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IL SALUTO DELLA CITTA’ DI ASSISI Claudio Ricci, Sindaco di Assisi Per me è un grande privilegio portare il saluto dell’amministrazione comunale della serafica città di Assisi. Saluto il presidente, il vicepresidente della Provincia di Perugia, i rappresentanti delle Istituzioni, e soprattutto mi auguro che le giornate che passerete ad Assisi siano per voi molto significative, in un luogo che - è stato citato - è ancora un cantiere. Io voglio esservi molto grato per il vostro lavoro, per la vostra missione generosa: per la missione generosa dei capisala, dei coordinatori infermieristici e di quanti sono al servizio di coloro che vedono in voi, in un momento complesso della loro vita, anche un punto di riferimento. La vostra è certamente una funzione tecnica, scientifica, ma credo che sia soprattutto una missione. Siete ospiti presso il teatro "Lyrick". Qui accanto avrete l’opportunità di visitare un altro cantiere, il nuovo pala-eventi , un’archeologia industriale "Nervi Morandi" in itinere di completamento, che ci permetterà nei prossimi 18 mesi di completare spazi per attività socio-culturali e incontri che raggiungeranno la estensione di circa 12.000 metri quadrati. Mi auguro anche che queste giornate siano per voi un’opportunità per apprezzare, con l'armonia del paesaggio, i numerosi restauri che abbiamo eseguito nell’ampio territorio di Assisi. Avete visto alcune fotografie che vi hanno accompagnato nell’attesa dell’avvio dei lavori. Al riguardo, vi lascio un numero: abbiamo realizzato dal 1997 ad oggi circa 4.000 interventi di restauro (opere di riqualificazione urbana): ecco, le "pietre vive" della città di Assisi (luogo di incontro, luogo del dialogo, luogo della reciproca comprensione) sono state così ampiamente qualificate. Assisi è un luogo dichiarato dall’UNESCO patrimonio di tutta l’umanità; è un luogo da cui si erge l’arte pittorica europea: Giotto, Simone Martini, Pietro Lorenzetti, Cavallini, Cimabue, che qui passarono dalla pittura bidimensionale bizantina a quella tridimensionale, alle attività tridimensionali prospettiche che nascono appunto con Giotto e con l’arte pittorica europea. E’ anche un luogo che si prepara a candidarsi a capitale europea della cultura per l’anno 2019, con la rete delle città dell’Umbria. Mi piace pensare che questa vostra attività sia anche un’opportunità per riflettere su quello che taluni chiamano un "nuovo umanesimo" e la capacità, con esso, di andare sempre più verso l’altro; la capacità, con esso, di perdere la nostra singolarità e concepire invece un po’ di più la nostra pluralità. Mi piace pensare che la vostra capacità di andare verso l’altro, perdendo la singolarità e vivendo la propria e la vostra esperienza professionale, in maniera corale e collettiva, sia un segno anche di quel "nuovo umanesimo" di cui si comincia a parlare.

IL SALUTO DELLA CITTA’ DI ASSISI · Saluto il presidente, il vicepresidente della Provincia di Perugia, i rappresentanti delle Istituzioni, e soprattutto mi auguro che le giornate

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IL SALUTO DELLA CITTA’ DI ASSISI

Claudio Ricci, Sindaco di Assisi

Per me è un grande privilegio portare il saluto dell’amministrazione comunale della

serafica città di Assisi. Saluto il presidente, il vicepresidente della Provincia di

Perugia, i rappresentanti delle Istituzioni, e soprattutto mi auguro che le giornate

che passerete ad Assisi siano per voi molto significative, in un luogo che - è stato

citato - è ancora un cantiere.

Io voglio esservi molto grato per il vostro lavoro, per la vostra missione generosa:

per la missione generosa dei capisala, dei coordinatori infermieristici e di quanti

sono al servizio di coloro che vedono in voi, in un momento complesso della loro

vita, anche un punto di riferimento.

La vostra è certamente una funzione tecnica, scientifica, ma credo che sia

soprattutto una missione.

Siete ospiti presso il teatro "Lyrick". Qui accanto avrete l’opportunità di visitare un

altro cantiere, il nuovo pala-eventi , un’archeologia industriale "Nervi Morandi" in

itinere di completamento, che ci permetterà nei prossimi 18 mesi di completare

spazi per attività socio-culturali e incontri che raggiungeranno la estensione di circa

12.000 metri quadrati.

Mi auguro anche che queste giornate siano per voi un’opportunità per apprezzare,

con l'armonia del paesaggio, i numerosi restauri che abbiamo eseguito nell’ampio

territorio di Assisi. Avete visto alcune fotografie che vi hanno accompagnato

nell’attesa dell’avvio dei lavori.

Al riguardo, vi lascio un numero: abbiamo realizzato dal 1997 ad oggi circa 4.000

interventi di restauro (opere di riqualificazione urbana): ecco, le "pietre vive" della

città di Assisi (luogo di incontro, luogo del dialogo, luogo della reciproca

comprensione) sono state così ampiamente qualificate.

Assisi è un luogo dichiarato dall’UNESCO patrimonio di tutta l’umanità; è un luogo

da cui si erge l’arte pittorica europea: Giotto, Simone Martini, Pietro Lorenzetti,

Cavallini, Cimabue, che qui passarono dalla pittura bidimensionale bizantina a quella

tridimensionale, alle attività tridimensionali prospettiche che nascono appunto con

Giotto e con l’arte pittorica europea. E’ anche un luogo che si prepara a candidarsi a

capitale europea della cultura per l’anno 2019, con la rete delle città dell’Umbria.

Mi piace pensare che questa vostra attività sia anche un’opportunità per riflettere

su quello che taluni chiamano un "nuovo umanesimo" e la capacità, con esso, di

andare sempre più verso l’altro; la capacità, con esso, di perdere la nostra

singolarità e concepire invece un po’ di più la nostra pluralità. Mi piace pensare che

la vostra capacità di andare verso l’altro, perdendo la singolarità e vivendo la propria

e la vostra esperienza professionale, in maniera corale e collettiva, sia un segno

anche di quel "nuovo umanesimo" di cui si comincia a parlare.

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Voglio concludere augurandovi buon lavoro, sottolineando che dovete avere

orgoglio per quello che fate ogni giorno.

Generosità è la parola con cui ho iniziato il mio discorso, però dovete anche essere

orgogliosi del vostro lavoro, dell’apporto fondamentale che mettete nella

edificazione della persona. E da questo punto di vista vorrei concludere con una

affermazione di Papa Francesco, che mi appare fortemente collegata alla vostra

missione, che, ripeto, è missione scientifica, è missione tecnica, ma rimane

comunque missione.

Quando Papa Francesco parla di "reciproca custodia", la sua mi sembra

un’affermazione che si possa pienamente collegare con le vostre attività.

Questa "reciproca custodia", il Pontefice la declina dicendo che "prima si è custodi di

se stessi, prima si cerca dentro di noi, prima si approfondiscono le tematiche

spirituali, etiche, scientifiche, tecniche dentro di noi, e poi, una volta pronti in

questo, ci si dedica alla seconda parte: "essere custodi degli altri in una forma

reciproca". Ed in fondo la sintesi delle giornate che affronterete è forse anche la

sintesi del vostro lavoro, della vostra missione: voi siete esempio, modello,

riferimento di questa "custodia reciproca", e io mi auguro che queste giornate siano

per voi utili ad accrescere questa missione di custodire voi stessi e gli altri.

=======================================

Società, cultura, transizione:

nuovi orizzonti

Lezione magistrale

Gianni Tognoni

Medico, filosofo, Direttore Consorzio “Mario Negri Sud

Premessa

Penso sia giusto partire come tutti hanno fatto fino adesso dal sottolineare le parole

che sono nel titolo di questo incontro: le competenze e le responsabilità. Vorrei

farlo, visto che tutto quello che so sul mondo infermieristico lo ho appreso

lavorando per ormai più di 30 anni con la Rivista dell’Infermiere prima, e poi con

AIR, facendo una citazione di qualcosa che verrà pubblicato nel prossimo numero:

un contributo che fa proprio il punto sulle competenze infermieristiche oggi

disponibili e mette in evidenza che c’è una dissociazione importante tra le

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competenze potenziali attraverso le conoscenze che si acquisiscono, e i compiti che

poi vengono affidati a queste competenze. In altre parole: c'è un ponte, o un

intreccio, o almeno una possibilità di fare delle competenze una risorsa-riserva di

responsabilità?

E' importante partire da questa dissociazione perché è il punto critico da tenere

presente per sapere se l' “e” può restare una normale congiunzione che descrive in

modo neutro, o se specificamente, mette in evidenza ciò che caratterizza oggi il

nostro vivere nella sanità e nella società, che sono in transizione (verso orizzonti

nuovi?). Noi viviamo di fatto, ed è importante non prescinderne, al di la delle

dichiarazioni, in un tempo di crisi. Questo dato, infinitamente ripetuto, provoca

quasi dappertutto un senso di sottomissione alla crisi, la crisi è qualcosa che viene

proclamata da tutte le parti e viene utilizzata per giustificare non importa che cosa,

soprattutto in Italia. Il rischio è che le competenze vengano schiacciate su una

interpretazione della responsabilità, che finisce per essere una responsabilità

semplicemente gestionale, che scaccia l’altra parola del titolo, la efficacia come

qualifica dell’assistenza. La "care" diventa una variabile dipendente dalle risorse, o

dagli equilibri gestionali. E’ un problema che viviamo come Paese, che ha sostituito

la costituzione con il "fiscal compact", che dice che la costituzione deve obbedire

alle ricette economiche europee. La riduzione a elementi strettamente economici

tocca il quotidiano di tutti, ma in maniera particolare, come sempre, le professioni

che più da vicino gestiscono il quotidiano e non c’è dubbio che la professione

infermieristica nella sanità, e perciò il ruolo e le responsabilità delle coordinatrici e

dei coordinatori, finiscono per essere un luogo molto specifico di dissociazione.

Che cosa fare quando si vive in un tempo di dissociazione? Evidentemente, e

facilmente, si può continuare a denunciarlo con l'ovvio rischio di assorbire tutta

l’attenzione rispetto al termine "alto" dei nuovi orizzonti che, in qualche modo

dovrebbero essere quello che determina l’investimento della responsabilità. Non si

può essere responsabili solo verso il passato, o verso qualcosa che è già un obbligo.

E non si può cambiare se il "prodotto" deve avere come misura il bilancio, che non è

un orizzonte né vecchio né nuovo, ma semplicemente una trappola che impedisce di

sviluppare qualsiasi idea.

Ora ho pensato di dare a questa mia presentazione (che è evidentemente più una

riflessione che una lezione magistrale) l'obiettivo di "interpretare" l' “e” che sta tra

competenza e responsabilità.

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La domanda è una domanda aperta, cioè una domanda di ricerca nel senso più

pieno del termine: è possibile oggi essere responsabili della cura e non soltanto dei

bilanci?. Se non si è responsabili di un progetto di nuovi orizzonti di cura,

evidentemente la possibilità di una "transizione verso" si spegne e diventiamo degli

"esecutori di " non importa che cosa.

Quadro di riferimento

Il percorso che propongo è quello di fare con voi un protocollo di ricerca. Come

sempre quando si fa un progetto, ci si guarda intorno domandandosi qual è la

bibliografia pertinente, la competenza che dobbiamo prendere come acquisita,

"normale", per sapere come partire verso nuovi orizzonti. La bibliografia può essere

ricondotta a 5 scenari, che sono esemplari della società e della cultura di oggi.

(Tabella 1). Il primo scenario è obbligatorio, non soltanto perché siamo in Italia, e

purtroppo sono continuate a morire e continuano a morire tante persone (che sono

fuori dai nostri ambiti di cura, ma sono degli "umani"). Lampedusa è l’esempio

perfetto di come si può avere una evidenza (noi tutti viviamo in tempi di evidenze!)

che diventa in effetti semplicemente la constatazione di qualcosa che non si può-

,non si vuole cambiare. Lampedusa pone in evidenza una dissociazione più

profonda: da una parte (nelle parole di un filosofo come Agamben) c'è la "nuda

vita": su cui non si può discutere: queste persone sono persone, al di là di tutte le

leggi, Bossi-Fini, Turco-Napolitano, di cui tutti chiacchierano: dall'altra c'è la sua

interpretazione istituzionale della vita reale e della sua dignità-diritto. Gli esempi di

come si può vivere questa dissociazione sono e possono essere molto diversi. La

donna sindaco che ha capovolto il suo ruolo istituzionale di essere custode e gestore

dell’ordine per essere qualcuna che rifiuta l’istituzione (vedi Unione Europea) che

viene a visitare per fare delle chiacchiere, consuma energie e non fa niente; Papa

Francesco che introduce un termine molto banale, ma strutturale, molto più di tanti

altri, che è l' affronto dell’"indifferenza", che è vivere in una situazione nella quale

tutte le proteste sulla dissociazione sono accolte con attenzione e dichiarazione di

interesse, ma sostanzialmente mascherare cosmeticamente l’indifferenza.

La seconda voce bibliografica importante, (per chi volesse poi approfondire questo

dibattito, che sta diventando di moda anche da noi, ma è dominante in tutta la

letteratura) riguarda la "scoperta" della importanza che la salute abbia diritto ad una

"copertura universale". L' "universal coverage" è diventato uno dei tanti acronimi

per "promettere di garantire", così da evitare di rispettare un diritto universale. La

"copertura" è un concetto strettamente assicurativo. Chi può avere risorse si

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assicura rispetto a quello che gli può succedere. La copertura universale come si

viene proponendo a livello internazionale e in Italia, mira a "scaricare" il più

possibile le responsabilità reali. Esempio: molti qui hanno parlato della cronicità. La

cronicità molto spesso è qualcosa che non passa per la sanità. La cronicità si traduce

per esempio negli anziani non autonomi, con problemi di memoria, nelle RSA. C’è

bisogno di una sanità o c’è bisogno di "una immaginazione di orizzonti", per

accogliere dal punto di vista culturale e organizzativo? Il coordinatore del rapporto

sui social determinants of health, Marmot, così come il rapporto di Oxfam sono

molto espliciti: tutti quelli che parlano di copertura universale stanno parlando di

discriminare i più poveri in favore di quelli che possono meglio assicurarsi perché

possono pagarsi le assicurazioni o i contributi privati che stanno diventando

dominanti. Può sembrare che questa sia una bibliografia estranea al ruolo della

professione infermieristica, ma è importante sapere che i nostri "sguardi" e le nostre

professioni possono e devono cambiare, se problemi che vengono affrontati come

se fossero bisogni sanitari sono di fatto dei diritti violati. Dare una medicina, magari

per la demenza, che non serve a niente è una presa in giro e un peggioramento del

grado di coscienza che si ha di quelli che sono i bisogni reali. Noi abbiamo un sistema

sanitario nazionale in cui la salute è un diritto e non è un prodotto di

un’assicurazione. Se ci si rassegna ad orizzonti che scompaiono, i "nuovi" orizzonti si

traducono in maggiore discriminazione per quelli che meno hanno risorse a livello

personale, e sappiamo che tutto questo è qualcosa che tocca la realtà di moltissime

famiglie. Basta vedere i tassi di povertà assoluta che l’OCSE e poi l’ISTAT hanno

documentato per sapere che dobbiamo incominciare a vedere tra quelli che

incrociamo nelle nostre pratiche, una patologia che si chiama povertà, che non è

una nuova-diversa "malattia": è un diritto violato, molto concreto, perché si traduce

in una disautonomia rispetto la vita.

La terza referenza bibliografica è pubblicata su una rivista importante, in una rubrica

che poche/i leggono, ed è già interessante per il suo nome, Offline: per fare

riflessioni che sembrano fuori campo, ma toccano problemi critici per quanto

riguarda competenze e responsabilità. E' lo stesso editore di Lancet che va "offline",

per raccontare il Rwanda come un "miracolo". Tutte/i abbiamo conosciuto, bene o

male, anche se la maggior parte di voi sono molto giovani, quanto è successo nel

Rwanda negli anni ’90: uno dei genocidi più tremendi, favorito dalla comunità

internazionale. Non è stato un gioco "tribale". I conflitti tribali erano molto sostenuti

da conflitti che erano dei paesi occidentali che poi sono intervenuti a giochi fatti:

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lasciando una società infinitamente "malata", con cifre epidemiologicamente

neppure narrabili in termini di morti, mutilati, traumatizzati. Il "miracolo del

Rwanda" è quello di una donna-ministro (che il "guardare verso orizzonti" sia una

"proprietà di genere"?) a cui è stato detto “ guarda le persone e non guardare al

bilancio”. E con un bilancio da Rwanda, che non è certo un bilancio a misura di

bisogni (e tanto meno di mercato, come i nostri), questa donna ha lanciato un

programma sanitario creativo, tutto in mano a infermiere e "promotrici di salute",

che ha investito sulle responsabilità sociali, che hanno prodotto in pochissimo

tempo (dopo un genocidio!) migliaia di persone capaci di farsi responsabili (in

assenza di, - e neppure in "transizione" verso - un "sistema sanitario") dei bisogni di

vita della popolazione. Offline breve. Vale la pena di leggerlo perché è un modo per

vedere che anche nei contesti più difficili come un genocidio è possibile avere nuovi

orizzonti. Ed è molto bello che tutto questo racconto-miracolo sia, come dalla

maggior parte dei Paesi a basse risorse, al femminile: noi che viviamo in un paese in

cui si è pensato di includere la legge sul femminicidio in un "pacchetto di sicurezza".

La quarta referenza è più "atipica", ma centrale. Il riferimento è l' iniziativa

promossa da un gruppo fuori dalle linee politiche e non per formare altri partiti con

giuristi-costituzionalisti (Carlassare, Rodotà, Zagrebelsky), sindacato (Landini), i

comuni liberati dalle mafie (Libera, Don Ciotti). Obiettivo: rigettare la dissociazione

tra Costituzione e vita reale del Paese; e tra la inviolabilità del diritto alla dignità-

uguaglianza, e la arrogante promozione, in nome della finanza, e al riparo da ogni

sanzione, della intoccabilità e della infinita cumulabilità della proprietà privata.

In Piazza del Popolo c’erano 150.000 persone venute un po’ da tutte le parti con un

grande senso di festa e di futuro. E sembrava "normale" ascoltare e credere, la

Carlassare che diceva che: evidentemente è incostituzionale (cioè illegittimo, e

rende , invalide le decisioni "politiche") spendere per la guerra e tagliare per la

sanità. Per dare l’idea che il problema che si pone è molto simile a quello della sanità

di tutti i giorni: investire nelle cure acute, ma senza misurare quali sono i risultati, e

senza nemmeno "pensare" a quali sono invece i risultati dell’abbandono alla/nella

cronicità. La logica della "dissociazione" non si smente.

L’ultima citazione ha come autore il direttore per tanti anni del NICE inglese.

Lasciando la sua carica (centrale nella pianificazione sanitaria del Paese per più di 15

anni) ha pensato di fare un editoriale molto simpatico come anche stile letterario.

Dice in sintesi: si chiede ai funzionari di fare bilanci nella forma e con la finalità di

rapporti tecnici: io so che i rapporti tecnici diventano confidenziali e nessuno ne

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parla. Ho pensato di fare una lettera aperta, che è proprietà-responsabilità di

tutte/i. Il NICE rappresenta l’eccellenza in Inghilterra, quello che da le linee guida,

che sono una cosa molto bella: ma solo se sono un punto di partenza: se sono un

punto d’arrivo sono morte. Il punto critico non è l'applicare in maniera molto

obbediente le linee guida, ma di aprire orizzonti alle linee guida. Se le linee guida per

l’ipertensione o per qualsiasi cosa dicono che bisogna trattare i pazienti con

ipertensione, il problema è che non c’è la capacità di seguire cronicamente i

pazienti: ed "adottare" quelli più a rischio, di marginalità, che sono anche più esposti

ai rischi-danni vascolari. Il problema non è più l’ipertensione, il problema è seguire i

pazienti. E dico l’ipertensione per parlare dello scompenso, dell’oncologia, dei malati

terminali, delle malattie mentali. Le linee guida sono la competenza da cui partire

per assumersi responsabilità.

Parole-chiave

E' tempo di passare alla Tabella 2, per sintetizzare, e fare cammino.

Una memoria forte della salute come diritto, non come assicurazione; come

attenzione a quelli che meno hanno salute, non a quelli che possono avere più

risorse e tecnologie. Per trovare nuovi orizzonti le linee guida devono essere

sperimentate, essere progetto di ricerca. In tempi di dissociazione si deve essere

coscienti che la priorità è quella di ritrovare la centralità del chiamare le cose con il

loro nome: la responsabilità si esprime nell’identificare i bisogni inevasi, che non

sono soltanto né principalmente carenze gestionali: è la "cultura della salute – come

– diritto" quella più a rischio di essere classificata come in-appropriata; in-attuale;

in-sostenibile.

Dai [più o meno tanti] "progetti di ricerca", ad una identità di ricerca di senso in

tempi di dissociazione

Per questa ricerca di senso, c'è bisogno di un tempo che è definito nel modo più

preciso nelle due parole usate da San Paolo per parlare del rapporto tra speranza e

storia: è il tempo della "paziente impazienza".

Il richiamo non è "teologico" né "religioso". La definizione della lettera di San Paolo

ai Tessalonicesi è stata punto di riferimento per tanti gruppi/popoli che, in tempi di

"crisi" e di non-speranza hanno deciso di "sperimentarsi" nella storia, facendo della

propria identità un lungo impaziente-paziente progetto di ricerca. E' possibile-

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sostenibile-condivisibile una paziente ↔ impazienza come quadro di riferimento

progettuale – di competenze responsabili – da parte di coordinatrici/ori?

Proviamo allora, rapidamente, con la Tabella 3 a immaginare o a rileggere (perché

sono cose che già sapete) come tradurre le parole appena commentate nella realtà

di operatrici e operatori di sanità e di cittadinanza. Con l'ipotesi, se non la

convinzione, che non si è operatori o operatrici di cittadinanza oggi non si è

operatori di salute, perché la salute oggi è una variabile dipendente da altre

variabili.

Gli scenari proposti nella Tabella 3 non dovrebbero a questo punto aver bisogno di

commenti specifici. Vale la antica regola: "i cammini si devono fare camminando". E

l'altra ancora che ricorda che la ricerca di identità non è fatta da "professioniste/i" di

progetti di ricerca, ma da persone coscienti che per orizzonti di diritto-salute- che

interessano non solo individui, ma collettività - uno dei criteri per produrre

conoscenze fruibili in modo efficiente, efficace, appropriato, è quello di lavorare in

reti che hanno porte e finestre aperte con libertà e curiosità verso le culture

complementari a quelle sanitarie. Di tutto questo AIR ha parlato e parla, ormai da

anni, in tanti modi (e forse posso rimandare, per non annoiare-ripetermi qui, anche

all'uno o all'altro dei miei contributi). Gli "orizzonti" elencati nella Tabella 3 sono

peraltro solo esempi in un certo senso ovvi, anche se nella realtà possono apparire

provocatori, o astratti, irrealistici. Se anche soltanto una "frazione" delle persone

presenti ad Assisi (con i loro contesti di lavoro) si articolassero in reti

("specializzate", in ognuno dei loro settori, in competenza ↔ responsabilità) la

presente "impazienza" potrebbe essere positivamente sperimentata in tanti campi.

In questa direzione due ultimi rimandi sono utili per concludere. Il primo coincide

con l'ultima citazione (di una giornalista competente ↔ responsabile di ricerca di

senso) della Tabella 3: da recuperare, in un modo o nell'altro: per il linguaggio che si

esplicita e sperimenta rapporti di dialettica reale tra culture, mondi, interessi che –

in tempi di crisi – "fingono" di contrapporsi (quello della politica, dell'economia,

della sicurezza, ...) per camminare invece, con larghe intese, verso orizzonti dove la

diseguaglianza e la marginalizzazione sono obiettivi da consolidare e non "patologie"

(che diventano anche strettamente sanitarie) da prevenire ed evitare.

Sperimentare linguaggi di cittadinanza da condividere è, tra le altre, una delle sfide

(tra le più interessanti ed arricchenti) per una professione come quella

infermieristica che vorrebbe-dovrebbe essere nella società anche esperta di

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"narrare la vita", al di là di essere tecnicamente strumento di gestione delle

malattie.

Il secondo rimando è un'ultima piccola serie di citazioni (Tabella 4): nessuna di esse

è scientifico-sanitaria: tutte sono tuttavia strettamente pertinenti per il "protocollo

di ricerca" che questa riflessione ha proposto come interpretazione del titolo

assegnatomi. Proviamo a farne una lettura complessiva: per essere figlie/figli, lungo

i tanti e tanto diversi giorni del tempo che si vive (Eduardo Galeano è un autore da

raccomandare per tutte/i coloro che vogliono "vedere il mondo dall'altra parte") e

che da ogni parte si diagnostica in crisi, è bene avere occhi e orecchie attente a

quanto succede nella storia, globale e quotidiana, di oggi e di ieri: Steinbeck (figlio

della "storica" crisi americana degli anni '30 lo dice molto bene); e per confermare

questo bisogno, non c'è autore più importante, nella crisi di oggi, del Fondo

Monetario Internazionale (FMI) che dalle pagine di una delle riviste più "scientifiche"

che producono le "evidenze" che spingono per una" transizione" da un mondo delle

persone ad un mondo delle cose: parlando di uno dei Paesi che più ci assomiglia (per

storia-cultura antica e per la crisi attuale), il FMI confessa che le sue ricette e le sue

linee guida (... il linguaggio ci è familiare) per la Grecia erano una medicina inutile,

inappropriata, falsificata, prodotta da conflitti di interesse di economisti-politici che

considerano le persone ed i popoli variabili dipendenti dalle banche. E la direttrice

del fondo - Lagarde, in evidente controtendenza con il "femminile" ricordato sopra –

assicurava che tutto ciò, purtroppo, era vero, e che, pur non essendo lei

"comunista", aveva prodotto come effetti collaterali, diseguaglianza e sofferenze,

anche gravi.

Guardando avanti

Con un grazie per la pazienza, e l'augurio di vivere la "transizione" come tempo ed

opportunità di sperimentare - collegialmente, come una esperienza di rigore

metodologico al servizio di una grande libertà di ricerca – identità e ruoli

professionali a misura dei tempi che si vivono.

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Tabella 1

Tabella 2

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Tabella 3

Tabella 4

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L’efficacia assistenziale:

Concetto, aspetti e fattori organizzativi

Palese Alvisa Professore Associato di Scienze infermieristiche Università degli Studi di Udine

Grazie molte, è molto bello, emozionante essere qui davanti a voi. Ringrazio molto la

Presidente per avermi invitato anche quest’anno a condividere alcune riflessioni sullo

sviluppo dell’infermieristica nel suo complesso con una relazione di apertura che

dovrebbe creare le basi per le riflessioni più importanti che saranno condotte dai

colleghi che mi seguiranno e con cui vi sarà l’opportunità di riflettere sul terreno della

pratica. L’agenda che mi sono posta comprende alcuni punti che fanno riferimento alla

letteratura internazionale con progressivo riferimento alla ricca letteratura che via via

stiamo costruendo nel contesto italiano. I tre punti fondamentali riguarderanno:

a) Poiché la mattinata è concentrata sull’efficacia delle cure infermieristiche e sulla

capacità dei coordinatori di promuovere cure efficaci, ho ritenuto importante aprire

la relazione offrendo una sintesi su che cosa si intende oggi per cure ‘efficaci’ dal

punto di vista infermieristico, e che cosa invece si riteneva fossero fino a pochi anni

fa; con particolare riferimento a quali sono i ‘nuovi esiti’ che stanno emergendo di

cui progressivamente dovremmo sviluppare consapevolezza.

b) Con uno sguardo dalla vostra prospettiva di Coordinatori, più organizzativa, riflette-

remo sui meccanismi organizzativi di coordinamento che possono promuovere

l’efficacia delle cure; anche in questo caso riferimento ai meccanismi che determi-

nano le cure efficaci più noti, e quelli meno noti che stanno emergendo.

c) Infine, l’ultimo punto per aprire le esperienze pratiche che saranno molto ricche, e

che vi saranno riferite successivamente da cinque colleghi, quali sono invece i mec-

canismi che la letteratura sta iniziando a documentare e che sembrano molto po-

tenti nel potenziare l’efficacia delle cure infermieristiche, oppure, a inibirle.

Quando si parla di ‘cure efficaci’ e di una ‘infermieristica efficace’, si riflette sulla

relazione esistente tra le cure erogate dagli infermieri e gli esiti sui pazienti. Si tratta di

una riflessione che dal punto di vista della ricerca nasce formalmente alla fine degli

anni novanta negli USA con il contributo di Università che hanno iniziato ad affermare

che gli infermieri, quantitativamente e qualitativamente, possono fare la differenza sui

pazienti. Questo dibattito, ha nel tempo investito anche l’Europa e l’Italia.

Oggi si assume che l’infermieristica è efficace quando ha un effetto sul paziente e

quando quell’effetto è in qualche modo misurabile: ovvero, quando è possibile

osservare un cambiamento nello stato di salute del paziente/famiglia, nella sua

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percezione delle cure e/o della salute, nella sua soddisfazione. Alcuni autori

definiscono gli esiti come ‘sensibili’ alle cure infermieristiche, altri come ‘attribuibili’

alle cure infermieristiche. La sintesi più attuale afferma gli uni e gli altri, dipendono dal

contesto, dalle competenze e dal team che vi lavora, gli stessi esiti possono essere

‘sensibili’ in alcuni setting, e attribuibili in altri.

Il dibattito scientifico che si è nel tempo sviluppato è determinante per l’infermieristica

e il suo sviluppo. L’infermieristica è progressivamente uscita dall’intangibilità,

un’intangibilità che tanto pesato e pesa ancora sul ruolo del coordinatore, dalla

negoziazione delle risorse (‘perché dovrebbero esserci più infermieri?) allo sviluppo

delle competenze (‘perché li vorremmo più preparati?’) sono solo alcuni esempi.

Sino ad oggi gli esiti erano molto ben classificati. Alcuni autori indicavano solo (o

prevalentemente) esiti di sicurezza. In base alla loro prospettiva, gli infermieri

facevano e fannola differenza sull’incidenza di lesioni da decubito, delle infezione da

device piuttosto che delle cadute, della malnutrizione, della disidratazione, negli errori

di terapia, nel mancato riconoscimento del deterioramento clinico del paziente

quando ad esempio i giri di sorveglianza non sono accurati, attenti, e frequenti. Questi

erano i primi esiti comparsi in letteratura. Tuttavia, secondo alcuni autori,

rappresentano ‘poco’ il focus dell’infermieristica: senza dubbio gli infermieri sono

determinanti sulla sicurezza dei pazienti ma vi sono altri esiti più vicini, che

intercettano maggiormente il il core disciplinare. Si è fatta largo verso il 2005, un’altra

idea di esito che ha a che fare proprio con lo scopo della pratica infermieristica. Gli

infermieri possono fare la differenza sul comfort del paziente, nell’acquisizione o nella

perdita delle attività di vita quotidiane, nella capacità di sviluppare adattamento alla

malattia, ma anche nella sua capacità di autogestire device, presidi, terapie o

problemi/sintomi. A reagire contro coloro che ritenevano (e ritengono) questi esiti non

in grado di modificare la traiettoria di malattia di un paziente, è nel tempo emerso e si

è affermato il concetto di esiti secondari. Cadute, infezioni, lesioni, possono generare

effetti molto più importanti sul paziente quali l’aumento della durata della degenza, la

mortalità, ma anche effetti sulla qualità di vita, sulla riduzione dell’istituzionalizzazione

o riammissioni ospedaliere, sull’autonomia nella gestione del problema di salute.

Questo era il framework di riferimento sino al 2008 quando Griffith ha introdotto un

nuovo concetto/dimensione ovvero quello delle compassionate care che non può

essere tradotto in italiano con cure compassionevoli perché non lo rappresenta; si

tratta di una dimensione ancora più intangibile che però è in grado di fare la differenza

sui pazienti. Quando un paziente ‘sente’ che gli infermieri sono capaci di fare advocacy,

di entrare in modo dettagliato, di personalizzare le cure, di fare in modo che il ‘sistema

si adatti’ e non che ‘il paziente si adatti’; quando sono in grado di avere una

progettualità specifica per lui, di offrire qualcosa a volte immisurabile se non nella

percezione dei pazienti, questo rappresenta secondo l’autore la terza dimensione più

importante dell’infermieristica rispetto alla quale non abbiamo al momento strumenti

di misura.

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Pertanto, sino ad ora abbiamo avuto una struttura abbastanza chiara: esiti di sicurezza,

esiti di efficacia, compassionate care. Attorno a quest’ultimo nucleo, anche in Italia si è

attivato il dibattito perchè costituisce una dimensione difficile da assicurare: Alifax

afferma nel 2011, che le cure compassionate non costituiscono un lusso, ma

semplicemente la strategia per aiutarli a sopravvivere rispondendo ad uno dei bisogni

più profondi dell’umanità.

Quali sono i determinanti organizzativi delle cure efficaci? Sono ad oggi disponibili

molte teorie: dal 2010 sono disponibili anche prospettive italiane che completano il

quadro e comunicano la specificità del nostro contesto. Senza dubbio la letteratura

afferma che gli esiti sono determinati principalmente da due fattori organizzativi:

laddove vi è una grande tensione, penso soprattutto al Paese in questo momento, tra

bisogno di assistenza e quantità di cure erogabili sulla base delle risorse, non c’è

dubbio che bisogna fare delle scelte. In questi contesti è molto più probabile che gli

infermieri clinici ma tutto il sistema, violi le buone pratiche e incorra in lesioni da

decubito, cadute ed altri esiti negativi. Questi esiti non appartengono al singolo

infermiere, ma trovano in una responsabilità più generale di sistema, la loro origine.

Diversamente, l’efficacia non è raggiunta solo con la quantità di risorse. Anche qualora

avessimo la quantità giusta di risorse per le cure dei pazienti, non necessariamente gli

esiti di efficacia sarebbero perseguibili. Quando gli infermieri non hanno la tensione di

ruolo, non riescono a focalizzare la loro tensione sugli esiti di efficacia. Garantiranno la

sicurezza dei pazienti, ma quando hanno un attimo non andranno ad educare, a

sviluppare l’autonomia, a promuovere il self-care. Su questa seconda dimensione che è

diventata più chiara intorno al 2005, le cure infermieristiche possono essere efficaci

non solo se è disponibile la quantità ‘giusta’ di infermieri ben preparati sulle buone

pratiche, sull’evidenzia o altro, ma soprattutto se abbiamo infermieri che hanno una

forte identità.

Abbiamo creduto con forza che ciascun infermiere clinico dovesse avere delle

competenze organizzative per individuare le priorità per gestire l’assistenza in un

gruppo di pazienti; abbiamo creduto e siamo ancora convinti che gli infermieri

debbano avere competenze cliniche crescenti, perché senza competenza clinica, non è

possibile dare una risposta ai problemi; abbiamo creduto e siamo ancora convinti, che

per essere molto efficaci nelle cure, bisogna togliere lo sguardo sempre e solo

dall’infermieristica, ma iniziare ad aprirci alla collaborazione, ad altri ruoli, non solo

ovviamente l’area medica ma anche ad altre professioni delle lauree sanitarie.

Di che cosa avremo bisogno per il futuro? E su che cosa la letteratura ci sta in qualche

modo sollecitando? Infermieri lasciati in un ambiente che poco aiuta a rimanere

focalizzati sulla clinica, sono infermieri che non riescono a essere efficaci. Abbiamo

bisogno di ambienti di pratica infermieristica che assicurano il massimo affinché gli

infermieri possano esprimersi. Quando teorizzammo questo concetto alcuni anni fa,

pensavamo ad alcuni fattori, non solo alla logistica e alle risorse, al fatto che un

coordinatore, un responsabile di dipartimento o d’altro fossero riconosciuti a livello di

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sistema; non pensavamo solamente alla quantità degli infermieri e ai loro carichi di

lavoro; ma anche alla loro formazione, differenziazione e alla possibilità di essere

supervisionati; pensavamo anche al giusto equilibrio tra operatori di supporto ed

infermieri. Non da ultimo, anche la possibilità di lavorare in integrazione con altri

operatori costituiva un elemento importante.

Questi ingredienti sono importanti. Tuttavia, rischiano di non avere successo se non c’è

qualcosa in più; se non c’è quell’orizzonte culturale afferma Cumings, dove vi è una

profonda identità sull’assistenza infermieristica, gli infermieri e i loro coordinatori sono

profondamente convinti della ragione del loro esistere, e si aprono anche ad altre

discipline. Contesti in cui la leadership aiuta gli infermieri a tenere costantemente il

focus sui pazienti, ad avere tempo per i pazienti; ad avere il controllo della propria

pratica, a crescere progressivamente.

Siamo partiti da un modello molto semplice, pensavamo bastasse una quantità

adeguata di infermieri per avere esiti eccellenti sui pazienti Oggi ambienti e leadership

generativa e trasformativa in grado di orientare e sostenere gli infermieri nel saturare

tutti gli esiti, è ciò di cui abbiamo bisogno. Per tutti i pazienti. Grazie.