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IL TRAGICO, L’UMORISTICO, IL GROTTESCO Livio Bottani

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IL TRAGICO, L’UMORISTICO,IL GROTTESCO

Livio Bottani

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Copyright © MMIXARACNE editrice S.r.l.

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via Raffaele Garofalo, 133 a/b00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–2303–7

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: gennaio 2009

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Indice

7 Introduzione 41 Tragico, umoristico e grottesco in Pirandello 189 Il tragico e il grottesco in Beckett 229 Il tragico e il grottesco in Dürrenmatt 269 Indice dei nomi

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Introduzione

, soprattutto in quella giovani-le, a essere fondamentale non è tanto la dimensione del grotte-sco quanto quella umoristica. Il grottesco anzi, come si vedrà

oporrò dei suoi testi sia saggistici sia letterari, e come verrà segnalato alla conclusione di questa introduzione, è da lui considerato un tratto secondario e non centrale della sua opera. Il suo impegno letterario pare essere determinato dalla riflessività accentuata della disposizione psichica. Egli tende a

aspetti di n-

to e smascheramento delle strutture mediante le quali tentiamo di proteggerci dal vuoto di senso, dal denudamento di ogni con-dizione di esistenza e di esperienza. Si rende operante così un relativismo psicologico che risolve queste condizioni nei ruoli e nelle regole peculiari della rispettiva società in cui sono colloca-ti gli individui che li abbracciano. Le forme in cui questi ruoli e regole si stabilizzano possono ricondursi a irrigidimenti di si-tuazioni socioculturali, utili a permettere di adeguarsi a un uni-verso di contenuti vitali che semplificano i comportamenti da tenere in condizioni complesse, evitando il ricorso continuo al libero movimento della ricerca di un senso, di una verità. Difat-ti, mencondizione compassionevole in grado di originare un sorriso di comprensione, la riflessione si rivela in generale strumento pro-blematico al servizio della vita. Volere sempre la verità, la nuda e cruda verità, senza riguardo alle convenzioni e alle regole del-la società in cui si vive, questo può condurre ad accentuare la dis vvero alla pazzia. Essere o pretendere di essere sempre fedeli a se stessi e alla propria identità comporta una radicalizdi essere essenzialmente disgregato e mai sostanzialmente uni-tario come vorrebbe.

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Si tratta di una scoperta che ha in sé qualcosa di drammatico. Non essere mai se stessi ed essere sempre altro e altro ancora, ma non sapere mai esattamente nemmeno che sia questo altro, è qualcosa di tragico. Ciò, tuttavia, può assumere molto facilmen-te sfumature grottesche, umoristiche e ironiche. Non è esatta-mente vero che, come sembra ritenere Pirandello, fra il tragico e il grottesco non vi siano espliciti elementi in comune. Questo vale certo nel caso che il grottesco venga inteso nel senso limi-tato e debole da lui talora prospettato in alcuni punti dei suoi

come vedremo, corrisponde a un atteggiamento adottabile dallo teggiamento ritenuto confacente a su-

scitare il sorriso nel lettore. Tra le varie possibilità di atteggiarsi secondo Pirandello nei

confronti della identificazione di un certo relativismo della po-a condizione, sono state

segnalate dalla critica reazioni che possono essere passive, iro-nico-umoristiche e drammatiche. La prima corrisponde alla ras-

-dividuo tende a non ras-

segnarsi alla maschera, pur accettando il ruolo che la designa, opponendole un atteggiamento ironico, aggressivo o umoristico. Nella terza egli vorrebbe togliersi la maschera impostagli, ma non riuscendovi finisce per precipitare nella disperazione e nella follia, ossia con conseguenze per lo più senza vie di uscita. Il ventaglio di queste possibilità e aldi un loro rimescolamento nella realtà della vita, nel senso che le dimensioni di tali alternative possono intrecciarsi secondo le più differenti modalità.

come si sa qualcosa di estremamente ambiguo. La moltiplicazione del-le identità, adicale riguardo aindividuale, potrebbe celare elementi problematici che vanno al di là di una semplice questione di differenza dei ruoli. Il fatto è

essenziale integrazione

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Introduzione 9

dentità stessa, come sostanza di tutto ciò che la trascende, i-

fiuto di un resto, ossia di esclusione. La differenza che identifi-ca una certa persona può dunque costruirsi sulla base dell -terità esterno, delle cose che vi si colgono attraverso la

t-tività, oppure semplicemente costituirsi a partire da una proie-zione verso di esso. Ma essa può anche essere costruita rima-

o-vrabbondanza psichica o a processi di immunizzazione nei con-

ar

risultato di eccedenza o di esclusione. Quello che però va rile-va

orporata, ma rifiutata. Il richiamo pirandelliano a identità plurime riguarda tutto il

i-randello si richiama appunto alla visione, inquietante e talora spaventosa, di un tale sviluppo. Si tratta di una visione che ha tormentato molti autori. Basti pensare alle figure perturbanti di E.T.A. Hoffmann, al Sosia , al Ne-chljudov di Tolstoj, agli studi di Freud sulla schizofrenia, al Gregor Samsa di Kafka. Il tema del doppio, alternativo, accetta-to o rifiutato, attraversa molta letteratura e molta analisi psico-

di tragico e insieme grotte

sovra- tica di molti dei suoi personaggi a partire da Mattia Pascal fino a quelli delle sue ultime opere teatrali. Come vedremo, tutto questo im-plica una revisione radicale delle opinioni che circondano le i-dee di verità e di libertà. E ciò porta a chiedersi fino a che punto

ibertà di scelta e considerare la pulsione alla verità qualcosa tendente a ricono-

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Dürrenmatt questi problemi si evidenziano in tutta la loro pre-gnanza.

Una frase fulminante e centrale per avvicinarsi a una com- è quella che egli formula in una

lettera a Roger Blin, il regista della prima messinscena di Aspet-tando Godot. Il senso di questa commedia sarebbe che «nulla è più grottesco del tragico»1. Che cosa significa esattamente que-sta espressione nel conIn primo luogo potremmo considerare che il tragico sia una di-mensione non solo inattuale e obsoleta, ma anche ammantata ormai di aspetti che sfiorano il ridicolo e possono essere definiti

Può dunque significare che non vi sia più nulla di tragico, e che proprio il pensare che vi sia ab-bia qualcosa di grottesco. Oppure che fra il tragico e il grottesco si delinei un binomio molto stretto, per cui ove si evidenzi una delle due di Possiamo in ogni caso provare a individuare il senso di quella frase con-nettendola con altre due che mi paiono altrettanto fondamentali. Si tratta, in primo luogo, della frase enunciata da Nell, la madre di Hamm, uno dei due protagonisti di Finale di partita, secondo

vuol dire per estensione della sofferenza (SB 97). Essa è considerata dallo stesso Beckett come la frase più importante

frase, che intendo correla-bile alle prime due, è di Raymond Federman. Il quale, interpre-tando Film, unica sceneggiatura cinematografica beckettiana, come sosterrebbe «uno dei creatori-eroi di Beckett, fallire è un

imo caso, non si ca-- , se si tratti

di un autore di riferimento come Joyce, o di un personaggio dei suoi drammi o delle sue opere. Di persoè u-

1 S. Beckett, Teatro completo, edizione presentata e annotata da Paolo Bertinetti,

trad. di C. Fruttero, Einaudi-Gallimard, Torino 1994, p. 806. Citato in seguito con la sigla SB.

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tore, e non vi sarebbe che imbarazzo della scelta. Ma la frase non pare attribuibile in maniera particolare a nessuno di essi. È forse però nel mondo della mente di Murphy, o almeno nella zona luminosa di tale mondo (il quale comprende anche le due

fiasco completo nel mondo fisico diveniva un eclatante succes-so». In questa sfera per così dire meta-fisica o extra-fisica, ma anche nella penombra, Murphy si sentiva ancora sovrano e libe-

t-tosto pulviscolo della libertà assoluta, punto di indeterminabile generazione e corruzione della chiarezza2.

Nella zona intermedia di penombra si dà lo «stato di grazia Belacqua osa, indolente e tuttavia paziente in cui «il piacere era contemplazione», stadio che non aveva colle-gamenti col primo e neanche col terzo e non aveva bisogno di corrispettivi, come stadio tipico della maggioranza dei perso-naggi di Beckett. Belacqua è un personag -torio dantesco. Nel Quarto Canto del Purgatorio, Dante e Virgi-lio ascendono alla ripa in cui sono relegati i negligenti a conver-tirsi. Trovano Belacqua, un liutaio fiorentino noto per la sua pi-grizia, in posizione seduta con le braccia intorno alle ginocchia e il capo chino. Egli vorrebbe salire al Purgatorio, ma non si

espingerebbe, e dunque non gli resta che attendere. Belacqua Shuah, studente di Dublino, è il perso-naggio di More pricks than kicks3 (Più pene che pane), giovani-le raccolta di dieci racconti che evidenzia in Beckett di Joyce, ma anche la sua predilezione per la Divina commedia dantesca. In questa zona intermedia anche Murphy aveva la sua «fantasia Belacqua» (M 57):

Murphy, per cinque minuti sulla sua sedia a dondolo, a-

vrebbe di buon grado rinunciato alle sue speranze di Antipur-ga

2 S. Beckett, Murphy (1936), Calder, London 1963; trad. it. a cura di G. Frasca, Ei-

naudi, Torino 2003, p. 80. Citato con la sigla M. 3 Chatto & Windus, Londra 1934; trad. di A. Roffeni, SugarCo, Milano 1994.

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i-voglia espiazione, almeno fino a quando non gli sarebbe stato dato di sognare, in uno schietto sogno infantile, ogni cosa inte-ramente di nuovo, dallo spermario al crematorio. Aveva una grande opinione di questa situazione post mortem e-sto caso, difatti, avrebbe avuto a disposizione molto tempo per

estrema pigrizia e della ras-segnazione, , ma il perso-naggio della raccolta giovanile di racconti lo è concretamente, e non solo nel mondo della mente di un Murphy: egli si aggira per Dublino facendo i più diversi incontri ed esperienze, viven-do situazioni dalle quali però si esclude, rifiutando di farne par-

-

nei confronti del signor Knott (M 200). Lo scacco, in questo u-niverso fisico di incontri e di situazioni si evidenzia appunto come straordinario successo nel mondo della mente di Murphy.

-senso, insomma una sorta di esercizio di epoché, non comple-tamente rinunciatario, e forse più attendista che scettico, è la strategia di difesa attuata da Beckett-Murphy per non farsi tra-

e-e così uno strumento di lotta e di resistenza.

La grottesca risata dianoetica non è una difesa del genere. itamente al

esso non fa che a o-re: dopo la risata e dentro la risata tutto resta pressoché immuta-to, solo un piccolo e momentaneo sollievo, ma senza possibilità di rielaborazione o di rimoziodella menzogn s-so, mentre lo stesso non è mai propriamente se stesso, come so-stanza immutabile rispecchiante il non- a-

esto grottesco e di que -

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dividuo, nella sua presunta soggettività ultima, è adornia-namente divenuta inattendibile. Altrettanto inattendibile risulta per Beckett la via proustiana di ritrovare narrativamente la pro-pria egoità, immergendosi in sé per ritrovare il tempo perduto. Una interprete della sua opera lo sottolinea chiaramente: «Crol-

possa dare permanenza e eternità a quel che è provvisorio e transeunte, che il lavoro dello scrittore sia davvero quello, come credeva Proust, di edificare con le parole una cattedrale che vince la morte e la rende inoffensiva e non temibile. Si polve-

unga tradizione, di cui Proust è un alto

un giacimento immenso»4. Il punto cruciale è proprio che Be-ckett, per esempio col personaggio di Krapp, rileva la presa di coscienza e sensato da tramandare a una posterità forse prossima più al

inferno da quattro soldi della men one è presa dal testo per la televisione , SB 419), quello delle «lunghe chiacchierate al mormorio del Lete rievocando i bei tempi anda-

di Ceneri a parlare, secondo radiodramma del nostro autore, SB l-

leviata o superata per mezzo della parola: la svalutazione del linguaggio si può solo equiparare alla conversazione ridotta a una pratica convenzionale e sostanzialmente vuota, a un ausilio per ingannare il tempo, il che in ultima analisi conduce alla de-finitiva incomunicabilità.

Cercare di vincere la morte attraverso la narrazione è cosa che avviene normalmente. Mentre confabuliamo sulla vita e sul-la morte, raccontandocene delle storie sia sulla loro essenza sia sul presunto mistero di ciò che dopo la fine potrebbe accadere

4 A. Cascetta, e-

ckett, Le Lettere, Firenze 1997, p. 102. Cfr. F. Belbusti, Samuel Beckett e il grottesco, tesi di laurea e-monte Orientale (Vercelli) il 15 luglio 2008, pp. 43 sg.

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alla nostra coscienza, la vita prosegue e pare perfino assumere aspetti sempre più articolati e profondi. In ogni caso, si tratta di diversioni narrative che hanno contribuito essenzialmente a fog-

o-ne della sua straordinaria capacità immaginativa, delle sue arti inventive e affabulatorie: una capacità che deve aver trovato sviluppo, come si diceva, da quando ha cominciato a riflettere sulla propria mortalità cercando di venirne a capo. Ossia da

o-scienza ancora animale a sviluppare una coscienza umana. Da quando si è dato il caso, guidato da una qualche tendenza a un ordine sempre più alto e complesso (una tendenza che non va però troppo frettolosamente concepita come soprannaturale), che una coscienza si trovasse lacerata dal suo sapersi mortale e doversi per questo riscattare o trovare riscatto attraverso strate-

-zione di storie intese ad assegnarsi un senso, umano ma soprat-tutto sovrumano, sono fondamentali. Dunque, ancor prima dei tempi pur lontanissimi delle storie raccontate intorno al fuoco

adarsi sulla via della civiltà. Cultura e civiltà, da questa prospettiva, significano vivere e sognare vite immaginarie, inventarsi destini umani e sovrumani, narrarsi per esempio di essere progenie di divinità benevole più che figli dei propri genitori naturali. Esse hanno contribuito a riscattarsi dalla ferocia degli inizi. Sebbene ciò sia avvenuto anche attraverso le altre arti, la musica, la dan-za, la pittura rupestre (che tutta i-

suo complesso), fu soprattutto mediante il canto e la poesia, i racconti e le narrazioni che la fantasia ha condotto gli uomini ad ammansire la primitiva bestialità da cui provenivano. Queste narrazioni hanno trasformato esseri non ancora umani in esseri

azione al bisogno di vita alternativa da parte della appena sorta coscienza umana, di vagheggiare un destino diverso, affinando la sensibi-

f-

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francandola dalle mortificazioni e frustrazioni di esistenze in gran parte ancora ferine.

E tuttavia, tutta questa grande opera affabulatrice e confabu-latrice mediante la quale tentiamo di venire a capo della vita e della morte ha anche del grottesco, quel grottesco che si accom-pagna al sospetto della loro sostanziale insensatezza, che si cer-ca continuamente di attenuare, di circoscrivere e differire attra-verso le diversioni con cui inganniamo il tempo pretendendo di allontanarne per sempre le minacce. Nonostante ogni affabula-

un nuil quale nascono tutte le storie, un qualcosa che resta incomuni-cabile ma sulla cui base prende avvio ogni affabulazione. Che essa non porti a nulla non è esattamente vero, al punto che tutta la civiltà ne deriva. Ma essa non porta a nulla almeno nel senso che non se ottiene mai quella ricomposizione risolutiva e asso-luta della cesura e quel senso perspicuo che ci si ripromette da ogni strategia restitutiva, narrativa, confabulatrice o altro. È per lo meno ironico, ma anche grottesco, che tutte le intraprese ten-tate allo scopo di ottenere una risposta o una qualche sicura evi-denza esplicativa appaiano fallire, condurre allo scaccodella profonda ironia nel fatto che di tutto ciò che ci ripromet-

-nito e o-trebbe prima o poi farci desistere, mentre invece ciò diventa stimolo per sempre nuovi tentativi di comprensione e interpre-tazione del reale. I quali vanno poi a comporre le trame di ogni tessuto tronde paradossale, e fonda-mentalmente ironico e grottesco, che si sappia la morte e il fini-to, ma anche non li si voglia riconoscere nella loro necessità, ri

inoltre della profonda ironia nel fatto che noi si pretenda con forza sapere e verità, ma anche li si rifugga, per esempio abbracciando credenze del tutto assurde e incredibili per culture

nel fatto che si pre-tenda libertà assoluta, ma anche la si eviti con cura, preferendo

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piuttosto situazioni di comodo, che paiono poggiarsi su condi-zioni che della libertà han

tragico? Possiamo qui pensare inizialmente alle definizioni del grottesco da parte di Victor Hugo nella sua prefazione al Crom-well, secondo il quale nella rappresentazione artistica il de-forme si trova connesso al grazioso, il grottesco è inseparabile d u

a-n-

teriore, il tragico alla buffoneria. Tutte le cose, del resto, ap-paiono tenersi per mano, manifestando corrispondenze miste-riose ma anche cesure inattese. Il dramma viene ora inteso come il grottesco più il sublime, una trauna commedia. Nel dramma, in cui sfocia la poesia nata dal cri-

--

a-tura e terribile irreversibilità della deliberazione, di abusata li-bertà e scientifica necessità. Tutto ciò che pareva chiaro diventa ora confuso, privo ormai di fondamenti certi cui potersi riallac-

Si tratta, in parte, di temi che vengono in luce anche Estetica del brutto (1857) di Karl Rosenkranz, nella quale vengono posti in primo piano an-

ato, il meschino, il debole, il vile, il banaquelli del ripugnante, che consistono nel goffo, nel moribondo,

-bolico. Si tratta di momenti che, , Hugo mette in risalto: lo spsembrava assente almeno nella tradizione ufficiale, vale a dire la coorte di lupi mannari e vampiri, di fantasmi e di orchi, tutte le manifestazioni della lussuria, cupidigia e sete di sangue della bestia umana, eredi dei mostri diabolici nei capitelli e doccioni delle cattedrali romaniche e gotiche, delle morti falciatrici, degli

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scheletri e teschi macabri e perturbanti presenti negli affre-schi e nelle raffigurazioni dal medioevo al barocco.

Se vogliamo considerare la cosa da un altro lato, possiamo per esempio riferirci al modo in cui Vittorio Strada, nel suo saggio introduttivo, , alla

Idiota di Dostoevskij vede (in relazione alla fi-

come del tutto particolare, nel senso che esso assume qui tratti comici e perfino arlecchineschi, toni culminanti in rovescia-menti che rendono ridicole situazioni che sono invece dramma-tiche per chi ne fa esperienza da protagonista. Il rovesciamento del climax in anticli -fetto tragico delle vicende, piuttosto lo rafforza. Il senso che ne risulta è accentuato infatti da una ulteriore deriva tensionale, da una contraddittorie

Esso viene rafdi scampo che non siano la risata beffarda, il grottesco o lo scherno. Ma la questione è qui ancora più radicale, se si pensa

ane. Quel-lo che alla fine potrebbe risultarne come vedremo meglio nel prosieguo è che tutti gli uomini sono in fondo esseri religiosi, anche i criminali e i persecutori, nessuno escluso. Tutti richie-

-ame e di un

se del vuoto, di una vita che viene sospettata essere una folle carnevalata. Se Dio potrebbe essere ritenuto cifra della trascen-denza e paradigma di ogni imperscrutabilità, potrebbe però be-nissimo risultarlo anche quale distruttore e devastatore della

-a-

gica buffonata, enigmatica disposizione dalla logica implacabile per raggiungere un obbiettivo completamente vano, come nel Cuore di tenebra di Conrad o nel Processo di Kafka. Da un la-to, dunque, affidiamo nelle mani di Dio la speranza del riscatto

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e della ricomposizione di un ordine; da do-lorosamente ciò che potrebbe non essere che demolizione di ogni speranza. Questa paradossalità potrebbe tuttavia essere an-cora proposta come il vero senso di un Dio del paradosso, seb-bene possa essere forse più semplice e certo maggiormente eco-nomico risparmiarsi di confidare nelle proprietà paradossali di un tale Dio affidandogli le nostre sorti, come sembra più onesto non sbilanciarsi così in ipotesi troppo fantasiose.

Possiamo allora riallacciarci alle considerazioni di Gianni Vattimo in relazione proprio al Processo di Kafka5. Egli cita in un suo articolo la Storia della letteratura tedesca di Ladislao Mittner, che riferisce come Kafka avesse riso fino alle lacrime nel leggere agli amici il primo capitolo del Processo. La situa-zione descritta nella storia è infatti grottesca: il protagonista non sa perché deve essere processato, quale colpa gli venga attribui-ta, e la sua ricerca di saperlo sfocia nel nulla. Lo svolgimento del processo sembra proseguire per forza propria. Il racconto mette in luce, dice Vattimo, una mescolanza di tragedia inspie-

i-na perfettamente inutile quella che si è messa in moto. Le sordi-de soffitte, i corridoi sporchi e soffocanti in cui ha sede il tribu-nale, le camerette squallide e polverose, rappresentano la di-mensione architettonica e ambientale degli sforzi vani di K. di

n-clusione lascia pensare a uno squallido meccanismo sacrificale, appropriato solo grottescamente a una qualche tragedia antica:

opietra, sotto una pallida luce lunare, scannato mentre i suoi ta-gliagole, due maschere teatrali, lo fissano negli occhi. Lo stesso Mittner dice Vattimo si chiede quanta parte vi sia in essa di tragico e quanto di umorismo patibolare nel minuzioso realismo delle descrizioni kafkiane dei particolari più insignificanti. Que-sto miscuglio di tragico, di umorismo e grottesco non lascia pe-

5 La stampa, Torino 2008 (31 luglio),

p. 38.

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rò sperare nulla di buono. Al contrario di quanto commenta Vattimo, nessuna risata omerica appare davvero salvare alcun-ché di questa tragica buffonata, e certo nemmeno la risata sbel-licata e a crepapelle dello stesso Kafka sulla sua opera, la quale

insieme a tutti i suoi altri manoscritti.

In ciò la logica del racconto di Kafka è inesorabile, come quella di una vera tragedia greca. Ma questa logica è destinata a condurre verso obbiettivi completamente vani, appunto insensa-ti, determinata da sforzi che non portano certo a una qualche salvezza, e nemmeno simbolizzano un percorso seguendo il quasenso che si è spalancata davanti a noi, senza recriminazioni re-sidue nei confronti del ritrarsi di fondamenti trascendenti che hanno protetto le nostre coscienze per millenni e che paiono ta-lora dissolversi come neve al sole, tendendo tuttavia a riprende-re vigore ogni volta a causa della difficoltà che esse hanno a

i-tardo e in anticipo su se stesso, mai presente totalmente a sé, con tutte le sue mancanze e intenzionalità, memorie e speranze,

e-guato e forse obsoleto? Il suo essere produttore di tecnica, de-terminata come complesso di risultanze e sostegni del proprio fondamento culturale alla ricerca di ricomposizioni della cesura, segna anche il suo destino di assoggettamento e illibertà nei confronti della tecnica stessa, la quale prende il sopravvento su di lui rendendolo strumento dei propri strumenti. Ciò che era stata espressione di una parte essenziale della grande macchina di strategie di ricomposizioni incrociate di questa cesura segnata dal sapere la morte, diventa proditoriamente manifestazione del-la servitù di un essere che ha la pretesa di dirsi sostanzialmente

g-giamento che la coscienza pretende, e la servitù della libertà re-sta decisiva anche se la coscienza ferita rappresentasse il mar-chio del superamento della animalità e delle culture animali e

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20 Introduzione

cui pure è espressione. Il riconoscimento della meraviglia e del-lo stupore provocati dalle capacità di sacrificio e di oltrepassa-

omo, con tutta la a-

tiva, di potenzialità di bene, di riscatto delle proprie miserie, di innalzamento sui propri limiti e di autotrascendimento, di incre-dibili potenzialità teoretiche e conoscitive, costruttive e prati-che, non riescono a convincere del tutto che qui si tratti pur sempre di espressioni potenti di complessità naturale, come di spiritualità e religiosità del tutto naturali, poiché anche il crede-re che vi sia qui qualcosa di trascendente la mera naturalità è ancora qualcosa di naturale, così come il nostro poterci trascen-dere è ancora qualcosa di immanente alla naturalità di cui siamo manifestazione. Forse, però, la cosa davvero tragica e grottesca è che pian piano si mostra sempre più chiaramente non solo

o-trebbe superare di gran lunga la sua grandezza. Forse, ormai,

i-bertà paradossalmente illimitata e situata, finita e irriducibile, non è altro che un modo per consolarsi del sospetto di insignifi-canza e irriducibile miseria, che egli fa di tutto per rimuovere o riscattare.

Il venir meno dei fidati fondamenti metafisici, e perfino di quelli della fisica tradizional -canza cui è essenzialmente esposta la nostra coscienza, la spin-ge dunque a cercare compensazioni in supplementi di senso in grado di risarcirne le presentite carenze e la costitutiva finitezza. Il fatto è che la coscieninconscio che non può padroneggiare, è lacerata da istanze che ne compongono dilaniandola individui ne formassero la sostanza: una ridda di personaggi e coscienze proustiane che nascono e muoiono, avvicendandosi e

scio, del resto, non si riduce certo alle sole dimensioni freudiane di ciò che e-sprime la repressione, la regressione o il rimosso, ma è indicati-vo anche di tutti i processi mentali e fisiologici della formazione

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m-prende caratteristiche strutturali e funzionali, neurobiologiche, circuiti cerebrali il cui modus operandi resta costitutivamente inconscio e che non sono a oro presenza è rilevabile non dalla coscienza, bensì mediante i me-todi sperimentali della psicologia empirica. Si tratta di strutture adattative estremamente efficaci che rappresentano la maggior parte delle normali funzioni del cervello/mente. Di tutto ciò, mentre è in funzione, la mente non sa nulla né si rende conto di nulla. La coscienza, volendo riempire e comprendere anche questo nulla, finisce per trasformarsi in meccanismo di interpre-tazione di dati che sono propriamente risultati di processi esclu-si tuttavia da ogni possibilità di visione da essa attivabili. A tale scopo il soggetto finisce per costruire ragioni ad hoc sulla base di pregiudizi e influenze culturali le più varie, che si presentano articolate secondo recite e narrazioni che vogliono essere credu-te assolutamente vere o così si vuole siano credute.

È dunque ironico e grottesco che si attribuisca questa verità assoluta che, per altro, se non è assoluta appare non essere ve-rità a elementi costruiti dalla coscienza che essa inserisce nei propri ritardi su se stessa, posticipandosi e anticipando in sé frammenti narrativi e significati che le sfuggono nel suo presen-te non essendo mai completamente presente a sé, padrona del senso di verità di cui desidera intendersi portatrice, assegnataria e infine testimone. Essa tende a considerare queste narrazioni, sapienzialità, mitologie come racconti che conservano in sé tracce di verità destinate a colmare il vuoto creatosi col suo sa-pere la morte. Non può e non deve essa si rassicura trattarsi solo di una qualche mera corrispondenza, aleatoria in quanto fittizia, al nostro bisogno metafisico di affidamento e significa-tività, che si accontenterebbe di qualsiasi storia le appaia dar senso alla sua vita semplicemente destinata alla morte e da que-sta necessitata alla sua costitutiva caducità e transitorietà. Deve cioè trattarsi di una verità alla quale richiamino tutte le cosid-dette tracce di essa che si intendono depositate nelle tradizioni mitiche e religiose, tracce perciò che non possono ridursi a mere

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proiezioni del desiderio e dei bisogni umani. Infine, però, noi pretendiamo verità tanto quanto in realtà saremmo disposti ad accettare di non verità, che tuttavia sia tale da corrispondere ap-punto ai nostri bisogni di rassicurazione, fondamento, ricompo-

di soddisfarci, di essere utile dunque a dar senso alla nostra vita,

Anche questa non verità, peraltro, fa forse parte della verità di cui la coscienza appare aver bisogno. E anche ciò è ironico, se non grottesco. Tutto ciò, in realtà, va sottolineato quantunque

principio almeno da una prospettiva strettamente logica da riferiResta il fatto che, di una verità che non abbia alcun rapporto

a-ta indifferente a questo essere e alla sua esistenza, non possiamo sapere nulla e in fondo, seppur , non sapremmo che fare. Ma anche di quella verità con cui dovremmo essere in rap-porto, di cui qualcosa dovremmo conoscere essendo suoi inter-preti, conosciamo sempre troppo poco rispetto a quanto vor-remmo.

In assenza di un riferimento certo a una qualche verità asso-luta, nuda e senza maschere, anche quello alla libertà vacilla paurosamente. La libertà, infatti, sembrerebbe stare in relazione con la verità d a-no. Abbiamo però visto che gran parte degli elementi che fanno parte integrante della mente umana e delle sue capacità di deli-berazione, ovvero le caratteristiche funzionali e strutturali, i processi mentali e fisiologici, i circuiti cerebrali, restano esclusi da qualsiasi introspezione da parte della coscienza volontaria, la quale è sempre in ritardo su se stessa e sui suoi medesimi anti-cipi, che sono in special modo connessi al suo sapere la morte. Ne resta esclusa perciò anche la sua portata utopica e anticipa-trice, la cui evidenza veritativa sembrerebbe tuttavia connettersi a questo sapere, essendone al contempo espressione concomi-

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Introduzione 23

a rit o-

rispetto al sapere, e nella coscienza che la riguarda viene dopo tutta una strutturazione di elementi che parrebbero piuttosto far-ne risultare qualcosa di molto più costruito, e cioè narrativo, del sapere. Ciò vale, dunque, non solo per quello che viene ritenuto da certa ontologia della libertà come aspetto etico della libertà, vale a dire il libero arbitrio, ma anche per la libertà considerata da tale ontologia come originaria, la libertà come inizio puro, la quale è intesa come protagonista di una storia che essa fonda nella sua assolutezza e illimitatezza. Questo puro inizio è parte

e soprattutto col cristianesimo, una storia che vuole essere anche una bella favola di salvezza e riscatto dalla finitezza e dal male, che fa anche della libertà divina una immagine riflessa che ci ritorna indietro dal artire dal nostro interno. opravvalutazione della libertà. Anche la libertas maior della tradizione antica, consistente nella corrispondenza al bene, e diversa perciò dalla libertas minor, come libertà illimitata di scelta (insieme di liber-tas spontaneitatis e libertas indifferentiae), fa parte di questa

o-ne occidentale cui apparteniamo, a cui possiamo però riferirci come da una certa distanza, scorgendone il lato per noi incredi-

non è affatto illimitata come sappiamo, questa libertà non si riduce alla sua dimensione etica, poiché alcuni meccanismi facenti parte della scelta di

zione che pure parrebbero mettere in gioco il libero arbitrio precedono questa dimensione pratica. Inoltre la libertà maggiore, quella da cui si attende ciò che resiste al male e compie il bene, è essa stessa (per la maggior parte dei processi con la sostanza dei quali o-scienza volontaria. Solo la libertà infinita o assoluta di un dio potrebbe essere totalmente voluta e padroneggiabile in tutte le sue fasi. Pretenderlo per la coscie

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24 Introduzione

la sua volontà fimagine del divino, ma pensarlo uguale a Dio. Alcuni in-

tendono -finito, risul fica di Dio come infinito. Questi elementi di arci-metafisica potrebbero non essere così positivi come si vuole figurarli, nel senso che varrebbero invece come spunti appropriati per una metafisica fondante ed esplica-

dispiegare esaustivamen-te il senso ultimo del finito umano e della libertà finita facendo-lo risalire a finito divino e alla libertà divina. Il non farsi immagini di Dio è già contraddetto in termini dal credersi pao-linamente e credere il mondo immagini di Dio nella narrazione trinitaria che vede il Figlio (a) immagine del Padre.

-i-

no, assegnato da questo alla libertà, mentre la medesima imma-gine del divino è un risultato complementare al suo rendersi

i-sca per sostituirsi alla divinità, pretendendo di prenderne il po-sto: in verità, non fa con ciò se non narrarsi delle storie al fine di costruirsi con esse un ruolo significativo nella realtà e una sostanziale necessità, sentendo precario il primo e minac-ciata alla base la seconda dalla propria consapevolezza di essere mortale. Egli intende, attraverso queste costruzioni, venire a ca-po della cesura che gli fa dubitare di essere effettivamente cen-trale nella storia del mondo. Ciò gli insinua il sospetto di esserci non per una necessità intrinseca a un qualche disegno intelligen-

so, un progetto assolutamente libero e infinito che lo comprenda come insostituibile nella sua economia ultraterre-na, come nella mente di un Dio dalla memoria e dalla pietà infi-nitamente ospitali, bensì per qualche catena sia pur complica-tissima e immensamente intricata di causalità estrinseche a tutto questo. La sua stessa libertà, che pensa illimitata, è estre-

o-me parte di una trama narrativa nella quale avere un ruolo de-terminante, centrale negli eventi che costituiscono la realtà del

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n-finita non tanto la messa in chiaro del paradosso che nasce dal suo rapporto alla libertà finita, quanto la costruzione di una pa-radossalità legata a una narrazione riguardante il nostro posto nella realtà: una collocazione intesa per lo più come fondamen-tale nella costituzione del reale. Il paradosso è qui costruito dal pensiero in funzione di trovare una costellazione di senso in cui

-

p- del mondo.

Se fosse poi la questione del senso e del non senso a essere forse

o-trebbero avere in sé un qualche senso in quanto sono qualcosa e non nulla, importa tutta nudo essere non vale per noi come ciò che possiamo ritenere sostanzialmente detentore di senso: altrimenti si potrebbe asse-rire che qualsiasi cosa che sia, già solo per questo suo essere, sia di per sé sensata. Allora tutto avrebbe senso. Ma se tutto avesse senso, nulla in realtà lo avrebbe. Se qualcosa può avere senso,

non avere senso, qualè piuttosto la questione, legata a quella del senso e del non sen-

l-la sua coscienza, che alcuni pongono in rapporto alla libertà in-finita di Dio a partire da un rac

damentale, che vuole essere fondante di un mondo interpretato in base a es-

azione della verità, interpretazione vera della verità del reale come enigma del co-smo, comprensione ed esperienza religiosa di una verità origi-

Questo è paradossale. Il parados-so è però quanto di più lontano esiste dalla mediazione dei con-

i affa-

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26 Introduzione

bulatorie della coscienza, alla quale interessa risolvere enigmi, misteri e paradossi, senza che tuttavia essi si lascino davvero esplicare esaustivamente. Per esempio, dalla nostra prospettiva,

re la do-manda filosofica è una qualche verità confabulata come origine del pensiero ma più in generale di tutte le costruzioni culturali. Il paradosso fondamentale potrebbe essere allora per la coscien-za umana la verità originaria, realmente perfetta e indistruttibile, della cesura di sapere la morte senza saperne il senso, dovendo-sene immediatamente inventare o lasciandosene suggerire uno qualsiasi che la ponga al centro della narrazione come recita

e ricom-posizione della cesura. Questa ricerca di ricomposizione fa par-te integrante del paradosso della verità, comprendente anche un bidi una chiusura o soluzione totale della scissione e di una con-clusività della ricomposizione.

Di fatto, la libertà come origine ontologica del reale e della stessa libertà umana è qualcosa narrato non solo da alcuni filo-sofi, ma anche da certi scienziati: per esempio Ilia Prigogine, che basa le sue conclusioni su un autore come Schelling, a parti-re dal quale il nostro Luigi Pareyson -tologia della libertà. Ma, mentre lo scienziato ne parla propo-nendo ipotesi metafisiche ma non scientifiche sulla base della sua ragione scientifica, il pensatore lo fa in base al suo pensiero

nigma del mondo, proposta a partire dalla ragione religiosa e filosofica o di quella scientifica e metafisica, è tuttavia soggetta alla costi-tutiva narratività della coscienza umana, la quale in ultima ana-

a-mente tende a pensare di sé, della propria coscienza e del pro-prio ruolo, al centro o alla sommità di questo enigma. Che que-sta narratività si declini in senso scientifico o filosofico o reli-gioso, oppure si articoli in senso speculativo ed esplicativo o in senso comprendente e puramente interpretativo, le cose non cambiano in maniera sostanziale. La nostra originaria esperien-

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Introduzione 27

za della verità non è perciò quella della libertà o il paradosso come appena detto è sa-

pere la morte (come il finito) senza saperne il senso (come infi-nito). In maniera che non ci si può contentare della sua naturali-tà e si debba sùbito ricercare narrativamente una costruzione spirituale che ne rappresenti unprospettare alla coscienza il suo ruolo insostituibile e centrale

eterno.

del mondo (mediante la libertà o altro), negli interessi principali t-

ta, la quale ci avrebbe installati in essa per chissà quali suoi scopi trascendenti e ultramondani. Tutto questo è semplicemen-

t-to, dal sentore di non avere quel ruolo fondamentale che si anela ad assicurarsi a partire dal sapere la morte. Bisognerebbe con-

-micità di queste storie di fondazione. La seriosità austera di queste storie potrebbe andare in conto a una dialettica estrema-mente dispendiosa, e dunque antieconomica, di mantenimento

pensiamo che il comico è costituito già secondo Freud da un alleggerimento del dispendio psichico, e che un analogo dispen-dio è anche quello che intende risparmiarsi il fondazionalismo per venire incontro al bisogno di compensare la dissipazione connessa al sapere la morte, tuttavia richiedendo il ricorso a ben altri antieconomici dispendi con le sue trame compensative, si potrebbe pensare che tra il comico e le teorie di fondazione vi siano prossimità più o meno nascoste. Se il fondazionalismo, infatti, si può intendere anche come volontà economica di ri-sparmiare un dispendio: quello che attiene, in o-gni caso, al sapere la morte, per sopportare il quale lo psichismo patisce una sofferenza primaria, esso ottiene però questo ri-sparmio attraverso altri più gravosi dispendi, che supplementa-no perciò il primo mediante costruzioni narrative straordinaria-

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mente dispendiose, talora incredibili e assurde per ogni sogget-tività o comunità che non si riferisca a esse come a radici prima-rie di appartenenza e riconoscimento culturale. Anche il comico

varrebbero come risparmi di un dispendio attra-verso un certo dispendio, un dispendio che neutralizza il primo ottenendone un guadagno nel differenziale. Ovvero, la differen-za nel guadagno tra i due dispendi appare, nel caso della comi-cità, superiore rispetto a quello che si impone nello squilibrio fra il dispendio iniziale richiesto dal sapere la morte (col quale deve certamente confrontarsi ogni fondazionalismo, e anche quello religioso o comunque sapienziale) e il bisogno compen-sativo di fondazione e di rassicurazione del senso. Il che signifi-ca, in sostanza, che la perdita è sicuramente inferiore. La vita, in ogni modo, è anche fare economia della morte, oltre che di-

nomia della vita, la quale è essa stessa resistenza insieme nei confronti sia del dispendio energe-tico che del troppo poco dispendio, ossia neghentropia nel ples-

nmorte. È qui in gioco ciò che il nostro dispositivo psichico e spirituale intraprende a fare fin da subito, non appena gli esseri umani ricevono il dono avvelenato (la grazia) sia pur fantasti-co e inebriante, per la gran messe di risultati culturali cui ha condotto ricercandone la compensazione e o la ricomposizione

di diventare tali, ossia esseri sapienti del proprio dover morire. Sùbito infatti essi devono aver dovuto cercare di fare economia sia della vita che della morte, ricercando il risparmio culturale contro la necessaria dispersione, al -

mento pulsionale eccessivo (Freud, nel saggio sui Motti di spirito, parlava in tal caso di catessi). Dalla complessa economia risultante da queste dissipazioni in-crociate e risparmi nei dispendi derivano perciò tutte quelle conquiste di cui ci piace sostenere facciano la grandezza del-

gli animali. Esse fanno tuttavia anche la sua miseria e sproporzione rispetto a tutto ciò che nelle bestie rap-

isparmiata dal sapere. Si deve ora ammettere che il risparmio nello sperpero ri-

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guardante un certo investimento psichico inopportuno sia un Qualsiasi

impegno serio di vita è estremamente dispendioso dal punto di viqualsiasi risultato significativo il dispositivo psichico tende a investire notevoli quantità di energia al fine di differire in senso controentropico il decremento pericoloso. Ossia quello che por-ta alla dissipazione tendente a ricercare continuamente nel pre-sente soddisfazioni immediate derivanti dal rilassare economi-

controentropico del genere implica differimento del piacere momentaneo e della dispersio-ne connessa a quella disgregazione entropica delle energie che

n-tropico e neghentropico è dunque da intendersi sia come inve-stimento tendente al differimento della morte la quale si im-pone già nel rilassamento delle resistenze, i cui prodromi stanno

di un guadagno immedia-to, che però richiama la tendenza al disordine disorganizzato e

, sia come volontà di re-stanza -cremento minaccioso della dissipazione. Tra volontà di differi-mento e volontà di restanza (volontà che, in entrambi i casi, non è detto debba risolversi in processi del tutto coscienti) si produ-ce un connubio tendente a rispondere alla sfida imposta da quel-

o filogenetico nella co-co-

i-flessione di un tale sapere, a partire dal quale la coscienza ormai lacerata e scissa deve immediatamente mettersi in cerca di ri-medi e strategie in grado di differirne la potenziale minacciosi-tà. Tra sapere la morte e non volerne sapere si evidenzia così

one fondante dunque in analogo senso la sfera della comicità.

Ma anche il male i-gione, che è una o la modalità primaria di venire a capo del-

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la cesura, del dubbio di senso affacciatosi col sapere la morte, il quale, ripetendo cose già dette altrove, non significa affatto sa-pere ciò che la morte sia, ma semplicemente sapere che si deve morire, presto o tardi, senza saperne il senso, sapendo la neces-sità della fine con grande anticipo, potendocelo immaginare, non potendoci impedire di sospettare che con la fine della vita corporea e materiale termini anche la nostra intera vita spiritua-

spetta di diritto tale denominazione, sta in rapporto immediato col suddetto sapere, sotto forma di un rancore e di un risenti-

a-n-

de tutto dalla libertà, la quale piuttosto ne è in sostanza una cer-ta risposta, nel senso o di una resistenza al risentimento o di una acquiescenza ai moti del rancore. Molto più originario della li-bertà è dunque quel sapere, con la cui provocazione la coscien-za si trova costretta in ogni modo a confrontarsi più o meno liberamente attraverso un corrispondere pienamente al ri-chiamo del risentimento e del rancore che possono derivarne, oppure un atteggiamento di implicita o esplicita resistenza. La religione richiama, mediante la libertà, alla consapevolezza del male ossia al sapere della sua esistenza, sapere che può essere inteso come vero e proprio peccato originale della coscienza umana cercandone una ragione o una giustificazione.

Se qui si può parlare di caduta, la si deve però intendere non certo in senso letterale. Possiamo talora verificare che qualcosa sia caduto, una pietra o un uomo, e credere che possa essere ri-sollevato. Possiamo anche ritenere, forse con maggiore giustifi-cazione, che abbia rappresentato una caduta filogenetica del-

mo il venire a sapere la morte, a causa forse di un mutamen-to improvviso in un qualche dispositivo psichico, nella coscien-za di un qualche primate in una lontana plaga africana o asiati-ca, come evento pressoché insignificante della sua mente primi-

igine abissale dei tempi. Que-sta metabolé dovette forse illuminare la sua coscienza, e al con-tempo oscurarla. Una tale caduta si reitera a livello ontogenetico

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nel caso del dispositivo psichico e della mente di ogni singolo essere umano. E dunque, da quel lontano momento nascosto nelle pieghe di un abisso del tempo, chi è caduto, riflessosi im-provvisamente in se stesso nella sua caducità, cerca di risolle-varsi. La storia di questa caduta vale quella mitologica propria del racconto biblico, del giardino edenico che narra la cacciata dei primi esseri umani usciti dalle mani e dal soffio divino. Come vedremo proprio commentando le opere di Beckett, nel radiodramma Tutti quelli che cadono questo autore fa capire come sia grottesco pensare come nel Salmo biblico che tutti quelli che cadono vengano rialzati, poiché vi sono, vi saranno e vi sono state miriadi di persone, di culture e civiltà che nessuno ha potuto o potrà risollevare dalla condizione deietta in cui sono cadute o cadranno. La risata cupa dei personaggi scoppiata al solo nominare il titolo della predica annunciata testimonia come il ridicolo e il senso della più grande assurdità possano accom-

ilosofico o sapienziale. Se qualcosa di tragico qui sussiste, questo corri-sponde al fatto che quelli che cadono a parte i fortunati che

, i quali tuttavia alla fine non possono non ricadere e non precipitare non abbiano alcuna possibilità di rialzarsi. Il grottesco, invece, sta proprio nella cre-denza assurda che tutti quelli che cadono si rialzino o possano rialzarsi.

o-sa e tragica della libertà viene celebrata. Si tratta del romanzo Il sospetto di Dürrenmatt, che nella figura del medico torturatore

umana, troppo umana di chi gode nel m-

po feroce e spietato nella narrazione di Dürrenmatt. Come ve-dremo, il suo chirurgo esalta la propria libertà assoluta consi-stente nel torturare i suoi pazienti senza anestesia, godendo il suo trionfo riflettendolo nello sguardo follemente vitreo e nelle bocche urlanti delle sue vittime. Nenella sua intensità, tale che forse nemcorrispondervi, in cui egli affonda le sue lame nelle carni bian-

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che rendendole ammassi sanguinolenti, egli celebra il suo libero arbitrio, la sua libertà come corag sere se stesso fino in fondo, come essere diventato se stesso, come un semidio, trasformando il proprio sé in puro istante, tempo col-

ogni giustizia, innalzandosi fino a raggiungere ciò che per lui di -senso

di questo mondo, nel mistero della sua materia morta, che come

morte. Neanche in Dostoevskij o in Camus troviamo figure del genere, che però si possono scoprire nelle cronache della Shoah, e sappiamo che per molti esseri umani far soffrire e procurarsi sofferenze sono da annoverare tra i massimi piaceri e tremori

o-i

alla ricerca del senso perduto e della presunta riconquista di una qualche identità e insostituibiSempre si tratterà di una richiesta di attestazione da parte di qualcuno di essere qualcosa e non nulla, di vincere anche fa-cendo del male e facendosene di avere un senso e non nessu-no, che la sua miserabile esistenza non è del tutto vana ma è qualcosa, che ha una sua necessità, una logica in grado di debel-lare la logica della morte. Il tragico della libertà è qui di manife-starsi come positiva o negativa senza che si possa affermare una

ismo e della spiritualità che tende a ricomporre, vale a dire al sapere il finito.

spirituale preceda e segua la cesura. Questo potrebbe valere al massimo in senso ontologico e naturalistico: nel senso cioè che nella grande sfera del mondo ogni cosa venga riassorbita e in fondo resa indifferenziata e anonima. Nella condizione umana

ivamente rappres

in quanto tale, ritorno della complessità organica dei suoi mem-

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bri alle sue componenti più semplici, la sua restituzione alla pu-ra e semplice naturalità del non vivente. Il tragico consiste nella impossibilità della certezza di un transito dalla non unità della ce

grottesco nella cre-denza che tale transito sia necessario o garantito. Non è così de-

o-

sia qualcosa di flessibile e organizzato che contempli in sé sia una cesura sia una pluralità di recite di lacerazione e ricomposi-zione. La lacerazione per noi decisiva, dunque, non è tanto quella oncome rottura della relazione finito e infinito, bensì quella spiri-tuale della coscienza attinente al sapere il finito e la morte e non volerne né poterne sapere se non apprestando più o meno com-plesse, articolate, paradossali o assurde strategie di ricomposi-zione. In sostanza, la cesura significativa per la condizione u-mana è tutta interna al finito, ed è nel finito che si individuano recite di ricomposizione, ricercando così di venire a capo an-

del male, della sofferenza, della morte. Ed è qui che si sviluppano le percezioni di benessere, felicità, incan-to, stupore, che possono pareggiare e anche essere superiori a quelle di orrore, disincanto, infelicità, malessere. Esse possono tutte liberamente accordarsi con le narrazioni di cui la coscienza si rende capace allo scopo di resistere al destino del finito o di accettarne il verdetto sopportandolo.

Il male non è perciò inspiegabile, come si potrebbe pensare. Esso ha ragioni che si possono annoverare. Queste ragioni si annidano innanzitutto nelle risposte negative che la coscienza dà alla sfida rappresentata dalla cesura con cui s identifica, ov-vero dal sapere la finitezza e la caducità. Esso consiste nelle sue radici ultime, come si era detto, nel risentimento e nel rancore nei confronti di questo sapere, nella replica aberrante della co-

ato originale di sape-re la morte la porta a questa risposta che spetta alla libertà, co-me risultanza di negoziazione di differenti istanze interiori, da

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interpretare e definiprimario né secondario rispetto al bene. Entrambi dipendono dalla risposta narrativa che la coscienza dà, attuandosi con la mediazione di quelle istanze della libertà, al sapere la morte e il

come la respon-sabilità disinteressata nei confronti degli altri, ciò che traluce

-

del bene, non sono né inspiegabili né ingiustificabili, essendo la loro essenza comprensibile proprio nella risposta positiva della coscienza alla provocazione della cesura e di quel negativo che si dà e si dona come sapere la morte. Quanto può essere giusti-ficato riallacciarsi a qualcosa di trascendente, forse una grazia, al za e sapienza divina, un disegno intelligente e un progetto sovrasensibile da cui provenga il sen-so ultimo della deliberazione al bene, come se fosse necessario

del bene? Se è vero che è per lo più e in generale a partire dalla provocazione del negativo che la coscienza si induce ad appro-

ibilità culturale, nella costrumolte recite che si articolano nella nostra mente rendendo com-plesso il ruolo della libertà di scelta, la maggior parte degli ele-menti micrologici della quale non le sono in alcun modo acces-sibili e non dipendono dalla sua deliberazione consapevole, è anche vero che è proprio in questi elementi che si ha la limita-

o-menti extra-coscienziali trascendenti in senso sovrasensibile per cercare di spiegare e giustificare gli elementi della deliberazione inaccessibili alla consapevolezza. Di questi elementi sensibili,

e-r-

care di attribuire a quello di una qualsiasi trascendenza verticale o ultraterrena.

La questione dunque non è la distinzione di ciò che precede

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e ciò che segue la scelta, ma ciò che nella coscienza della scelta rappresenta un ritardo tale da poter essere riempito da frammen-ti narrativi tendenti a esplicitare o interpretare post hoc la deli-berazione. Si tratta di una ricostruzione che pone radicalmente in dubbio il primato della libertà illimitata come scelta, tale da far ritenere che non vi siano dimensioni ontologiche e un essere

coscienza tende a ricostruire secondo i suoi interessi più o meno immediati e i suoi bisogni fondamentali di giustificazione, com-prensione, ricomposizione (anche della cesura). Ogni tale rico-struzione appare come una scommessa sul senso delquale dunque è immanente a ogni scelta intenzionale e a ogni deliberazione consapevole. Ma se ciò significa la sua necessità anche in rapporto alla domanda su Dio e la sua esistenza o me-

-

rappresenti la domanda fondamentale in rapporto alla quale la scommessa sia decisiva nella serie di scelte importanti della vi-ta, che la sua sostanziale non neutralità rappresenti un unicum nella serie. Infatti, in ogni agire consapevole sussiste un ele-mento narrativo e finito che richiama una certa alea, dichiarata o meno, e un tentare la sorte sulla sua corrispondenza a una qualche verità infinita ed eterna. E dunque ciò vale anche per quelle interpretazioni filosofiche della verità che tendono a pre-sentare le ragioni che le sostengono come peculiari della loro capacità esp a-le enigmaticità. Ma questo vale in ultima analisi soprattutto per quelle interpretazioni filosofiche tendenti a ricondurre le loro

religiose di queste ragioni, dichiarando per esempio o lasciando tacitamente supporre che la sofferenza redentrice di un Dio re-dentore sfugga alle dimensioni di una mera naturalità della sof-ferenza. Rispetto alla presunta spiritualità del male, la sofferen-za viene talora intesa come natura. Non quella però della soffe-renza redentrice del Dio che redime il male, che si distingue-

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rebbe perciò da quella che è naturale per gli esseri umani, es-senzialmente non divini, come da quella dei tanti redentori e trickster semi-divini di cui è stata costellata la storia e la prei-

r-vasa la nostra coscienza e perfino il nostro inconscio, tutte le nostre fantasie più segrete e audaci.

unica via per accedere a Dio, potremmo con un certo sforzo anche crederlo; e tuttavia ciò sembra partire dal presupposto che solo se si vuole accedere a

presupposto completamente errato, poiché il male, oltre alla sof-ferenza che in questo non si differenzia radicalmente dal male stesso , in cui sussiste insieme a essa senza distinguersene radicalmente. Inol-tre, quando si afferma la sofferenza redentrice come tale che soprattutto nel caso della divinità si presenta quale aggravio del

, si lascia supporre che vi sia un parallelismo se non una equivalenza del male e della soffe-renza, anche se non un identico aggravio, almeno per quanto

ica che esiste anche una sofferenza redentrice -zione dostoevskiano-pareysoniana della colpa universale e del-

n-do. Questa sofferenza umana non sarebbe dunque semplice na-

u-dizio fideistico specificare che altre vie possibili verso la tra-scendenza finiscano per deformare in senso immanentistico la

male in ragione di una comprensione del divino stesso. In tal caso viene posto il primato della colpa religiosa, e in primo luo-go cristiana, nella concezione del male, il quale prima di essa non sarebbe altro che sofferenza. Questa non sarebbe male au-tentico se non da un punto di vista soggettivo, ossia individuale e personale. Tuttavia, né il male né la colpa sarebbero in realtà qualcosa di solamente spirituale o trascendente o innaturale, ma avrebbero in sé peculiari dimensioni di naturalità, già solo pen-

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sando banalmente che entrambi si verificano in natura (e, se no, dove?) facendo parte integrante degli eventi che accadono nel mondo. Ove -naccettabilità della sofferenza n-

, bisogna però premet-

sofferen z-zonte di finitezza radicale non giustifichi pienamente la resi-stenza nei suoi confronti, o presupponga il riferimento a una as-solutezza che si vorrebbe invece esplicitamente negare, anche questo è un pregiudizio che è determinato da un esplicito fidei-smo. Di una natura qual era in un presunto progetto di Dio, qua-le avrebbe appunto dovuto essere, possiamo solo fare supposi-zioni dettate da chiari pregiudizi, più o meno interessati, più o meno fideisticamente connotati. Neanche della natura qual è at-

n-ché, né possiamo sapere quale sia la distinzione tra queste im-magini della natura a prescindere dai pregiudizi e presupposti che possiamo averne.

Anche potrebbero manifestarsi molteplici riserve, poiché qui possiamo tutti sbizzarrirci fino a ritenere che Dio sia capace di realizzare

Ma il mondo è orrore tanto quanto amore. Il riferimento a un éschaton come a ciò che ri-

verrebbe confermato e sottratto al male tutto ciò che è stato prodotto dalla storia come degno di essere conservato, è un rife-rimento troppo interessato per non suscitare qualche dubbio o sospetto. Potremmo sempre chiederci che cosa sia degno di es-sere conservato e cosa non lo sia. Qui i pareri potrebbero essere completamente contrastanti. Ma già il semplice presupposto che si cela dietro quel dato riferimento, potrebbe suscitare altri dub-bi: quello della durata eterna della conservazione, nei secoli dei secoli, ossia nella serie infinita dei miliardi e miliardi di anni che durerà il nostro mondo e al di là di esso, nella serie dei mondi che potrebbero susseguirsi e durante i quali delle nostre

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miserabili esistenze dovrebbe conservarsi qualcosa degno di es-sere conservato. Per noi tutto potrebbe esserlo, almeno quello che ci appare decisivo per la definizione della nostra identità insostituibile nella storia del mondo. Ma credere che ciò avven-ga e che per lo meno qualcosa venga conservato nel per sempre

è presunzione di un essere che sa la morte e al contempo non fa altro tutta la vita che negarne il verdetto ultimo perché lo inten-de umana che il rifiuto di un tale verdetto, necessità infinitamente più potente di ogni nostra misera e insignificante quantunque finita e al con e grottesco di questo presupposto della conservazione infinita e

disposta a credere ciecamente nella sua inalienabile libertà al solo scopo di conservare di sé la propria identità personale, a

-terno. La risata cupa del signor Rooney in Tutti quelli che cado-no risuona qui sempre più alta. Proprio Spinoza potrebbe essere portato a testimone di questa insipienza o fiducia nel credere che dal riferimento alla nostra libertà possa risultare qualcosa di

possibilità di ac-cettare la finitezza radicale della vita, la sua dipendenza assoluta

agliano a credersi liberi; questa opinione è basata sul fatto che sono con-sci delle loro azioni, e ignari delle cause che li determinano. La loro idea di libertà, dunque, consiste sem -ranza delle cause delle loro azioni» (Ethica ordine geometrico demonstratapiù radicale di libertà, e non certo quella sug -logia della libertà che si fonda su un esplicito fideismo e su una potenza esplicativa della verità dai problematici presupposti.

finiti, da cui direttamente dipende, debba essere necessariamen-te pensato come Dio e come Dio personale in grado di redimere il male. Esso, col suo grande corpaccione, potrebbe starsene per

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conto suo completamente indifferente nei nostri confronti, ai quali è attribuito il compierlo o, come dice PareysonCosì che è irrilessere divino come sostanza creatrice e ordinatrice del mondo. Ma anche questa, che è una storia come molte altre sul nostro rapporto con la divinità, come ogni storia su Dio, non fa altro che esprimere il desiderio di una giustificazione per la nostra travagliata esistenza, il cui nucleo è una coscienza lacerata e di-visa, incerta sul senso o sul non senso della propria sostanza, e dunque alla ricerca di ricomposizione per tale incertezza radica-le, della cesura di cui è traccia tra sapere il finito e bisogno di infinito.

Il religioso è quindi un tema che si manifesta sottotraccia con una certa rilevanza negli autori che sono oggetto di studio nel voluo con esplicito sarcasmo e una certa blasfemia, soprattutto in Beckett ma anche in Dürrenmatt, o (in Pirandello) interpretan-

tradizionale di Dio. Molto del grottesco o del comico presente nelle loro opere si sviluppa in rapporto al religioso e al tragico. Questo vale però soprattutto per quanto concerne i primi due autori, mentre il ca manifesta un certo distacco e non si lega così strettamente al tema del reli-gioso, ma certamente al tragico. In Pirandello -me vedremo, si lega strettamente alla riflessione e viene legata al sentimento del contrario. Sentimento e riflessione si trove-rebbero perciò connessi in un unico movimento decisivo che

fferenziarsi dal comico inteso come sem-plice avvertimento del contrario rispetto al vero e proprio sen-timento del contrario. Nel comico, secnon sussiste quel riferimento alla riflessione determinante per la sua concezione del -tesco non comporta nelle sue opere, e soprattutto nello studio

iche che esplicitamente esso acquista nelle opere di Beckett e di Dürrenmatt. Vediamo come in lui esso si risolva in un concetto abbastanza debole, sebbene

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altà. Questa esplicita dimensione umoristica si applica a situa-zioni che sono perciò spesso descritte in maniera grottesca, tali da lasciar trasparire il grottesco delle realtà che delimitano.