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Immanuel Kant Critica della ragione pura (Introduzione)...Prof. Monti – Filosofia classe V Scientifico tradizionale – a.s. 2016-2017 – Note sul Romanticismo 2 Per quanto ci interessa

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Immanuel Kant Critica della ragione pura (Introduzione)
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Introduzione al Romanticismo

Note iniziali Abbiamo visto come le vicende legate alla Rivoluzione francese e all’avventura napoleonica abbiano, per dir così, costituito uno spartiacque importante fra un prima e un dopo, il passaggio dall’antico regime a nuove forme di strutturazione della società e della politica. Anche in campo culturale assistiamo a un mutamento assai significativo che, sempre molto in generale, possiamo indicare come il passaggio dall’Illuminismo al Romanticismo. Noi seguiamo questo passaggio spostandoci da Kant, illuminista, agli idealisti tedeschi, certo più vicini al romanticismo. Il Romanticismo nasce fra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, in Germania, e si diffonde a partire dal circolo formatosi intorno ai fratelli Wilhelm e Friedrich (importante il suo concetto di ironia) Schlegel e alla rivista da loro fondata, Athenaum (1798-1800). Gli Schlegel a Jena avevano conosciuto e ammirato Fichte, che vi insegnava filosofia con successo, e poi furono seguaci anche del suo successore, Schelling. Nel 1801 Novalis, uno dei maggiori esponenti del circolo, muore mentre W. Schlegel si reca e Berlino per tenervi un corso universitario. Il gruppo dunque si scioglie eppure il Romanticismo riesce a diffondersi dalla Germania, allora un paese per molti versi periferico, in tutta Europa accendendo intensi dibattiti e suscitando ammiratori e imitatori. Il Romanticismo non “risparmiò” quasi nessun aspetto della vita spirituale dell’epoca. Vera e propria premessa del Romanticismo era stato un altro movimento culturale, lo Sturm und Drang (“tempesta e impeto”), nato in Germania negli anni ’60 del XVIII secolo e che esprimeva istanze di rinnovamento spirituale e artistico. Questo movimento sostiene che l’arte e la vita in genere devono affrancarsi da ogni canone prestabilito: il sentimento e la spontaneità vanno contrapposti agli artifici della civiltà. La passione, la forza, lo spirito di rivolta devono sovvertire ordini non più attendibili e valorizzare l’identità più autentica e profonda dell’individuo. L’arte e la riflessione devono superare i confini tradizionali, spingendosi in territori inesplorati, anche nel trascendente. La natura è una forza onnipotente ed eternamente creativa, essa si dà a se stessa le proprie regole, senza assumerle dall’esterno, proprio come in campo artistico fa il genio dell’uomo.

Rapporti fra Illuminismo e Romanticismo È vero che molti romantici percepirono l’Illuminismo come una concezione della realtà e della cultura avversa, ma i due movimenti non vanno intesi in termini antitetici. Se è vero che il Romanticismo ha sottolineato la dimensione a-razionale e sentimentale dell’uomo, dando centralità alla storia e riabilitando l’antico, il diverso e l’esotico, non si deve dimenticare che anche il pensiero dei lumi aveva esplorato i sentimenti e le emozioni (si pensi a Hume, Diderot, Rosseau), si era interessato alla storia (Voltaire, Gibbon), aveva valorizzato la dimensione della natura (Buffon, Rousseau), aveva mostrato grande ammirazione per il mondo greco/latino e testimoniato usi e costumi di popoli lontani e “altri”.

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Per quanto ci interessa più da vicino, vedremo come immaginare una opposizione tout court fra Kant, come importante esponente dell'Illuminismo, e gli idealisti tedeschi (Fichte, Schelling, Hegel) sia da considerarsi semplicistica e dunque scorretta. Certo, fra Romanticismo e Illuminismo non c’è mera continuità, e tanto meno identità. Per il romantico il mondo non è “la confortevole dimora dell’uomo”, come si espresse un illuminista francese, perché il mondo gli appare per molti versi inadeguato, insoddisfacente, angusto. Perché? Pensiamo ai chiaro-scuri dell’epoca rivoluzionaria, ma non solo: Schiller, per fare solo un esempio, dice che il mondo moderno sta compiendo scelte inquietanti: l’assolutizzazione dei beni materiali, l’attribuzione di valore all’individuo in relazione al suo avere e non al suo essere, la divisione di lavoro manuale e intellettuale, il privilegio accordato al produrre e il trascurare i fini di tale produrre, se non i fini dello stesso esistere. Il romantico esprime il proprio disagio nei confronti del mondo in cui vive in termini anche “filosofici”: il mondo in sé viene interpretato come limite, finitezza, colpa, come orizzonte inadeguato rispetto le aspirazioni dell’uomo. Questo è molto lontano dall’atteggiamento di grande interesse in generale assunto dall’Illuminismo verso la realtà mondana.

Caratteri del Romanticismo In questo contesto nascono le frequenti le dichiarazioni di estraneità dell’uomo rispetto al mondo. Novalis scrive che l’uomo è esule su questa terra e la sua patria è altrove, un altrove forse ideale e utopico, proprio nel senso letterale di u-topos (in nessun luogo). Infatti il romantico solo raramente nutre una fede positiva in un altro mondo. Egli pensa di aver perduto in via definitiva la sua casa e il modo per ritornarvi, da qui l’atteggiamento malinconico e spesso tragico di un certo uomo romantico: soffre tanto più acutamente la propria finitudine quanto più forte sente lo slancio verso l’infinità e avverte che tale slancio non ha un obiettivo attendibile e determinato. Per un certo tipo di romantico l’espressione psico/esistenziale più tipica dell’uomo è l’aspirazione, la tensione (streben), verso qualcosa di cui si sente mancante, orfano, perché intuisce oltre la sua finitudine valori e principi probabilmente non raggiungibili, ma che sono degni di essere perseguiti. Il tratto psicologico che più caratterizza l’uomo romantico è, dunque, quello di un irrisolto dissidio interiore, la lacerazione di chi non è mai del tutto soddisfatto di ciò che ha. Il romantico brama l’infinito: è a questo che egli perennemente tende e aspira, al di là di tutte le realizzazioni, sempre parziali, determinate, quindi finite, che può di fatto raggiungere. L’uomo sente di essere non un ente separato, compiuto in se stesso, ma un momento organico della totalità infinita del mondo. Così scrive il poeta Hölderlin: “Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dèi; questo è il cielo per l’uomo. Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, e la sacra cima del monte, e il luogo dell’eterna calma, dove il meriggio perde

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la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all’onda di un campo di grano. Essere uno con tutto ciò che vive!” Se è vero che l’Illuminismo non ha trascurato la sfera sentimentale e affettiva, è anche vero che gli indirizzi dominanti della cultura illuministica hanno privilegiato, nell’uomo, la ragione e le sue funzioni. Per i romantici le cose stanno altrimenti: pur senza negare rilievo alla razionalità, essi tendono a riscoprire e a valorizzare la dimensione a-razionale e a volte addirittura irrazionale dell’uomo. L’individuo non è tanto un “essere di ragione” quanto, più in profondità, “un’anima sensibile”. Il romantico valorizza nell’uomo le passioni, i desideri, e con essi l’immaginazione, la fantasia. L’uomo ideale non è più quello raziocinante, ma quello passionale: il “forte sentire” e la “passione generosa”, i caratteri forti, sono fortemente apprezzati dalla cultura romantica. Anche in sede cognitiva, se da una parte il romanticismo continua ad operare secondo categorie fortemente razionali (ad esempio Fichte), dall’altra va accentuando il valore di funzioni conoscitive come l’intuizione e l’illuminazione, funzioni che gli illuministi avevano invece in sospetto. L’uomo per il romantico tende all’infinito dunque anche in sede cognitiva, dove l’infinito di volta in volta si configura come l’assoluto, la totalità, il principio fondativo... Questo non è certo un caso: la ragione geometrica dell’Illuminismo non è per definizione in grado di superare certi limiti. Tale oltrepassamento può essere operato solo da facoltà che operano senza determinate precondizioni e al di fuori di certi limiti. Per gli illuministi, poi, i significati del mondo sono tutti nel mondo stesso. I fenomeni mondani significano il loro senso senza ulteriori rimandi: i fenomeni sono dunque segni che la ragione può leggere. Per i romantici invece i significati più che essere immanenti nei fenomeni sono spesso solo suggeriti dai fenomeni. I fenomeni, invece di essere puri segni, sono simboli che da un lato rinviano ad un’alterità che può stare anche nella trascendenza o nell’assoluto e dall’altro richiedono non una mera lettura ma una interpretazione (la quale richiede facoltà come l’intuizione, l’illuminazione, l’immaginazione). Dunque accade che per molti romantici il sapere, la conoscenza, non sono più ad esclusivo appannaggio della scienza. Se l’uomo persegue l’infinito e l’assoluto, è chiaro che insieme alla scienza anche altre forme di esperienza, come la religione, possono essere validi e talora insostituibili veicoli di conoscenza. Inoltre, data la valorizzazione dell’immaginazione e dell’intuizione, anche l’arte può costituire un valido organon della conoscenza umana. Anche sotto il profilo pratico/esistenziale l’immagine dell’uomo dei romantici è assai diversa da quella degli illuministi. I romantici valorizzano la soggettività, l’individualità dell’essere umano. L’uomo romantico non si sente più sostenuto (ma anche oppresso) da un quadro di principi generali/oggettivi, ma si avverte inserito in un universo privo di centro, nel quale il senso del proprio essere e del proprio agire dipende in larga misura dalle proprie scelte, scelte soggettive, appunto, sempre arrischiate. C’è poi da tenere conto della crisi storica che coinvolge il romantico, oltre a questa crisi teorica. La Rivoluzione francese non ha solo travolto l’ancien régime, ma ha messo in discussione alcuni degli stessi presupposti della convivenza sociale, evidenziandone certe drammatiche contraddizioni (si pensi al Terrore). Le vicende successive non sono parse

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capaci di proporre nuovi convincenti modelli di convivenza, il mondo moderno va anzi delineando sempre più una società basata su ideali pratico/materiali, nei quali l’anima sensibile stenta ad inserirsi. L’orientamento prevalente dell’intellettuale romantico è dunque a-politico o meta-politico. A disagio nella realtà oggettiva della società il romantico privilegia il proprio mondo soggettivo. Tale privilegio si rivelerà assai proficuo sul piano cognitivo, infatti il romantico è portato a esaminare in modo sottile e approfondito il proprio essere personale. È in rapporto a questi processi che il pensiero dell’ottocento svilupperà da un lato una filosofia dell’esistenza come entità irriducibile (Kierkegaard, Schopenhauer) dall’altro una filosofia, quella hegeliana, impegnata in un’intensa indagine sulla coscienza e la soggettività e insieme decisa a cogliere il senso più autentico di tali figure attraverso il loro inserimento in processi più ampi e oggettivi. Si deve notare che l’individuo romantico unisce stati e modi intellettuali e pratici violentemente antinomici: tensione verso l’infinito, ma acuta consapevolezza della propria finitudine; attivismo, ma profonda tendenza alla contemplazione o,addirittura, paralizzante sensazione dell’intima vanità dell’agire; ottimismo e pessimismo; esaltazione e disperazione; entusiasmo e apatia (noia in Leopardi e Schopenhauer); tutto questo in un intreccio e in un’alternanza caratteristicamente romantici. Aristocratica consapevolezza della finezza del proprio sentire, della propria diversità rispetto all’individuo comune, ma anche desiderio di fondersi, di omologazione agli altri. Di fianco a questi caratteri di interesse soggettivo esiste un insieme di interessi oggettivi, come la religione, la storia, la natura. Per molti romantici la natura è ben lungi dal configurarsi come mero opposto dialettico del soggetto, o come un mero scenario delle gesta di questi: essa è piuttosto una fascinosa realtà ricca di senso autonomo. Correlativamente la natura è non tanto un “ostacolo” (Fichte), magari necessario per il compiuto dispiegarsi dell’io, quanto un traguardo da conquistare, una dimensione della realtà di cui cogliere il palpito profondo e nella quale occorre inserirsi per trovare pace e armonia: l’uomo non è forse una parte della natura? La natura di cui parlano i romantici non è quella di cui parlavano gli illuministi. Per questi, fatte salve le eccezioni, la natura era una grande macchina, un meccanismo organizzato secondo rigorosi nessi causali, di cui è necessario (e sufficiente) cogliere le leggi universali. I romantici considerano questa una visione assai riduttiva della realtà naturale. Ben più che la metafora della macchina essi considerano valida quella dell’organismo. Nella natura non c’è solo meccanismo, ma dinamismo, interattività tra le parti, ci sono una vitalità (la natura vive, respira, desidera) ed una teleologia (la natura è ordinata non tanto secondo cause quanto secondo fini). La natura del resto non va accostata in modo esclusivamente cognitivo. Essa viene considerata anche in una prospettiva speculativa, etica e religiosa. La natura appare come macrocosmo onnicomprensivo rispetto al quale l’uomo è microcosmo omogeneo al primo e desideroso di integrarsi compiutamente in esso. Essa è anche il paradigma esemplare della buona vita come la matrice del male e dell’infelicità, secondo una delle più caratteristiche ambivalenze romantiche: pensiamo alla natura-madre di Goethe e alla natura-matrigna di Leopardi. Per alcuni romantici la natura costituisce innanzitutto la creazione di Dio, anzi l’espressione stessa del divino (in questo senso qualcuno volle nell’800 leggere il panteismo di Spinoza, 1632-1677, Deus sive Natura, Dio anima la natura).

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Anche la storia è una delle realtà “oggettive” reinterpretate dal romanticismo. I grandiosi eventi verificatisi in anni ancora recentissimi hanno certo attratto i romantici verso lo studio della storia. La Rivoluzione ha dato consapevolezza della non eternità delle istituzioni e dei valori umani e anche dell’esistenza di una forza, il divenire, che tutto trasforma e modifica. Tale concezione dovette essere ancora più forte in quanto in linea con la concezione energetica della realtà cui si è accennato. La storia è una delle manifestazioni più tangibili per l’uomo del dinamismo che anima tutto il reale. Per gli illuministi, i motori della storia sono in larga misura irrazionali: per questo la storia appare così spesso il teatro di vicende barbare e assurde; la loro fede nel progresso si fonda non su qualche principio assoluto, ma sull’impegno dell’uomo. Per i romantici, invece, la forza animante il divenire storico ha carattere razional-provvidenziale. Sia essa inscritta nella dinamica degli eventi o abbia una connotazione ultraterrena, tale forza organizza e orienta gli eventi, conduce gli uomini lungo un preciso itinerario (per lo più senza che essi lo sappiano), regola la storia secondo una prospettiva teleologica. La storia, per molti romantici, ha ontologicamente un senso e una logica. La forza che anima la storia è un principio (analogo a quello che anima la natura) che ha spesso ascendenza divina. Per i romantici la storia non solo ha senso, ma è anche piena di senso. L’evoluzione storica nel suo complesso è sensata, ma lo sono anche i singoli momenti della storia: nessun fenomeno storico può essere una mera assurdità o una insensatezza. Di qui la grande apertura intellettuale con cui molti romantici hanno coltivato gli studi storici, esplorando anche epoche che gli illuministi avevano trascurato o severamente criticato. La storiografia romantica riesamina con nuova simpatia la civiltà medievale. Il principio che anima la storia non solo persegue un fine, ma opera lungo una linea ininterrotta, secondo un processo di accrescimento il cui disegno è potenzialmente tutto presente nei semi di partenza, così come l’adulto è in qualche modo già inscritto nel bambino.

Filosofi del Romanticismo [solo da leggere!!!] Numerosi sono gli autori che potremmo qualificare come esponenti della “filosofia romantica” e che, in qualche modo, sono il preludio dell’Idealismo tedesco e dei suoi protagonisti. Johann Georg Hamann, come Kant nativo di Königsberg, ritiene che la ragione, tanto centrale per gli illuministi, sia una sorta di “idolo”. Egli, recuperando il concetto di rivelazione, si fa difensore della religione in genere e del Cristianesimo in particolare. Anche Friedrich Heinrich Jacobi si mostra critico verso un razionalismo esasperato che, a suo avviso, non può evitare di cadere nell’ateismo e nel fatalismo di Spinoza. Le sue critiche a Spinoza, in effetti, non ottennero l’effetto desiderato e, anzi, contribuirono ad un rinfocolarsi di interesse nei confronti di questo autore. All’intelletto, che non consente di giungere a Dio, Jacobi contrappone il sentimento e la fede. La fede è una sorta di “salto mortale”, è credere in ciò che non si vede, fede senza la quale, tuttavia, ogni scienza, ovvero ogni conoscenza del visibile, risulta vana. Johann Gottfried Herder fu discepolo di Kant e, successivamente, aderì allo Sturm und drang.

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Assai interessante la sua visione del linguaggio: la lingua non è una mera convenzione, ma esprime la specifica natura dell’uomo. La lingua fissa sentimenti e pensieri, permette di esprimerli, e solo grazie ad essa ogni progresso è possibile. Noi siamo, dice, “creature della lingua”. - La storia, contrariamente a quanto ritenevano gli illuministi, si sviluppa in termini di finalità, secondo una teleologia stabilita da Dio e dalla sua Provvidenza. - Anche Wilhelm von Humboldt ammette una presenza di carattere provvidenziale nella storia. Essa conduce l’uomo a realizzare, tramite singoli individui e nazioni, quell’idea che egli chiama “spirito dell’umanità”, cui più di ogni altra cosa l’arte conduce. Egli è considerato anche il fondatore della linguistica moderna.

Dibattiti sul Kantismo Assai dibattute furono le discussioni sollevate dal pensiero del celebre Immanuel Kant, su cui siamo soffermati. Tali discussioni ci interessano, seppure in modo del tutto generale, in quanto costituiscono una sorta di passaggio dal Criticismo all’Idealismo, di cui ci occuperemo. Le critiche a Kant si concentrarono, in estrema sintesi, sulla fondamentale distinzione fra fenomeno e noumeno. Il dualismo costituito da questi due concetti cardine del kantismo dovrebbe, secondo molti autori, essere superato. Vediamo un paio di esempi, utili a farci un'idea delle modalità secondo le quali Kant venne criticato. Secondo Gottlob Ernst Schultze, non è possibile dire che la inconoscibile cosa in sé, il noumeno, sia causa reale della conoscenza. Ci sono, ad avviso di Schultze, due possibilità. 1) O la "cosa in sé" non causa affatto la conoscenza e, in questo senso, essa è effettivamente non conoscibile. 2) Oppure il noumeno è effettivamente la causa del nostro sapere, ma allora non può che essere a sua volta conosciuto. Un’altra critica al noumeno giunge da Salomon Maimon, il quale ritiene che la cosa in sé, il noumeno, non possa essere del tutto fuori dalla coscienza, quindi una cosa radicalmente non conosciuta, perché allora sarebbe una non-cosa, una cosa irreale, una sorta di numero immaginario, come la radice quadrata dei numeri negativi. Il noumeno può, invece, essere visto come un numero irrazionale, per esempio pi greco o la radice di 2, cui ci si può approssimare indefinitamente, all’infinito, senza mai poter dire di "conoscerlo" interamente.

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Potete lasciar perdere questa introduzione, salvo le ultime righe sottolineate!
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