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Revista Estudios, (32), I-2016. ISSN 1659-3316 La Revista Estudios es editada por la Universidad de Costa Rica y se distribuye bajo una Licencia Creative Commons Atribución-NoComercial-CompartirIgual 3.0 Costa Rica. Para más información envíe un mensaje a [email protected]. 1 Dossier Entre Asia, América y Europa: ¿los misioneros cristianos como intelectuales interculturales? Il ruolo delle “università” nella strategia missionaria di Francesco Saverio per il Giappone Linda Zampol D’Ortia Universidad de Otago (Nueva Zelanda) [email protected] ; [email protected] Recibido: 28 de abril de 2016 Aceptado: 15 de mayo de 2016 Riassunto: Già nelle sue prime descrizioni del Giappone, il missionario gesuita Francesco Saverio pose l’attenzione su certe istituzioni che egli identificava come “università,e che gli era stato impossibile trovare in India. Con questo termine egli voleva indicare in realtà strutture di vario genere, che andavano dai templi Zen della capital Miyako, ai grandi complessi monastici dei monti Hiei o Kōya, fino alla famosa accademia confuciana di Ashikaga, nel nord del paese. Dal punto di vista di Saverio, la caratteristica saliente ed unificante di queste università era che avrebbero potuto garantire status ed autorità alla religione cristiana, nel paese politicamente frammentato dalle guerre civili, se i gesuiti avessero potuto sostenere delle dispute e convertire i loro studenti. Nelle sue intenzioni dunque, il Giappone avrebbe dovuto essere evangelizzato da un gruppo di gesuiti scelti, istruiti nella lingua e nelle dottrine locali allo scopo di dimostrarsi l’esistenza di Dio ai letterati nipponici. Parole chiave Università; Francesco Saverio; missioni; Giappone; buddhismo; relazioni interreligiose The role of “universities” in Francis Xavier’s missionary strategy for Japan

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Dossier

Entre Asia, América y Europa: ¿los misioneros cristianos como

intelectuales interculturales?

Il ruolo delle “università” nella strategia missionaria di Francesco Saverio per il Giappone

Linda Zampol D’Ortia

Universidad de Otago (Nueva Zelanda) [email protected] ; [email protected]

Recibido: 28 de abril de 2016 Aceptado: 15 de mayo de 2016 Riassunto: Già nelle sue prime descrizioni del Giappone, il missionario gesuita Francesco Saverio pose l’attenzione su certe istituzioni che egli identificava come “università,” e che gli era stato impossibile trovare in India. Con questo termine egli voleva indicare in realtà strutture di vario genere, che andavano dai templi Zen della capital Miyako, ai grandi complessi monastici dei monti Hiei o Kōya, fino alla famosa accademia confuciana di Ashikaga, nel nord del paese. Dal punto di vista di Saverio, la caratteristica saliente ed unificante di queste università era che avrebbero potuto garantire status ed autorità alla religione cristiana, nel paese politicamente frammentato dalle guerre civili, se i gesuiti avessero potuto sostenere delle dispute e convertire i loro studenti. Nelle sue intenzioni dunque, il Giappone avrebbe dovuto essere evangelizzato da un gruppo di gesuiti scelti, istruiti nella lingua e nelle dottrine locali allo scopo di dimostrarsi l’esistenza di Dio ai letterati nipponici.

Parole chiave Università; Francesco Saverio; missioni; Giappone; buddhismo; relazioni interreligiose

The role of “universities” in Francis Xavier’s missionary strategy for Japan

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Abstract: In his first descriptions of Japan, Jesuit missionary Francis Xavier

highlighted the existence of some institutions that he had identified as “universities,” which he had not been able to find in India. With this word, he actually meant different kinds of organizations, such as the Zen temples of the capital city, Miyako; or the great monastic complexes of mounts Hiei and Kōya; or the famous Confucian academy of Ashikaga, in the north of the country. From Xavier’s point of view, the most important and unifying characteristic of these universities was their ability to grant authority to Christian teachings. In a country politically fragmented by civil war, the Jesuit missionaries could gain status by debating with these institutions’ students, and converting them. In Xavier’s plans, therefore, Japan should have been evangelized by a team of selected missionaries, who had studied the local language and doctrines, and could prove the existence of God to the Japanese scholars. Keywords

Universities; Francis Xavier; missions; Japan; Buddhism; interreligious relations El papel de las “universidades en la estrategia misionera de Francisco Javier en el Japón Resumen: En sus primeras descripciones de Japón, el misionero jesuita

Francisco Javier puso de relieve la existencia de algunas instituciones que identificó como "universidades", y que no había sido capaz de encontrar en la India. Con esta palabra, en realidad quería indicar diferentes tipos de organizaciones, desde los templos Zen de la capital, Miyako, a los grandes complejos monásticos de los montes Hiei y Kōya, o la famosa academia confuciana de Ashikaga, en el norte del país. Desde el punto de vista de Javier, la característica más importante y unificadora de estas universidades era su capacidad para dar autoridad a las enseñanzas cristianas. En un país políticamente fragmentado por la guerra civil, los misioneros jesuitas podían ganar estatus debatiendo con los estudiantes de estas instituciones y convirtiéndolos al cristianismo. En los planes de Javier, por tanto, Japón debería haber sido evangelizado por un grupo de misioneros selectos, que hubieran estudiado la lengua y las doctrinas del lugar y que pudieran probar la existencia de Dios a los letrados japoneses. Palabras clave

Universidad; Francisco Javier; misiones; Japón; Budismo; relaciones interreligiosas

Introduzione Nelle ultime lettere scritte dal missionario gesuita Francesco Saverio

(1506-52) prima di morire saltano agli occhi in maniera particolare le righe

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dedicate alla nascente missione giapponese. Pur impegnato a guardare oltre,

verso la Cina, il missionario spese non poco tempo a pianificare il futuro di

quello che era considerato il fiore all’occhiello dell’impresa gesuita in Asia1. Il

suo piano, il cui obiettivo ultimo era la sconfitta della forma che il diavolo

aveva assunto in Giappone e la conversione del paese, si basava sulla

necessità di raccogliere informazioni sulle credenze locali, similmente a come

egli aveva operato in India. Le sue intenzioni erano delineate succintamente

in una lettera del 29 gennaio 1552, inviata da Kochi (oggi in Kerala, India) al

generale della Compagnia di Gesù, Ignazio Loyola:

La necessidad que ay para mandar padres de la Compañía a las universidades de Japón es porque los seculares se desculpan de sus yerros deziendo que tanbién ellos tienen sus estudios y letrados. Y los que fueren an de ser muy persiguidos, porque an de ir contra todas sus sectas y anse de manifestar al mundo, y declarar cómo son enganossos los modos y maneras que tienen los bonzos para sacar dinero de los seculares (Ruiz de Medina, 1990, p. 320).

Saverio parlava esplicitamente della “necessità” di visitare le cosiddette

“università” giapponesi, luogo privilegiato di preparazione del clero (bonzos) di

tutte le scuole buddhiste (sectas) del paese e di insegnamento dei loro

fondamenti religiosi (yerros). Egli pianificava un attacco diretto a quello che

veniva identificato come il cuore filosofico-religioso (estudios) del Giappone.

Si trattava di una strategia nuova, non precedentemente tentata nelle imprese

asiatiche di Saverio, il quale non era mai riuscito ad identificare un bersaglio

altrettanto chiaro. Era anche un’idea a cui il missionario era molto legato, che

ritorna sistematicamente nella sua corrispondenza di questo periodo.

Il presente articolo considererà lo sviluppo e i mutamenti della

posizione delle cosiddette università giapponesi nella strategia missionaria di

Francesco Saverio, dedicando particolare attenzione all’idea che esse fossero

il luogo privilegiato per l’acquisizione di autorità nel paese, tramite il confronto

e la confutazione delle credenze locali. Inizialmente, si prenderanno in

considerazione le informazioni raccolte dai missionari prima di recarsi in

Giappone, sulla base delle quali Saverio stese una prima bozza di piano

1 Per un’introduzione alla storia dei gesuiti in Giappone, vedi per esempio Bourdon (1993), Ross (1994) e, in lingua italiana, Boscaro (2008).

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missionario. Si considererà quindi la sua opera di evangelizzazione nel

subcontinente indiano, per contestualizzare le principali questioni che egli si

trovò ad affrontare e l’influenza che esse ebbero sulle sue aspettative

riguardanti il Giappone. L’articolo ricostruirà quindi il suo primo impatto con il

paese e la visione saveriana sulle sue potenzialità come terra

d’evangelizzazione. In conclusione, si analizzeranno le missive scritte dopo la

partenza dall’arcipelago, dove Saverio delinò la sua opinione definitiva sulla

migliore strategia da seguire per convertirlo.

Il Giappone visto dall’India Il Giappone non era completamente sconosciuto ai missionari gesuiti, prima

dell’arrivo di Saverio nell’arcipelago. La decisione di recarvisi di persona

venne presa solo dopo anni di predicazione, con limitato successo, in India e

nel sud-est asiatico 2 , quando il missionario conobbe, a Malacca, un

giapponese di nome Anjirō. Convertitosi al cristianesimo e battezzatosi a Goa,

Anjirō descrisse con minuzia il suo paese ai gesuiti: gli usi, i costumi, le

diverse pratiche e credenze religiose 3. Basandosi su queste informazioni, il

rettore del collegio di San Paolo di Goa, Nicolao Lancillotto, compilò due

informative inviate in Europa (Ruiz de Medina, 1990, p. 25)4. Anjirō, come

scrisse Saverio ai gesuiti a Roma il 20 gennaio 1548, gli spiegò che i

giapponesi

no se harían christianos luego, diziéndome que primero me farían muchas perguntas y verían lo que les respondía y lo que yo entendía, y sobre todo si vivía conforme a lo que hablava. Y si hiziesse dos cosas, hablar bien y

2 Lo studio più dettagliato sulla vita di Francesco Saverio rimane quello di Georg Schurhammer (1973). 3 Laddove la descrizione di Anjirō era sicuramente dettagliata, le incomprensioni linguistiche da entrambe le parti non aiutarono la comunicazione (App, 2012, p. 13). 4 Saverio spiegò perché avesse deciso di andare in Giappone in una sua lettera, ai gesuiti in Europa, del 22 giugno 1549: “Muito tempo estive, depois de ter informação de Japão, se hiria lá ou não, pera me determinar. E depois que Deus nosso Senhor quis dar-me a sentir dentro em minha alma ser elle servido de hir a Japão, pera naquellas partes o server, parece-me que se o deixara de fazer fora pior fo que são os infieis de [122] Japão” (Ruiz de Medina, 1990, pp. 121–2).

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satisfazer a sus perguntas y bivir sin que me hallassen en qué me reprehender, que en medio año, después que tuviessen experiencia de mí, el rey y la gente noble y toda la otra gente de descrición se harían christianos, diziendo que ellos no son gentes que se rigen sino por razón (Ruiz de Medina, 1990, p. 28). Anche i mercanti portoghesi che avevano visitato l’arcipelago gli

testimoniarono che avrebbe potuto essere un ottimo terreno per la

predicazione (Ruiz de Medina, 1990, p. 29). La speranza di Saverio era che i

giapponesi si dimostrassero simili ad Anjirō per curiosità e sete di sapere,

principalmente nei confronti della religione cristiana; nella sua interpretazione,

infatti, queste due caratteristiche spingevano naturalmente alla conversione5.

C’era inoltre nei missionari gesuiti dell’epoca primo moderna,

un’aspettativa di incontrare pervasivi residui del cristianesimo in ogni cultura

con cui venissero in contatto: quest’idea derivava dalla visione del mondo

patristica, secondo la quale Dio aveva impiantato i semi della vera religione

nel cuore di ogni essere umano, ed era stata consolidata dalla credenza che

tutti i popoli del mondo discendessero comunque dai figli di Noè e, di

conseguenza, avessero avuto conoscenza di Dio (Gelders &

Balagangadhara, 2011, pp. 109–13; Mitter, 1992, pp. 9–10)6. Le speranze

europee di trovare altre comunità cristiane o ebree in Asia erano state

alimentate anche dall’incontro con i cosiddetti cristiani di San Tommaso in

India7.

La presunta inclinazione verso il cristianesimo dei giapponesi assume

un’importanza maggiore nel momento in cui si consideri il contesto nel quale i

gesuiti si misuravano con essa. Saverio infatti la reputava un tratto non

comune fra gli abitanti del sub-continente indiano, con cui aveva avuto a che

fare. Egli era ormai insoddisfatto della propria attività e desiderava migliori

5 “[Anjirō] es hombre muy desseoso de saber, que es señal de un hombre se aprovechar mucho y de venir en poco tiempo en conoscimiento de la verdad” (Ruiz de Medina, 1990, p. 27). Cfr. Proust (1997, p. 35). 6 Cosme de Torres e Juan Fernández stessi spiegheranno questa idea ai buddhisti giapponesi nel 1551: “Respondímosle que la ley de Dios desde el comienço del mundo fasta agora, en todas partes fue declarada en los entendimientos de los hombres” (Ruiz de Medina, 1990, p. 255). 7 Cfr. Aranha (2006).

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terreni di missionariato e non era la prima volta che questo accadeva. Qui si

manifestava infatti la sua tendenza a non lasciarsi ingabbiare nemmeno dalle

strutture che egli stesso fondava: ciò finiva per metterlo in un “perpetuo stato

di transizione” che lo spingeva verso luoghi che egli considerava migliori,

impulso che sarebbe riemerso anche in Giappone, un paio di anni dopo8. E’

indicativo a questo proposito il seguente passaggio del 1549, inviato a Ignazio

Loyola:

Et vedendo la disposition dell’indii di queste bande, quali per suoi grandi peccati non sono niente inchinati alle cose della nostra santa fede, anzi l’hanno in odio et gli ricresce summamente che gli parliamo di farsi christiani, et per la grande information che io ho del Giapon, che è una isola presso alla China, dove tutti sono gentili, non mori nè giudei, et gente molto curiosa e desiderosa di sapere cose nove de Iddio et altre naturali, mi risolsi d’andare in quella terra con molta satisfattione interiore, parendomi che fra quella gente si potrà perpetuare per loro medesmi quell frutto, che in vita quelli della Compagnia faremo (Wicki & Schurhammer, 1945, p. 24). Questo testo metteva in relazione esplicita due gruppi, indigeni e giapponesi,

in un confronto da cui i secondi uscivano chiaramente vincenti9. I convertiti

indiani, di cui in precedenza Saverio aveva lodato alcune caratteristiche,

erano ora presentati senza alcuna vera disposizione per la religione cristiana;

per converso, il Giappone diventava la terra promessa per la propagazione

della fede (Županov, 2005a, p. 58).

I bramani e il cristianesimo Passando in rassegna gli scritti di questo periodo, è possibile elaborare

ulteriormente il confronto fra India e Giappone. Nel 1549, Saverio scriveva

anche:

[La] gente di questa regione, che in quanto ho visto et in generale parlando, è molto barbara et non hanno desiderio di sapere se non cose conformi alli loro

8 “Xavier was in a perpetual state of transition in all he did. Being in one place, he longed for another, spiritually better and higher place. While on the Fishery Coast, he dreamt of going to Ethiopia, then to Melaka and Makassar, from where he dreamt about Japan and then of China. His apostolate was as mobile as his desire.”(Županov, 2005a, p. 56) 9 Questa tendenza a desiderare maggiormente le missioni dell’Asia orientale non fu una particolarità solamente gesuita. Cfr. Cervera Jiménez (2014, pp. 430–1).

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costumi pagani […] sono molto ignoranti in quanto ho potuto vedere (Wicki & Schurhammer, 1945, pp. 22–3). Le supposte ignoranza e indolenza indiane, di cui il missionario si era già

lamentato altre volte, apparivano qui in opposizione alla curiosità dei

giapponesi menzionata in seguito e, di conseguenza, ulteriormente vilificate.

Nel 1544 Saverio scrisse a Roma che persino i bramani, identificati come il

gruppo sociale responsabile della cura degli idoli indiani e, di conseguenza,

specialisti religiosi e corrispettivo dei preti europei, si erano rivelati molto

ignoranti; aggiunse poi che essi erano convinti che lui sapesse “più di tutti loro

messi insieme” 10 . Forse per questo motivo, a differenza di quello che

succederà in Giappone con i monaci buddhisti, nella sua corrispondenza non

descrisse molti dibattiti con i bramani: è abbastanza evidente che il

missionario concordava con la sua supposta superiorità.

In un incontro avvenuto al tempio di Tiruchendur, 11 Saverio pose

alcune domande di teologia ai bramani locali: le loro risposte sulle prescrizioni

religiose che dovevano seguire (“non uccidere vacche”; “fare elemosina”)

confermarono la sua opinione negativa a proposito dell’ignoranza degli

indigeni (Wicki & Schurhammer, 1944, p. 171)12. “Un brahmán sólo hallé en

un lugar de esta Costa [della Pescheria], el cual sabía alguna cosa, por

cuanto me decían que había estudiado en unos estudios nombrados” 13 ,

continuava la lettera poco dopo, ma anche questo secondo incontro si rivelò

una delusione. Il bramino spiegò i dettami della propria religione, ma si rifiutò

10 Saverio ai compagni di Roma, Kochi, 15 gennaio 1544 (Wicki & Schurhammer, 1944, pp. 170–1). 11 Tiruchendur è un tempio dedicato alla divinità hindu Murugan, situato nel golfo del Bengala. Saverio contò almeno duecento bramani, lì ad incontrarlo. 12 Per una ricostruzione del dipanarsi dell’incontro dal punto di vista dei bramani vedi Young (1990). 13 Una panoramica sul sistema scolastico indiano dell’epoca è disponibile in Scharfe (2002), in particolare il capitolo “From Temple Schools to Universities”. Saverio non trovò mai le università indiane che andava cercando, ma questo non fu il caso per tutti i gesuiti: il termine fu per esempio usato da Giacomo Fenicio nel XVII secolo nei suoi trattati sull’hinduismo (si ringraziano i Proff. José Antonio Cervera e Thomás Haddad per l’informazione).

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di convertirsi al cristianesimo se non gli fossero state fatte alcune concessioni,

che però il missionario non considerò “oneste e lecite”(Wicki & Schurhammer,

1944, p. 174)14. Secondo Saverio, quindi, l’incontro si concluse con un nulla di

fatto. Laddove le credenze dei bramani di Tiruchendur erano state liquidate

come semplici “ignorancias,” le informazioni date dal personaggio in

questione dimostravano una certa preparazione (erano presentate con una

buona struttura dialettica), ma finirono per essere interpretate come un

riflesso distorto del cristianesimo (Gelders & Balagangadhara, 2011). Risulta,

da come l’incontro venne presentato, che secondo Saverio tali famose scuole

non fossero degne della loro fama, visto che nemmeno questo bramino si era

lasciato convincere dalla predica del missionario sulla verità della fede

cattolica.

Del resto, con nessuno di questi bramani Saverio tentò mai un dialogo

filosofico profondo, limitandosi a dire, a proposito di Tiruchendur, che “diome

Dios nuestro Señor tales razones conformes a sus capacidades de ellos […]

Las razones, que a esta gente idiota se han de hacer, no han de ser tan

sotiles como las que están escritas en doctores muy escolásticos” (Wicki &

Schurhammer, 1944, p. 172). Saverio aveva ormai deciso come non ci fosse

la possibilità di un reale dibattito teologico con nessun bramino e non aveva

considerato il caso di disputare al di fuori dei canoni della Scolastica15.

Vista la carenza di informazioni a proposito di questi incontri, non si

può escludere che Saverio avesse condotto col bramino una “intervista

guidata,” come avrebbero fatto i gesuiti di Goa nel decennio successivo con

Anjirō (App, 2012, p. 13). Con l’obiettivo di raccogliere informazioni utili sulla

cultura e la religione giapponesi, il gruppo di missionari probabilmente gli

pose domande ben specifiche, che cercavano di capire quanta memoria del

cristianesimo avessero conservato i giapponesi. Traspare anche un’evidente

impressione che fosse possibile discutere partendo da dei principi teologici

14 Il contesto di questo incontro e l’impatto che ebbe sulla percezione europea della religione Indiana nei secoli successivi è discusso in Gelders & Balagangadhara (2011). 15 L’errore continuò con i dibattiti in Giappone (Proust, 1997, pp. 35–6).

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comuni e un’apparente volontà di usare questa memoria degenerata come

base che, una volta corretta, avrebbe permesso una piena conversione al

cattolicesimo.

L’università e il piano di evangelizzazione del Giappone La parola “università” riferita ad un’istituzione scolastica asiatica apparve per

la prima volta, nella corrispondenza saveriana, in una missiva indirizzata a

Loyola, il 12 gennaio 1549 da Kochi, quando lo scrivente stava viaggiando

verso il Giappone. I due paragrafi in questione non solo inquadravano

succintamente queste istituzioni nei progetti che Saverio aveva per

l’evangelizzazione del Giappone, ma contestualizzavano sin da subito il ruolo

che egli attribuiva all’università in senso più generale, ponendo le basi di

un’interpretazione di tutta la corrispondenza successiva. Dopo aver parlato

dei suoi compagni di viaggio giapponesi, il missionario esponeva il suo

progetto:

Tengo grande sperança, y ésta toda en Dios nuestro Señor, que se han de hazer muchos christianos en Japón. Yo voy determinado de ir primeramente aonde está el rey y después a las univesidades donde tienen sus estudios, con grande sperança en Jesu Christo nuestro Señor que me ha de aiudar. La ley que ellos tienen dize Paulo que fue traída de una tierra que se llama Chengico, que está passada la China y después Tartao, segundo dize Paulo. Y en hir de Japón a Chengico y tornar a Japón ponen en el camino tres años. De Japón escriviré a vuestra santa charidad muy larga información, assí de sus costumbres y de sus escrituras y de lo que enseñan en aquella grande universidad de Chingico. Porque en toda la China y Tartao, que es una tierra mui grandíssima entre la China y Chengico, segundo dize Paulo, no tienen otra doctrina sino la qual enseñan en Chengico (Ruiz de Medina, 1990, pp. 80–1). E’ possibile trarre varie informazioni da queste righe. Come ben sottolinea

App (1997, pp. 64–6), il testo rivelava innanzitutto la carenza di informazioni

geografiche sull’Asia raccolte fino a quel momento dagli occidentali. Se il

Tartaro era difficile da localizzare con precisione per i gesuiti (e inesistente

per i giapponesi), il Tenjiku (ovvero il “Chengico”), secondo la tradizione

nipponica, era la terra da cui proveniva il buddhismo. Se teoricamente dunque

questo termine sarebbe dovuto corrispondere al subcontinente indiano, in

pratica era usato per indicare una terra favolosa, ai confini del mondo. Le

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concezioni geografiche di tale parte dell’Asia risultavano, come si vede,

alquanto confuse.

Questi paragrafi mostravano anche come Saverio stesse pianificando

un progetto evangelizzatore basato sulle sue aspettative nei confronti delle

istituzioni religiose giapponesi. Una visita all’imperatore16 era resa necessaria,

agli occhi dei missionari, dalla sua autorità sulle questioni religiose: “tene

potere temporale e spirituale, come intra noi el papa. Ma perchè lui é religioso

et suprema maiestas non se interpone in cose de justitia ne de guerra, ma

tene un altro inferiore a se, qual se chiama Cosci [shōgun], e tene intra loro el

mesmo loco che tene l’imperadore intra noi” (Ruiz de Medina, 1990, p. 61).

L’imperatore però venne presto messo da parte dal Saverio in questa sua

lettera: la chiave di volta del processo evangelizzatore, su cui tornò più volte il

missionario, era rappresentata infatti da quelle che lui chiamava “università”.

Sia il sovrano che le università rappresentavano, per Saverio, le autorità

religiose massime del paese, ma solo queste ultime avrebbero fornito le

informazioni che i missionari cercavano.

Le università apparivano, infatti, non solo come fonte di autorità, ma

anche di conoscenza religiosa17. Saverio voleva visitare queste istituzioni,

dove insegnavano la dottrina di Tenjiku, la quale, si apprende nelle righe

successive, era stata elaborata da una grande università di Tenjiku. Non vi

era alcun riferimento, in precedenza, a questo istituto e l’impressione che se

ne ricava è che la sua esistenza fosse una supposizione del missionario.

Secondo una lettera successiva, scritta a Simon Rodrigues il 20 gennaio

1549, Saverio aveva intenzione di inviare missionari gesuiti anche a

quest’ultima università, dopo che fossero riusciti ad entrare in Cina:

16 Non lo shōgun, bensì il dairi, ovvero l’imperatore, ridotto ad una figura prettamente simbolica in questi anni (Ruiz de Medina, 1990, p. 80n8). 17 A dimostrazione della posizione di autorità delle università europee, viene alla mente il famoso episodio in cui Ignazio Loyola, arrestato a Salamanca nel 1527 dall’Inquisizione, fu lasciato andare a patto che non predicasse alla popolazione prima di aver studiato approfonditamente teologia; Loyola decise allora di iscriversi all’università di Parigi.

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Y por tiempos, placerá a Dios que muchos de la Compañía irán a China, y de China a aquellos sus grandes estudios que están allende de China y Tartao, que se llaman Chingico, según la información de Paulo, que dice que en todo Tartao, China y Japón tienen la ley que enseñan en Chingico (Ruiz de Medina, 1990, p. 89). In questo passaggio, che descriveva nuovamente una geografia immaginaria,

la terra di Tenjiku sembrava identificarsi con l’università in tutto e per tutto: la

presenza del massimo centro dottrinale dell’Asia orientale diventava la

caratteristica più spiccata della regione. Considerando l’apparente influenza di

tale università, essa rappresentava la porta che il cristianesimo poteva usare

per entrare in Cina, in Tartaro e in Giappone. Ciò diventava una deduzione

logica per Saverio, il quale dietro ad ogni dottrina religiosa dell’Asia, se degna

di questo nome, vedeva dei centri organizzati che l’avevano elaborata e

mantenuta nel tempo, e che erano investiti di autorità religiosa, come

succedeva in Europa: il missionario chiamava tali istituzioni “università” e le

riteneva il punto focale per la conversione dei letterati locali.

Altri due elementi di interesse del panorama religioso del paese,

presenti in questa missiva, sono i costumi e le scritture (ovvero i testi sacri)

(Ruiz de Medina, 1990, p. 81n12). I primi risultano menzionati una sola volta e

poi, apparentemente, messi da parte, anche se all’atto pratico Saverio ne

scriverà a lungo in seguito. Da un lato è probabile che il missionario ritenesse

che le informazioni raccolte da Anjirō fossero sufficienti per descrivere le

espressioni religiose popolari giapponesi: i gesuiti erano consapevoli del fatto

che egli avesse dimestichezza principalmente con queste e che non potesse

fornire indicazioni a proposito di un aspetto considerato più importante della

religione nipponica, ovvero le scritture 18 . Infatti, a differenza dell’India, i

costumi del popolo risultavano essere di secondaria importanza in quello che

si prevedeva essere un dibattito teologico di alto livello.

Le informazioni raccolte da Anjirō avevano difatti preparato Francesco

Saverio all’idea che il Giappone fosse un paese “evoluto” dal punto di vista

religioso, dotato di testi sacri e università, abitato da persone “razionali” che

18 Vedi per esempio Saverio a Loyola, 14 gennaio 1549 (Ruiz de Medina, 1990, pp. 84–9); cfr. App (1997, p. 63).

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per convertirsi al cristianesimo avrebbero fatto molte domande prima di

ritenersi soddisfatte dalla verità Cristiana. Come si è visto in precedenza, i

missionari avevano finito per figurarsi il Giappone come una terra molto simile

a quelle europee19. Non c’è di conseguenza da stupirsi del fatto che Saverio

stesse approntando un piano basato sull’apprendimento di quelli che erano i

fondamenti religiosi locali, primo passo per capire come fare a dimostrare in

maniera più efficace la superiorità della verità cattolica. Inoltre, a Kochi i

gesuiti avevano incontrato un vescovo armeno, che si occupava dei cristiani

di San Tommaso locali e che sosteneva che altri come lui erano entrati in

Cina, portandovi il cristianesimo; l’idea fu presto associata alla religione

giapponese, come scrive Lancillotto nel 1548:

A me me pare che alcuno heretico christiano fosse seminador de questa setta [religione], asi como Mafimetto [Maometto]. Stando io scrivendo queste letre venne qui un vescovo hirmenio, quale stette in queste parti più di quaranta anni. Questo me disse che li hermenii forano a predicare nella Cina nel principio della chiesa primitiva (Ruiz de Medina, 1990, p. 68).

L’affermazione di Anjirō che le dottrine presenti in Giappone e in Cina fossero

le stesse suggellò la convinzione che il cristianesimo fosse già arrivato

nell’arcipelago. Questa convinzione rinforzò l’aspettativa dei missionari di

potersi confrontare con i giapponesi partendo da una base teologica comune.

In una lettera successiva, del 22 giugno 1549 inviata da Malacca ai

gesuiti in Europa, Saverio diede maggiori ragguagli sulle università

giapponesi: pareva che “grandi scuole” si trovassero vicino la residenza del

sovrano (Ruiz de Medina, 1990, pp. 122–3). Qui egli però aggiunse che i

letterati che vi studiavano erano da considerarsi ignoranti, perché non

conoscevano Gesù Cristo. Da questa nota appare evidente come Saverio non

si aspettasse di trovare medici o giuristi, bensì specialisti religiosi.

Le università giapponesi La prima descrizione corposa delle istituzioni che Saverio chiamava università

si trova nella prima lettera che egli inviò dal Giappone (Kagoshima) ai gesuiti

19 Come notato da Ruiz-de-Medina (1990, p. 47) nella sua introduzione al report di Lancillotto contenente le informazioni raccolte da Anjirō.

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di Goa, il 5 novembre 1549. Nel momento in cui scriveva, il missionario era

impegnato negli stadi iniziali della sua predicazione e stava organizzando una

visita alla capitale dell’impero, Miyako (attuale Kyōto), ma dalla sua lettera si

può desumere che l’impatto col paese non fosse stato dei più semplici. Nel

testo, egli spese varie pagine in considerazioni spirituali che suggeriscono

come i pericoli e le difficoltà incontrate durante il viaggio l’avessero portato a

riflettere profondamente. Le sue esortazioni, preponderanti nella missiva sia

prima che dopo la descrizione del paese, avevano anche come obiettivo di

preparare spiritualmente i gesuiti di Goa al missionariato in Giappone. Saverio

incitava i suoi confratelli ad abbandonarsi completamente alla volontà divina,

invece di contare sulle proprie forze o su altre risorse umane, e li metteva in

guardia, dato che la missione si sarebbe rivelata molto più difficile di tutto ciò

che avevano affrontato fino ad allora; li spronava anche a rendere grazie a

Dio, perché “quando Dios permite que el demonio haga su oficio y las

criaturas lo persiguan, es para su probación y mayor conocimiento interior, o

en castigo de sus pecados o mayor merecimiento, o para su umilación” (Ruiz

de Medina, 1990, p. 149). E’ difficile non leggere, tra queste righe,

un’esortazione rivolta anche a se stesso. Come commenterà Cosme de

Torres nel 1551, Saverio, sulla via di Miyako, si era poi misurato con “fervores

e mortificações mui deferentes das que homem imagina estando entre

christãos” (Ruiz-de-Medina, 1995, p. 210): la mancanza di un’assistenza

concreta fornita dai suoi correligionari e di quella, per quanto indiretta, del

potere portoghese, avevano reso l’impresa estremamente difficile. Deluso dal

suo primo soggiorno a Kagoshima, dove pochi si erano convertiti, Saverio

aveva cercato l’appoggio di qualche autorità giapponese, o quantomeno un

riconoscimento, e aveva probabilmente sentito pressante la necessità di

attuare il suo piano iniziale, ovvero visitare l’imperatore e le università. Al

tempo stesso, pensava di preparare il terreno per l’arrivo di altri missionari,

organizzando l’apertura di una feitoria nel porto di Sakai, che gli era stato

detto essere il più vicino a Miyako, nella speranza che i portoghesi, attratti dai

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possibili guadagni, organizzassero delle navi regolari per il Giappone, su cui

sarebbero potuti arrivare altri gesuiti20 . Quest’operazione, inoltre, avrebbe

reso il potere portoghese più influente nella regione.

Se la visita a Miyako doveva procurargli l’autorizzazione imperiale per

predicare in tutto il paese, Saverio non aveva fatto i conti con la realtà politica

del Giappone: dilaniato da anni di guerra civile e diviso in numerosissimi

territori, esso mancava di una vera e propria autorità centrale. Come

menzionato in precedenza, era anche intenzione del missionario visitare le

università più importanti del paese, che gli era credeva trovarsi vicino alla

capitale; Schurhammer (1982, p. 191) indica come egli volesse disputare con

i bonzi del grande centro della scuola Tendai, situato sul monte Hiei, per

dimostrare la superiorità della sua fede e avere l’autorizzazione di predicarla

pubblicamente. Nessuno l’aveva però informato come non fosse semplice

avere accesso al monte Hiei, né del fatto che l’imperatore avesse perduto da

tempo la sua autorità sul paese; alla fine nessuno dei suoi due obiettivi venne

raggiunto.

Quali erano, però, queste università che Saverio sperava di visitare?

Mentre si preparava a partire per Miyako, egli descrisse la sua destinazione

con entusiasmo:

Grandes cosas nos dizen de aquella ciudad, afirmándonos que pasa de 90.000 casas y que ay una grande universidad de studiantes en ella que tiene dientro cinco colegios principales, y más de 200 casas de bonzos y de los otros como frailes que llaman gixu, y de monjas las quales llaman amacata. Fuera esta universidad de Meaco ay otras cinco universidades principales, los nombres de las quales son estos: Coya, Negru, Fieson, Omi. Estas quatro están al derredor de Meaco, y en cada una de las quales nos dizen qe ay más de 3.500 studiantes. Ay otra universidad muy lexos de Meaco, la qual se llama Bandu, que es la mayor y más principal de Japán, a la qual van más studiantes que a otra ninguna (Ruiz-de-

Medina, 1995, pp. 164–5).

La lista di istituzioni che egli definiva università era quanto meno eterogenea,

evidenziando l’imprecisione di molte delle informazioni ripetute dai gesuiti in

20 Saverio lo propone al Pedro da Silva, capitano della fortezza di Malacca, nella sua lettera del 5 novembre 1549 (Ruiz-de-Medina, 1995, p. 183); spiega le sue motivazioni ad Antonio Gomes nella stessa data (Ruiz-de-Medina, 1995, p. 179).

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questi primi anni, spesso raccolte da terzi. Si trattava, in linea di massima, di

una lista di complessi monastici di diverse dimensioni. I cinque “collegi”

menzionati all’inizio sono probabilmente i cinque templi Zen di Miyako che

facevano parte del sistema Gozan (Cinque Montagne): Tenryū-ji, Shōkoku-ji,

Kennin-ji, Tōfuku-ji, e Manju-ji (Schurhammer, 1982, p. 94). Questa struttura

organizzativa, introdotta dalla Cina alla fine dell’epoca Kamakura (1185–

1333), comprendeva all’incirca 300 templi, con caratteristiche simili di

gestione e regola monastica, la maggior parte appartenenti al lignaggio

Rinzai. Essi erano suddivisi in tre categorie: la più prestigiosa era composta

da undici monasteri, di cui cinque a Kamakura e cinque a Miyako, vicino alla

quale si trovava anche il Nanzen-ji, a capo di tutta la gerarchia. Nel

quindicesimo secolo, i templi Gozan erano diventati importanti centri culturali

e artistici, dove, accanto ad una stretta disciplina religiosa, si studiavano

letteratura cinese e confucianesimo, ed era possibile ricevere anche

un’educazione rivolta alla pratica, comprendente l’etichetta e l’aritmetica di

base (Raveri, 2014, pp. 531–2; Baroni, 2002, pp. 115–7; Frédéric, 1972, p.

39).

Saverio continuava quindi con un elenco di istituzioni che si trovavano

al di fuori della capitale. Si trattava essenzialmente di grandi complessi di

templi, alcuni dei quali avevano raggiunto, col tempo e l’instabilità del periodo

sengoku, una forte indipendenza, sufficiente a farli diventare entità politiche

autonome. Egli non sembrava essere consapevole del fatto che alcuni di essi

erano gli stessi luoghi menzionati da Lancillotto e descritti semplicemente

come monti abitati da monaci21.

21 “Sta en questa insula de Giapan un altro monte alto dondre stanno cinque mille religiosi, li quali sonno molto richi e tengono molti servidori e molto bene case, e vestono molto bene” (Ruiz de Medina, 1990, p. 67). “E un monte nella isula de Giapan molto grande, pieno de boschi e arbori molto grandi, nel quale monte non vivono senon certi eremiti molto asperi”(Ruiz de Medina, 1990, p. 65). Ruiz de Medina identifica il primo col monte Hiei, il secondo col Negoro, anche se le descrizione delle pratiche ascetiche che segue fa pensare più allo Shugendō e agli Yamabushi.

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Il monte Kōya era il quartier generale della scuola Shingon di

buddhismo esoterico, fondata da Kōbō Daishi (774–835), e sviluppatasi fino a

diventare una delle principali del paese; il nome del fondatore divenne ben

noto ai gesuiti, che ne descrissero in varie occasioni la tomba e il relativo

culto. Negoro era invece il nome del monte su cui Kōgyō Daishi aveva

fondato la propria scuola, Shingi Shingon, quando il suo piano di riformare la

scuola Shingon dall’interno non aveva avuto successo. Negli anni in cui

Saverio scriveva, i monaci Negoro erano conosciuti principalmente per le loro

capacità guerriere (al punto che spesso nella corrispondenza gesuita erano

paragonati ai cavalieri di Rodi) e l’ampio complesso buddhista era diventato

uno dei principali attori politici dell’area; solo nel 1585 Toyotomi Hideyoshi

riuscì a porre fine al loro potere, incendiando e devastando l’intera montagna

(Raveri, 2014, p. 349). Il monte Hiei, situato a nord-est di Miyako, era

l’ubicazione dell’Enryaku-ji, tempio principale della scuola Tendai. Esso era

stato fondato dal monaco Saichō (767-822), che aveva visitato la Cina per

approfondire la sua conoscenza del Sutra del Loto. Col tempo, l’Enryaku-ji era

diventato anch’esso una forza politica e militare troppo potente per non

essere d’ostacolo ad un’autorità centrale e Oda Nobunaga, primo unificatore

del Giappone dopo le guerre civili, risolse il problema radendolo al suolo nel

1571. Riguardo all’ultima istituzione dell’elenco, Schurhammer (1982, p. 95)

scrive che probabilmente si tratta del tempio Kinshoku-ji, principale monastero

dell’antica provincia di Ōmi (oggi Shiga) e capo della branca omonima della

scuola Jōdo Shin. Tutti questi complessi buddhisti non si limitavano alle

pratiche più strettamente rituali legate all’esistenza del tempio, ma erano

istituzioni composite, che potevano includere al loro interno scuole, ospedali o

centri di produzione artistica (Matsuo, 2007, p. 13).

Infine, con il nome “Bandu,” Saverio voleva indicare la prestigiosa

Ashikaga gakkō, situata più a nord, nella regione del Kantō. Quest’accademia

era una delle due scuole ufficiali confuciane esistenti in Giappone, assieme

alla Daigakuryō di Miyako, di cui Saverio non sembrava essere a conoscenza

(Ward, 2009, p. 1049). L’Ashikaga gakkō era stata fondata nel periodo

Kamakura e aveva acquisito notorietà grazie al patronato di Uesugi Norizane

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(1411-66), anche se col tempo aveva subito una riduzione drastica delle

proprie dimensioni. Nel sedicesimo secolo, la scuola riacquisì la propria

importanza, imponendosi come il centro per eccellenza di divinazione

onmyōdō a fini militari, molto in voga grazie alle continue guerre che

sconvolgevano il paese; ivi era anche insegnata la medicina, anch’essa

basata sul canone confuciano. Ai tempi in cui scriveva Saverio, la scuola

stava per entrare in un ventennio di successo, con un alto numero di studenti,

iscrittisi da tutto il paese, spesso dopo aver studiato in istituzioni Zen (Butler,

1996, pp. 198–9; Dore, 1984, p. 68)22.

Dopo il giappone Saverio non riuscì mai a visitare le grandi università che avevano suscitato in

lui tanto entusiasmo, né ad avere udienza dall’imperatore a Miyako; deluso

dallo stato in cui versava la capitale, decise di tornare verso sud e si fermò

nella città di Yamaguchi. Il tentativo di ricevere il permesso di predicare lì

andò a buon fine: Saverio fece visita al daimyō con doni da parte del vescovo

e del governatore di Goa ed ottenne un tempio da usare come base per la

predicazione.

Nondimeno, dopo appena due anni di permanenza in Giappone,

Saverio si preparava per salpare verso la sua prossima destinazione: la Cina.

Come già menzionato, egli anelava perennemente a migliori terreni di

missionariato e la prospettiva di aprire la Cina al cristianesimo lo attirava per

vari motivi. Ogni riferimento a Tenjiku del resto era sparito dalle sue lettere

subito dopo il suo sbarco, quando l’espressione “padres do Chengico” venne

adottata per riferirsi i gesuiti ed essi si erano resi conto che il nome indicasse

una qualche terra oltre la Cina, nella direzione da cui erano venuti (App,

1997b, p. 216). Svanito il Tenjiku, la Cina appariva quindi come la meta più

desiderabile rimasta. Da un lato, il paese gli era stato descritto come terra di

“gente molto ingegnosa e di molti letterati.” I cinesi “si dedicano molto alle

22 Un esempio di un monaco Zen del sedicesimo secolo che in seguito si era specializzato in medicina all’Ashikaga gakkō (Manase Dōsan), e una lista dei testi usati nel curriculum, è disponibile in Machi (2014).

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lettere, e colui che è più letterato, è considerate più nobile e di maggior

valore” (Ruiz de Medina, 1990, p. 357); anche la situazione politica tranquilla

avrebbe agevolato la predicazione. Vi era però un’altra importante ragione,

che supportava la partenza di Saverio per la Cina: la convinzione che le

religioni del Giappone avessero origine proprio lì e che, di conseguenza, se i

cinesi si fossero convertiti al cristianesimo, i giapponesi li avrebbero presto

seguiti23.

La predicazione in Cina faceva quindi parte di un piano tripartito per la

propagazione della fede in Giappone; gli altri due elementi essenziali

sarebbero stati lo studio del buddhismo e della lingua. Per portare avanti

questa strategia, Saverio aveva lasciato in Giappone i suoi compagni, il padre

Cosme de Torres e il fratello Juan Fernández; ancora prima che egli partisse

da Funai, diretto a Malacca, i due missionari avevano cominciato ad

intervistare monaci e fedeli delle varie scuole, nelle famose dispute di

Yamaguchi. La necessità di ricominciare da zero la raccolta delle informazioni

sulle credenze giapponesi si era palesata nel momento in cui i missionari si

erano resi conto che avevano male interpretato una serie di concetti

buddhisti, credendoli molto più vicini al cristianesimo di quanto non fossero.

L’errore più lampante era stato equiparare il Dio cristiano con Dainichi Nyorai

(il Buddha cosmico Vairocana), ma le incomprensioni erano molte e si

sarebbero trascinate fino a quando Baltazar Gago non promosse la riforma

linguistica del 1555, che sostituì i termini buddhisti usati nella dottrina cristiana

con delle traslitterazioni dal latino e dal portoghese (Bourdon, 1993, pp. 268–

73). Torres e Fernández avevano anche il compito di imparare la lingua, e

almeno il secondo vi riuscì con un certo successo, al punto da essere

considerato per anni a venire il pilastro della missione. I due gesuiti, nei piani

di Saverio, avrebbero dovuto occuparsi della casa e dei convertiti di

Yamaguchi fino a quando non fossero arrivati degli altri missionari, selezionati

specificamente dall’Europa, per andare nelle università nipponiche.

23 “Têm eles pera sí que os chins são muito sabedores, asi nas cousas do outro mumdo como na governação da repúbliqua” scrisse Saverio ai gesuiti in Europa, da Kochi, il 29 gennaio 1552 (Ruiz de Medina, 1990, p. 303).

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Dopo il suo soggiorno in Giappone, Saverio ebbe la tendenza a

presentare Ashikaga gakkō come la più importante fra le università. “Nesta

terra de Japão hai huma huniversidade muito grande a qual se chama

Bamdou, adomde acude gramde número de bomzos a aprender suas seitas.

[…] Affora esta huniversidade de Bandou hai outras huniversidades. Porém, a

de Bandou hé a maior” (Ruiz de Medina, 1990, pp. 312–3), scrisse ai

confratelli in Europa nel 1552. Ashikaga era troppo a nord perché egli potesse

averla visitata, ma un ex-monaco che vi aveva studiato si era convertito al

cristianesimo a Yamaguchi. La conversione del letterato di Ashikaga gakkō,

considerato dai suoi concittadini “il più saggio della città,” era stata accolta

con gioia dalla comunità cristiana (Ruiz de Medina, 1990, p. 313) e la cosa

aveva destato l’interesse dei gesuiti. La supposizione che una connessione

con le università apportasse prestigio alla nuova religione si era rivelata

fondata. Inoltre, grazie a questi contatti, le informazioni raccolte sul conto di

tale accademia erano più numerose e le caratteristiche delle altre università

vennero immaginate a partire da essa (Ruiz de Medina, 1990, p. 327).

Nonostante l’mpossibilità di avervi accesso, le università quindi non

svanirono dai piani di Saverio, come invece aveva fatto la figura

dell’imperatore, ma furono poste al centro dei suoi progetti. Infatti egli si

preparava ad inviare un gruppo di elementi scelti presso queste istituzioni, in

primo luogo Ashikaga gakkō, identificate come il cuore dottrinale del paese.

Nella lettera del 30 gennaio 1552 a Simon Rodrigues è possibile trovare le

caratteristiche che egli cercava in questi missionari da selezionare in Europa:

[L]os que de allá avéis de mandar para ir a la universidad de Bandou y a las otras es necesario que sean personas de mucha experiencia y que se aian hallado en algunos trabajos o peligros grandes y en ellos sean bien probados, porque an de ser muy grandemente perseguidos de los bonzos quando fueren a Bandou y así a las otras universidades. […] Los que allá an de ir, allende de tener mucho spíritu es necesario tener grandes dispusiciones y rezias complexiones. […] Y aiudarles ha mucho ser bien exercitados en artes y sofisteria para en disputas saver confundir los bonzos que sustentan las universidades y tomallos en contradictión. […] Ellos, quando fueren a alguna universidad, an de tener continuamente disputas de unos y de otros, an de ser muy despreciados, no an de tener lugar para meditar y comtemplar (Ruiz de Medina, 1990, pp. 326–8).

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Saverio, dopo averle provate personalmente, appariva cosciente delle

problematiche che una terra come il Giappone avrebbe posto ai missionari: la

mancanza di tempo per meditare e pregare, l’impossibilità di dire messa fra i

monaci, le persecuzioni da parte di questi ultimi, le difficoltà materiali. Egli si

raccomandava che gli elementi da mandare fossero scelti dal provinciale di

Portogallo, o dal rettore del collegio di Coimbra, ma solo dopo l’approvazione

di Loyola (Ruiz de Medina, 1990, p. 320). L’eccellenza, sia spirituale che

accademica, di questi gesuiti contrastava con la più semplice preparazione

richiesta al secondo gruppo di missionari destinati al Giappone:

Las personas que de acá se pueden mandar a Amanguchi son para aprender la lengua y estar al cabo de los herrores de sus sectas, para que quando vinieren padres de mucha confiança de Europa pueden ir a las universidades llevando un hermano de Amanguchi que sepa muy bien la lengua. Y desta manera podrán hazer mucho fructo hasta que después de tiempo vengan a aprender la lengua (Ruiz de Medina, 1990, p. 328). Laddove i gesuiti destinati alle università doveva avere una preparazione

europea, per studiare la lingua e le basi delle credenze giapponesi sarebbero

bastati dei membri entrati nella Compagnia in India, la cui qualità,

specialmente accademica, era considerata inferiore (Ruiz de Medina, 1990, p.

329)24.

Se quindi le dispute di Yamaguchi e la relativa collezione di

informazioni sul buddhismo (raccolte nel cosiddetto “Sumario de los errores”

compilato fra il 1549 e il 1556) rappresentavano il primo passo per la

conquista del paese al cristianesimo, la punta di diamante del piano di

Saverio erano i dibattiti nelle università giapponesi, portati avanti da gesuiti

altamente preparati, supportati da correligionari che sarebbero stati i loro

interpreti, fino a quando non fossero stati in grado di parlare la lingua. Questi

erano i missionari destinati a fare “molto frutto,” convertendo innanzitutto i

monaci delle università: sarebbero andati “alle università giapponesi per

manifestare la fede del nostro Signore Gesù Cristo” (Ruiz de Medina, 1990, p.

24 Per l’interpretazione dell’epoca sull’influenza del subcontinente indiano, sopratutto climatica, esercitata sugli europei, vedi Županov (2005a, pp. 8–11).

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344) e non più per raccogliere informazioni sul buddhismo. Il progetto seguiva

quella che sarebbe diventata la filosofia gesuita sulla priorità di convertire le

persone influenti innanzitutto. Non vi era alcun dubbio, per Saverio, che dei

gesuiti sufficientemente preparati potessero convincere, e convertire, anche i

monaci più colti; del resto, aveva già scritto nel 1549: “[n]ão receamos de nos

vermos com hos letrados daquelas partes porque quem não conhece a Deus

nem a Jesu Christo, que pode saber?” (Ruiz de Medina, 1990, p. 122). Dopo,

considerato il prestigio di queste università e lo status sociale di coloro che le

frequentavano, il resto del paese li avrebbe imitati rapidamente.

La necessità di guadagnare un riconoscimento nelle stesse istituzioni

giapponesi può essere spiegata dal medesimo motivo per cui le

testimonianze di giapponesi che avevano visitato l’Europa erano considerate

importanti: “Porque os japões têm pera sí que não há outros homens em o

mundo senão elles. Isto hé porque nunca conversarão com outra gente até

que os portugueses novamente descubrirão aquelas ilhas” (Ruiz de Medina,

1990, pp. 348–9). Come altra possibile soluzione di questo problema, Saverio

aveva anche organizzato il viaggio di due cristiani giapponesi, Matheus e

Bernardo, in Europa, affinché visitassero i bastioni del cattolicesimo e

tornassero a testimoniare la magnificenza della nuova religione ai loro

connazionali; il piano (simile, negli intenti se non nell’esecuzione, a quello che

Alessandro Valignano avrebbe implementato nel 1585 con la famosa

“ambasciata” dei quattro nobili giapponesi 25) non andò però a buon fine,

perché Matheus morì a Goa e Bernardo non fece mai ritorno in patria dal

Portogallo (Schurhammer, 1982, pp. 65–6; 231).

“Università”? “Quando se falla nas cartas ou se aponta em as universidades de Japão, da mesma maneira se não há-de formar conceito que reprezentem as de Japão

25 Gli obiettivi di Valignano erano principalmente far conoscere meglio il Giappone in Europa e far apprezzare maggiormente la cultura europea in Giappone, tramite le testimonianze dei giovani ambasciatori (Cooper, 2005, p. 164).

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a autoridade, nobreza, sciencias, renda e grao, que tem as de Europa” (Frois, 1976, p. 9). Questo scrive Luis Frois nell’introduzione della sua Historia de Japam 26 ,

preoccupandosi di spiegare l’uso non esattamente proprio del termine nel suo

testo, scritto per un pubblico europeo nell’ultimo ventennio del ‘500. Le

università europee del suo tempo, del resto, avevano raggiunto un alto livello

di organizzazione e formalizzazione: dopo il trivium e quadrivium, esse

offrivano anche la possibilità di specializzarsi in teologia, giurisprudenza o

medicina (Dunphy, 2015). Mentre esse non erano più frequentati da soli

clerici, lo stesso non si poteva dire delle università giapponesi, i cui studenti,

secondo Frois, erano monaci o persone che studiavano con l’obiettivo di

diventarlo27. Inoltre, questi studenti occupavano la maggior parte del loro

tempo a studiare “gli ideogrammi della Cina e del Giappone.” Secondo il

gesuita, l’aspetto peggiore di queste istituzioni, comunque, era che esse

dedicavano il resto del curriculum alla dottrina buddhista, con qualche

elemento di filosofia morale cinese (un riferimento al confucianesimo); dal

punto di vista di Frois e dei suoi previsti lettori, ovviamente, questo era una

perdita di tempo e poteva anche rivelarsi dannoso. Oltre a questi studi, si

aggiungeva solamente qualche nozione di astrologia (probabilmente

l’onmyōdō) e di medicina. Frois concludeva scrivendo che l’unica istituzione

che offriva queste discipline era comunque l’Ashikaga gakkō, mentre tutte le

altre erano monasteri i cui monaci davano lezioni privatamente, senza alcuna

ostentazione o ricercatezza. Il tutto veniva insegnato non alla maniera

europea, suddiviso in discipline (artes) e tramite argomentazioni formali, ma

sotto forma di punti dottrinali.

26 L’Historia de Japam, scritta dal gesuita interprete Luis Frois, su richiesta di Giovanni Pietro Maffei, descrive in modo dettagliato, anche se reinterpretato a posteriori, la storia della missione giapponese fino al 1592. Il testo non ha mai visto la stampa a causa dell’insoddisfazione del Visitatore Alessandro Valignano per il linguaggio troppo ampolloso e le esagerazioni dell’autore e, probabilmente, per le tensioni esistenti fra i due missionari. Cfr. Loureiro (2010). 27 Sull’istruzione in Giappone in questo periodo, vedi Frédéric (1972, pp. 36–40); cfr. Santos (2009, pp. 125–32).

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Questa nota nella prefazione alla Historia de Japam permette di

chiarire alcuni aspetti dell’uso del termine università da parte dei gesuiti e di

fare alcune considerazioni al proposito28. A metà del sedicesimo secolo, la

parola “università” non si riferiva ancora univocamente alle istituzioni di

insegnamento superiori, il cui nome tecnico era studium generale 29 .

Francesco Saverio comunque stabilì molto presto una connessione fra questo

termine e la Sorbona, nella sua corrispondenza dall’Asia, rendendone chiaro il

significato nei suoi scritti (Wicki & Schurhammer, 1944, p. 166). In seguito, la

parola fu accettata all’interno della missione: oltre a Frois, per esempio, ne

fece uso ancora il suo successore al ruolo di interprete, João Rodrigues, nella

sua Historia da Igreja de Japão (1620-1), riferendosi sia al complesso del

monte Kōya, che a quello del monte Hiei (Rodrigues, 2001, p. 94; 161).

D’altro canto, era evidente, ai missionary, che tali istituzioni non erano

semplicemente la versione nipponica delle università europee e che le

differenze dovevano essere chiarite nel caso di testi pensati per un pubblico

occidentale. Rimangono quindi da considerare alcune possibili motivazioni

sull’introduzione e il continuato uso del termine.

Le aspettative di Francesco Saverio erano certamente state esaltate

dalle idee erronee che si era fatto ascoltando la testimonianza di Anjirō,

anche se, come si è visto a proposito dell’università di Tenjiku, il missionario

28 Non essendo l’obiettivo di questo articolo stabilire se si possa parlare o meno di università giapponesi nel secolo XVI, ci si limiterà a dire che tale problema è da contestualizzarsi nel dibattito sulla possibilità di riferire o meno il termine “università” ad istituzioni non europee prima del periodo moderno, quali per esempio Taxila e Nalanda in India. Fra le varie caratteristiche che potrebbero distinguere l’università vera e propria da istituti simili, l’autonomia accademica è stata proposta come quella decisiva (Moutsios, 2012), anche se la sua importanza potrebbe essere stata sopravvalutata (Dmitrishin, 2013). Cfr. Altbach (1998, p. 41). 29 L’espressione studium generale, che inizialmente aveva indicato il curriculum, a metà del tredicesimo secolo indicava già l’istituzione dove esso era insegnato. Il termine universitas era usato di rado e riferito all’ente accademico nella sua interezza, ma anche ad altri tipi di associazioni, come le gilde (Dunphy, 2015, pp. 1707–09). Cosme de Torres lo usava per indicare delle entità politiche autonome, quali i possedimenti dei sengoku daimyō, in maniera intercambiabile con “res publica” (Ruiz de Medina, 1990, p. 216).

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non era nuovo nemmeno a rielaborazioni delle informazioni in suo possesso.

L’impressione di una forte somiglianza fra il Giappone e l’Europa aveva

probabilmente guidato l’identificazione delle istituzioni più famose di sviluppo

e trasmissione delle idee religiose dell’uno (i grandi complessi monasteriali)

con quelle dell’altra (le università). Non ci sono dubbi sul fatto che Saverio

considerasse questa come l’attività più importante delle università europee,

anche se non ne aveva un gran rispetto: già nel 1544 tuonava contro coloro

che si limitavano a studiare alla Sorbona per ottenere benefici ecclesiastici,

invece di usare le loro conoscenze per convertire i gentili, che sicuramente

sarebbe stato di maggior servizio a Dio (Wicki & Schurhammer, 1944, p. 169).

La sua intenzione di informare l’università di Parigi di ciò che si studiava nelle

università giapponesi nasce proprio dalla volontà di attirare i suoi studenti a

predicare in Asia (Ruiz de Medina, 1990, p. 81).

Il Giappone, finalmente, si presentava come una terra aperta

all’evangelizzazione, grazie alla razionalità dei suoi abitanti, ma anche alla

presenza di letterati formatisi in grandi centri di studi: questi ultimi, nelle

speranze di Saverio, avrebbero potuto essere degli interlocutori, finalmente al

suo livello, a differenza dei deludenti bramani che aveva incontrato in India.

L’idea di università giapponese appare di conseguenza nel contesto della

ricerca, da parte di Saverio, di specialisti religiosi con cui confrontarsi, la cui

cultura e razionalità li avrebbero portati presto alla conversione; questa, a sua

volta, avrebbe condotto al cristianesimo le loro istituzioni e quindi il resto del

paese. Si sarebbero quindi realizzate in Giappone le speranze che Saverio

aveva inizialmente nutrito per l’India.

Una volta giunto nell’arcipelago, tuttavia, alcuni ostacoli imprevisti si

erano posti sul cammino che egli aveva progettato. Innanzitutto, laddove i

bramani lo consideravano “più colto di tutti loro messi insieme,” i giapponesi

non sembravano altrettanto pronti a riconoscere il suo sapere; la loro curiosità

era certo insistente, ma le sue argomentazioni non sempre si rivelarono

sufficienti a convincerli, anche se erano ben disposti (e spesso non lo erano

affatto). Le persecuzioni, le difficoltà e le angherie che subì in Giappone

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influenzarono il suo progetto evangelizzatore, mettendo in primo piano la

necessità di acquisire autorità presso un popolo che, all’apparenza, non

prestava ascolto agli stranieri (come aveva scritto a Loyola)30.

La mancanza di un governo centralizzato costrinse Saverio ad

abbandonare il suo progetto di ottenere l’autorizzazione di predicare in tutto il

paese e quindi la speranza di avere maggior credito grazie al riconoscimento

di un’autorità nazionale; l’unica che rimaneva, nella sua ottica, era quella

religiosa delle università, che fossero i templi Zen del Gozan o i complessi

monasteriali come il monte Hiei31.

Adattandosi all’etichetta e ai costumi locali e facendo leva sulla

presenza dei mercanti portoghesi, Saverio era riuscito ad avere un permesso

per predicare a Yamaguchi, ma ormai si era reso conto che una conoscenza

superficiale delle credenze giapponesi non sarebbe stata sufficiente per

battere i monaci nelle dispute. In Giappone, la conoscenza non era solo

sufficiente alla predicazione, bensì necessaria32 e Saverio diede priorità allo

studio del buddhismo fino alla fine. La missione di Yamaguchi doveva quindi

essere la base della Compagnia nel paese, fino all’arrivo di gesuiti

specializzati dall’Europa e nel frattempo portare avanti la conversione dei

locali, imparando il più possibile sulle loro credenze.

Anche dopo l’iniziale disillusione, alla radice della centralità delle

università giapponesi nel piano evangelizzatore di Saverio rimaneva la

30 Da questo punto di vista, come succederà ad altri gesuiti in Asia negli anni successivi, le conoscenze scientifiche gli furono non di poco aiuto: “Nom sabião eles ho mundo ser redomdo, nem sabião o cursso do sol, pergumtando eles por estas coussas e per outras semelhamtes, a que nós respomdendo e declaramdo-lhas, ficavão muito contemtes e satisffeitos, temdo-nos por homens doctos, o que ajudou não pouquo pera darem crédito a nossas palavras”, scrisse ai gesuiti di Roma nel 1552 (Ruiz de Medina, 1990, p. 304). 31 Non sembra che i missionari si fossero resi conto che il complesso del monte Hiei fosse il centro della scuola Tendai, dato che nel 1560 il fratello Lorenzo di Hirado lo descrive ancora come “il capo delle sette e dei letterati di tutto il Giappone” (Ruiz-de-Medina, 1995, p. 267). 32 Cfr. Županov (2005b, p. 286)

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convinzione che fosse possibile trovare un linguaggio e una forma comune

per disputare di metafisica, in maniera non dissimile ai dibattiti contemporanei

fra cattolici e protestanti che avevano luogo in Europa. In seguito, persasi la

credenza che il buddhismo fosse una forma degenerata di cristianesimo,

rimase il riconoscimento dell’autorità delle istituzioni religiose locali, sopratutto

il monte Hiei prima, e il sistema Gozan dopo la distruzione dell’Enryaku-ji. La

parola università continuò ad essere usata, come si è visto, nel linguaggio

della missione; si trattava, ovviamente, di istituzioni che insegnavano “errori”,

a differenza delle università cristiane e i gesuiti gioivano ogni qual volta una di

esse veniva distrutta completamente o in parte33.

Il futuro della missione giapponese Il piano di Saverio per la predicazione in Giappone non sopravvisse molto più

a lungo di colui che l’aveva elaborato. Dopo la sua morte a Sancian, nel 1552,

gli successe Cosme de Torres, il quale fu superiore fino al 1570. Durante

questo periodo, Torres cercò di rispettare le direttive che Saverio gli aveva

lasciato: nel 1560, ordinò ai missionari Gaspar Vilela e Lorenzo di Hirado di

fare un altro tentativo di predicazione sul monte Hiei, considerato ancora

l’istituzione religiosa piu’ importante del paese. La missione però non andò a

buon fine e si concluse con un nulla di fatto. La raccolta di informazioni sul

buddhismo poté continuare, tramite alcuni convertiti che l’avevano studiato in

precedenza o con lezioni di monaci appositamente ricompensati.

D’altro canto, la centralizzazione di tutta l’opera missionaria della

Compagnia di Gesù in Asia, già iniziata sotto Loyola, stava procedendo

nonostante le enormi distanze: come menzionato in precedenza, Baltazar

Gago visitò la missione da Goa e scoprì una serie di errori nel catechismo

giapponese, dove termini buddhisti erano usati incorrettamente per tradurre

33 La distruzione del monte Hiei è descritta in una lettera di Frois del 1571, mentre la riduzione dell’importanza di Ashikaga gakkō da parte di Toyotomi Hideyoshi è descritta nella sua Historia (Frois, 1984, pp. 414–5), che nota che “para a propagação da ley de Deos Nosso Senhor não hé pequeno obstaculo tirado, porque dalli sahião os que nos vinhão fazer guerra, e confirmavam os gentios em suas malditas seitas e erros”.

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concetti cristiani. La riforma del linguaggio che egli attuò introdusse l’uso di

parole latine e portoghesi nel vocabolario cristiano, allontanandolo

ulteriormente dal contesto giapponese. Col tempo, il visitatore Alessandro

Valignano approvò l’adozione dell’etichetta giapponese (particolarmente

quella Zen) come maniera per acquisire autorità presso i giapponesi

(Valignano, 1946, pp. 81–2). Essendo le università giapponesi chiuse alla

predicazione cristiana, i missionari trovarono un appoggio nei mercanti

portoghesi che ogni anno venivano da Macao per il commercio della seta e in

seguito in quei daimyō del sud che si erano convertiti al cristianesimo. Alcune

delle istituzioni che Saverio avrebbe voluto convertire, poi, furono distrutte

durante le guerre che conclusero la pacificazione del paese, come l’Enryaku-

ji. In questa nuova situazione politica e sociale, l’acquisizione di status tramite

le università giapponesi perse importanza e del piano di Saverio rimasero

solo alcuni elementi frammentari, disgiunti dalla visione d’insieme che aveva

avuto il missionario per il Giappone.

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