questa sera. Melanconia?

Al mattino ero rimasto impressionato alla vista di quel pove-retto coperto di piaghe, seduto su foglie di banano, abbandonatoda tutti, in quel tugurio presso il pantano, al di là del mio villag-gio. Un giovane da qualche mese sposato ad una ragazzina quin-dicenne che, in preda alla paura, era scappata presso i propri geni-tori. Lui, colpito dal vaiolo, s’era trascinato là ad aspettare la pro-babilissima morte. I suoi parenti, in un ultimo atto d’amore, gliportavano un po’ di riso bollito, condito con latte cagliato. Comelui, quanti altri in simile misera condizione! Questo corpo umano,così bello, meraviglioso nei suoi minimi dettagli, ridotto in unostato che incute disgusto, ripugnanza... È una ribellione pacata lamia, soffusa di tristezza, che ha assalito il mio cuore, nella coreo-grafia dei corvi che continuano la loro canzone turpe e le zanzarela loro danza di morte.

Sulla strada, all’improvviso, un grido umano, quasi bestiale.Più lontano un altro grido, un altro ancora e il rullo d’un tambu-ro, il rumore di una latta vuota battuta con forza. E grida, e tamtam, un finimondo. Corro fuori, sicuro di un disastro. Forse unagrossa rapina, una rivoluzione, un colpo di stato, una tigre brac-cata... “Cosa succede?” domando al primo uomo che incontro eche mi pare abbastanza calmo.

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“Scacciamo via il “Bosonto” (vaiolo). Egli è entrato nel nostrovillaggio per farne una strage. Se non stiamo in guardia, se nonriusciamo a fargli paura con i nostri schiamazzi, in un mesetto ciliquida tutti. Viene di notte, quel lurido demonio, ad inquinare ipozzi, buttandovi dentro le uova dei vermi. L’ho visto pure io ...ora lasciami andare a dare man forte ai lottatori dell’urlo”.

Rimango ai margini della strada, come intontito. Loro sannole cose, le hanno vedute coi loro occhi... Contro l’evidenza chevale il ragionare? Oriente misterioso! A passi lenti scrollando latesta, più mesto di prima, ritorno nella mia stanza, al mio tavoli-no. Fuori è un vociare selvaggio, un baccano apocalittico. Vedoanch’io il Bosonto. Il volto paonazzo, bucherellato da milioni dipustole, gli occhi dilatati e spauriti. Un cencio fetido addosso. Là,dietro la siepe di bambù, in prossimità del villaggio... Oriente,Oriente misterioso!

Un matrimonio al veleno

Bellissimo il matrimonio qui, in Bengala, visto da destra: unacapanna reale, fatta di paglia e bambù, e due cuori veri, fatti dicarne e amore. Brutto affare visto da sinistra. E disgraziato, moltospesso, colui che si mette di mezzo. Questa volta disgraziato me ei miei aiutanti che, per necessità, vi abbiamo messo il naso.

Sette-otto anni fa, non so come e perché, Golapi era capitataalla missione cattolica e da quel tempo mai nessuno s’era fattovivo a cercarla, a dirle una parola d’affetto, a portarle un regalinoda due soldi. Non è a dire che non avesse parenti. Non era cadu-ta giù da Marte, né era stata trovata, in un fagottello, presso laporta di casa del parroco, mio predecessore. V’era un reggimentodi zii che si tenevano nascosti, pronti a piombare sulla preda altempo propizio.

Qui da noi, quando una ragazza sta per essere venduta al pro-messo sposo, tutti i parenti possibili e immaginabili escono fuoria reclamare mille diritti e pochi doveri. Ed ora che la Golapi,tenuta e curata come un figlia adottiva in casa del catechista, s’erafatta una bella ragazzina, con tanto di diploma di quinta elemen-

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tare (cosa rara per una contadina bengalese): a Bamongaon i baf-foni cominciavano a farsi venire l’acquolina in bocca... qualchecentinaio di rupie in vista, da poter scroccare a ufo....

Il catechista, da uomo di mondo, aveva cercato un buon gio-vane di un villaggio vicino e me l’aveva portato per le firme delfidanzamento ufficiale. La ragazza contenta, il giovanotto più chefelice. Tutto a posto fin qui. Ma io, mentre affiggevo alle portedella chiesa le pubblicazioni per il matrimonio, mi sentivo giàaddosso tutta quella brava gente di Bamongaon. Le mie previsio-ni non erano infondate: stavo zappando nell’orto, quand’ecco, dalcancelletto, due uomini, con tanto di codino indù, entrano spaval-di e s’avvicinano. “La ragazza è nostra e quel matrimonio non s’hada fare”, incominciano senza preamboli. La storia si ripete...“bravi” e Lucie e don Abbondi si presentano, in un baleno, allamente, vivi e veri. La figura barbina di don Abbondio... Eh, no,cari bagarozzi... “Bene”, rispondo secco, più per darmi coraggioche per convinzione: “La strada che avete fatto per venire è lungaprecisamente come quella che adesso dovete prendere per ritor-nare. E alla svelta”.

E continuo il mio lavoro, La zappa s’affonda qualche pollicepiù profondamente nel terreno, aiutata dalla stizza che m’è entra-ta in corpo. I due, che di “bravi” avevano solo i baffi, rimangonocome due statue di stucco ad osservare il su e giù della zappa. Ilcatechista più buono di me e miglior conoscitore dei costumi delpaese, saputo del loro arrivo, li invita gentilmente a casa sua, offreloro la foglia di betel, li ammansisce per bene e infine proponeloro un compromesso che viene accettato: il promesso sposoavrebbe comperato un capretto e pagato un pranzo da consuma-re nel paese dei parenti della sposa. Tutti noi, cristiani e pagani,avremmo accettato l’invito come segno di riconoscimento e diunione, rinsaldando così i legami di parentela tra le famiglie deidue sposi.

Come stabilito, una settimana dopo, siamo a Bamongaon,festeggiati da quella gente. Al pomeriggio, dopo le abituali ablu-zioni di mani, piedi e bocca, in attesa del famoso pranzo, ci sedia-mo a gambe incrociate, in una lunga fila, davanti alle foglie dibanano, che sostituiscono elegantemente i piatti. Lo sposo è sedu-

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to tra il catechista e un giovane cugino della Golapi. Una donnac-cia brutta, con un largo sorriso poco rassicurante sulle labbra,presenta riso e curry agli invitati. I primi ad essere serviti, natural-mente siamo noi, gli ospiti d’onore, i più rispettabili. A noi, a dif-ferenza degli altri, porta il piatto già confezionato.

Un piccolo fremito, un appena percettibile tentennamentodella vecchia, al momento di servire lo sposo? Non so. Il catechi-sta, senza una parola di commento, senza la minima messinscena,come se fosse una cosa di ordinaria amministrazione, scambia ilpiatto colmo, offerto allo sposo, con quello del vicino, il cuginodella Golapi. Centro! La tragedia è scongiurata. Il cugino dellaGolapi sta ancora preparando la pallottola di riso condito permetterla in bocca, quando la donnaccia brutta, gli occhi fuori dal-l’orbita, ritorna di corsa. Con uno scatto felino ritira quel piattoincriminato, lasciandoci inebetiti per la sua azione fulminea, pienadi loschi significati. “Assassini!” tuona il catechista, buttando lon-tano il suo piatto. Con una litania di esclamazioni e di insultisoverchia le vane spiegazioni e proteste della donna.

I due del codino inseguono lo sposo che, ammutolito e pienodi paura davanti a tanta perfidia, aveva già preso il sentiero perritornarsene a casa anche senza la fidanzata. Tentano di fargliaccettare il denaro speso per il pranzo, di prendersi con sé laragazza, purché non creda al tentato avvelenamento. Tutto inva-no. Mesto, avvilito se ne va. La Golapi intesa la faccenda, inmezzo a quello scompiglio, corre presso il catechista, piange, sidispera. S’inginocchia davanti a me, scongiura: “Portami via,andiamo via di qua”. Mi consulto col catechista e, perentorio,dichiaro: “Golapi si sposerà la settimana prossima con quel giova-ne cristiano che voi forse, dico forse, avete tentato di togliere dimezzo. Non si accennerà nulla di ciò che oggi è qui accaduto nécon la polizia, né col sindaco. Però a scanso di altre eventualigrane, nessuno di Bamongaon si faccia vedere a Ruhea, il giornodel matrimonio”.

La moglie del catechista, come una buona mamma, asciuga lelacrime sul viso della Golapi, la prende per mano e s’avvia versocasa. La ragazzina sorride felice, gli occhi splendenti, come unmeriggio dopo un terribile temporale di aprile. A colui, che per

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suo amore ha rischiato la vita, saprà donare felicità, amore e la suavita. I due dal codino non sono ancora usciti di scena. Insistonocon me e col catechista perché mangiamo qualcosa: dicono chesarebbe un’offesa andarcene senza accettare un boccone. Non èper avvelenarci... Sciocchezze, fantasie... “No, grazie. Stiamofacendo la cura dimagrante. Sorry (ci spiace)”. Alla larga!

L’ombra della croce che salva

Un bel giovanotto, Pancrazio, e la mogliettina ancor più bellas’erano fabbricati il loro nido con amore e sacrificio, presto allie-tato dagli strilli di una nuova ospite-padroncina. Lui, con unapatente di guida in mano, abbastanza rara da questi parti, facevail camionista in una organizzazione cristiana in città. Lei dovevapassare spesso le notti e le giornate sola, in casa nel villaggio. Leforzate, frequenti assenze del marito a poco a poco l’avevano fattadivenire svogliata, apatica.

E il nibbio spiava da lontano la situazione. A volute larghe elente studiava la direzione giusta, finché una sera piombò su quelnido. Fu lo sfacelo. Inconsueti, preziosi sari, orecchini d’oro, pro-fumi costosi entrarono in quella capanna fatta di paglia e dibambù. Tutti sapevano. Le comari passavano ore a commentare lafaccenda poco pulita con reciproche strizzatine d’occhi e stranistorcimenti di bocca, contente di avere un argomento piccante diconversazione. I vecchi scrollavano la testa, mentre i giovani sposiminacciavano roteando il pugno come se fossero armati di un fal-cetto: “Se fosse la mia donna ...” mormoravano.

Ma non c’era nulla da fare. L’uccellaccio di rapina era piùpotente di tutti i cristiani messi assieme. Con l’andar del tempo,lei aveva cambiato domicilio. La voce della campana della chiesadiventò troppo debole alle sue orecchie. Tolse il saluto, sdegnosa,ai suoi amici d’un tempo. La signora.

Pancrazio, che dapprima difendeva la sua donna, si adiravacon chi s’azzardava a parlar male di lei, rifiutava caparbiamente dicedere alla realtà, ora non voleva più mettere piede nella nuovacasa, chiusa ai quattro lati da steccati di bambù, come una picco-

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la fortezza. Non era più la sua vecchia casa, povera di beni mate-riali, ma ricca d’amore e di serenità. Sapeva che quell’amore sen’era andato per sempre. Diventò cupo, misantropo, scontrosocon tutti, un uomo finito, perché derubato della fede nell’uomo.

Un giorno volle il caso che lo incontrassi per la strada, in città.I soliti convenevoli, i soliti consigli da prete, tentativi vani di rido-nargli la pace dell’animo. “Se vuol farmi un favore, le dica di cre-pare presto con il suo drudo”, fu la risposta conclusiva. Mi senti-vo colpevole di non aver saputo non solo lenire un tantino il suodolore, ma d’aver forse acuito maggiormente la sua ferita. Nonsapevo più che fare, che dire: “Pancrazio, non so chedirti...Tieni”, e gli misi in mano una coroncina del Rosario. Eral’unica cosa che avevo con me. Tentennò il capo, vide nei mieiocchi la copia della sua tristezza, non volle aumentarla. Accettògentilmente il piccolo dono, lo cacciò in tasca e si allontanò. Pocolontano accese una sigaretta, forse per scacciare, col fumo, l’im-pressione ricevuta.

Quella notte era di servizio. Seduto al volante, alle scosse cau-sate dalle innumerevoli buche della strada, stringeva i denti, comese avesse in corpo la febbre. “Cosa ho mai fatto di male io? Nonc’è nulla di buono, di bello, di giusto in questo mondo. E quelprete mi viene a sorridere sul muso. Parole, parole... e Dio... eMadonne... e Rosari, grugnì. Mise la mano in tasca, cavò fuoriquel Rosario e lo scagliò con rabbia innanzi a sé, nell’apertura delparabrezza. Uno strappo al volante, una schiacciata all’accelerato-re e via, per miglia e miglia, sulla strada deserta, illuminata dai faridel camion.

Poco dopo, un’ombra enorme, all’improvviso, si para davan-ti, l’ombra di una croce gigantesca, che balla la stessa danza dellamacchina. Rallenta di colpo, mette in seconda, in prima. Piùnulla. Rimette le marce, accelera e l’ombra, obbediente, riprendela sua danza, selvaggiamente, più scura, paurosa, vicinissima.

Terribile. Gocce di sudore imperlano la fronte del giovaneautista. “Maledizione!”. È la febbre, è un’allucinazione, sospira.Passa la mano sugli occhi e via, più veloce. E l’ombra è là, nitida,nera. Allora schiaccia il pedale del freno, mette in folle e il frenoa mano e scende dalla cabina. L’ombra ora tremola, dolcemente

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cullata dal ritmo del motore, adagiata sull’acqua torbida d’un tor-rente che attraversa la strada. Il ponticello di legno è crollato,sono rimaste alcune grosse assi, scardinate in più punti, sui paliinclinati. Ancora alcuni giri delle ruote e poi sarebbe seguito iltonfo fatale,

Una scena da film: Pancrazio immobile, muto, dinnanzi aquella rovina, inquadrato nell’ombra enorme di una croce, tremo-lante sull’acqua. Lentamente ritorna verso il camion. Incredibile!Impigliata nella vite di sostegno della lente del faro, c’è la coronadel Rosario, con la sua crocetta dondolante. Pancrazio capisce inun baleno, s’accosta incerto, la disimpiglia quasi con venerazione,la bacia ripetutamente: “Oh Dio, cosa ho mai fatto io di bene, permeritarmi di vivere, di sperare, di credere ancora nell’amore degliuomini?”. Il motore è spento. Silenzio nella notte.

Il primo prete di Pathorgata

Quarant’anni fa venni in Pakistan Orientale, ora Bangladesh.Ricordo che fra i primi villaggi visitati ci fu Jamtuli, formato da uncentinaio di catecumeni oraon. Ancora fresco di teologia, allasera, alla luce tremolante di uno stoppino imbevuto d’olio, mimetto a dar lezione di catechismo. Immaginarsi quali pretese lemie... In un “hindi” di prima elementare con gente che parla il“kuruk” e che sa discorrere soltanto di bufali e buoi, dissertarenientedimeno sulla Trinità di Dio. Missionario pivellino! Eppurein mezzo a quei pazienti ascoltatori c’era una giovane mammache, dopo alcuni anni, avrebbe dato alla nascente comunità cri-stiana il primo futuro prete della parrocchia-missione diPathorghata. I soliti imprevedibili e meravigliosi disegni di Dio.

Così passarono gli anni e quel bambino “cresceva , si fortifi-cava e la grazia di Dio era sopra di lui!”. Un giorno lo trovaronosemi-annegato nel vicino acquitrino. Nessun segno di vita. Il mae-stro del villaggio gli traccia un segno di croce sulla fronte e sulpetto e il bambino, aperto gli occhi, sorride alla folla come sevolesse prendere in giro l’universo. Qualche anno dopo, eccolo dinuovo sott’acqua, freddo e duro come un sasso. I compagni lo

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tirano a riva e il vecchio maestro ripete l’operazione del segno dicroce. Come se nulla fosse avvenuto, Cyril (questo è il nome deldiscoletto) si rianima e corre a casa. I due avvenimenti incidonoun’impressione indelebile nel suo animo, un’impressione forieradi un avvenimento straordinario nella sua vita... “Se Dio mi ha sal-vato due volte da una morte da cretino, è chiaro che vuole da mequalcosa di più che non dagli altri…”.

Con la caparbietà ereditaria della razza oraon, contro l’oppo-sizione dei genitori e le difficoltà finanziarie della famiglia riesce,a lunga intermittenza tra scuola e campi, ad assicurarsi la maturi-tà classica. Ormai ha passato la trentina: a questa età le decisionidiventano finali ed immutabili. Entra nel Seminario Teologico diDhaka e anche là, lui introverso per natura, riesce per lunghi anni,con fatica e fortezza d’animo, a convivere coi bengalesi, estrover-si e chiacchieroni, fino al sospirato traguardo.

Eccolo finalmente, a 37 anni di età, prostrato dinanzi alVescovo di Dinajpur nello splendido festoso cortile della missio-ne di Pathorghata. Canti in diverse lingue, 35 preti bengalesi, ita-liani, americani insieme al Vescovo, impongono le mani sulla suatesta, invocando lo spirito divino sul suo difficile cammino.Migliaia di persone ..... la mamma, umile, schiacciata dall’emozio-ne stenta a farsi avanti a ricevere la benedizione di suo figlio, laprima del suo incipiente ministero. Sorride, piange, non sa tratte-nersi... stringe forte, forte in un abbraccio d’amore quel suo figlio-lone disubbidiente, diventato dispensatore dei beni celesti.

Una nota dolorosa: il papà non c’è più. Se ne è andato dueanni fa a ricevere la ricompensa di Dio per avergli donato il suofiglio migliore.

Caramelle: magica invenzione di amore

Dirette ed animate dalla parrocchia ci sono alcune scuoletteper i bambini aborigeni che, a sei sette anni di età, data la loro lin-gua diversa dalla lingua nazionale bengalese, non sono pronti adentrare nelle scuole comunali, generalmente rette dai musulmani.La condizione in cui si trovano le sottocaste indù però non è

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migliore della loro. Non a causa della lingua, ma per un insiemedisgraziato di fattori, che obbligano moralmente i bambini a nonandare a scuola e rimanere così, per tutta la vita, analfabeti.

Avevo pensato di invitare gli abitanti di un villaggetto a man-dare i loro figli alla scuoletta del vicino villaggio aborigeno cristia-no. E così, dopo aver combinato la faccenda col maestro, versosera arriviamo, il John ed io, a Kistopur, un villaggio abitato dai“badia”, lontano una quindicina di Km. dal centro-missione. Ungruppetto di 9 capanne di paglia mal messe, cortiletti sporchioltre ogni dire, un tanfo di carne putrida. Sei o sette ragazzetti,vestiti di sole, giocano con i ritagli della pelle di bue. Nulla di stra-ordinario. Uno dei soliti villaggi “badia”, gemme poco fulgide delBangladesh.

I “badia” formano una delle sottocaste poste agli ultimi scali-ni del famigerato codice hindù. Da alcuni indologi essi sono acco-munati con i “muci” per i mestieri che fanno. Infatti, mentre i“muci” tentano di fare e riparare scarpe e ciabatte, i “badia” pro-curano loro le pelli conciate. Secondo la mentalità e i costumihindù, il toccare un morto è considerato un atto altamente impu-ro e il lavorare le pelli, resti di una bestia morta, rende perenne-mente impuri calzolai e pellai. E non pensano i signori criminalipromulgatori della legge, fondatori e conservatori dei costumihindù che, quando essi stanno calzando le scarpe, i loro piedi puz-zolenti diventano impuri toccando la pelle di una capra morta;che, quando siedono sulla sella del cavallo, il loro sedere diventa“intoccabile”... E poi se lo vanno a lavare, com’è loro costume, nelfiume vicino, dove hanno gettato il cadavere abbrustolito di unloro parente.

Ma tant’è, il povero “badia”, per guadagnarsi uno scarso piat-to di riso, fa il faticoso, insalubre mestieraccio del pellaio, èl’emarginato della società, l’impuro, l’intoccabile. E il superbobramino, che può permettersi il lusso di farsi allacciare le scarpe,è il reverendo, il puro, il santo. Beh, lasciamo perdere, altrimentimi vien voglia di sbottare... Stavo dunque dicendo che il mio fede-le John ed io siamo arrivati in un piccolo regno “badia”, regno dimiseria materiale e morale. Una bruttona si avvicina con una stuo-ia, e dopo averci invitati a sedervici, se ne va per i fatti suoi, senza

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aggiungere parola. Obbediamo sperando che qualcuno vengaalmeno a domandarci cosa diavolo desideriamo. Macché, non sela danno neppure per inteso.

Da buon bengalese, seduto su quella stuoia, a gambe incrocia-te, attendo, dando uno sguardo a John, come per implorare aiutoe ricevendo in risposta un’occhiata di compassione. Io, che nonsopporto d’esser minimamente compatito, mi adiro e smanio.Attendo. Nessuno, niente. Intanto un prurito, non tanto insolito,sale dalle gambe alle cosce e dalle cosce alla schiena. Maledettastuoia!... Anche il John ora si gratta ed ora è lui che, guardando-mi, silenziosamente domanda pietà.

Stanco dell’attesa e vinto il prurito resosi insopportabile,prendo il coraggio a due mani e m’avvio verso i ragazzi, che smes-so di giocare, stanno raggruppati poco lontano osservandoci.Sorridendo domando loro: “Come ti chiami?”. Non avessi maiaperto bocca, spariscono come passerotti... Allora traggo daltascapane alcune caramelle, ne metto una in bocca e ne offro unaa John declamando ad alta voce: “Erano per quei ragazzi, ma vedoche scappano. Sarà meglio mangiarle noi”. Parole magiche: dieci,dodici occhietti s’illuminano, sorridono finalmente. La partita èvinta. In breve diventiamo amici. I loro papà, visto che tratto benei loro bambini, vengono anch’essi e domandano chi sono, da dovevengo, perché sono venuto. Si discorre del bazar, dell’annata sem-pre cattiva, della capra morta comprata al mattino, ecc. Comincioa parlare della necessità di dare una istruzione elementare ai lorofigli, della scuola. Essi dicono sempre di sì, sono così umili, cosìabituati ad essere oppressi dai più forti di loro da aver preso ilvezzo di dire sempre: “Sì, è vero”.

Sembra tutto avviato a meraviglia quando dall’Himalaya scen-dono a precipizio nuvoloni neri, accompagnati da un vento furio-so e tuoni e lampi… “La si mette male” dico al buon uomo chemi sta vicino. “No, saheb, se piove, in breve l’uragano finisce: nonaver paura”. “Speriamo!”. E me la piglio in santa pace, pensandoche ‘sti badia, senza averlo mai sentito nominare, sono degniseguaci di S. Francesco. Come per incanto, dopo pochi minuti ilvento cessa: e le nuvole lentamente lo seguono.

Il John va a vedere la strada e ritorna scuotendo la testa:

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“Impossibile, è tutto un pantano”. La sera intanto scende veloce,una brutta sera, senza cena e senza tetto. Mentre distribuisco leultime caramelle che, sotto l’acqua, si erano appiccicate al tasca-pane, una ragazzina, seria, seria, mi sussurra: “Vieni a casa miastanotte, noi dormiamo dallo zio”. Il babbo, che ha ascoltato laproposta, l’asseconda, tutto timoroso di essere indegno di riceve-re nella sua casa un personaggio così grande... Un metro e sessan-tacinque centimetri... Che roba!

Non c’è altro da fare che accettare: il buon uomo corre afarsi dare una bracciata di paglia nel vicino villaggio musulmanoe vengo sistemato nella capannuccia, tra la più povera, la piùumile, forse la più buona gente del mondo. Disteso sulla paglia, apancia vuota, faccio fatica a prendere sonno e nel dormivegliavedo le ragazze della “Novi" che confezionano le caramelle magi-che. Con quanto amore lavorano! Lavorano e non immaginanoneppure di dare un attimo di gioia anche ai bambini delBangladesh. Caramelle della “Novi", magica invenzione d’amore.

Per un caprone quasi perdo una gamba

“Romano coi romani, ebreo con gli ebrei”, diceva San Paolo.Giusto! Ma all’atto pratico tu rimani sempre il novese dalla testadura, in mezzo agli indiani dalla testa di sasso. E la paghi.Sacrosanto! Non si poteva più continuare con quella fatiscentecapanna di bambù che si pregiava col nome prestigioso di dispen-sario medico della missione. Fatti i calcoli, conclusi che mi conve-niva, invece di comprare i mattoni bruciati nella fornace distante20 miglia, fare una “bata" (piccola fornace) privata vicina a casamia. Comprai un pezzetto di terreno a basso prezzo, feci portarela sabbia e mi misi all’opera. Dalla confinante India vengono glistagionali specializzati nel mestiere… Finalmente il lavoro sembraterminato, basta appiccare il fuoco. Il capo dei fornaciai indianoviene a domandarmi il denaro per comperare un caprone. “Uncaprone?” domando. “Sì, un caprone che sarà offerto agli dei. Èil costume. Una necessità, altrimenti i mattoni non cuocerannobene”.

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“Se è soltanto per questo motivo, niente da fare. Io non credoai tuoi dei e non posso partecipare ai sacrifici loro offerti. Primadate fuoco alla ‘bata’ e poi vi pagherò un cenone con carne di capraa volontà. Va bene?”. “No, non va bene. Niente da fare: noi, senzail sacrificio del caprone, non daremo fuoco alla ‘bata’. Capito?”.

Testa dura la sua, più dura la mia. A sera inoltrata, con ungruppetto di cristiani, sono ai piedi della “bata”. Una lattina dipetrolio, alcune fascinette di legna minuta secca pronte presso iforni. I fornaciai indiani se ne stanno seduti, muti, a breve distan-za, su una piccola altura che segna i confini della proprietà di dueamici musulmani.

“Venite” grido: “Tutto è pronto”. Nessuno risponde, il caposi torce le mani. Mi avvicino a loro, ripetendo l’invito. Nulla... Latensione è al massimo. Un nervo sulla faccia del capo pulsa comese fosse mosso da un motorino elettrico. Finalmente il più anzia-no dei lavoratori rompe il silenzio: “E dacci sto caprone e sia fini-ta la commedia”. Il capo incalza: “Te lo dico per l’ultima volta peril bene tuo e di noi tutti: se non aspergiamo quei forni col sanguepropiziatorio di un capro, tutto andrà certissimamente male. Seitu il padrone e tocca a te offrire il sacrificio. Capito?”.

È ormai notte. Ritorno verso il gruppetto dei miei cristiani em’accorgo che qualcuno è titubante. Do l’ordine di appiccare ilfuoco e io stesso mi metto vicino ad un forno di una delle uscite.Alla luce della torcia elettrica scorgiamo un filo di fumo elevarsidal tetto della “bata”, segno sicuro di riuscita. Tutto sembra pro-cedere regolarmente quando, dal mio lato, il finimondo pone fineall’impresa. Una scossa tremenda, un boato spaventoso e la miagamba è sepolta sotto le macerie. La “bata” è crollata.

Un uomo messe le mani sotto le mie ascelle, tira con tutte lesue forze per liberarmi dal cumulo dei mattoni caduti. “Te possi-no... Non tirare, gli grido, vuoi che lasci la gamba sotto le mace-rie? Tira via i mattoni piuttosto”. Il buon uomo fa del suo meglioe la mia gamba è miracolosamente salva, perdo solo la scarpa...

Sano e salvo, faccio subito l’appello dei miei uomini, manca ilJohn. Chiamo, richiamo, nessuna risposta. Che sia rimasto sotto?“Oh Dio, io credo in Te, non agli dei fornaciai!". Corriamo a casasua che dista tre-quattrocento metri, ed eccolo là, il mamalucco,seduto sui talloni, imbambolato, scioccato a domandarci: “Siete

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ancora vivi?”. E vergognosetto, umile, umile e soggiunge: “Padrecon la rabbia in corpo per il caprone, ti sei dimenticato di bene-dire quel coso, vero?”...

Una perdita non indifferente, un mese di lavoro massacrante,una figura meschina... Il castigo del caprone? Dei fornaciai infat-ti neppure l’odore. S’erano dileguati nella notte. I miserabili! Conla storia del caprone, al termine del lavoro non avevano alzato iquattro contrafforti di sicurezza ai lati dov’erano posti i forni. Enoi, i caproni, non ci eravamo accorti di nulla.

L’uragano: Oh Dio, ci sei?

Stavolta siamo arrivati al superlativo assoluto di ogni aggetti-vo che possa convenientemente rafforzare la parola “Disastro”.Ma ci pensi? In poche ore dove c’era la vita s’è insediata la morte;dove si udivano le grida gioiose dei bambini inneggianti alla vita,ora silenzio di morte; dove le cime degli alberi e le piantine delriso ondulanti allo zefiro mormoravano la preghiera di ringrazia-mento al Signore, ora il fango limaccioso maleodorante velenosofa da lugubre coltre a centinaia, migliaia di corpi umani e carcas-se di animali. Duecentomila morti, forse di più, disseminati nelfango; un milione di superstiti, forse più, senza tetto.

Gesù, perché? Purtroppo so la risposta: mistero. Spiegazione:non posso e non potrò mai sapere. Morte e vita, dolore e gioia:morte, assenza della vita; dolore, assenza della gioia. Oh, come losa quella sposina che ha visto il marito, colpito alla testa da unbambù staccatosi dal tetto della capanna, in un attimo portato viadall’acqua. Lei è viva sì, ma con la morte nel cuore. E che ci fa almondo? Una capanna e due cuori... ieri la gioia nel sussurrarsiquotidiano la canzone bengalese: “Siamo poveri, non possediamonulla, ma abbiamo tutto nel nostro amore. Tu sei mio e io sonotua!”. Ed ora la capanna se n’è andata lontano sulle onde del maree tu che eri me non ci sei più. Io che ero te come posso ancoravivere? Perché, perché non mi hai portato via con te? La dispera-zione. La bestemmia: migliore la morte della vita.

Oh, come lo sa quell’uomo ieri orgoglioso d’essere il papà di

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due aitanti giovanotti e d’una brillante ragazza studenteall’Università di Chittagong: “I tempi cambieranno, gli stenti nellapovertà proverbiale del Bangladesh svaniranno, se tutti, come me,saranno capaci di ‘tirar su’ figli intelligenti, intraprendenti”.Ahimè, tutto è finito: i figli sono morti nell’ultimo tentativo di sal-vare la mamma. Ora l’uomo è accovacciato ai confini del suo cam-petto allagato dall’acqua del mare. Il nulla davanti a sé. Spes ulti-ma dea! Se n’è andata anche lei... Un groppo alla gola, una vogliadi piangere, di farlo piangere con me. Mi avvicino... e che glidico? Le labbra tremano: non riesco, non riesco a dire una paro-la. Oh, che razza di un debole, d’un codardo io sono! Nulla. Sonoinfluenzato dal suo dolore, dalla sua sconfitta, sono anch’io presonel vortice di quella sofferenza atroce.

Mi scuoto. Un aereo da bassa altezza getta coi paracaduti sac-chi di “cira” (riso cotto, seccato e pestato). Alcuni sacchi cadononel fango, sui cadaveri di quelli che non hanno più bisogno diquegli aiuti. Alcuni superstiti tentano di arrivare sul luogo dellacaduta: procedono lentamente su quel putridume, troppo lenti,troppo tardi... il sacco è stato ormai inghiottito dal fango e dallacorrente. Poveretti da due giorni non mangiano e non s’azzarda-no a bere quell’acqua avvelenata. Riusciranno a vincere la fame?La furia del vento alla velocità di 200 km all’ora li ha sballottatiterribilmente verso la morte. La sola voglia di vivere li ha salvati.Ma ora, indeboliti dalla fame e dalla sete, riusciranno ancora amantenere quella speranza, l’ultima ancora della salvezza?

Oh Dio, ci sei? Sì, io lo so, sei qui nel dolore dei tuoi figli.Copri col manto del tuo amore questo povero Paese colpito amorte. Donagli la forza della speranza.

Io lo so, il seme se non marcisce, se non muore non può dona-re nuova vita. Il Bangladesh, questa mia patria d’adozione, stamorendo disperato sotto le raffiche micidiali dell’uragano, in undiluvio senza precedenti storici, ma un raggio di sole illumina giàl’orizzonte. Tutti qui, dal più ricco al più povero, sono mobilitatial soccorso dei colpiti dalla calamità. Il male ha infuriato fisica-mente sull’uomo, ma non riuscirà a sradicare l’innata sete di benedall’animo umano. Il seme germoglierà, il Bangladesh risorgerà anuova vita. Ci credo. Così sarà. Bangladesh Jindabad!

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Padre Enrico Assietti mi salva dal cobra

Qualche giorno prima tre agricoltori, proprietari di alcuni ter-reni presso la missione, avevano ricevuto tre raccomandate (unaper ciascuno) con terribili minacce: posare in quel preciso posto,sotto quel preciso cespuglio, la somma di tot taka in data x, altri-menti il motore pompa di vossignoria sarà distrutto. Khoda afez!

Poveri diavoli, avevano fatto sacrifici enormi per raggranella-re qualche decina di migliaia di take e comprarsi quei motori invi-diati e bramati da tutti i contadini del luogo e ora debbono passa-re le notti in bianco, pieni di paura, a guardia del loro tesoro.Anch’io sono un coltivatore diretto e naturalmente possiedo unbel Yamaha giapponese, cosicché attendo, come i miei colleghi, laindesiderata missiva. Thank God, nulla. Tranquillo a dormiredunque.

Verso l’una (l’ora dei ladri e dei rapinatori) il cane abbaiadisperato, con rabbia. Svegliandomi di soprassalto penso subitologicamente ad un eventuale pericolo del motore. Prendo la tor-cia elettrica spenta, il mio bastonaccio fedele, sempre pronto vici-no al letto (sono allergico alle armi da fuoco), ed esco nell’oscuri-tà dal cancelletto del rustico. Fatti pochi passi, entro nel canalet-to d’irrigazione quasi asciutto e m’avvio in direzione del motore.Dopo una cinquantina di passi mi assale un insopportabile tanfodi sterco: “Accidenti! Qui qualcuno ha trovato il posto ideale perposarla bell’e e fresca nel canale senza essere osservato da occhiindiscreti". Per non pestarla, tik, accendo la torcia elettrica e...mamma mia... il sangue mi va in acqua... Che spavento! A non piùdi mezzo metro dai miei piedi la testa a sventola di un cobra enor-me... Vicinissima.

Con un balzo sono sulla riva, butto via il bastone e quietoquieto, con la pelle uguale esatta a quella d’un cappone, me neritorno a casa. Mi siedo in veranda, prendo fiato. La testa fra lemani, mentre le pile della torcia si esauriscono.

“Ma ci pensi?”, mi dico: “Il cobra non perdona. Altro chemotori, altro che ladri e malfattori... Quello là non ti manda le let-tere raccomandate... entro due ore ti manda al Creatore e chi s’èvisto s’è visto! E quel benedetto sporcaccione, venuto a scegliere

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proprio quel posto là... Deus ex machina!”. Allora, un po’ piùtardi, mi getto in ginocchio e in dialetto novese ringrazio, stavol-ta con tutto il cuore, il Signore per avermela fatta scampare bella.Chissà perché nei momenti più difficili, più angosciosi, le preghie-re ti escono fuori in dialetto? Logico: quando sei a zero ridiventibambino, bisognoso di tutto come quand’eri sulle ginocchia dellamamma.

Mi seggo di nuovo e me ne sto calmo al buio. I ricordi affio-rano alla mente: decine di serpenti piccoli, grandi, gialli, grigi, diogni qualità trovati presso la casa, nei campi, sui sentieri, uccisi ofatti fuggire durante la mia ormai lunga vita in Bengala, ma unacircostanza come questa, in cui un cobra così orribile, così vicino,quasi sicuro di uccidermi non si era mai presentata... Eppure sonosalvo.

Ah, ora lo so, ora capisco perché non mi ha morsicato...Ricordo: molti anni fa, quando mi trovavo in San Rocco diVoghera, il Direttore del Centro Missionario Diocesano diVigevano mi aveva invitato come rappresentante del PontificioIstituto Missioni Estere ad una commemorazione del missionariopadre Enrico Assietti di Vigevano (1886-1912), morto in Bengala.Non avevo mai sentito parlare di lui, e, per non far la figura deltonto, con qualche piccola ricerca storica al Pime di Milano, vennia sapere che era morto trentenne dopo solo due anni di missionea Krishnagar in Bengala per il morso di un serpente. Un uomo sti-matissimo e amato da tutti per la sua bontà e la sua generosità. Erail tempo in cui il Bengala veniva chiamato “la tomba dell’uomobianco”.

Assietti era giunto in un villaggio sperduto nella giungla versosera. Dopo la misera cena offertagli dai pochi catecumeni delluogo, stanco, solo, s’era buttato a riposare su una stuoia nellacapanna-cappella. A notte inoltrata un serpentello non più lungodi un braccio, scattante come una molla, forse in cerca di qualchetopolino, dal tetto di paglia si era lasciato cadere sulla testa delmissionario. Alla sua improvvisa, instintiva mossa, la repentinarisposta del serpente: un’iniezione velenosa all’orecchio. Unmorso da cui, con un facile intervento, ci si può salvare. Ma forse,là nella giungla, nottetempo, non c’è nessuno che sappia interve-

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nire tempestivamente. I fedeli si prodigano per salvarlo, pregano,vanno in cerca di “sapari”, di “Kubirj”, ma nulla da fare.

Cosciente, rassegnato ormai alla sua morte prossima, PadreAssietti scrive il suo testamento spirituale: “Io muoio contento nelSignore. Offro la mia vita affinché in Bengala nessun missionariovenga mai più ucciso dai serpenti". Ora capisco. “Grazie, Signore,che hai esaudito la preghiera di quel tuo servo fedele. Grazie,Assietti, della tua meravigliosa preghiera. Grazie di cuore”.

Riparare il “Ponte Vanzetti”

Gli anni passano, ma il lavoro non diminuisce: una fortunaboia, sfacciata! Guai se non fosse così. Se fossi senza lavoro, io,pensionato, intristirei ben presto nel mio isolamento, m’incurve-rei in poco tempo, perché forzato a guardare soltanto a terra, miconsumerei velocemente come un mozzicone di candela, il cuistoppino fumigante con scoppietti funerei annuncia la fine vicina.

Dunque, c’era una volta... No. Una volta c’ero io... che al mat-tino stavo lavorando nella scuola in costruzione presso la missio-ne quando mi vengono a dire che tra i due piloni maestri delponte s’era aperto un crack foriero di un possibile prossimo disa-stro. “Boro danger”, esclama un assessore. Il capo della delegazio-ne, il sindaco Kinam Uddin, ammette a priori, cioè dà per sconta-to senza alcuna possibile obiezione, che i lavori di riparazionesaranno architettati ed eseguiti da me.

“Un momento, signori. Andrò a vedere cos’è successo e poi neparleremo”. E dentro di me mormoro in buon italiano: “Toglitidai piedi, ragazzino, lasciami lavorare”. Ma la risposta è proprioquella prevista: lui si toglie dai piedi e noi restiamo a lavorare.Con il foreman e il manager vado a studiare la situazione. Per menon è una sorpresa la notizia: c’ero passato qualche giorno primae avevo notato all’ovest una piccola incrinatura tra il secondo e ilterzo pilone, ma non mi era sembrata così grave da far pensare adun disastro imminente. Il manager, che è giovane e vede meglio dime, sostiene che il crack è grosso e quando i carri passano il pontesi muove. “Very dangerous!”, dice sfoggiando un pochino d’in-

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glese, molto pericoloso. “Te possino, smettila di bofonchiare. Nonsai che se il ponte non balla cade?”.

Il foreman, più furbo, tace, però non ride. Fissa quel punto,quella riga nera e la sua pensosità mi mette paura. Immediataprima decisione: consultare un ingegnere, un bravo ingegnere.Scrivo due righe, direi un telegramma: “Faustino, grave pericolo.Necessaria tua presenza. A domani”. E il manager s’incarica direcapitarlo subito al destinatario con la mia motocicletta: 90 km.Il buon Faustino (padre Faustino Cescato, n.d.r.) arriva, vede,scruta, studia, dice che non c’è immediato pericolo, però la situa-zione non è da prendersi alla leggera e mi consiglia di non dilazio-nare oltre. Mi dà le sue sapienti infallibili istruzioni sul come svol-gere i lavori, sul materiale da impiegare e “buona fortuna”.

Non c’è scampo. E allora: “Contrordine compagni.Emergenza”. Il lavoro viene trasferito a tre-quatttrocento metri adEst, sotto il ponte del fiume Tulsiganga. Il nuovo edificio scolasti-co appena iniziato può attendere: sarebbe una sciocchezza nondare la preferenza all’urgenza di salvare un ponte su cui passanogiornalmente migliaia di persone, gli alunni della scuola compresi.

Era vicina la Pasqua, festa in cui i preti devono lavorare inchiesa un po’ più del solito. Ma mangia ‘sta minestra o salta ilTulsiganga! Un occhio alla chiesa e un occhio al ponte ammalato.Deciso: “Forza giovanotti! Forza muratori e mezze cazzuole: giùsacchi di cemento, giù sbarre di ferro grosse come un braccio, giùiniezioni nelle natiche di quei mastodontici bestioni sulle cuigroppe s’allunga questa strada sospesa sul fiume per un’ottantinadi metri. Forza amici: ce la faremo a salvare questo gioiello neces-sario come il pane quotidiano, regalato a questa brava gente daquel geniaccio di padre Giovanni Battista Vanzetti di Saluzzo.Sarebbe un delitto non tentare”. Dico ancora alla mia gente:“Quel calcestruzzo è stato bagnato dal sudore dei vostri padri, oraha bisogno di essere rinfrescato dal vostro sudore. Per il bene e ilprogresso dei vostri figli, giù il gobbone”.

Il lavoro prosegue alacre, ordinato, in armonia di intenti. Ladifficoltà maggiore trovata sul cammino è la mia: non mi ero maicimentato in lavori del genere.... “O la va o la spacca”… In nomi-ne Domini (Nel nome del Signore). Amen. Passa la Pasqua in

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rosso, passa la domenica in bianco ed eccoti il “Ponte Vanzetti”,come tutti lo chiamano, gonfio di vitamine, pronto al servizio. Almartedì seguente, giorno del grosso bazar di Panchbibi, decine edecine di carri colmi di riso, di patate, di ogni ben di Dio, passa-no tra le grida gioiose d’incitamento ai buoi e bufali, mentre cen-tinaia di biciclette fanno gimcana tra le corna. Uno spettacolosplendido.

Che pacchia! Ce l’abbiamo fatta. Evviva noi! Eh, sì, amici, civuole un capretto innaffiato con una giara di birra nostrana. Unasola però, mi raccomando. Al grido: Bangladesh jindabad!!

Allah ha l’orologio al polso?

“Cosa ho mai fatto ad accettare?! Fare tutta questa strada,questa faticaccia per dire due frottole in predica alle monache...Sempre il solito sempliciotto burbero-benefico, che si lasciaabbindolare da quel sorriso magico, inimitabile dell’indiana...”. Ecosì farneticando, trattenendomi a mala pena dall’imprecare, conun rametto raccolto sulla strada libero la ruota e il parafango diquei grumi di fango che li saldano. Terra rossa, fango da costru-zione più tenace del cemento! Uno o due km a 10 all’ora e giù dinuovo... accidenti alla Suzuki.

Guarda caso, in quel punto della strada è stata costruita unacascina col proposito di accogliere e ospitare la mia “suzuchina”in caso di emergenza. La spingo sotto il portico presso una capret-ta meravigliata e spaventatissima alla vista di un animale così sin-golare. Sistemata la faccenda con il padrone del garage, mi avvioa piedi scalzi (impossibile l’uso dei sandali con quel fango) lungola ferrovia. Incredibile: ancora una volta fortunatissimo. Arrivatonell’atrio della stazione, il suono della sbarretta di ferro, picchia-ta su un pezzo di rotaia, annuncia l’arrivo del treno. Eccolo là chearranca sbuffando in ritardo di un’ora e un quarto abbondante. Ilmio Angelo custode si è messo d’accordo con l’Angelo di quelcapo-treno. E il capo-stazione ammicca sorridendo. Prendo ilbiglietto, salgo. Mica male, un solo buco libero, l’ultimo sullapanca destra. Faccio per sedermi quando una vecchietta entra,

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smarrita, e tenta per non cadere di agganciarsi alla maniglia dellaporta. Mentre il treno inizia lentamente la sua corsa: “Prego” ledico, rinunciando all’unico posto vuoto: “segga”. E la poveretta,piena di vergogna e di paura, più che sedersi, s’appoggia su due otre centimetri di sporgenza della panca, tira il suo rattrappito sarisulla testa, sugli occhi, e se ne sta là quieta quieta come un cagno-lino obbediente al padrone. Tutto si svolge in silenzio finché unsuono baritonale, come se venisse dalle corde di un contrabbasso,echeggia: “Keno?”.

Non me n’ero accorto: sulla panca di mezzo un omaccione indivisa di poliziotto mi fissava storto come un cobra quando tentadi ammaliare un innocuo, innocente passero. "Keno?", ripete:“Perché hai fatto sedere quella mendicante che certamente nonha neppure il biglietto?”.

Intuisco che una scarica elettrica di antipatia reciproca ci stacolpendo. “E che me la faccio cadere addosso? Non si regge inpiedi: non vede?”. Alla mia risposta sarcastica la risatina generaledei passeggeri innervosisce il capo distaccamento di Polizia cheprontamente si rifà: “Sui treni del Bangladesh non si può viaggia-re senza biglietto, lo sa?”. “O.K. Non s’impressioni: nel caso chedavvero la povera signora non potrà mostrare il suo biglietto alcontrollore, pagherò io. Non solo il biglietto, ma anche la multa.E tutto sarà rimediato”.

Un ometto si alza e mi offre il suo posto a sedere portando lascusa banalissima di un nascosto male alla chiappa destra e il poli-ziotto ingoia saliva amara. Il treno sferrazza con pena fino alla fer-mata di Fulbari dove entrano altri tre passeggeri che, in piedi, siallineano al gentiluomo dalla chiappa ferita. Mentre il treno pren-de la sua lenta danza l’omaccione guarda al suo orologio. Passano5 minuti e di nuovo un attento sguardo all’orologio. Poco dopo,al terzo scrutinio, scatta, si alza ed intima ai due che gli siedonoaccanto di alzarsi in fretta e lasciar liberi i posti.

“È l’ora del namaj”. Si toglie le scarpe, si copre il capo con unfazzoletto e, secondo il costume orientale s’inginocchia sullapanca occupando interamente per le sue prostrazioni e giravoltedi capo i tre posti a sedere. “Allah! Allah... Assalam...” lui farfu-glia ed io, stretto, stretto nel mio buco, me ne sto zitto, partecipe

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di malavoglia alle sue implorazioni. Pochi minuti e tutto ritornacome prima. Ma quell’elettricità, ora passata ad alto voltaggio, cir-cola assassina nei nervi.

“Signor O.C. (Officer in Change), scusi la mia impertinenza,per pregare non poteva attendere ancora una decina di minuti,fino alla prossima stazione, senza disturbare tutta la carovana inviaggio?”. Mi fa due occhi di gufo pieni di meraviglia mista a rab-bia: “Come posso io mutare il comando di Allah? Cinque volte algiorno, al tempo giusto, esatto, Lui ci chiama alla preghiera e noi,suoi servi, cinque volte dobbiamo obbedire”.

“Benissimo. Ma cinque minuti prima, cinque minuti dopo,Lui, il Rahaman, ci ascolterà ugualmente tanto più quando, per lapignoleria di scandire il tempo esatto, dobbiamo scomodare e darfastidio al nostro prossimo. Non le pare?”. “No, non mi pare”. Ipasseggeri non sanno per chi parteggiare: soltanto due dannosegni chiari di essere dalla mia parte, gli altri sembrano statue dicartapesta. Convinti o paurosi dell’O.C.? Non mi do per vinto erincaro la dose: “D’altra parte Allah non ha orologio. Può imma-ginare Allah con un orologio al braccio? Però io so con certezzache Allah predilige chi dà meno fastidio al prossimo”.

Nessuno fiata. L’omaccione scuote la testa. Mi dispiace: sonoandato troppo oltre... i limiti della bestemmia... oltre i confini diuno stato teocratico-musulmano.

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INDICE

Prefazione di Mons. Martino Canessa . . . . . . . . . . . . . Pag. 5Cronologia di padre Cesare Pesce tratta dai suoi testi . . » 7Introduzione dell’Autore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 13

I – Da Novi Ligure al Bengala . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 21

La vocazione da libri e riviste missionari, 21 – “Tutta la miavita per Gesù”, 24 – Il 18 aprile 1948 a Voghera, 27 – Nelmitico Bengala delle foreste e delle tigri, 31 – Un furto defi-nito “opera di carità”, 34 – Con un parroco così, bisognarigare dritto, 38

II – La prima missione a Ruhea . . . . . . . . . . . . . . . . . » 43

“Ma come, non sai ancora il santal?”, 43 – A Mariampur perimparare il santal, 46 – “Ciatro Chai”: Vogliamo nuovi stu-denti, 49 – “Avevo una casetta piccolina a Ruhea…”, 51 –L’incontro con “i pazzi di Dio”, 54 – Padre Pesce veneratocome uno spirito, 58 – Massimo Teruzzi, il missionario leb-broso, 60 – Mario Alvigini, il missionario delle pompe, 65

III – Il primo ritorno in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 71Sfuma il sogno di convertire i Khotryio, 72 – “Dopo tredicianni, per adesso può bastare”, 74 – Il pranzo di Natale fuggenella giungla, 76 – Inventa il “Concorso biblico per corrispon-denza”, 79 – Segretario di “Mani Tese” a Milano, 81 – Laguerra per l’indipendenza del Bengala, 85 – Testimone allibi-to di atrocità e massacri, 89 – “Gesù è con noi, perché esserepreoccupati?”, 91 – “I morti di fame non s’incontrano più perle strade”, 95

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IV – Parroco a Pathorgata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 101Espulso dal Bangladesh per una bottiglia di cognac?, 101 –“Ma i soldi arriveranno lo stesso”, 103 – Questa la vita mis-sionaria: magnifica!, 109 – “Mi godo la povertà felice delBangladesh”, 114 – Padre Cesare vive “in una girandola difuochi artificiali”, 118

V – Il tramonto nel Santuario di Maria . . . . . . . . . . . » 125

Missione di pace tra due feudi oraon a Kalisha, 125 – Obak,in bengalese significa “senza parola”, 130 – 500-600 pelle-grini alla domenica nel Santuario mariano, 133 – “Tento diportare la pace e di dare gioia”, 139 – L’ultimo saluto:“Grazie, padre Cesare!”, 142 – Il tramonto dietrol’Himalaya. Il mio, 144

VI – Sempre allegro e gradito a tutti . . . . . . . . . . . . . » 151

Il Bengala era la “La tomba dell’uomo bianco”, 152 –“Anche i ladri a Pasqua fanno festa”, 155 – “Mamma, nonsenti che il tuo bambino ha fame?”, 156 – “Sapeva ascolta-re, lasciava parlare gli altri”, 159 – Amava molto il popolobengalese, 162 – “Padre Cesare è un uomo solare”, 165 –“L’Italia è un paradiso, ma il Bangladesh la mia patria”, 168

VII – Padre Pesce racconta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 173

“La perfetta letizia” di Padre Cesare, 173 – “Il Vangeloannunziato con humour”, 176 – L’ubriacone Moti non bevepiù, 180 – Cacciare il “Bosonto” (vaiolo) col baccano, 181-Un matrimonio al veleno, 182 – L’ombra della croce chesalva, 185 – Il primo prete di Pathorgata, 187 – Caramelle:magica invenzione di amore, 188 – Per un caprone quasiperdo una gamba, 191 – L’uragano: Oh Dio, ci sei?, 193 –Padre Enrico Assietti mi salva dal cobra, 195 – Riparare il“Ponte Vanzetti”, 197 – Allah ha l’orologio al polso?, 199

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PIERO GHEDDO

PIME 1850-2000150 anni di missione

Nel 2000 il Pontificio Istituto Missioni Estere ha compiuto 150anni. È nato nel 1850 dalla volontà di Pio IX e dei vescovi diLombardia come “Seminario lombardo delle missioni estere”, peropera di padre Angelo Ramazzotti degli Oblati di Rho (poi vesco-vo di Pavia e patriarca di Venezia). Nel 1926 Pio XI, unendolo al“Pontificio seminario per le missioni estere” di Roma (nato pervolere di Pio IX e per opera di mons. Pietro Avanzini nel 1871), hafondato il P.I.M.E.«Andate in tutto il mondo» ha detto Gesù: il Pime c’è andato dav-vero ed oggi opera nei cinque continenti a servizio del Vangelo.Questo volume, seriamente documentato e giornalisticamenteavvincente, percorre una duplice pista di lettura: attenzione scru-polosa ai fatti, senza nulla tacere, ma mettendo anche in evidenzale scelte coraggiose e a volte temerarie per andare “ai più lontani eai più abbandonati”, l’amore appassionato ai popoli che caratteriz-za il mondo delle missioni.La storia diventa affascinante se illuminata da una lettura sopran-naturale delle vicende umane, non per nascondere gli errori e i pec-cati commessi, ma per dare risalto anche ai buoni esempi che testi-moniano ai posteri la forza dello Spirito presente in chi ci ha pre-ceduto.

pp. 1230 - € 25,82

Richiedere, anche per telefono, via fax o e-mail a:EDITRICE MISSIONARIA ITALIANAvia di Corticella, 181 – 40128 Bolognatel. 051/32.60.27 – fax 051/32.75.52

web:http/www.emi.it e-mail:[email protected]

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PIERO GHEDDO

ALFREDO CREMONESI(1902 - 1953)

Un martire per il nostro tempo

Nel 2003 ricorrono cinquant’anni dal martirio di padre AlfredoCremonesi, missionario del P.I.M.E. in Birmania (Myanmar), ucci-so il 7 febbraio 1953 nel suo villaggio di Donokù. È stato subitoinvocato come “martire”, perché ha dato la vita per il suo gregge.Era stato invitato a ritirarsi da un posto molto pericoloso: è rima-sto con la sua gente pagando con la vita.“Martire del nostro tempo” perché? Tre motivi:1) Cremonesi era un missionario santo. Il martirio è stato il donodi Dio a un uomo che era già tutto suo: preghiera, mortificazioni,donazione totale al prossimo più povero e abbandonato. I santi noninvecchiano mai.2) Padre Alfredo era un missionario moderno. Aveva un concettoavanzato della missione (per quei tempi): ci dice che dobbiamosempre guardare avanti, essere aperti alle novità che lo Spiritosuscita nella Chiesa, anche se disturbano la nostra pigrizia.3) Infine, era un missionario autentico, proiettato verso le tribù noncristiane per annunziare Cristo. Grande viaggiatore, percorrevalunghe distanze quasi sempre a piedi, fra guerriglieri e briganti, esi adattava a vivere come i locali, con grande spirito di sacrificio.

pp. 240 - € 12,00

Richiedere, anche per telefono, via fax o e-mail a:EDITRICE MISSIONARIA ITALIANAvia di Corticella, 181 – 40128 Bolognatel. 051/32.60.27 – fax 051/32.75.52

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DOMENICO COLOMBO(a cura)

UN PASTORE SECONDO IL CUORE DI DIOLettere del Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti

(1850 - 1861)

Le lettere di mons. Ramazzotti riempono otto volumi per un totale di 1.600 scrittie 2.600 pagine. Per la grandissima parte, almeno quelle giunte a noi, coprono ilperiodo del suo ministero pastorale, a cui sono strettamente legate. Benché uomo dicultura, Ramazzotti dedicò tutta la sua vita e le sue energie al bene delle anime. Nonavendo tempo per scrivere libri, la sua corrispondenza fu parte essenziale della mis-sione del Pastore che si prodiga con inesauribile carità verso tutti, specialmente ipoveri. Questa selezione necessariamente limitata, vuole offrire uno spaccato del-l’azione pastorale di Ramazzotti a Pavia e Venezia.

pp. 590 - € 20,00

DOMENICO COLOMBO(a cura)

UN PASTORE SECONDO IL CUORE DI DIOTestimonianze sul Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti

(1850 - 1861)

Dopo il volume “Un pastore secondo il cuore di Dio”, che contiene le Lettere delServo di Dio mons. Angelo Ramazzotti, fondatore del P.I.M.E., esce con lo stessotitolo questa raccolta di Testimonianze su di lui. Essa abbraccia un ampio arco ditempo, dalla sua gioventù al 1961, centenario della sua morte. La fama del “santoPastore” perdurò anche dopo la sua prematura scomparsa, ma col tempo andòrestringendosi agli ambienti più legati alla sua memoria. Quando nel 1958 le spo-glie di mons. Ramazzotti furono portate a Milano per essere tumulate nella chiesadi San Francesco Saverio nella Casa Madre del P.I.M.E., il patriarca Angelo card.Roncalli fece risplendere di luce nuova la figura e l’opera del suo predecessore. Ful’inizio di una riscoperta, che andò crescendo con le solenni manifestazioni di onoree di studio celebrate in varie città d’Italia. Questo volume di testimonianze è un completamento indispensabile di quello dellelettere.

pp. 416 - € 16,00

Richiedere, anche per telefono, via fax o e-mail a:EDITRICE MISSIONARIA ITALIANAvia di Corticella, 181 – 40128 Bolognatel. 051/32.60.27 – fax 051/32.75.52

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