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1 Università di Tor Vergata 13 aprile 2015 Il ruolo della post-logistica nei processi di riconfigurazione del mercato: il caso dei corrieri espresso Pietro Spirito docente incaricato di Economia dei trasporti presso la facoltà di Economia dell’Università di Tor Vergata Comitato Direttivo della Società Italiana di Politica dei Trasporti (www.sipotra.it)

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Università di Tor Vergata

13 aprile 2015

Il ruolo della post-logistica nei processi di

riconfigurazione del mercato: il caso dei

corrieri espresso

Pietro Spirito

docente incaricato di Economia dei trasporti presso la facoltà di

Economia dell’Università di Tor Vergata

Comitato Direttivo della Società Italiana di Politica dei Trasporti

(www.sipotra.it)

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L’èra della post-logistica ed il ruolo dei corrieri espresso

Viviamo una fase di riconfigurazione dei mercati e di ridefinizione dei perimetri di

gioco tra gli attori dei mercati: la globalizzazione prima, e la crisi poi, hanno

trasformato le dimensioni, la geografia e la struttura del campo di gioco. Per usare,

riadattandola, una metafora recentemente proposta per il settore portuale da Sergio

Bologna, siamo, per quanto riguarda i temi di cui parliamo oggi, in un’era di post-

logistica1.

La catena del valore costruita dagli attori del settore è in fase continua di

trasformazione, ed i confini tra le attività sfumano e si ricompongono secondo assetti

a geometria ancora variabile: potremmo dire, seguendo le tracce di Zygmunt

Bauman2, che siamo in presenza di una logistica liquida.

I confini tra settori specialistici sono ormai impossibile tra tracciare e da riconoscere.

I grandi operatori internazionali tendono a costituirsi in attori conglomerati che

presidiano i diversi segmenti, facendo ricorso a soggetti specializzati per comporre e

scomporre i servizi door-to-door, a loro volta estremamente variabili in funzione

della geografia dei flussi, in continua mutazione, e della formazione di mercati

intermedi del trasporto, che aumentano progressivamente la loro incidenza sul valore

complessivo delle transazioni.

I semilavorati, che un tempo erano a distanza ravvicinata dalla fabbrica o dagli

insediamenti produttivi, stanno sempre più diventando parte di un processo di

delocalizzazione industriale, che rende indispensabile un governo del trasporto e della

logistica sofisticato e complesso.

La lunga durata della stagnazione economica nei Paesi a capitalismo maturo sta

generando un processo di eccesso di capacità di offerta, nelle infrastrutture e nei

servizi, che determina un effetto di ridislocazione dei flussi delle merci, e di

conseguenza alimentano una riorganizzazione delle filiere di trasporto e di logistica, i

cui esiti debbono essere attentamente monitorati. Siamo in presenza non più di un

aggiustamento congiunturale, ma di una discontinuità strutturale.

L’insieme delle attività di trasporto risentono comunque ancora degli effetti della

crisi internazionale3. Mentre il PNL è cresciuto nel 2013 a livello mondiale del 3%,

con un rallentamento rispetto al 2012 (3,2%), si è continuato a registrare una forbice

tra il tasso medio europeo paro all’1,2,% al 2% nelle economie industrializzate

rispetto al 4,7% dei Paesi emergenti.

Nello stesso 2013, il commercio internazionale è cresciuto a livello mondiale del

2,4% (un valore inferiore all’aumento del PNL). Tra le tecniche ed i sistemi di 1 Sergio Bologna, “Verso un’era post-portuale?”, workshop organizzato da Sipotra (www.sipotra.it), 31 marzo 2015.

2 Zygmunt Bauman, “Modernità liquida”, Laterza, 2002.

3 I dati seguenti sono tratti da International Transport Forum, “Key transport statistics. 2013 data”, 2014

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trasporto principalmente utilizzati, i container hanno registrato un incremento del 5%,

ll trasporto aereo delle merci è aumentato dell’1,4%, segnando una inversione rispetto

alla contrazione del 2012, mentre il trasporto ferroviario delle merci, nei Paesi della

Unione Europea ed in Russia, ha segnato un tasso negativo (rispettivamente pari allo

0,7% ed all’1,2%), con un andamento invece positivo negli Stati Uniti (+1,3%). Le

quantità di trasporto merci su gomma è cresciuto sempre nel 2013 solo dell’1,3% in

Europa e dell’1,7% in Russia.

Negli Stati Uniti e nella Unione Europea i flussi di merce generati dal commercio

estero rimangono stagnanti, ai livelli pre-crisi del 2008. I Paesi BRICS e l’Asia

restano le locomotive della crescita. Il commercio estero della Cina per mare ed aereo

continua a crescere a ritmi intensi, sin dalla ripresa del 2010. I trasporti merci terrestri

nelle economie emergenti performano in modo intenso4.

Non sono tuttavia adeguate le imnformazioni statistiche che ci consentano di leggere

adeguatamente i processi di cambiamento in corso: “Il trasporto delle merci è

abitualmente caratterizzato per essere la linfa vitale di un Paese e del suo sviluppo

economico, ma il riconoscimento politico della sua importanza spesso non si estende

agli uffici di statistica”5. Dobbiamo quindi procedere a tentoni, utilizzando i dati

disponibili, cercando di metterne in evidenza le implicazioni con un ragionamento

deduttivo.

L’intensità delle attività di trasporto e logistica, misurata come percentuale delle

merci trasportate rispetto al PNL mostra forti variazioni tra differenti Nazioni: la

Norvegia giunge ad una intensità di trasporto pari a 13 volte quella del Sud Africa,

per la diversa struttura delle due economie e per la media di densità di valore delle

merci trasportate. L’Italia si colloca al dodicesimo posto in questa classifica, prima

della Germania, che è al quattordicesimo posto. Non si tratta necessariamente di un

buon segno, per gli effetti negativi che si traducono in maggiore congestione e

deterioramento della qualità ambientale. La Danimarca è un raro esempio di Paese

che applica politiche pubbliche tendenti alla “prevenzione del trasporto”.

Quello che manca è soprattutto una visione sistemica dei mercati e delle catene del

valore che si determinano nella struttura del flusso delle merci, modificando il ruolo

dei diversi soggetti economici. E’ il caso che riguarda in particolare il settore della

corrieristica, tradizionalmente legato, come era in origine, ai servizi postali, mentre

intanto la natura delle attività economiche gestite è cambiata in modo significativo,

orientandosi sempre più verso il commercio elettronico e la gestione di catene globali

di trasporto e logistica per le grandi e le medie multinazionali manifatturiere.

L’incrocio tra logistica e settore dei corrieri espresso mette innanzitutto in evidenza

una questione spesso sottovalutata nel dibattito pubblico su questi temi, che sono letti

4 Per una analisi efficace su queste informazioni, cfr. International Transport Forum, “Statistics Brief. Global trade and

transport”, giugno 2014. 5 Alan Mckinnon, “Performance measurement in freight transport”, International Tramsport Forum, febbraio 2015.

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più per le ricadute sulla connettività tra sistema produttivo ed economia mondiale che

non per gli elementi intrinseci e le dinamiche che si verificano in questo due settori.

Parliamo della questione del lavoro: “La conflittualità nei porti, negli aeroporti, sulle

autostrade, sui traghetti, nelle piattaforme logistiche, è molto elevata, senza confronti

con gli altri settori industriali o commerciali”6.

La competitività di prezzo, decisiva anche per lo sviluppo della globalizzazione, è

dovuta non soltanto alla evoluzione tecnologica dei due settori, ma anche ad un

livello di sfruttamento della manodopera nell’intera catena delle transazioni che

vanno dalla domanda di servizio alla consegna finale delle merci, o dei piccoli colli.

Questo assetto si è determinato progressivamente nel tempo, ed è acuito dalla catena

delle sub-forniture che caratterizza l’evoluzione dei due settori.

I processi di outsourcing non hanno riguardato solo il settore manifatturiero, come si

tende normalmente a valore osservare, ma anche l’industria del trasporto e della

logistica. Sono state esternalizzate le attività vettoriali, ed anche gli operatori di

trasporto di medio-grande dimensione, che disponevano di flotte proprie, si sono

orientati a ricorrere sempre di più a “padroncini” dì piccole dimensioni, che

competono costantemente al ribasso sul valore della propria prestazione.

Nei magazzini di logistica la frammentazione dei soggetti è stata ancora più

esasperata, soprattutto per le operazioni di manipolazione delle merci, non solo per il

ricorso alla terziarizzazione delle attività da parte degli operatori logistici, ma per una

catena di sub-forniture che in molti casi moltiplica i livelli di intermediazione, sino al

punto da determinare un abbassamento drastico delle condizioni salariali e dei livelli

di sicurezza per i dipendenti.

L’introduzione di contratti flessibili e precari ha esasperato ulteriormente la

condizione dei lavoratori, in termini di diritti e di salari decrescenti. I sindacati non

riescono ad intercettare questa domanda di cambiamento, e stanno a rimorchio di una

protesta sociale che monta, mentre i governi continuano ad applicare formule neo-

liberiste che hanno mostrato la corda, proprio negli anni di crisi.

La faccia nascosta della globalizzazione logistica, vale a dire le conseguenze in

termini di mercato del lavoro nel settore, va considerata attentamente, perché si tratta

di una bolla speculativa dal punto di vista sociale, destinata a presentare il proprio

conto, prima o poi.

Alla disarticolazione del sistema logistico nella sua organizzazione, corrisponde,

come in tutti i mercati maturi, una concentrazione degli operatori economici che

dominano la domanda e detengono quote crescenti di quota di mercato, riversando gli

effetti della crisi, che ancora perdura in molti Paesi, lungo la catena degli operatori

con minore potere e con minore capacità di assicurare ai clienti una prestazione

integrata, inserita all’interno delle reti mondiali dei flussi, che sono sempre più

6 Sergio Bologna, “Banche e crisi. Dal petrolio al container”, Derive Approdi, 2013, p. 9

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necessarie per presidiare i mercati, garantire tempi di consegna adeguati ai clienti

(industrie o individui).

Anche per questa ragione i confini, una volta più definiti, tra i diversi segmenti delle

attività di trasporto e di logistica tendono a farsi meno netti, e stanno nascendo

industrie conglomerate che si propongono di raggiungere masse critiche su scala

mondiale tali da superare barriere settoriali, svolgendo una funzione più baricentrata

sul ruolo di integratori di sistema, che non di operatori specializzati.

A pagarne il prezzo sono le industries tradizionali della vezione: il trasporto stradale

ed il trasporto ferroviario. Chi resta confinato entro un ruolo di specializzazione

settoriale diventa suddito delle conglomerate che aggregano attività e mercati,

svolgendo una funzione di feudatari rispetto ai vassalli ed ai valvassini. Si prospetta

un medioevo logistico che contrasta in qualche modo con la modernità che

tradizionalmente siamo tentati di attribuire a questa componente così rilevante del

processo di mondializzazione.

Secondo il recente studio presentato dalla sezione veicoli industriali dell’UNRAE

(Associazione dei costruttori esteri)7, l’autotrasporto, che sempre più è anello di una

catena governata dagli operatori logistici e dai corrieri espresso, soprattutto quando il

mercato degli operatori di trasporto è frammentato e ridondante in termini di

numerosità degli operatori con pochi mezzi, ha risentito pesantemente

dell’andamento economico del nostro Paese.

Nel quinquennio tra il 2008 ed il 2013, la percorrenza delle flotte italiane è calata

del 25%, il trasporto merci su strada si è ridotto del 35% ed il consumo di

carburante è calato del 37%, mentre il PIL, nello stesso periodo ha registrato una

contrazione di 9 punti percentuali.

Nello stesso tempo le percorrenze autostradali dei mezzi pesanti sono calate solo del

14,5%: una delle spiegazioni possibili di questo andamento può essere l’affidamento

all’autotrasporto della trazione primaria di lunga percorrenza, ottenuta grazie ad una

maggiore flessibilità e ad un minore prezzo dell’autotrasporto rispetto al trasporto

ferroviario, che vocazionalmente dovrebbe essere invece più competitivo proprio per

le lunghe percorrenze. Una quota della minore perdita di percorrenza autostradale per

i mezzi pesanti è sicuramente stata appannaggio delle flotte non italiane che

assicurano prezzi minori per gli operatori delle catene logistiche.

Negli anni della crisi duemila flotte di trasporto merci hanno cessato l’attività, mentre

altre hanno seguito la via delle fusioni, delle trasformazioni, dell’esodo di una parte o

di tutta la flotta verso altri mercati. La delocalizzazione delle attività di trasporto

merci ha determinato una contrazione per le entrate dello Stato: sono stati persi quasi

10 miliardi di euro per le accise, 420 milioni per mancati introiti IRAP. Sono stati

persi 197.000 posti di lavoro, che hanno determinato mancati contributi IRPEF per

1,3 miliardi di lire. 7 GIPA Italia, “L’esodo dell’autotrasporto dall’Italia e l’impatto sull’economia della filiera”, 2015.

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Nello stesso quinquennio sono andate perse circa 5.200 immatricolazioni annue di

veicoli registrati all’estero, con una perdita media annua per lo Stato di 1 miliardo di

euro. Insomma, anche le finanze pubbliche hanno pesantemente risentito di una

rilocalizzazione delle flotte alla ricerca di mercati del trasporto più dinamici rispetto

al nostro territorio. Anche in questo caso si sottovaluta una diversa geografia

industriale che modifica le coordinate dell’economia nazionale, impoverendola.

Sul declino della trazione ferroviaria merci, e sui tentativi di sua ripresa partendo da

una più stretta integrazione tra vezione e logistica, parleremo nei paragrafi successivi.

Basti qui solo dire che si è determinata in Europa una congiunzione astrale negativa,

che ha fatto coincidere l’avvio effettivo della liberalizzazione con l’inizio della crisi

economica che stiamo ancora vivendo, e che qualcuno comincia a definire la “guerra

dei setti anni”. Torneremo sulle piaghe ferroviarie più avanti.

In questa fase, alla crisi delle attività vettoriali si sta rispondendo con progetti

infrastrutturali molto impegnativi, che certamente non sono destinati a vedere la luce

in tempi brevi, e che comunque possono dare solo una opportunità di potenziamento

dei servizi, senza certezza in termini di competitività dei servizi stessi sul mercato.

La Russia sta progettando un mega sistema di infrastrutture per collegare Londra a

New York via Siberia. Il progetto è stato annunciato dal Presidente delle Ferrovie

Russe, Valdimir Yakunin, definendo Trans-Euroasian Development Bell (TEPR). Si

tratterebbe di realizzare accanto alla nuova rete ferroviaria (parallela in parte alla

vecchia Transiberiana), anche una grande strada., condutture per petrolio e gas,

impianti per l’energia elettrica e l’acqua, intere città. Insomma una infrastruttura

costosissima (nell’ordine di migliaia di miliardi di euro), in grado, secondo Yakunin,

intimo amico di Putin, di attivare una enorme ricchezza. Sarebbe interessante a

vantaggio di chi ….

Il programma di investimenti TEPR è stato paragonato alla elettrificazione su larga

scala della Unione Sovietica, portato avanti prima da Lenin, e poi da Stalin tra il 1920

e il 1935. Insomma, infrastrutturazione meno soviet, attualizzando il vecchio detto

bolscevico.

Intanto, cambiamenti radicali si delineano all’orizzonte nella mappa delle industrie

dedicate al mercato della corrieristica e della logistica. Mentre negli anni Novanta e

nel primo decennio del ventunesimo secolo, la Germania ha svolto un ruolo

determinante nelle trasformazioni di settore, con le acquisizioni di DHL da parte delle

poste tedesche e di Shenker da parte delle ferrovie tedesche, assumendo un ruolo di

vantaggio strategico nella industria della logistica e della corrieristica, gli Americani

tornano ad affacciarsi nuovamente con un ruolo attivo, probabilmente esito di una

fuoriuscita dalla crisi economica anticipata rispetto alla ancor sonnacchiosa Europa.

Nella forza dell’economia tedesca nel corso dei passati decenni non va sottovalutato

il ruolo di riposizionamento che è stato ottenuto grazie alle acquisizioni delle

principali società di corrieristica e di logistica: per l’economia germanica, Paese a

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forte vocazione esportatrice, poter contare sul controllo delle reti di flusso ha

costituito un vantaggio competitivo che ha favorito la conoscenza dei mercati

emergenti ed un accesso privilegiato ai flussi di merci ed alla costruzione delle catene

di penetrazione commerciale nei Paesi a più elevato tasso di sviluppo.

Ora l’ago della bilancia pare di nuovo spostarsi sull’altra sponda dell’Atlantico: il

gigante logistico e corrieristico FedEx, ad inizio del mese di aprile del 2015, ha

presentato una offerta per acquisire TNT Express, in un accordo valutato pari a 4,4

miliardi di euro, con un prezzo di offerta pari ad un terzo di incremento rispetto al

closing del titolo nella seduta borsistica del 2 aprile.

La proposta di acquisizione ha ricevuto l’approvazione da parte degli organi societari

di TNT Express. All’inizio del 2013, va peraltro ricordato che l’Antitrust europeo

aveva bloccato analoga operazione di acquisizione di TNT Express da parte di UPS,

l’altro gigante americano del settore.

La nuova società che nascerà dalla acquisizione conterà su 383mila dipendenti,

rispetto ai 484mila di DHL ed ai 435mila di UPS. L’aspetto più rilevante del nuovo

network che si viene a costituire con la fusione è rappresentato da 550 depositi e

centri di smistamento, che consentono di servire 44 Paesi nel mondo, con una rete

particolarmente fitta e ramificata in Europa.

Non è questa la sola mossa recente di FedEx, che dimostra in questi mesi un

dinamismo davvero impressionante: il corriere espresso americano basato a

Memphis, ha messo a segno un nuovo colpo8, di dimensione molto minore dal punto

di vista dell’impegno finanziario rispetto alla acquisizione precedentemente descritta,

ma invece molto rilevante per l’economia del nostro Paese, in questa fase di faticosa

uscita dalla lunga crisi.

FedEx ha deciso di investire 15 milioni di euro per triplicare gli spazi logistici di cui

dispone all’interno dell’aeroporto di Malpensa. Entro l’estate del 2016 è prevista,

nella Cargo City, la consegna di un nuovo magazzino altamente automatizzato per la

movimentazione delle merci: si tratta di un’area coperta da 15mila mq.

Del resto, FedEx è l’unica compagnia che effettua un volo diretto cargo tra gli Stati

Uniti e Malpensa, mettendo in collegamento l’area di Milano con l’hub principale

della compagnia, fornendo in questo modo all’industria italiana un potente strumento

di penetrazione nel mercato nord-americano, nel momento in cui la svalutazione

dell’euro nei confronti del dollaro realizza un vantaggio competitivo che dovrebbe

decisamente favorire i flussi dall’Italia verso gli USA.

Nel 2014 i colli trasportati da FedEx dall’Italia verso l’Europa sono cresciuti del

28%, rispetto al 6% dei flussi diretti verso gli Stati Uniti. Soprattutto con

l’acquisizione di TNT, ma anche con il rafforzamento della presenza cargo a

8 Marco Morino, “FedEx, maxibub a Malpensa”, Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2015, p. 13.

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Malpensa, FedEx lancia una sfida aperta agli altri grandi colossi del mercato, DHL ed

UPS.

Non è solo la dinamicità degli assetti tra gli operatori, e le mosse di quelli attualmente

più dinamici a determinare una continua trasformazione del mercato dei trasporti,

della corrieristica e della logistica.

Oggi l’elemento di maggiore innovazione è costituito dalla crescita, che sarà

progressivamente esponenziale nel tempo, del commercio elettronico, e delle

drammatiche implicazioni che tale tendenza implicherà in modo trasversale nella vita

economica, non solo per i settori di cui stiamo parlando, ma anche per la rete della

distribuzione commerciale e per le industrie manifatturiere. “La E-logistics può

essere definita in vari modi per la vastità delle implicazioni e delle interazioni nei

processi”9.

Questo canale di distribuzione logistica modifica radicalmente la relazione tra

produttori, distributori e consumatori: “Nel mondo contemporaneo compratori e

venditori interagiscono in modo crescente con internet, meccanismo di

comunicazione in cui l’informazione su prodotti e prezzi è facilmente collezionabile e

confrontabile, mentre i confini geografici smettono di giocare un ruolo

significativo”10

.

I mercati virtuali si distinguono nettamente da quelli tradizionali per due ragioni

essenziali: da un lato, in un mercato tradizionale al venditore è abitualmente applicata

una flet fee per usare finalizzata ad utilizzare un determinato logo per una determinata

unità di tempo; dall’altro, nelle transazioni via internet molte informazioni sono

registrate in modo tale che la fee per il servizio che dipende dalle vendite o dal

fatturato può dipendere da una molteplicità di variabili, in particolare dalla

remunerazione rispetto al fatturato che il venditore riceve.

I luoghi virtuali di mercato dell’e-commerce sono grandi bazaar che non dipendono

dalla localizzazione geografica. Parliamo di colossi come Amazon, eBay, Yahoo,

Cellbazar, e molti altri che cominciano a farsi una competizione feroce per

accaparrarsi clienti mediante la maggiore capacità di penetrazione verso il cliente

finale, per la varietà dei prodotti, offerti, per la rapidità nelle operazioni logistiche,

per la qualità dell’offerta selezionata.

Ne ho vissuto direttamente un caso, quando per quasi due anni sono stato direttore

generale dell’Interporto di Bologna. L’insediamento della Yoox, una newco che

opera nel commercio elettronico dei migliori marchi dell’alta moda italiana,

rapidamente quotatasi sul mercato borsistico per finanziare uno sviluppo a doppio

digit in anni di drammatica crisi per l’economia.

9 Andrei Angheluta, Crarmen Costea, “Utilization of E-lpgistics in multinational companies to obercome diffuculties of

today’s economic environment”, in Management & Marketing”, 2010, 10

Alexander Matros, Andry Zapechelnyuck, “Competition of e-commerce interdermedaries”, School of ecconomics and finance, working paper n. 675, novembre 2010, p. 1.

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La Yoox ha cambiato il panorama del sistema interportuale bolognese. Intanto, per la

rapida crescita di spazi necessari per lo stoccaggio e la manipolazione dei capi. Ma

poi anche per la dinamicità dei tassi di crescita della società e per la sua rapida

penetrazione sui mercati internazionali, con la conseguente necessità di aprire nuovi

magazzini in giro per il momento, ed in particolare per la Cina, mercato dinamico ad

alto tasso di crescita della domanda.

In questo caso la stessa idea di business è legata ad un concetto di innovazione

tecnologica e logistica allo stesso tempo: vendere in vetrina elettronica i prodotti

dell’alta moda italiana, con la possibilità di ricevere i casi scelti a casa, e di poterli

riconsegnare senza spese nel caso in cui il prodotto non corrisponda poi al gusto del

consumatore.

Diversa è l’esperienza che stanno maturando assieme, attraverso una alleanza, e

proprio in concorrenza con Yoox, Missguided, la società di shopping di moda on line,

e Norbert Dentressangle, operatore logistico, che hanno stretto un accordo della

durata di sette anni per la gestione delle operazioni di e-commerce internazionali. ND

e Missguided investiranno nel nuovo centro di distribuzione costruito appositamente

a Manchester, in sostituzione dell’attuale struttura di Missguided a Salford. Intanto

ND assume in base all’accordo, la gestione del centro di distribuzione esistente, con i

250 dipendenti di Missguided, e diventa responsabile per tutte le attività svolte nel

deposito, compresi il ricevimento delle merci in arrivo dai fornitori e la gestione della

raccolta, dello smistamento, del confezionamento, della spedizione e dei resi.

I lavori della nuova sede di Manchester inizieranno la prossima estate e

l’inaugurazione è prevista il primo semestre del prossimo anno. Grazie alle

soppalcature, i 23.000 mq della struttura forniranno una superficie calpestabile di

circa 93.000 mq, uno spazio cinque volte maggiore rispetto alla sede attuale.

Rispetto al modello di Yoox, che lascia all’azienda logistica solo la fase della

consegna e della gestione dei resi, gestendo direttamente il magazzino, in questo caso

l’operatore dell’e-commerce ha deciso di integrare le diverse fasi del ciclo logistico

ad una azienda specializzata del settore.

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L’evoluzione della geografia logistica ed il ruolo dell’Italia

Uno dei grandi players della logistica immobiliare, Prologis, ha pubblicato

recentemente un interessante rapporto sulla geografia logistica europea: "Europe's

most desiderable logistics locations. Logistics facility users survey 2013".

Ancora una volta si conferma la marginalità del nostro Paese nella mappa strategica

delle localizzazioni logistiche. Nessuna area italiana rientra nella parte alta della

graduatoria effettuata da Prologis, con la collaborazione di Eyefortransport, sulla base

di un questionario che è stato somministrato ai principali utilizzatori finali di servizi

logistici.

Le prime tre top locations europee sono collocate in Olanda e Belgio: Venlo, Anversa

e Rotterdam. Solo due tra le prime dieci aree individuate sono estranee all'area

dell'Europa nord occidentale continentale: si tratta di Madrid e della Romania. Venlo

registra un punteggio quasi doppio rispetto al secondo sito classificato.

Questo modello di geografia logistica è il frutto da un lato di una eredità di carattere

storico nella densità degli scambi, che vedeva sino a quale decennio fa la prevalenza

della rotta atlantica di collegamento tra Stati Uniti ed Europa nella movimentazione

complessiva delle merci mondiali, e dall’altro di una evoluzione dinamica dettata nei

decenni più recenti dai flussi del commercio internazionale, che si sono rieorientati

verso una crescente rilevanza delle rotte asiatiche.

Entrambi questi flussi principali, che sono cambiati nel tempo, hanno visto l’Italia

come sistema terminale di arrivo e partenza delle merci, più che come elemento di

nuova centralità geografica nel commercio internazionale. Tale andamento continua a

penalizzare la competitività logistica ed industriale di un Paese come il nostro, che

resta ad elevata densità, pur se decrescente, manifatturiera.

Abbiamo predicato una centralità logistica dell’area del Mediterraneo che rischia di

essere ulteriormente erosa dal prossimo potenziamento del canale di Panama: si

determinerà per questa via una riorganizzazione dei flussi marittimi destinata ad

erodere il passaggio attraverso Suez a vantaggio degli approdi nei porti del Nord

Europa.

Si tratta quindi di riflettere sulle implicazioni che si stanno determinando nella

articolazione delle grandi rotte marittime e nella consistenza dei flussi lungo i

principali corridoi di traffico. La frammentazione dei porti italiani, e la competizione

interna che si determina per effetto di una mancanza di scelte di gerarchizzazione e di

specializzazione, complica ulteriormente il quadro, e rischia di generare un ulteriore

effetto di spiazzamento competitivo, che può determinare una ulteriore

marginalizzazione logistica per il nostro Paese.

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Sono quattro le categorie prese in considerazione dallo studio di Prologis per

generare la classifica sulla attrattività dei siti logistici europei:

1) prossimità a network economici ed accesso strategico ai trasporti;

2) prossimità a clienti e venditori;

3) lavoro e governo;

4) infrastrutture.

Le quattro categorie sono a loro volta articolate in 13 criteri.

Venlo registra la migliore performance per tre delle quattro categorie considerate;

solo la regione Reno-Ruhr, che si colloca complessivamente al quinto posto nella

classifica europea, registra, per quanto riguarda la prossimità a clienti ed imprese, la

performance migliore.

Il Rapporto di Prologis, oltre a generare il ranking sulle più attrattive locations

europee di logistica nel 2013, ha chiesto al campione di proiettare le previsioni sulla

attrattività logistica dei diversi territori europei per il prossimo quinquennio.

Nulla cambierà di sostanziale nella top ten, pur se si ridurrà il vantaggio competitivo

di Venlo, che resterà comunque alla testa della graduatoria. Nelle posizioni di

rincalzo, crescerà la capacità attrattiva delle location nell'Est e nel Centro Europa, in

particolare Praga ed Istanbul.

La centralità della rotta europea centrale, che collega i porti del Nord Europa con il

nostro Paese passando per la Germania, si bilancerà progressivamente con una

rilevanza delle rotte che interessano le nuove localizzazioni industriali dell’Est

Europa.

Si tratta di una tendenza che non può non essere considerata nella elaborazione delle

decisioni strategiche che riguardano l’assetto logistico del nostro Paese: per

agganciarsi alle dinamiche strategiche che si stanno determinando, occorrerà porre

particolare attenzione ai comportamenti ed alle scelte dei principali vettori della

navigazione mondiale, che stanno operando, in un mercato che sente ancora i morsi

di una crisi prolungata, in logica di gerarchizzazione e di concentrazione dei flussi

primari.

“Il disegno del network logistico (LND) e la localizzazione delle facilities sono

decisioni strettamente correlate … Iniziative green-field sono meno frequenti

comparate a progetti di ridisegno di assetti esistenti”11

. Si tratta, insomma, di una

manutenzione straordinaria dei flussi e dei conseguenti assetti logistici, che richiede

estrema flessibilità da parte degli operatori che attraversano l’intera filiera; essi non

possono congelare eccessivamente le proprie risorse finanziarie in capitale fisso, per

dover poi sopportare i costi di una riorganizzazione delle strutture fisiche che

11

DSibel A. Alimur, Bahar Y. Kara, M. Teresa Melo, “Location and logistics”, working paper n. 5, Saarland Univeristy of applied sciences, Saarland Business

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12

costituiscono nodo delle reti attorno alle quali si disegna e si riarticola la struttura dei

flussi.

Le scelte degli operatori saranno guidate da un bilanciamento tra costi di trasporto e

costi di magazzinaggio, con una maggiore incidenza del commercio elettronico, che è

destinata a segnare una evoluzione nella struttura dei canali distributivi, e quindi

anche nell'assetto della logistica.

Se oggi per il 45% del campione intervistato il modello logistico è già europeo

(piuttosto che nazionale, regionale o locale), questa prevalenza della dimensione

continentale sarà dominante per il 64% degli intervistati nel 2018.

Per i cambiamenti che si determineranno nel prossimo quinquennio, i fattori

maggiormente rilevanti saranno:

- i prezzi crescenti dell'energia e dei carburanti;

- la disponibilità di personale qualificato;

- i miglioramenti infrastrutturali.

Dieci degli undici driver individuati per il cambiamento nelle scelte logistiche

condurranno a processi di ulteriore consolidamento ed a scelte di concentrazione. In

particolare, per l'82% degli intervistati si genereranno ulteriori processi di

concentrazione tra gli operatori logistici su scala internazionale.

E l'Italia ? È ancora fuori dalla mappa, come spesso accade. In assenza di scelte

chiare di posizionamento strategico coerenti con l’evoluzione del panorama del

commercio internazionale, rischiamo davvero di subire ulteriori processi di

marginalizzazione, con effetti negativi sulla competitività non solo della nostra

industria logistica, ma anche del nostro sistema manifatturiero.

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13

Le traiettoria della intermodalità nello sviluppo del sistema dei

trasporti e della logistica: opportunità e rischi

1. L’intermodalità: un sistema operativo necessario per la modernizzazione dei

trasporti

In generale, possiamo definire intermodalità “quel concetto di trasporto dei

passeggeri e delle merci con due o più differenti modi di trasporto durante un singolo

viaggio, effettuato in modo tale che tutte le parti del processo di trasporto, inclusi gli

scambi di informazione, siano connesse e coordinate in modo efficiente”12

. Più

specificamente, si definisce intermodalità, nel settore delle merci, quella tecnica di

trasporto che consente ad una unità di carico di utilizzare, per raggiungere la sua

destinazione finale, differenti sistemi di trasporto senza manipolare la merce nella

fase di cambio tra i diversi modi.

L’intermodalità, oltre ad essere una tecnica di trasporto sempre più utilizzata per

effetto della crescita dei processi di globalizzazione, rappresenta un indicatore

qualitativo del livello di integrazione tra i diversi sistemi di trasporto, in termini di

infrastrutture, operazioni, attrezzature, servizi e condizioni di regolamentazione.

L’efficienza dell’offerta intermodale di un Paese rappresenta una proxi efficace del

suo grado di adeguatezza complessivo, in quanto il funzionamento dell’interscambio

modale dipende essenzialmente dalla integrazione efficace tra le diverse componenti

che ne determinano il funzionamento, vale a dire i terminali intermodali (porti,

aeroporti, interporti, scali ferroviari), le attività vettoriali (ferrovia, strada, mare,

aereo), i servizi di interscambio modale (carico e scarico, manovre,

terminalizzazioni).

Che l’efficienza della offerta intermodale sia una componente determinante del suo

successo, deriva dal fatto che la rottura di carico introduce comunque costi aggiuntivi

e rischi di incertezza operativa al flusso della merce. “Per rendere il trasporto

intermodale una alternativa preferibile al trasporto camionistico, i costi generalizzati

di trasporto dovrebbero essere eguali o più bassi, in modo tale che gli extra-costi

dovuti al carico e scarico nei terminal intermodali possano essere compensati da costi

più bassi nelle relazioni lunghe di trasporto”13

. Si stima che i costi aggiuntivi

derivanti dalle operazioni di carico, scarico e trasbordo delle unità intermodali

costituiscano tra il 25% ed il 40% del costo totale di movimentazione di una unità

intermodale nella logica di un collegamento door to door.

12

Christopher M. Monsere, “Trends in intermodal freight transportation”, Portland State University, dattiloscritto 2007. 13

Thor-Erik Sandberg Hanssen, Terje Andreas Mathisen, Finn Jorgensen, “Generalized transport costs in intermodal

freight transport”, 15th

meeting of the Euro Working Group on Transportation, 2012, p. 2.

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14

Per questa ragione è indispensabile non solo che le singole componenti che ne

determinano la catena del valore siano prodotte con un adeguato grado di efficienza,

ma anche che siano costruite quelle condizioni di adeguata connessione tra gli anelli

del processo intermodale, in modo tale che il flusso nella sua interezza sia adeguato

alle caratteristiche della domanda, in termini di costo e di qualità della prestazione

erogata. “Essendo l’intermodalità il risultato di una catena multi-attoriale è naturale

che il tema del coordinamento, informazione e comunicazione sia assai rilevante dal

punto di vista dell’analisi degli incentivi alla collaborazione ed all’influenza che ha il

potere di mercato e la struttura gerarchica della catena nel determinare il risultato

collaborativo”14

.

Veniamo da una storia dei trasporti del secolo passato caratterizzata da un

approccio settoriale per singola modalità: “Ciascun modo di trasporto (aereo,

fluviale, marittimo, attraverso oleodotti, ferroviario, stradale) ha attraversato la

propria evoluzione tecnologica ed è stato funzionalmente separato da una specifica

struttura di regolamentazione concepita per singola modalità”15

. Per usare una

metafora che possiamo mutuare dal mondo dell’information technology,

l’intermodalità dovrebbe essere il sistema operativo che consente ai diversi pacchetti

applicativi (le singole modalità di trasporto) di funzionare in modo coordinato ed

efficace. Si tratta quindi di comprendere che, per effettuare una piena rivoluzione dei

trasporti in senso intermodale, serve assegnare alla progettazione ed alla gestione

della intermodalità un ruolo centrale, che sinora è mancato.

Mentre l’evoluzione delle tecniche di trasporto ha continuato a progredire

essenzialmente secondo una logica strettamente settoriale, i cambiamenti profondi

delle strutture industriali hanno generato una domanda crescente di servizi

intermodali di mobilità delle merci. Si è creata una forbice tra domanda ed offerta

di connessioni intermodali che ora deve essere ricucita: l’unitizzazione dei carichi,

con i container e le casse mobili, ha reso possibile la riduzione dell’attrito nello

scambio tra le diverse modalità di trasporto, senza che si mettesse però in discussione

una organizzazione delle reti e dei servizi secondo una logica essenzialmente

monomodale.

Nel ventunesimo secolo il trasporto intermodale delle merci deve essere quindi

reinterpretato sulla base di requisiti che corrispondono alle catene globali della

logistica. Si tratta di un percorso in buona parte ancora da compiere. Forzare in senso

intermodale un sistema di trasporto concepito secondo una logica di articolazione

monmodale comporta conseguenze che oggi vengono pagate in termini di costi

aggiuntivi, o di minore efficienza di processo.

14

Romeo Danielis, “Il trasporto intermodale ferroviario: quale ruolo per l’analisi economica ?”, Riunione annuale

SIET, Genova 18-20 novembre 2004. 15

William DeWitt, Jennifer Clinger, “Intermodal freight transportation”, Committee on intermodal freight transport,

2000.

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15

2. Intermodalità obbligata ed intermodalità opzionale

L’evoluzione delle tecnologie di trasporto determinata dalla unitizzazione dei carichi

ha consentito di estendere il raggio di applicazione della intermodalità. Con la

delocalizzazione delle fabbriche nei Paesi di nuova industrializzazione, è

inevitabilmente cresciuto il flusso degli interscambi su scala mondiale, e si sono

sviluppati trasporti che mettono in connessione da un lato i diversi insediamenti

produttivi per gli scambi di semilavorati e dall’altro le fabbriche con i mercati finali

di sbocco.

E’ per questa via aumentata quella che viene definita la intermodalità obbligata,

vale a dire quella condizione in base alla quale, per la lunghezza e la complessità dei

percorsi della merce, non è più una scelta la soluzione di utilizzare due o più modi di

trasporto, ma una necessità inderogabile. Del resto, più si allunga la distanza percorsa

dalla merce, meno incidono in termini percentuali i costi di trasbordo tra le diverse

modalità, rendendo per questa via l’intermodalità anche maggiormente competitiva,

oltre che necessaria: la globalizzazione dell’economia ha generato dunque

inevitabilmente un crescita robusta nel ricorso a soluzioni intermodali di trasporto.

In questo processo di internazionalizzazione della intermodalità, un ruolo essenziale è

stato giocato dalla marittimizzazione dell’economia: “L’intermodalità ha spinto i

porti a orientare in via prioritaria la loro attività verso l’interno anche a grandi

distanze, modificando la natura stessa del retroterra e producendo territori di

discontinuità in particolare delle aree situate subito a ridosso del porto stesso”16

.

Abbiamo assistito, sul finire del ventesimo secolo, ad una esplosione dei flussi di

merce nel commercio internazionale, che è cresciuto in termini reali di valore più di

sette volte nell’arco di un ventennio: da 0,45 trilioni di dollari alla fine degli anni

sessanta a 3,4 trilioni nel 1990.

La containerizzazione dei trasporti ha largamente influenzato questo processo,

rendendo possibile una razionalizzazione dei flussi, un drastico incremento nelle

capacità di carico del trasporto marittimo, una riduzione dei costi nelle operazioni di

trasbordo, una armonizzazione progressiva nelle procedure amministrative.

La diffusione in larga scala nell’uso del container ha superato il collo di bottiglia nel

traffico merci internazionale che era costituito dall’interfaccia tra trasporto marittimo

e trasporto terrestre. Originariamente, anche nel secondo dopoguerra e sino alla

rivoluzione dei container, spesso due terzi del tempo produttivo delle navi era

destinato alle operazioni portuali di carico e scarico. L’influenza di questa

rivoluzione nella tecnica dei trasporti deve essere letta lungo l’intera catena del flusso

logistico, inducendo una profonda trasformazione nella organizzazione del ciclo

intermodale.

Gli effetti sulla produttività delle operazioni nelle banchine portuali, stimati in uno

studio di McKinsey per il governo britannico nel 1972, si sono tradotti in un salto di 16

Paolo Sellari, “Geopolitica dei trasporti”, Laterza, 2013, p.25.

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16

scala drastico: la produttività di un lavoratore portuale è passata da 1,7

tonnellate per ora, prima della rivoluzione del container, a 30 tonnellate. I tempi

di trasporto tra l’Australia e l’Europa si sono ridotti da 70 a 34 giorni, generando

una vera e propria rivoluzione nelle scorte delle aziende manifatturiere aperte al

commercio estero.

Sino agli anni Novanta è dimostrato che l’impatto più rilevante sul commercio

mondiale si è determinato nei flussi di trasporto tra i paesi maggiormente

industrializzati, nelle relazioni Nord-Nord17

. Successivamente i flussi sono cambiati,

per effetto delle profonde innovazioni indotte dalle scelte di localizzazione

industriale, al punto tale che nel 2009 “le relazioni commerciali europee con i mercati

asiatici sono tre volte maggiori rispetto a quelle transatlantiche”18

. In un arco di

tempo molto ristretto, essenzialmente grazie alla riorganizzazione logistica, la

geografia economica e politica del mondo è cambiata rapidamente.

Le catene lunghe del trasporto hanno anche determinato una maggiore e

crescente articolazione delle spedizioni intermodali, che spesso devono sopportare

più rotture di carico, e diverse modalità di trasporto coinvolte nel processo di

produzione. La tratta prevalente di lungo raggio viene svolta in modo dominante dai

vettori marittimi, che spesso stanno passando dall’essere puri “carrier” delle

spedizioni ad operatori “merchant”, facendosi carico della consegna della unità di

carico sino al cliente finale.

Questa evoluzione corrisponde anche all’esigenza, sentita dai clienti, di ridurre la

catena dei costi di transazione che si rendono necessari quando l’articolazione del

trasporto intermodale viene segmentata tra più operatori che sono responsabili dei

singoli tasselli di processo. Inoltre, con l’accelerazione dei processi di

delocalizzazione produttiva hanno assunto rilevanza, accanto alla consegna del

prodotto finito dalla fabbrica al cliente, anche i flussi interstabilimento dei beni

intermedi e dei semilavorati: dal concetto distrettuale dell’industria primaria

approvvigionata da fornitori limitrofi, anche la costellazione degli scambi di beni

intermedi è entrata dentro la rete delle connessioni internazionali.

Paradossalmente, mentre cresceva per effetto della globalizzazione

l’intermodalità obbligata, connessa ai grandi flussi marittimi su scala

internazionale, si è venuta riducendo, in alcuni contesti, l’intermodalità

terrestre, che aveva rappresentato invece la principale strada di crescita di questa

tecnica di trasporto nei decenni precedenti. E proprio la pressione determinata dalla

enorme crescita dei flussi di merce che sono stati determinati per effetto della

globalizzazione e della marittimizzazione dell’economia ha reso ancora più strategica

17

Per un approfondimento sull’impatto della rivoluzione dei container sul commercio internazionale e sullo sviluppo

della intermodalità, cfr. in particolare di Daniel M. Bernhofen, Zouheir El-Sahli, Richard Kneller, “Estimating the

effects of the container revolution on world trade”, Lund University, febbraio 2013. 18

Agostino Cappelli, Alessandra Libardo, Elena Fornasiero, “L’impatto del trasporto intercontinentale di merci”,

University IUAV, 2011, p. 1.

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17

la riorganizzazione necessaria della intermodalità terrestre, che rischia di essere il

vero e proprio collo di bottiglia per i grandi flussi di merce su scala internazionale19

.

Tale fenomeno ha assunto dimensioni particolarmente rilevanti in alcuni Paesi, tra i

quali l’Italia, ed è connessa, per via indiretta, al processo di liberalizzazione

comunitaria del trasporto ferroviario, che si è realizzato compiutamente a partire dal

2007.

Nella lunga stagione della statalizzazione ferroviaria europea, l’intermodalità terrestre

si era sviluppata essenzialmente grazie al traino assicurato da basse tariffe di trazione

ferroviaria, che avevano attratto il mercato a scegliere anche tale soluzione,

soprattutto per i collegamenti nazionali lungo la direttrice fondamentale del Paese,

quella dei collegamenti tra il Nord ed il Sud dell’Italia, oltre che per l’accessibilità

verso la Germania ed il centro dell’Europa.

Tale assetto aveva certamente drogato il mercato, che si era abituato a considerare

l’intermodalità terrestre una soluzione competitiva essenzialmente sul fronte della

convenienza economica, resa possibile da politiche di prezzo dei monopolisti

ferroviari che collocavano sul mercato il costo della trazione ad un valore

assolutamente non corrispondente non solo ai reali costi di produzione (inefficienti),

ma anche ad un ipotetico costo di produzione sulla frontiera della efficienza.

Eravamo in una stagione nella quale il trasporto ferroviario intermodale era

funzionale per calmierare, almeno parzialmente, i prezzi della soluzione tutto-

gomma, e quale tecnica di supporto per evitare una totale dipendenza

dall’autotrasporto, che restava comunque la soluzione dominante.

L’avvio della liberalizzazione ferroviaria ha indotto, inevitabilmente, gli

incumbent del settore ad abbandonare politiche di sostegno alla intermodalità

attraverso prezzi di trazione ferroviaria largamente sotto la frontiera dei costi

efficienti, che non si conciliavano più con l’applicazione di concetti di mercato e di

competizione, che impongono il pieno recupero della razionalità economica da parte

degli operatori di settore.

In assenza di esplicite scelte di incentivazione pubblica verso l’intermodalità, che

sono state adottate da diversi Paesi europei (in particolare dalla Svizzera, dall’Austria

e dalla Germania), la rete dei servizi intermodali nazionali terrestri presente in Italia,

nel giro di pochi anni, è stata sostanzialmente azzerata. Mentre l’ex monopolista

abbandonava una produzione di servizi ferroviari intermodali a prezzi assolutamente

squilibrati rispetto ai costi di produzione, i nuovi entranti non erano nemmeno in

grado di sostituirsi, perché il mercato si era intanto abituato a corrispettivi della

trazione ferroviaria inferiori rispetto ai costi efficienti di produzione.

19

Per una analisi sulla rilevanza dei flussi di interscambio interno del traffico terrestre in rapporto ai flussi di traffico

marittimo, cfr. Jean Paul Rodrigue, Theo Notteboom, “Dry ports in European and North American intermodal rail

systems: two of a kind ?”, dattiloscritto, 2011. Se si considera la struttura dei costi di trasporto, scrivono gli autori, “i

trasporti terrestri contano per la parte dominante (80%) del costo del trasporto, mentre il trasporto marittimo conta per il

restante 20%”.

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18

Insomma, si è generata in Italia una forbice tra incremento della intermodalità

obbligata, indotta dai processi di marittimizzazione degli scambi economici, e

decremento della intermodalità opzionale, soprattutto nella componente dei

trasporti terrestri di medio e lungo raggio. Questo fenomeno asimmetrico ha

indebolito la completezza della gamma dei servizi intermodali complessivamente

intesi, impoverendo l’effetto di rete ed inducendo un vantaggio competitivo

determinante alla soluzione di una intermodalità marittima baricentrata nella

soluzione integrata tra nave e gomma. Per questa via si è consolidato ulteriormente,

in Italia, il potere di mercato dell’autotrasporto, oltretutto sostenuto da una politica di

aiuti di Stato al settore.

L’intermodalità opzionale, che si era sviluppata prima dei processi di globalizzazione

decisivi per spingere verso l’intermodalità obbligata, ha lasciato però in eredità un

prezioso patrimonio di competenze e di esperienze, indispensabile per consentire di

dispiegare gli effetti della rivoluzione nei trasporti che abbiamo conosciuto a cavallo

tra la fine del secolo passato e l’inizio del ventunesimo secolo. Le unità di carico

intermodali si sono standardizzate progressivamente nel corso del tempo, ed il

container è diventato lo strumento prevalente della intermodalità marittima, mentre la

cassa mobile ha assunto la stessa funzione nella intermodalità terrestre.

Le operazioni di carico e scarico delle unità intermodali si sono consolidate nella

curva di apprendimento dei decenni passati, ed hanno conosciuto processi di

miglioramento e di efficienza costanti. Insomma, standardizzazione delle unità di

carico e miglioramento dei processi industriali nei terminali hanno costituito le

premesse necessarie per la crescita dei traffici merci su scala internazionale.

E’ il trasporto intermodale non accompagnato, nel caso delle merci, ad aver

conosciuto lo sviluppo più intenso, grazie alla rete dei collegamenti marittimi

mondiali, alla standardizzazione delle unità di carico, allo sviluppo di una rete di

terminali intermodali che hanno investito nella automazione delle operazioni di

carico e scarico.

La velocizzazione di queste operazioni si è determinata in particolare nei sistemi

portuali, per le necessità connesse al gigantismo navale, ed all’elevato costo di

immobilizzazione delle grandi imbarcazione di transhipment, che devono

inevitabilmente minimizzare i tempi di sosta nei porti per poter ammortizzare gli

elevati costi di investimento.

Non si sono invece evolute in modo economicamente sostenibile le tecniche di

trasporto intermodale accompagnato, che prevedono, come nel caso dell’autostrada

viaggiante, l’inoltro anche della tara costituita dal mezzo di trasporto su gomma e

dell’autista del camion, che viaggia su un vagone dedicato. La costosità di questa

tecnica la rende ancora oggi quasi totalmente dipendente dai sussidi pubblici dei

Governi, ed è utilizzata in modo significativo per l’attraversamento alpino, nei

collegamenti Italia-Austria, Italia.-Svizzera ed Italia-Francia.

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19

Nel caso del trasporto ferroviario intermodale marittimo, uno degli ostacoli che

ancora non è stato rimosso per sviluppare tale tipologia di traffico riguarda l’assetto

infrastrutturale nei porti e l’efficienza delle operazioni di manovra ferroviaria nei

segmenti terminali delle tratte. La riforma portuale realizzata in Italia con la legge

84/94 ha assegnato alla titolarità delle Autorità Portuali le infrastrutture ferroviarie

che insistono entro il perimetro dei porti stessi.

Questo assetto ha generato una sorta di “no man’s land”, in quanto le reti terminali di

collegamento tra i terminali ferroviari e le banchine stanno dentro due giurisdizioni

diverse: quella del gestore della rete ferroviaria nazionale, per il primo tratto, e quella

dell’Autorità Portuale, per il secondo tratto. L’esito che si è determinato è una

mancanza di investimenti che sarebbero necessari per modernizzare le reti ferroviarie

terminali, dalla cui inadeguatezza dipende spesso sia la costosità delle operazioni di

manovra, sia l’inadeguatezza del livello di servizio.

D’altra parte, la gestione delle manovre nei porti, in molti casi, è caratterizzata da un

livello di costo troppo elevato, che incide in modo significativo sulla struttura

complessiva del servizio intermodale terrestre, soprattutto quando le tratte ferroviarie

da servire sono di medio raggio, come inevitabilmente accade, per motivi oggettivi di

natura geografica, nei collegamenti tra porti italiani del Nord e retroterra industriale

della Pianura Padana.

Insomma, siamo ad un crocevia strategico per il futuro del sistema dei trasporti e

della logistica nel nostro Paese: servono azioni per tornare a far crescere

l’intermodalità opzionale, che costituisce poi un anello di congiunzione fondamentale

per la sostenibilità anche della intermodalità obbligata.

Il futuro delle piattaforme logistiche nazionali dipenderà dalla capacità di generare

una rete di servizi intermodali che non solo mettano in connessione i territori di

produzione e di consumo del nostro Paese, ma che siano anche in grado di costituire

terreno di attrattività per le merci destinate all’area centro-meridionale ed orientale

dell’Europa.

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20

Il ridisegno strategico degli interporti

Per gli interporti, come per tutti gli attori economici del nostro tempo, la crisi che

stiamo vivendo deve essere una occasione di profondo ripensamento strategico. Non

si uscirà da questo cunicolo recessivo nel quale siamo ormai infilati da più di sei anni,

se non si riusciranno ad interpretare in modo nuovo le coordinate di una

organizzazione economica che ereditiamo dal ventesimo secolo, e che non risulta più

adeguata per sintonizzarsi con i profondi processi di trasformazione che intanto si

sono determinati.

Gli interporti sono stati una felice intuizione italiana, a cavallo degli anni settanta ed

ottanta del secolo passato. Delocalizzare il traffico merci dai centri urbani, costituire

unità immobiliari per la logistica connesse alle principali reti di trasporto (strade,

autostrade, ferrovia, collegamenti con i porti), fare massa critica per assicurare alle

aziende insediate economie di scala ed economie di scopo: questi sono gli obiettivi

che erano nella intuizione felice del concetto di interporto, e, nelle migliori

esperienze italiane, i risultati sono stati raggiunti, con esiti sostanzialmente positivi.

Poi, qualcosa ha cominciato ad andare per il verso sbagliato: sono proliferate le

strutture interportuali anche laddove non sussistevano le condizioni logistiche ed

industriali per una operazione di successo. E’ entrata in crisi l’intermodalità

ferroviaria, che era una delle ragioni costitutive di queste strutture, che dovevano

anche favorire una riconversione modale degli operatori dalla strada al ferro. Si sono

perse in molti territori alcune radici industriali che costituivano per gli interporti il

retroterra produttivo indispensabile per alimentare lo sviluppo.

Ora viene il tempo, proprio per queste ragioni, per ripensare il concetto e la funzione

economica dell’interporto nel ventunesimo secolo: da business prevalentemente

immobiliare, fondato sulla capacità di offrire agli operatori ed al mercato magazzini

adeguati a prezzi competitivi, occorre andare verso una logica di erogazione di servizi

a corredo di un sistema logistico, che è diventato sempre più cerniera strategica di

primaria importanza tra la produzione delocalizzata ed il mercato globale.

Agli interporti tocca una difficile quadratura del cerchio: devono cavalcare al tempo

stesso la miopia, sapendo guardare bene da vicino il tessuto economico locale,

diventandone punto di riferimento con capacità crescente di attrazione, e

l’ipermetropia, sapendo guardare lontano, ai grandi flussi internazionali del trasporto

delle merci, che ormai è guidato da un processo di marittimizzazione dei flussi, per

cui la parte terrestre delle connessioni è diventata progressivamente un ultimo miglio

che si è esteso di portata e di dimensione.

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21

Questo doppio salto concettuale verso il futuro implica investimenti cognitivi nei

servizi che possono essere di effettivo supporto alle comunità di imprese che

decidono di mettere le proprie radici logistiche negli interporti. Si tratta in particolare

di sviluppare:

servizi per l’internazionalizzazione, favorendo lo sviluppo di connessioni

trasportistiche, in particolare intermodali, verso i mercati di sbocco per le

produzioni locali e dai mercati di provenienza dei semilavorati e delle materie

prime strategiche per il sistema industriale territoriale; essere nodo del “core

network” della rete transeuropea costituisce elemento vitale per la strategia

degli interporti italiani;

efficienti relazioni con i principali porti, che rappresentano, e sempre più

rappresenteranno lo snodo primario degli scambi, innovando, in una logica di

sistema, nelle procedure doganali, nei sistemi di controllo, nella regolazione

degli accessi, in tutte quelle funzioni, insomma, che devono limitare i vincoli

burocratici che ancora oggi caratterizzano i punti di snodo della nostra rete

trasportistica;

attrattività di investimenti, non solo e non tanto nella tradizionale attività di

sviluppo immobiliare per la logistica, quanto invece nella capacità di attirare

nuove forze produttive a scegliere le aree limitrofe agli interporti per avviare

nuove intraprese; inseguire merci lontane per attrarle verso gli interporti è

sempre più difficile; come si usa dire: “Se la montagna non va da Maometto

…”.

Insomma, occorre riscrivere la mappa strategica per gli interporti del ventunesimo

secolo. Un pezzo del futuro dell’Italia, dipende anche dal successo di questa sfida. Ed

anche per questo è necessaria ed urgente la riforma che ormai da diversi anni è in

discussione, finora senza esito, in Parlamento.

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22

La competitività del trasporto merci nello scenario europeo

La filiera del trasporto merci e della logistica costituisce il terzo settore per rilevanza

nell’economia italiana, eppure se ne sottovaluta l’importanza in termini di politiche.

In particolare, nel settore dei trasporti siamo in presenza di una pianificazione

concepita negli anni Ottanta del secolo passato, prima della rivoluzione marittima

dettata dalla globalizzazione, che ha modificato radicalmente i flussi delle merci. I

ritardi che registriamo sono sia sul versante della domanda, ancora poco orientata

all’outsourcing, sia sul versante della regolamentazione, contraddittoria, incerta,

tardiva. Le conseguenze si riflettono sulla competitività dell’economia italiana nel

suo insieme.

Il peso della filiera trasporti e logistica nell’economia italiana

Trasporto delle merci e servizi di logistica costituiscono elementi rilevanti non solo, e

non tanto, per la dimensione intrinseca del mercato servito, quanto per la rilevanza

che queste attività assumono come chiave strategica per la definizione degli assetti

competitivi tra imprese e territori nello scenario contemporaneo della

globalizzazione20

.

In questo nostro ragionamento ci concentreremo in particolare sulla componente

del trasporto, che costituisce ancora oggi la parte dominante, dal punto di vista

della produzione, sul complesso dei servizi logistici, pur se sta crescendo il peso di

tutti i servizi che si aggiungono alla trazione per comporre il disegno complessivo

della mobilità delle merci (dal magazzinaggio alla movimentazione, sino al ciclo di

personalizzazione dei prodotti che caratterizza le fasi più sofisticate della logistica

moderna).

Uno studio recente del Ministero dello Sviluppo Economico ha ricostruito il quadro

della struttura economica nazionale, articolando le basi di dati per individuare le

filiere dominanti per la nostra organizzazione produttiva. Sono state individuate

diciassette filiere, che rappresentano circa l’80% della struttura economica del nostro

Paese, per tutti i principali indicatori considerati (numero di imprese, addetti,

fatturato, valore aggiunto, costo del lavoro, export).

Dall’analisi di questi dati risulta evidente che la filiera dei trasporti e della logistica

è uno degli assi portanti del nostro sistema economico, in particolare in termini

di numero di dipendenti (6,9% del complesso dell’economia italiana), valore

20

Per una analisi sulla influenza dei servizi di trasporto e di logistica sulla competitività dei sistemi economici e sulla

generazione della produttività totale dei fattori, cfr. di Gaetano Fausto Esposito e Pietro Spirito, “Il ruolo dei servizi e

dei processi di outsourcing nelle dinamiche della produttività totale dei fattori: una applicazione al settore della

logistica”, dattiloscritto di prossima pubblicazione

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23

aggiunto (6,6% sul totale) e di costo del lavoro (7,8% del totale), collocandosi

per questi tre indicatori al terzo posto complessivo, dopo le filiere delle

costruzioni e dell’agroindustria.

Utilizzando sempre lo studio del Ministero dello Sviluppo Economico, che ha

costruito il quadro delle filiere dell’economia italiana, possiamo articolare il settore

dei trasporti e della logistica separando le attività di vezione in senso stretto dai

servizi di logistica, nei quali sono compresi il magazzinaggio e le attività di supporto

ai trasporti.

Si verifica (cfr. il seguente Grafico 1) che, mentre il trasporto terrestre è fortemente

rilevante sul settore in termini di numero di imprese e di occupati (rispettivamente

l’81,9% ed il 58,5% del totale della filiera), le attività logistiche hanno una minore

densità frammentata di aziende (sono il 16,8% del totale), ma crescono come

rilevanza in termini di occupati e di fatturato (rispettivamente il 35,9% ed il 23,3%

del totale di settore).

Grafico 1

Filiera dei trasporti e della logistica: peso delle attività per alcune variabili (dati 2010, in %)

Fonte: elaborazioni su dati Istat

Il valore del fatturato delle aziende di trasporti e logistica conto terzi

(escludendo i trasporti aereo e navale) è stato pari in Italia a 73,7 miliardi di

euro nel 2010, con un incremento in termini reali pari al 2% rispetto al 2009. Dopo un 2011 con un fatturato ancora in crescita, pari al 2%, si prevede per il 2012

ed il 2013 una situazione di stabilità, legata alla difficile situazione economica del

Paese, solo in parte compensata da maggiori servizi di trasporto e di logistica a

supporto delle esportazioni. Si stima una riduzione del fatturato dei servizi di

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24

trasporto e logistica terziarizzati pari allo 0,3% per il 2012 ed una crescita del 2% per

il 2013.

Per dimensionare il mercato del trasporto e della logistica in conto terzi in Italia

è necessario depurare il fatturato complessivo (73,7 miliardi di euro) dal valore

degli scambi interni alla filiera. Effettuando questa operazione, si stima che il

valore del mercato italiano dei servizi logistici terziarizzati sia stato pari nel

2010 a 40 miliardi di euro.

Rapportando questo valore al totale dei costi logistici per i committenti al netto del

costo delle scorte - valutato dal Centro Studi Confetra e da AT Kearney in 109

miliardi di euro - si ottiene un grado di terziarizzazione dei servizi logistici pari al

37%, sostanzialmente invariato rispetto al 2009. Si tratta di uno degli elementi che

differenzia la struttura economica della filiera dei trasporti e della logistica italiana

rispetto a quella di altri Paesi industrializzati, che hanno invece già percorso un

processo di forte crescita della terziarizzazione.

L’autotrasporto è l’attività che pesa più sul fatturato dei servizi logistici

terziarizzati (52%), seguita dagli spedizionieri (19%) e dagli operatori logistici

(11%). Crescono a tasso più elevato le categorie ad alto contenuto di trasporto: i

gestori di interporti/terminali intermodali (+10,2%), corrieri/corrieri espresso (+

6,9%). Se consideriamo invece non il fatturato, ma il mercato della logistica in conto

terzi, anche in questo caso il maggiore contributo è dato dall'autotrasporto (36%), cui

seguono gli spedizionieri (26%), gli operatori logistici (19%) ed i corrieri/corrieri

espresso (11%).

La selezione dell’offerta e la leva dell’outsourcing logistico

La crisi economica in corso sta determinando un processo di selezione dal lato

dell’offerta. Il settore dei servizi logistici terziarizzati si è mosso verso una maggiore

concentrazione, testimoniata dalla riduzione del numero complessivo di aziende (da

114.491 a 108.967), con una contrazione che ha riguardato soprattutto gli

autotrasportatori non organizzati in società di capitali (i cosiddetti “padroncini”), e

dall’incremento del fatturato medio per azienda (+9%), particolarmente spiccato nella

categoria degli operatori logistici per le aziende comprese nella classe dimensionale

tra i 50 ed i 100 milioni di euro di fatturato, in cui si è registrata una crescita del

volume d'affari pari al 35%. La stima è contenuta nel Rapporto su “Outsourcing della

logistica: le potenzialità di crescita e di innovazione”21

, promosso dal Dipartimento di

Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano22

.

21 Osservatorio Contract Logistics, “Outsourcing della logistica: potenzialità di crescita e innovazione”, Politecnico di

Milano, novembre 2012. 22 Per una rassegna delle attività dell'Osservatorio, che sta per lanciare la sua terza edizione, cfr. il sito

www.contractlogistics.it.

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25

L’Osservatorio propone una distinzione tra le forme differenti di terziarizzazione

delle attività logistiche, distinguendo tra affidamento ad operatori specializzati di

prestazioni elementari (handling, trasporto primario, trasporto secondario) o di

attività complesse che comprendono la gestione di un intero set di attività (che

includa almeno la movimentazione ed i trasporti).

Nel primo caso si parla di "commodity outsourcing", con la regia del processo che

rimane in capo al committente, mentre nel secondo caso siamo in presenza di

"strategic outsourcing": il committente assume una scelta di medio periodo che

delega al fornitore terzo anche attività di coordinamento e ricerca di efficienze.

Considerando solo i servizi compresi nello "strategic outsourcing", il valore del

mercato scende dai 40 miliardi di euro della logistica terziarizzata nel suo

insieme a 7,7 miliardi di euro, pari a circa il 20% del mercato totale, con un grado di

terziarizzazione per le funzioni più complesse pari in Italia al 7%, con valori ben

lontani da quelli che si registrano negli altri principali Paesi industrializzati.

L’approccio dominante nelle relazioni di outsourcing logistico è quindi in Italia

ancora il "commodity outsourcing" (che comunque pesa solo poco più di un terzo sul

totale dei costi logistici), mentre non si delineano ancora quelle consapevolezze sulla

necessaria evoluzione del modello di organizzazione dei flussi di merce come leva

per un recupero strutturale di competitività: dall'approvvigionamento di materie

prime e semilavorati, sino alla distribuzione dei prodotti finiti, con l’insieme delle

funzioni più sofisticate di postponement che caratterizzano la piattaforma delle

moderne organizzazioni manifatturiere.

Secondo le valutazioni del modello di previsione che l'Osservatorio Contract

Logistics ha messo a punto, esistono comunque interessanti opportunità di crescita

del settore: vi è un 63% del mercato potenziale oggi non raggiunto da modelli

operativi di terziarizzazione logistica, ed un 30% di mercato attualmente servito con

servizi di base che può evolvere verso servizi complessi.

Ma quali sono le motivazioni che inducono oggi una azienda italiana a non ricorrere

alla terziarizzazione della logistica, neanche nelle attività di trasporto ? Secondo

l’indagine dell'Osservatorio, esse sono riconducibili essenzialmente a due principali

tipologie: la preoccupazione di perdere competenze di gestione del processo logistico

ed il timore di dover sostenere elevati costi legati al cambiamento. Al contrario, le

motivazioni che spingono le aziende a scegliere la terziarizzazione sono riconducibili

a due categorie: la presenza di un forte commitment da parte del vertice e la

consapevolezza del valore che deriva dalla condivisione dei flussi logistici con altri

attori.

Si tratta di investire nel rinnovamento della cultura industriale per allargare la

consapevolezza sul ruolo che una logistica moderna può giocare per rilanciare la

competitività dell'industria italiana. Nei decenni recenti, molti Paesi hanno fatto della

logistica una leva per il rilancio della efficienza industriale e per una presenza più

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26

attiva sui mercati internazionali. In Italia, molto resta da fare su questo fronte. Le

stime condotte sui risparmi di costi generabili attraverso il ricorso all’outsourcing

logistico sono estremamente rilevanti: “15% dei costi logistici, 8% dei costi di

magazzino, 26% di riduzione degli asse fisici dedicati alla logistica”23

.

Secondo stime di Armstrong & Associates, nel mondo il mercato dell’outsourcing

logistico vale nel 2011 616,1 miliardi di dollari: è interessante notare che i tassi

di crescita di questo mercato si concentrano in particolare in America Latina

(+43,6% rispetto all’anno precedente) ed in Asia (+21,2%): per la prima volta,

sempre nel 2011, la regione asiatica ha registrato il valore più elevato rispetto alle

altre realtà continentali, con un valore di 191,1 miliardi di dollari.

I costi logistici in percentuale dei ricavi da vendita dei prodotti sono mediamente nel

mondo pari al 12%. E’ da osservare che l’Europa registra ancora oggi, tra le altre

realtà continentali, una maggiore incidenza delle spese di outsourcing sul totale dei

costi logistici (55% rispetto ad un valore medio del mondo pari al 39%), con una

accentuazione particolarmente rilevante sull’outsourcing per i servizi di trasporto,

che per l’Europa pesa per il 71% rispetto alla media complessiva del 54%.

La debole struttura del sistema dei trasporti e della logistica italiano è uno dei fattori

alla base delle deludenti performance di competitività industriale del nostro Paese. La

nostra bilancia commerciale dei noli rileva un disavanzo superiore a 8 miliardi di

euro (dati 2010). Nella classifica della Banca Mondiale sulla efficienza dei servizi

logistici, l’Italia è al ventiquattresimo posto, mentre nei primi dieci posti sono

presenti ben sei Paesi aderenti alla Unione Europea: questo gap condiziona

pesantemente la competitività dell’industria italiana, non solo in termini di costosità

delle operazioni, quanto soprattutto in termini di efficienza e di posizionamento sui

mercati internazionali.

Rispetto alla precedenti edizioni del Rapporto della Banca Mondiale (la prima risale

al 2007), il nostro Paese ha perso altre due posizioni. In termini concreti,

considerando il divario nelle performances logistiche che viene registrato dalla Banca

Mondiale tra Italia e Germania, esso corrisponde a 1,08 giorni aggiuntivi per la

movimentazione delle merci dal porto al magazzino dell’azienda, pari ad una perdita

di efficienza dell’11,5% per il nostro Paese24

.

L’incidenza dei trasporti e della logistica nelle strutture di costo delle produzioni è

rilevante, e costituisce fattore strategico per il posizionamento competitivo sui

mercati. Nell’Unione Europea: “il settore della logistica costituisce il 15% del costo

dei prodotti finiti. Secondo le stime della Commissione, le inefficienze che si

23 2013 Third –party logistics study, “The state of logistics outsourcing. Results and findings”, 2012. Per una analisi

sull’andamento dei mercati logistici in Gran Bretagna e Stati Uniti, cfr. rispettivamente Price Waterhouse Coopers,

“The Logistic Report 2012” e Council of Supply Chain Management Professionals, “State of logistics report”, 2012. 24

Questa stima è contenuta in Oliviero Baccelli, Francesco Barontini, “L’Italia in Europa. Le politiche dei trasporti per

rimanere in rete”, Egea, 2013, p.10.

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27

determinano nei canali logistici pesano per l’1% del prodotto nazionale lordo

comunitario”25

.

Un Paese che offre un telaio di servizi logistici adeguati dal punto di vista

competitivo consente alle industrie di poter attingere a vantaggi comparati che

determinano un valore aggiunto competitivo. Al contrario, un costo logistico più

elevato rispetto ai concorrenti, ed una qualità inferiore dei servizi erogati, “costringe”

le aziende o ad assumere decisioni di offshoring26

, o a pagare un extracosto di

inefficienza logistica.

Insomma: “la qualità della logistica può influenzare le decisioni di localizzazione

delle imprese, da quali fornitori comperare, ed in quali mercati dei consumatori

entrare; per tale ragione, rendere efficienti i sistemi logistici è una determinante

critica della connettività di un Paese al mondo e per questa ragione è uno strumento

importante delle politiche di sviluppo”27

.

In Italia si è determinato, nel corso degli ultimi decenni, un processo di

autoreferenzialità del settore del trasporto e della logistica, non comprendendo le

ricadute possibili derivanti da una maggiore efficienza di questi servizi in termini di

competitività per l’intero sistema economico. Il dibattito che si è svolto sul rapporto

tra trasporti e sistema economico ha riguardato prevalentemente, se non

esclusivamente, gli investimenti infrastrutturali, intesi da un lato come leva per

rilanciare la crescita economica e dall’altro come necessità per superare un deficit di

capacità nelle nostre reti.

E’ stato un grave errore non porre invece al centro della discussione pubblica e delle

decisioni la modernizzazione dei servizi, sia per le attività di vezione pura sia per le

componenti a maggior valore aggiunto determinabili attraverso operazioni logistiche

moderne ed efficienti. In questo modo, si è determinato uno svantaggio competitivo

sia sul versante dell’offerta sia su quello della domanda: sul versante dell’offerta,

perché si sono rallentate operazioni di innovazione nella organizzazione dei fattori di

produzione, sul versante della domanda, perché si è determinato una inefficienza che

ha gravato sulla competitività delle produzioni manifatturiere nazionali.

La mancanza di una visione sistemica delle politiche dei trasporti

25

Hakan Keskin, “The exigence of the common logistics policy for European community and the deconstruction of the

common transportation policy”, in African Journal of business management”, vol. 6 (43), p. 10699. 26 Il passaggio da modelli di organizzazione produttiva in outsourcing (decentramento esterno di funzioni produttive) a

quelli in offshoring (delocalizzazione degli stabilimenti) è una delle caratteristiche dominanti della nuova età della

globalizzazione. Le coordinate di questa trasformazione hanno modificato radicalmente il meccanismo strategico

dell’economia italiana, basata su un radicamento forte sul territorio del sistema delle imprese. I nuovi reticoli hanno

destrutturato uno dei pilastri del sistema manifatturiero nazionale, e le conseguenze di questo processo sono ancora tutte

da comprendere. 27

Charles Kunaka, Monica Alina Mustra, Sebastian Saez, “Trade dimension of logistics services. A proposal for trade

agreements”, The World Bank, gennaio 2013, p. 2.

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28

Non abbiamo compreso sino in fondo la profondità dei cambiamenti che si sono

determinati anche nella struttura del trasporto, per effetto dei processi di

globalizzazione delle produzioni e delle transazioni commerciali. Si è determinato un

processo di “marittimizzazione” dell’economia: “il trasporto marittimo, così come si

è evoluto nell’ultimo trentennio, è sempre più un anello della catena del trasporto

globale che dipende non solo dall’efficienza della tratta navale, ma anche da quella

dell’intero sistema di connessione tra terminali ed entroterra portuale”28

. Se andiamo

ad analizzare la qualità della connettività marittima dei principali Paesi europei nella

evoluzione degli anni recenti, possiamo verificare che l’Italia si colloca in una

posizione subalterna, sulla quale dovremmo riflettere, in quanto questo elemento

condiziona poi la competitività dell’intero flusso di trasporti, anche nella

interconnessione tra mare e terra.

Possiamo fare questo raffronto utilizzando i dati del Liner Shipping Connectivity

Index, elaborato dall’Unctad, per valutare l’accessibilità marittima di 162 Paesi,

considerando il numero delle navi che scalano annualmente, la sommatoria delle

capacità di ogni singola nave in TEU, la capacità massima di queste navi in TEU, il

numero di compagnie che offrono servizi container, il numero di servizi offerti per

Stato, il costo complessivo della logistica, la dotazione infrastrutturale (cfr, il

seguente Grafico 2). Risultiamo tra i cinque grandi Paesi europei il fanalino di coda

in termini di accessibilità marittima, e siamo stati superati dalla Spagna, che

precedevamo in questa classifica nei primi due anni della serie storica.

Grafico 2

Indice di connettività marittima dei principali Paesi europei (massimo valore Cina = 100) -

Anni 2004 - 2012

Fonte: Elaborazioni su dati Unctad

28

Paolo Sellari, “Geopolitica dei trasporti”, Laterza, 2013, p. 3.

40,0

50,0

60,0

70,0

80,0

90,0

100,0

2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

France Germany Italy Spain United Kingdom

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29

Nella pianificazione nazionale, siamo rimasti prigionieri ancora di schemi

interpretativi propri della fase economica precedente, quando ancora la rivoluzione

marittima non aveva dispiegato pienamente i suoi effetti, e quando non si erano

ancora delineati i processi di riarticolazione dei flussi delle merci, che hanno spostato

il proprio baricentro nei Paesi asiatici e nell’Est dell’Europa, rispetto ad una struttura

dei flussi che privilegiava precedentemente l’asse centrale terrestre dell’Europa, entro

quella spina dorsale che è stata definita “Blue Banana”29

.

Mentre i trasporti diventavano sempre più anello complesso di una catena logistica

globale, noi abbiamo continuato ad affrontare le questioni connesse alla mobilità

delle merci come la sommatoria scomposta di sotto-sistemi poco comunicanti. Una

politica dei trasporti per segmenti, in assenza di una visione di sistema, ha indebolito

la competitività delle catene logistiche che dovevano essere poste al servizio del

nuovo concetto di trasporto che emergeva a seguito della globalizzazione.

Anche le riforme monografiche che sono state faticosamente gestite negli ultimi

decenni (la legge sugli interporti del 1990, la riforma portuale del 1994, la

liberalizzazione ferroviarie del trasporto merci del 2007, le leggi pluridecennali sugli

incentivi all’autotrasporto) sono state interpretate come singole issues prive di quella

connessione sistemica che avrebbe dovuto essere alla base di una efficace politica

nazionale dei trasporti.

Emblematica è la vicenda dei sussidi all’autotrasporto: in dieci anni sono stati erogati

oltre 5 miliardi di euro di incentivi pubblici a vario titolo, sostanzialmente per

mantenere in stato stazionario un settore che vive una crisi strutturale di

competitività: come se non bastasse, ci siamo da ultimo inventati l’idea, davvero

balzana, delle tariffe minime per l’autotrasporto, con un contenzioso che va avanti

ormai da tempo, e che sarà deciso infine dalla Corte di Giustizia della Unione

Europea.

Con esempio ciclistico tratto dalle gare di velocità su pista, potremmo dire che

abbiamo deciso di bruciare tante energie per restare in stato di surplace, mentre gli

altri corridori hanno lanciato ormai da tempo la volata e si preparano a doppiarci per

l’ennesima volta, mentre noi restiamo impassibili a guardare il mondo che passa.

Serve una stagione profonda di riforme, che stenta ancora a prendere corpo:

“Modificare l’impianto normativo del settore è fondamentale per permettere il

passaggio da politiche dei trasporti e della logistica di tipo reattivo di breve periodo

ad iniziative di tipo proattivo di medio e lungo periodo”30

.

Anche le mosse condotte in questi decenni dall’Unione Europea sono state indirizzate

più a sviluppare le connessioni terrestri della rete transeuropea, che non a delineare 29

L’espressione nasce da uno studio condotto nel 1989 dall’Istituto “Reclus” di Montpellier, che evidenziò l’esistenza

di un corridoio urbano coerente in forma ricurva, che si estende tra Londra e Milano, centro principale dello sviluppo

spaziale europeo. Le regioni coinvolte erano il bacino londinese, l’asse del Reno e la parte occidentale della Pianura

Padana. 30

Oliviero Baccelli, Francesco Barontini, “L’Italia in Europa. Le politiche dei trasporti per rimanere in rete”, Egea,

2013, p.XXVIII

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30

una politica comune e coordinata che rafforzasse la competitività dei sistemi portuali

comunitari, che sono diventati la porta strategica determinante della battaglia

competitiva che si è svolta nel riposizionamento delle industrie e delle merci.

“L’approccio esclusivamente terrestre, che escludeva interventi nel settore marittimo,

mostrava con chiarezza le linee geopolitiche dell’Unione: rafforzare il tessuto interno

attraverso la realizzazione di anelli mancanti di interconnessione tra i Paesi membri e

di direttrici ferroviarie veloci in grado di aumentare gli scambi di persone, lavoratori,

merci, cultura”31

. Il disegno europeo dei corridoi, di matrice essenzialmente terrestre,

rischia oltretutto di creare una frattura tra flussi di traffico lungo gli assi principali,

accentuando l’arretratezza delle reti regionali escluse da questo processo di

miglioramento nella qualità degli asset infrastrutturali.

Proprio per ovviare a questo rischio, la Commissione Europea ha lanciato l’idea di

considerare, nell’approccio di politica comunitaria dei trasporti, non solo il “core

network”, vale a dire la rete dei collegamenti principali, ma anche il “comprehensive

network”, vale a dire quella rete complementare di afflusso e deflusso degli scambi

che altrimenti rischia di diventare in prospettiva un collo di bottiglia delle

inefficienza, con ricadute negative anche sulla rete principale. Nell’approccio

europeo, le scelte sul “comprehensive network” sono lasciate agli Stati nazionali,

mentre sul “core network” si concentra l’azione comunitaria per potenziare la rete

delle connessioni in una logica transnazionale.

Dunque, il pallino, per garantire che i territori restino agganciati alla componente più

solida delle infrastrutture, resta ai Governi nazionali, e torna ancora una volta centrale

la necessità di cambiare passo, introducendo quell’approccio integrato al sistema dei

trasporti che sinora non è emerso nel nostro Paese, sempre slabbrato tra localismi, che

chiedono investimenti a pioggia, ed interessi settoriali dei diversi comparti, che

reclamano attenzione prioritaria rispetto alle altre modalità. Il quadro che ne emerge è

sconfortante.

La coperta è corta, sempre più corta, dal punto di vista finanziario, mentre

l’approccio di intervento resta focalizzato ancora sulle opere infrastrutturali, più che

sulla efficienza dei servizi che devono correre sulle reti. Per inseguire la logica del

consenso, non si fanno scelte, e di distribuisce quei finanziamenti sempre minori con

la costante logica della distribuzione a pioggia. Non si effettuano quindi scelte per

gerarchizzare le reti, e per renderle maggiormente attrattive e competitive.

Continuano a proliferare Autorità Portuali, nuovi interporti che bussano alla porta dei

finanziamenti, mentre restano al palo le leggi nazionali di riforma di porti ed

interporti. E intanto, l’Unione Europea presenta una proposta di regolamento sui

servizi portuali, della quale non di discute nemmeno nel nostro Paese.

Insomma, rischiamo ancora una volta di segnare il passo, marcando ulteriore ritardi

in scelte che già colpevolmente non abbiamo effettuato nei passati decenni. E’

31

Paolo Sellari, “Geopolitica dei trasporti”, Laterza, 2013, p.99.

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31

proprio da questo punto di vista che la produttività totale dei fattori nel nostro Paese

continua a perdere terreno e ad arretrare. La competitività, nell’economia della

conoscenza e della globalizzazione, è data dalla intelligenza e dalla efficienza della

rete delle connessioni logistiche.

Come aveva già nel 2002 opportunamente evidenziato Brian Slack, “l’essere punti

intermedi del ciclo dei trasporti, fungere da anello di congiunzione tra modalità

diverse, rende i porti estremamente vulnerabili rispetto alle strategie di

riorganizzazione dei traffico continentali e marittimi, rispetto alle quali sempre più

debole è la loro capacità di intervento”32

.

Quello che Slack dice sui porti, vale anche per gli interporti e per le piattaforme

logistiche. Le cerniere funzionano se il vestito logistico nel suo insieme è progettato

in modo coerente ed armonico. Ha ragione Paolo Costa quando scrive che “il

contributo infrastrutturale alla competitività italiana si gioca tutto sulle “porte”

dell’Italia sul mondo: per le merci, sui porti internazionali e, per i passeggeri, sugli

aeroporti internazionali … Urgenti e cruciali collegamenti efficienti da “ultimo

miglio” di porti ed aeroporti con la “rete essenziale” europea”33

.

Evidentemente, invece di costruire le porte sul mondo, preferiamo gestire sgabuzzini

di periferia. Se non comprendiamo per tempo che è necessario gerarchizzare le

funzioni e puntare sugli snodi primari delle reti, resteremo sempre alla finestra a

guardare il mondo attorno a noi cambiare, sempre più lontani, sempre meno connessi.

E continueremo a gestire i servizi di trasporto con un approccio emergenziale, per

evitare che si determinino collassi improvvisi di una struttura dell’offerta che non

riesce più a corrispondere ai bisogni così radicalmente mutati della domanda.

La competitività del trasporto merci nello scenario europeo

di Pietro Spirito, docente incaricato di economia dei trasporti presso la facoltà di Economia e

Commercio dell’Università di Tor Vergata

PARTE PRIMA

32

Brian Slack, “Globalizzazione e trasporto marittimo: competizione, incertezza, e implicazioni per le strategie di

sviluppo portuale”, in S. Soriani (a cura di), “Porti, città e territorio costiero”, Il Mulino, 2002, p. 67. 33

Paolo Costa, “Prefazione”, in Oliviero Baccelli, Francesco Barontini, “L’Italia in Europa. Le politiche dei trasporti

per rimanere in rete”, Egea, 2013, p. XIV.

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32

Verso il completamento dello spazio ferroviario europeo unico

Senza un rilancio ed una modernizzazione del sistema ferroviario europeo è difficile

immaginare che la logistica comunitaria possa sviluppare pienamente i propri

potenziali effetti di miglioramento nella efficienza entro una logica di sistema.

Lo dimostra il caso tedesco, che è stato caratterizzato, nell’ultimo decennio, da una

piena integrazione tra operatore ferroviario e mercato della logistica, con l’ingresso di

DB quale attore primario di entrambi i settori, con una logica che tende a

massimizzare il ricorso alla trazione ferroviaria laddove essa esprime il suo

potenziale competitivo.

Non è il caso dell’Italia, che negli anni recenti ha conosciuto una drastica riduzione

dell’offerta di servizi ferroviari per le merci, nonostante la liberazione di capacità

derivata dalla entrata in esercizio delle linee ad alta velocità, che avrebbero consentito

un incremento della produzione molto robusto.

A tale riguardo va osservato che il sistema ad alta capacità per la costruzione delle

nuove linee ferroviarie è stato concepito per far transitare sulla rete anche i convogli

merci, cedendo ad una retorica non basata sui calcoli di convenienza economica:

quelle risorse, che hanno determinato extra-costi per l’alta velocità, avrebbero avuto

una migliore destinazione in investimenti per l’efficienza delle infrastrutture e dei

servizi logistici.

Intanto il mercato che incrocia trasporto ferroviario e servizi logistici mostra

dinamismo, anche mentre la crisi è ancora in corso: ad inizio di aprile scorso il

consiglio di amministrazione delle ferrovie belghe ha approvato la cessione del 66%

del capitale di SNCB Logistics34

.

La transazione avverrà mediante un aumento di capitale pari a 20 milioni di euro da

parte di Argos Sotidic, e con un ulteriore conferimento dio altri 70 milioni di altri

finanziatori che per il momento non sono stati dichiarati. Inoltre, SNCB trasformerà

in capitale il prestito convertibile di 25 milioni, restando nella nuova società come

azionista. Nel 2014, SNCB Logistics ha prodotto un fatturato di 452 milioni di euro,

con un EBITDA pari a 11 milioni, dopo alcuni anni di perdita. L’operazione sarà

conclusa dopo l’approvazione da parte delle autorità Antitrust.

Le proposte del quarto pacchetto ferroviario

Il 30 gennaio 2013, a poco più di due mesi di distanza dalla approvazione della

Direttiva n. 34/2012 sulla costituzione dello spazio ferroviario unico, la Commissione

Europea ha presentato al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Europeo

34

Trasporto Europa, “Belgio privatizza la ferrovia merci SNCB Logistics”, 8 aprile 2015.

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33

Economico e Sociale ed al Comitato delle Regioni il quarto pacchetto ferroviario35

. Il

settore ferroviario costituisce un ambito economico rilevante per la struttura

produttiva dell’Unione. L'industria ferroviaria europea genera un fatturato annuo di

oltre 73 miliardi di euro ed occupa oltre 800.000 addetti.

Le istituzioni pubbliche nazionali e territoriali investono risorse ingenti della fiscalità

nel settore. Nel 2009, ultimo anno per il quale è possibile disporre di valori

economici certificati per tutti i Paesi della Unione Europea, i corrispettivi dei governi

europei per gli obblighi di servizio pubblico sono stati pari a 20 miliardi di euro, e 26

miliardi sono stati investiti dalle autorità pubbliche per il mantenimento e lo sviluppo

della rete.

Secondo le analisi della Commissione, "in molti Stati membri gli esborsi di denaro

pubblico sono aumentati in modo consistente, mentre la crescita dei passeggeri/km è

stata moderata". Questo andamento viene messo in relazione con la mancanza di

appropriati incentivi concorrenziali.

I risultati della prima fase della liberalizzazione ferroviaria comunitaria, avviata sin

dal 1991 con la direttiva 440, non sono però certamente esaltanti: la quota modale del

trasporto ferroviario merci è diminuita dall'11,5% del 2000 all'attuale 10,2%. Nello

stesso periodo la quota del trasporto ferroviario passeggeri intra-europeo è rimasta

costante attorno al 6%, con situazioni estremamente differenziate (dalla riduzione del

10% dei volumi in Ungheria all'incremento del 20% del traffico in Svezia).

Scarso successo nella inversione della marginalizzazione del trasporto ferroviario nel

mercato della mobilità ed inadeguata qualità dei servizi erogati costituiscono punti

strutturali di debolezza che non sono stati superati dal processo europeo di

liberalizzazione. Non è questione che riguarda solo i Paesi della Unione Europea. Nel

recente rapporto della Banca Mondiale sulla qualità internazionale dei servizi

logistici, si sottolinea che “l’infrastruttura ferroviaria ispira generale insoddisfazione:

il numero degli operatori che giudicano alta o molto alta la qualità dei servizi erogati

è pari alla metà rispetto alle altre tipologie di infrastruttura”36

.

Anche per i servizi ferroviari la situazione è analoga, in tutti i Paesi del mondo. In

Europa, l'ultimo survey dell'Eurobarometro evidenzia che solo il 6% degli Europei

usano il treno almeno una volta alla settimana. Tra i consumatori comunitari, i servizi

ferroviari sono posizionati al ventisettesimo posto nella graduatoria tra i trenta servizi

di mercato, con valutazioni particolarmente inadeguate sul livello di soddisfazione

per la qualità del servizio erogato.

La storia della regolazione comunitaria in materia ferroviaria è ormai iniziata più di

venti anni fa, ed è stata caratterizzata, negli anni recenti, dalla approvazione di tre

35

Per una sintetica rassegna sui contenuti delle recenti proposte dalla Commissione Europea per il completamento dello

spazio ferroviario unico, cfr. Pietro Spirito, “Il quarto pacchetto ferroviario europeo: gli snodi di una liberalizzazione

incompiuta”, in www.huffingtonpost.it, 5 febbraio 2013. 36

Banca Mondiale, “Connecting to compete. Trade logistics in the global economy. The logistics performance index

and its indicators”, 2012, p. 15.

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34

pacchetti ferroviari e dalle recente direttiva 34 del 21 novembre 2012, con la quale è

stato istituito lo spazio ferroviario europeo unico37

. Il principio fondamentale che ha

guidato la legislazione europea dei decenni recenti è stato il tentativo di determinare

l’inversione del processo di marginalizzazione dell’industria ferroviaria europea

mediante un miglioramento dell'efficienza, realizzato attraverso una progressiva

apertura del mercato, la costituzione di imprese ferroviarie e gestori della

infrastruttura, e la separazione almeno contabile tra loro.

Il quarto pacchetto ferroviario, che ora percorre il suo iter istituzionale per la

approvazione (la Presidenza lettone del Consiglio si è impegnata a concludere l’iter

entro il suo semestre), è stato predisposto dalla Commissione Europea per contrastare

e rimuovere le barriere residue verso la creazione di uno spazio ferroviario europeo

unico. Si tratta di un insieme complesso di misure, composto da tre proposte di

modifiche di direttive e tre proposte di modifiche di regolamenti comunitari.

Secondo la Commissione, le asimmetrie informative, che derivano dal mantenimento

di una struttura integrata tra impresa ferroviaria e gestore della rete, conducono a

vantaggi competitivi per l'incumbent e ad un persistente rischio di sussidio incrociato

dovuto alla mancanza di completa trasparenza finanziaria. I requisiti attuali sulla

separazione contabile non prevengono, nelle valutazioni della Commissione, i

conflitti di interesse.

Più della metà dei 25 Stati membri con un sistema ferroviario di trasporto sono

peraltro già andati oltre quanto disposto dalle attuali leggi europee, ed hanno adottato

una separazione istituzionale. Per queste ragioni la Commissione propone di

procedere lungo il sentiero progressivo di una separazione istituzionale tra il gestore

della rete e le imprese di trasporto, introducendo meccanismi di terzietà verso le

imprese di trasporto, almeno per le funzioni maggiormente sensibili in termini

concorrenziali.

Le imprese ferroviarie indipendenti rispetto ai gestori della rete avranno immediato

accesso al mercato interno dei passeggeri ferroviari entro il 2019. Comunque, nel

caso in cui gli Stati membri vogliano mantenere le strutture di holding attualmente

esistenti, viene introdotta una stretta salvaguardia per proteggere l'indipendenza del

gestore della rete, mediante un processo di verifica da parte della Commissione per

assicurare una effettiva neutralità rispetto a tutte le imprese ferroviarie.

Dovranno quindi, nel caso di mantenimento delle strutture di holding, essere definite

"barriere cinesi" per assicurare la separazione legale finanziaria ed operativa della

rete dai servizi. Le imprese di trasporto che faranno parte di struttura di holding

integrate potranno non essere ammesse al mercato europeo passeggeri dei servizi

ferroviari, se prima non avranno adempiuto alle misure di salvaguardia che la

Commissione Europea richiederà per assicurare condizioni di equa concorrenza sul

loro mercato interno.

La soluzione di compromesso adottata nella redazione del quarto pacchetto

ferroviario testimonia le resistenze che ancora sussistono alla applicazione rigorosa

37

Va sottolineato che, accanto al processo di liberalizzazione, l’Unione Europea ha promosso una stagione di attenzione

prioritaria all’ammodernamento della rete transeuropea, a partire dal Piano Delors, testimoniata dalle ingenti risorse

stanziate per lo sviluppo delle reti ferroviarie dal bilancio comunitario, che ammontano sinora a 50 miliardi di euro.

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35

del modello di separazione verticale tra gestore della infrastruttura ed imprese di

trasporto ferroviario. Sul tema del modello strategico di organizzazione del sistema

ferroviario europeo, a novembre del 2012, proprio nella fase in cui la Commissione

Europea stava elaborando lo schema di quarto pacchetto ferroviario, è stato

presentato uno studio promosso dalla CER, l’organizzazione che rappresenta gli

interessi delle aziende ferroviarie eredi del monopolio.

In questa analisi si sostiene la tesi che non è verificata una evidenza statistica

significativa che la concorrenza riduca i costi totali di produzione, generando per

questa via un recupero di efficienza e di competitività: “L’argomento generale a

favore della integrazione verticale si riferisce alla complessità tecnica del settore

ferroviario ed alla necessità di uno stretto coordinamento tra binari e treni”38

.

Secondo gli autori di questo studio, l’imposizione di un modello di separazione

verticale tra rete e servizi ferroviari determinerebbe, agli attuali tassi di traffico, un

costo emergente pari a 5,8 miliardi di euro su base annua.

Gli argomenti svolti nello studio promosso dalla CER non tengono in conto diversi

elementi che andrebbero considerati: il mantenimento di aziende integrate in uno

scenario di mercato liberalizzato determinerebbe innanzitutto una asimmetria nel

mercato rispetto a competitori che gestiscono solo la leva del servizio erogato,

dovendo rivolgersi ad un fornitore di tracce orarie posto inevitabilmente in una

condizione di conflitto di interessi.

Inoltre, lo stimolo derivante dalla competizione tra diversi vettori ferroviari

costituisce un fattore che può indurre certamente mutamenti nei comportamenti della

domanda, attualmente poco attratta dai servizi ferroviari per la scarsa qualità delle

prestazioni erogate. Infine, molto dipende anche dalle politiche pubbliche nel settore

della mobilità, che possono orientare, con decisioni, incentivi, fiscalità le scelte

modali dei cittadini e delle merci, determinando un allargamento potenziale della

domanda di servizi ferroviari che indurrebbe certamente un miglior sfruttamento

delle reti esistenti, maggiori pedaggi per i gestori, possibilità di finanziare per questa

via anche programmi di miglioramento della qualità infrastrutturale, innescando il

circolo virtuoso che sinora non è ancora stato attivato.

Con la proposta del quarto pacchetto ferroviario, la Commissione Europea ha deciso

di procedere lungo il sentiero della riforma, allargando anche l’area dei servizi che

saranno liberalizzati nell’arco dei prossimi anni. Mentre il trasporto ferroviario delle

merci è stato pienamente aperto alla competizione europea dall'inizio del 2007, ed il

trasporto internazionale di passeggeri dal primo gennaio 2010, i mercati nazionali per

i servizi passeggeri restano largamente chiusi e sono, nella espressione della

Commissione, "i bastioni dei monopoli nazionali".

Una larga proporzione dei servizi ferroviari europei (il 66% dei passeggeri/km) sono

operati in regime di contratto di servizio pubblico, e gli affidamenti diretti di tali

contratti agli incumbent rappresentano a loro volta il 42% del totale dei

passeggeri/km prodotti. In 16 dei 25 Stati membri dotati di un sistema ferroviario,

l'incumbent possiede una quota di mercato superiore al 90%.

38

Inno-V, “Economic effects of vertical separation in the railway sector. Summary report”, 2012, p. 8

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36

La Commissione propone l'apertura del mercato dei servizi nazionali passeggeri

ferroviari entro il 2019, con la sola possibilità di limitare l'accesso quando l'equilibrio

economico di un contratto di servizio pubblico possa essere compromesso. D'altra

parte, la Commissione mira ad introdurre l'obbligatorietà di assegnare i contratti di

servizio pubblico mediante gara per il mercato entro dicembre del 2019. Si prevede

anche l'obbligo per le autorità competenti di definire piani di trasporto pubblico con

indicatori di performance, integrandoli con i piani di azione per la mobilità urbana.

Con il quarto pacchetto ferroviario, la Commissione intende intervenire sui costi di

regolamentazione e sulle vischiosità che si sono determinate nei processi di

autorizzazione verso gli operatori del settore. Non si tratta ovviamente di mettere in

discussione gli indici positivi che le ferrovie europee registrano in materia di

sicurezza.

Il trasporto ferroviario presenta in Europa indici di sicurezza per passeggero/km

decisamente più rassicuranti rispetto al trasporto stradale (62 incidenti per

passeggero, rispetto ai 31.000 della strada) e la performance delle ferrovie europee da

questo punto di vista ha continuato a migliorare nell'ultimo decennio. Mentre però gli

standard tecnici ed il sistemi di approvazione hanno creato un sistema sicuro, le

competenze si sono frammentate tra l'Agenzia Ferroviaria Europea (ERA, European

Railway Agency) e le autorità nazionali, creando costi eccessivi amministrativi e

barriere di accesso al mercato.

Le procedure per autorizzare all'immissione in esercizio di un nuovo veicolo

ferroviario possono durare sino a due anni, e costare sino a 6 milioni di euro, rispetto

ad un periodo più breve e con costi meno elevati per l'industria del trasporto aereo. Le

procedure di autorizzazione alla circolazione per ciascun Paese costano attorno al

10% del costo di una locomotiva, e quindi, per poter ottenere la circolabilità in 3

Paesi europei, i soli costi di autorizzazione aumentano il costo di acquisto per un

30%.

Per queste ragioni, la Commissione propone di rivisitare la regolamentazione

dell'Agenzia Ferroviaria Europea, trasferendo alla stessa Agenzia le competenze per

le autorizzazioni dei veicoli ferroviari e la certificazione di sicurezza per le imprese

ferroviarie. La responsabilità legali di questi processi sarà in capo all'ERA, che

lavorerà in stretta cooperazione con gli organismi nazionali di sicurezza ferroviaria.

Lo scopo di queste proposte è di raggiungere una riduzione del 20% del tempo di

attraversamento delle decisioni amministrative per le imprese ferroviarie e di ridurre

del 20% il costo di autorizzazione all'immissione all'esercizio di un nuovo materiale

rotabile, con un effetto cumulato di risparmio stimabile in 500 milioni di euro in

cinque anni.

La Commissione Europea sottolinea, all’interno dell’articolato quarto pacchetto

ferroviario, anche la dimensione sociale del processo di liberalizzazione, ed i

mutamenti che si stanno determinando nella struttura della composizione

demografica. Nel prossimo decennio il settore ferroviario dovrà affrontare

simultaneamente la sfida di una popolazione lavorativa in età avanzata e gli effetti di

efficienza derivanti dalla apertura del mercato. Circa il 30% di tutti i lavoratori oggi

occupati nelle ferrovie andrà in pensione nei prossimi dieci anni, mentre nello stesso

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37

tempo molte aziende ferroviarie dovranno operare piani di ristrutturazione per

affrontare la sfida della produttività e della efficienza.

Nelle misure definite dalla Commissione Europea all'interno del quarto pacchetto

ferroviario, gli Stati membri avranno la possibilità di proteggere i lavoratori

richiedendo ai soggetti aggiudicatari delle gare per i contratti di servizio pubblico di

assorbire i lavoratori precedentemente impiegati, applicando quindi la clausola

sociale per evitare che la concorrenza tra le imprese di traduca in una competizione al

ribasso su diritti dei lavoratori.

Gli anelli mancanti per la formazione di uno spazio ferroviario

europeo unico

Insomma, come ha affermato il Vice-Presidente della precedente Commissione

Europea, e Commissario ai Trasporti, Siim Kallas, "le ferrovie europee si stanno

avvicinando ad uno snodo molto importante. Rispetto alla stagnazione o al declino

delle ferrovie in molti mercati europei, abbiamo una sola semplice scelta. Possiamo

prendere decisioni difficili ora per ristrutturare il mercato ferroviario europeo

incoraggiando l'innovazione e l'offerta di migliori servizi. Le ferrovie saranno in

grado di crescere nuovamente con beneficio per i cittadini, i sistemi economici,

l'ambiente. Oppure possiamo scegliere un'altra strada. Possiamo accettare un

irreversibile destino in base al quale le ferrovie sono in Europa un giocattolo lussuoso

per pochi Paesi ricchi e sono un lusso non sostenibile per la gran parte degli altri che

hanno scarsità di risorse pubbliche".

Sarà una discussione da seguire con attenzione, quella che impegnerà il Consiglio ed

il Parlamento Europeo sul quarto pacchetto ferroviario. Sarebbe bene discutere

approfonditamente di questi temi anche nel nostro Paese, non relegando la questione

ad un dialogo tra gli stakeholders ed i tecnici, con un frettoloso recepimento

nell'ordinamento nazionale quando proprio non se ne potrà fare a meno, a valle delle

decisioni da parte degli organismi comunitari sui testi definiti del quarto pacchetto

ferroviario.

Certo, l'Europa ha scelto sinora un approccio tortuoso, mediante la proliferazione di

molti atti normativi spesso troppo articolati, di difficile lettura, di continua

mediazione tra la volontà di cambiamento e la resistenza degli Stati nazionali. Però,

la questione ferroviaria è davvero uno snodo, non solo per il sistema europeo di

mobilità, ma anche per il rilancio della competitività e della crescita nel contesto

comunitario.

Molto però resta ancora da fare per realizzare effettivamente uno spazio ferroviario

europeo unico, anche a valle di quello che sarà stabilito dal quarto pacchetto

ferroviario. Le politiche dei pedaggi di accesso alle reti nazionali restano di

competenza degli Stati, ed in questi decenni si sono radicate scelte fortemente

divergenti: in alcuni casi l’algoritmo che determina il montante dei pedaggi paga i

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38

soli costi di circolazione, in altri i costi totali di produzione (compresa la

manutenzione), in altri ancora viene remunerato anche il costo del capitale. Inoltre,

alcuni Stati europei utilizzano la leva del pedaggio per mettere in campo politiche

attive di promozione del trasporto ferroviario, in particolare per promuovere lo

sviluppo del traffico merci.

Nei suoi documenti, la Commissione Europea ha proposto, a tale riguardo, di

prendere in considerazione la tariffazione d’uso delle infrastrutture secondo il

principio del costo sociale marginale, che incorpora nel segnale del prezzo anche le

esternalità determinate dalle diverse modalità di trasporto. Su questo fronte, nulla di

sostanziale si è mosso, pur se è estesa la consapevolezza sulla rilevanza delle scelte

modali, nel trasporto dei passeggeri e delle merci, sulla qualità ambientale, con

particolare riferimento al necessario controllo delle emissioni nocive determinate

dalle scelte di mobilità.

Nella prospettiva di uno Stato Federale europeo, che purtroppo non è nella agenda di

questa fase, andrebbe avviato un ragionamento sulla possibilità di costituire un

gestore unico della rete ferroviaria europea, accelerando per questa via da un lato

l’armonizzazione tecnica ed operativa dei modelli di circolazione e della soluzioni

tecnologiche per l’esercizio, e favorendo dall’altro l’attenzione sugli itinerari

principali transeuropei, sia per il trasporto passeggeri di lunga distanza sia per il

trasporto delle merci.

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39

Le piattaforme logistiche per la competitività del sistema logistico

italiano

L’arretratezza logistica come fattore di perdita della competitività per

l’economia italiana

Ricordavamo all’inizio della nostra esposizione che l’economia italiana registra un

pesante deficit di competitività logistica, sottolineato dal ventiquattresimo posto nella

graduatoria internazionale curata dalla Banca Mondiale sulla qualità dei servizi

logistici39

, con un arretramento di due posti rispetto alla performance fatta registrare

dal nostro Paese nella stessa classifica del 2007. Ai primi dieci posti della stessa

classifica si collocano sei Paesi che aderiscono alla Unione Europea.

Questo ritardo nella qualità logistica è certamente uno dei fattori che hanno

determinato la perdita di produttività globale dei fattori, che ha caratterizzato

l’economia italiana nel corso dei due ultimi decenni, anche perché intanto la logistica

ha assunto un ruolo sempre più decisivo nella gerarchizzazione dei sistemi produttivi

nello scenario della globalizzazione.

Uno snodo fondamentale per aggredire l’arretratezza che si è determinata nel corso

degli ultimi decenni nel funzionamento dei servizi logistici del nostro Paese è

rappresentato da un piano di riforme nella organizzazione e nei meccanismi di

funzionamento delle principali piattaforme logistiche, che costituiscono l’ossatura

della rete logistica nazionale, il meccanismo connettore tra la rete nazionale e la rete

internazionale dei collegamenti.

Possiamo definire piattaforma logistica un’area specializzata con strutture dedicate,

che comprende elementi per facilitare la multi modalità e l’intermodalità. Nella realtà

economica del nostro Paese, per il peso preponderante che ha assunto l’autotrasporto

nelle attività vettoriali, si sono sviluppate una pluralità di strutture logistiche

sostanzialmente monomodali, che consentono lo stoccaggio dei prodotti ed il loro

inoltro attraverso il sistema camionistico. Nelle nostre considerazioni, esaminiamo

solo quelle che abbiamo definito come piattaforme logistiche. E’ in queste aree

pensate per effettuare lo scambio tra diverse modalità di trasporto che si gioca la

battaglia fondamentale per il cambiamento del mercato dei trasporti e della logistica

nel nostro Paese.

Porti, interporti ed aeroporti rappresentano la cerniera tra il sistema produttivo

italiano e la sua proiezione sui mercati mondiali. Velocizzare il transito e l’efficienza

nelle operazioni che si determinano nei gangli vitali dei nodi logistici costituisce un

39

Banca Mondiale, “Connecting to compete. Trade logistics in the global economy. The logistics performance index

and its indicators”, 2012

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40

punto d’attacco obbligato per determinare un punto di svolta nella qualità

complessiva della organizzazione logistica nazionale.

Operare in tale direzione significa non solo, come pure è necessario, delineare un

programma di investimenti per migliorare la qualità e la capacità di questi delicati

punti di snodo, intervenendo sui colli di bottiglia che condizionano la qualità delle

infrastrutture puntuali di trasporto. Serve anche determinare una decisa inversione di

tendenza nella qualità dei servizi erogati nelle principali piattaforme logistiche del

Paese. Nell’analisi che segue si affrontano questi temi prioritari, che fanno parte di

una agenda per il rinnovamento del sistema logistico nazionale.

Occorre partire da scelte di politica dei trasporti che definiscano una gerarchizzazione

delle piattaforme per il traffico intermodale, indispensabile per assicurare efficienza

ai flussi di merce, diversamente dagli orientamenti che si sono concretamente

determinati negli ultimi decenni, con una proliferazione delle piattaforme

intermodali, che ha aumentato il grado di dispersione del sistema logistico italiano.

Mentre si continuava a disperdere senza gerarchia il sistema dei punti di interscambio

delle merci, determinando di fatto una competizione tra piattaforme limitrofe,

ostinatamente le merci hanno continuato a privilegiare gli snodi fondamentali della

rete: “La quantità di merce movimentata negli interporti italiani con trasporto

intermodale è concentrata per oltre il 90% nei soli interporti di Verona, Padova e

Bologna”40

. Di converso, mentre cresceva il grado di entropia della rete logistica, in

Lombardia, che non dispone di un interporto, i 18 terminali intermodali movimentano

11 milioni di tonnellate di merce all’anno, circa il 40% delle unità di traffico

dell’intero Paese, con uno stock di immobili logistici pari ad oltre 4,5 milioni di mq,

Gli investimenti necessari per l’efficienza delle infrastrutture

logistiche

Nei passati decenni l’attenzione è stata posta, in modo sostanzialmente quasi

esclusivo, sugli investimenti necessari nelle grandi opere per recuperare un gap

infrastrutturale che era ritenuto l’elemento alla base del deficit di qualità nella

organizzazione dei servizi di trasporto e di logistica nel nostro Paese. Certamente

servono investimenti mirati per superare i colli di bottiglia e per dotare l’Italia di una

rete di asset fisici coerenti con la necessaria qualità dei collegamenti con i principali

mercati internazionale. Ma questi investimenti devono essere concentrati nelle aree a

maggiore congestione, e soprattutto devono essere coerenti con una visione

gerarchizzata delle infrastrutture di rete (nodi e linee) nel nostro Paese.

Hanno prevalso, nei passati decenni, spinte localistiche a competere sulla attribuzione

delle risorse pubbliche per gli investimenti nei trasporti e nelle reti, in assenza di un 40

Ennio Forte, Luigi D’Ambra, Lucio Siviero, “Interporti in Italia tra intermodalità e retroportualità: un’analisi di

efficienza con frontiera di produzione stocastica”, dattiloscritto, 2011, p. 1.

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41

disegno nazionale che abbia prima definito con chiarezza le priorità, per assicurare

finanziamenti certi che poi consentano di realizzare le opere necessarie in tempi

coerenti con le necessità del mercato.

Si è scelto invece di allargare la lista delle opere da finanziare, realizzando così un

duplice danno: da un lato si è determinata una attribuzione a pioggia delle risorse

pubbliche, peraltro decrescenti, che ha dilatato i tempi di realizzazione delle opere in

quanto al formale conferimento delle risorse seguiva una erogazione con il

contagocce, e dall’altro si sono anche realizzati progetti infrastrutturali spesso in

competizione, in aree geografiche limitrofe.

Si sono così determinati fenomeni di insaturazione e di bassa utilizzazione degli

impianti, che hanno implicato non solo uno sperpero di risorse in conto capitale, ma

anche un disavanzo costante in termini di equilibrio dei conti economici di strutture

che non erano, e non saranno mai in grado, di ripagare neanche i propri costi di

gestione ordinaria.

Nella presente analisi limitiamo il nostro angolo di osservazione alle infrastrutture

puntuali, ma le considerazioni che saranno espresse possono essere traslate anche,

con le dovute differenze, al sistema complessivo degli investimenti per le opere

infrastrutturali. La proliferazione di porti, aeroporti ed interporti ha indotto ad un

provincialismo delle infrastrutture logistiche che non ha migliorato la qualità

infrastrutturale del nostro Paese.

La competizione tra infrastrutture limitrofe ha generato un gioco a somma zero, che

non ha attratto volumi aggiuntivi di merce, ma ha anzi determinato una

marginalizzazione ulteriore di un tessuto logistico nazionale che vede i suoi principali

punti di debolezza nei servizi erogati alla merce e nella rete dei collegamenti dei nodi

della rete, in cui si scambia la merce, verso l’hinterland, per l’afflusso e la

distribuzione dei prodotti.

Occorre innanzitutto superare quella frammentazione logistica che ha impoverito la

competitività del sistema nazionale, definendo una gerarchia chiara tra le piattaforme,

che consenta agli operatori internazionali di leggere con chiarezza il disegno di rete

ed i punti di interscambio primari tra l’economia mondiale ed il nostro Paese.

Riportando al centro la gerarchizzazione tra i nodi di interscambio è poi possibile

specializzare ed integrare le funzioni delle diverse piattaforme logistiche, restituendo

al mercato una mappa coerente dei servizi per ambiti e profili differenti di architettura

di rete.

A tal fine è innanzitutto opportuno portare a compimento le due riforme che sono

state lungamente discusse, e non approvate, nel corso della ultima legislatura, vale a

dire la riforma dei porti e quella degli interporti. Tali piattaforme sono strategiche per

il rilancio della competitività del nostro sistema logistico.

Occorre definire una scelta nazionale di gerarchizzazione e di specializzazione delle

funzioni tra le principali piattaforme logistiche del nostro Paese, puntando

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42

innanzitutto a migliorare il processo di erogazione dei servizi alla merce e favorendo

il completamento di quell’azione di liberalizzazione avviata con la riforma portuale

che tanti benefici iniziali aveva determinato.

A tal fine va introdotta una distinzione netta tra infrastrutture di carattere nazionale,

che devono essere integrate nella rete europea dei collegamenti primari (quello che

con linguaggio comunitario viene definito il “core network”), ed infrastrutture di

carattere regionale, che costituiscono un completamento della rete fondamentale

(nella espressione comunitaria “comprehensive network”) . Solo operando scelte

chiare per concentrare masse critiche di movimentazione negli hub strategici è poi

possibile indurre scelte di intermodalità, che vanno poi assecondate e promosse

mediante politiche di promozione e di sviluppo.

Serve poi definire un Masterplan degli investimenti prioritari per il consolidamento

della rete logistica nazionale, senza indulgenze verso le spinte localistiche, ma con

una visione di priorità nazionale. Un piano di “piccole opere”, mirate ad intervenire

sui colli di bottiglia che strozzano la rete logistica nazionale, è urgente per

determinare un miglioramento nella capacità infrastrutturale e per allocare al meglio

le risorse finanziarie effettivamente disponibili.

In questo senso andrebbe anche ridotto il numero dei soggetti gestori di porti,

aeroporti ed interporti, in un disegno di consolidamento e di specializzazione per area

geografica omogenea dei sistemi infrastrutturali, ed andrebbero favoriti processi di

aggregazione tra i principali soggetti economici che operano in tale settore di attività,

per addensare masse critiche coerenti di piattaforme logistiche adeguate a presentare

al mercato una offerta solida di servizi logistici competitivi e moderni.

Una riforma del disegno istituzionale ed organizzativo può aiutare un processo di

razionalizzazione che non si è realizzato negli anni recenti, ad esempio riducendo

drasticamente il numero delle Autorità Portuali (dalle attuali 25 a non più di 6), per

costringere il sistema italiano dei porti a ragionare in modo sistemico rispetto al

posizionamento necessario nelle diverse filiere del comparto marittimo e

l’approvvigionamento energetico, oppure introducendo, come si è tentato di fare nel

disegno di legge discusso nella passata legislatura in Parlamento sulla riforma degli

interporti41

, criteri di accesso ai finanziamenti pubblici basati sulla effettiva offerta di

servizi intermodali da parte degli interporti stessi.

E’ auspicabile che nella nuova legislatura vengano unificati i due provvedimenti di

riforma su porti ed interporti, per dare vita ad un disegno unitario di riforma delle

principali piattaforme logistiche, dalla cui efficienza dipende in buona misura la

qualità del ciclo logistico complessivo. Incentivi che consentano di favorire

l’aggregazione imprenditoriale dei gestori per bacini omogenei di traffico adeguati a

41

La fine anticipata della legislatura ha bloccato anche l’approvazione di questa riforma, votata solo da uno dei due

rami del Parlamento. Così come ferma è rimasta la riforma dei porti. Entrambi questi provvedimenti sono pilastri per

rilanciare la competitività del sistema logistico italiano, ed è auspicabile che se ne occupi tempestivamente la prossima

legislatura.

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43

specializzare le vocazione delle diverse piattaforme logistiche possono essere

strumenti utili a ridisegnare la competitività della rete logistica nazionale.

Analogo processo di razionalizzazione e di selezione è stato avviato nel settore

aeronautico con l’atto di indirizzo del Piano per lo sviluppo aeroportuale,

recentemente presentato dal Governo42

, che pone le premesse per una scrematura

degli scali di interesse nazionale, pur se non focalizza con sufficiente attenzione il

tema del cargo aereo.

Si tratterà di vedere se, nel corso dell’iter di concertazione previsto dalla Conferenza

Stato-Regioni, saranno confermati gli indirizzi assunti e saranno meglio focalizzate le

tematiche connesse non solo al traffico passeggeri, ma anche a quello merci.

L'industria dell'aviazione, che comprende l'insieme delle compagnie aeree, gli

aeroporti, l'industria aeronautica ed i fornitori di servizi, rappresenta una componente

rilevante dell'economia comunitaria: occupa 5 milioni di addetti, contribuisce al PIL

europeo con 365 miliardi di euro (il 2,4% del PIL totale dell'Unione), trasporta 800

milioni di passeggeri all'anno. In Italia, il settore opera con 500.000 addetti,

contribuisce al PIL con 15 miliardi di euro, trasporta 149 milioni di passeggeri. Il

flusso dei passeggeri che transitano negli aeroporti italiani genera sull'economia dei

territorio un ritorno stimato in almeno 100 miliardi di euro all'anno.

Si tratta di un settore destinato a crescere ancora nei prossimi decenni, in termini di

domanda di servizi da parte della clientela. Il traffico aereo passeggeri ha registrato,

tra il 2000 ed il 2011, un tasso medio annuo di aumento pari al 4,6%, in linea con

quanto si è verificato in Europa negli stessi anni.

Va aggiunto che, in rapporto al reddito pro-capite, i passeggeri originati dall'Italia

sono sensibilmente minori rispetto alla media dei paesi europei, ciò che sta significare

un "serbatoio" di domanda ancora inespressa. Proprio per questa ragione l'Italia è

terra su cui si stanno cimentando le compagnie aeree di altri paesi ed è assolutamente

necessario, in uno scenario economico caratterizzato ancora da una recessione che

ormai dura da più di un lustro, cogliere le opportunità di sviluppo possibili per le

imprese (gestori, operatori aeroportuali e vettori).

A distanza di 26 anni dall'ultimo provvedimento approvato, è stato emanato, il 29

gennaio 2013, l'atto di indirizzo del Governo per la definizione del Piano nazionale

per lo sviluppo aeroportuale. Il documento, che recepisce gli orientamenti comunitari,

è stato inviato alla Conferenza permanente Stato-Regioni, per la necessaria intesa, e,

successivamente, sarà adottato con un apposito decreto dal Presidente della

Repubblica.

Nel nostro Paese sono attualmente operativi 112 aeroporti, di cui 90 aperti al solo

traffico civile (43 per voli commerciali e 47 per voli civili non di linea), 11 militari

aperti al traffico civile (con 3 scali aperti a voli commerciali e 8 a voli civili non di

linea), 11 esclusivamente ad uso militare. 42

Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, “Atto di indirizzo per la definizione del Piano nazionale per lo sviluppo

aeroportuale”, 29 gennaio 2013.

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44

Si è determinato nei passati decenni uno sviluppo disordinato e convulso,

originariamente all'insegna della rivendicazione "un aeroporto per campanile (e pure

una stazione)", nell'assunto che anche i servizi aerei dovessero rispondere a principi

di universalità; successivamente mirato ad intercettare su base locale una domanda di

servizi aeroportuali che sembrava destinata a crescere ovunque ed in ogni caso, con

l'obiettivo di attrarre soprattutto le compagnie low cost, in un meccanismo di

concorrenza tra scali che ha generato una disarticolazione del disegno strategico di

sviluppo della rete aeroportuale. L'atto di indirizzo del Governo si propone di ridurre

la frammentazione esistente, favorendo anche un processo di riorganizzazione e di

efficientamento.

Nella proposta del Governo vengono individuati 31 aeroporti di interesse nazionale,

che dovrebbero costituire l'ossatura strategica su cui fondare lo sviluppo del settore

nei prossimi anni. Si tratta di:

10 aeroporti inseriti nel "core network" europeo (Bergamo, Bologna, Genova,

Milano Linate, Milano Malpensa, Napoli, Palermo, Roma Fiumicino, Torino,

Venezia);

29 aeroporti inseriti nel "comprehensive network" europeo (13 aeroporti con

traffico superiore al milione di passeggeri annui, 4 con traffico superiore ai

500mila passeggeri e con specifiche caratteristiche territoriali, 2 indispensabili

per la continuità territoriale)

2 aeroporti non facenti parte delle reti europee (Rimini, per il traffico in

crescita, Salerno, per la possibilità di delocalizzare il traffico di Napoli).

Per gli aeroporti di interesse nazionale è previsto sia il mantenimento della

concessione di gestione totale nazionale, sia il rilascio di essa, laddove al momento

mancante. Non viene precisato dal piano se in questi ultimi casi, le attuali società

affidatari e di gestioni parziali o precarie verranno automaticamente trasformate in

affidatari di gestioni totali o se (molto più opportunamente) ciò avverrà in esito a

gare.

Gli aeroporti di interesse nazionale potranno essere interessati da un programma di

infrastrutturazione che ne potenzi la capacità, l'accessibilità, l'intermodalità: questo

sviluppo vale in particolare per i tre aeroporti intercontinentali di Roma Fiumicino

(realizzazione di una nuova posta, potenziamento delle aree di imbarco e dei

terminal), Milano Malpensa e Venezia (miglioramento dell'accessibilità alle strutture

e della interconnessione con la rete ferroviaria ad alta velocità.

Gli aeroporti non di interesse nazionale dovranno invece essere trasferiti alle Regioni,

che saranno responsabili del rilascio delle concessioni di carattere regionale, e ne

valuteranno la diversa destinazione d'uso e/o la possibilità di chiusura.

Rispetto al precedente Piano Nazionale degli Aeroporti, presentato a febbraio del

2012 dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e dall'ENAC, l'atto di indirizzo

compie una opportuna scelta di selezione e di concentrazione, sia evitando di dare

corpo ad ipotesi di nuovi scali sia riducendo il numero degli scali di interesse

nazionale.

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45

Non sono previsti, come era in precedenza, nè la realizzazione dei nuovi scali di

Grazzanise, in quanto si ritiene che Napoli Capodichino possa sostenere ulteriori

aumenti di traffico nel medio periodo e si possa utilizzare lo scalo di Salerno, nè la

realizzazione di Viterbo, in quanto si ritiene che gli investimenti previsti debbano

essere finalizzati al potenziamento infrastrutturale dell'aeroporto di Roma Fiumicino.

Non sono compresi negli scali di interesse nazionale, come invece era nel precedente

documento di pianificazione, gli aeroporti di Brescia, Bolzano, Foggia e Forlì.

Manca però, nell’atto di indirizzo del Governo per il Piano di sviluppo degli

aeroporti, una focalizzazione sul contributo che il sistema aeroportuale può fornire

alla riorganizzazione del sistema logistico nazionale. Nel documento di

pianificazione che sarà all’esame della Conferenza Stato-Regioni, il traffico aereo

cargo è appena citato di sfuggita.

Eppure, sebbene il traffico cargo in Italia rappresenti una parte marginale in termini

di volumi delle merci trasportate (circa il 2%), il ragionamento cambia se guardiamo

al valore economico, pari circa il 40% del valore totale delle merci trasportate.

Rispetto ai principali paesi europei concorrenti, su circa 12 milioni di merci

movimentate, la quota relativa generata dai nostri aeroporti è di circa il 7%, quella

tedesca il 37%, quella francese il 15%. In Italia il traffico cargo aereo è concentrato in

3 aeroporti, che rappresentano il 77% del traffico complessivo: Milano Malpensa

(47%), Roma Fiumicino (18%) e Bergamo Orio al Serio (12%).

Circa il 51% del traffico gestito dai vettori aerei destinato od originato dal mercato

italiano raggiunge via terra altri importanti aeroporti europei (Monaco, Francoforte,

Parigi, Zurigo, Amsterdam e Madrid). Una linea di indirizzo strategica opportuna per

il futuro è quella di riuscire a servire il mercato italiano del cargo aereo con una

offerta competitiva attratta dai nostri scali aeroportuali.

Accanto alla approvazione della riforma di porti ed interporti, è opportuno dunque

che vada a compimento, a seguito della condivisione da parte della Conferenza Stato-

Regioni, il documento di indirizzo del Governo sul Piano di sviluppo dei sistemi

aeroportuali: le misure proposte per la razionalizzare la rete degli aeroporti di

interesse nazionale, e per favorire il processo di aggregazione tra gestori aeroportuali

sono linee di azione opportune per conseguire economie di scala e di scopo.

Migliorare i servizi logistici nei porti, negli interporti e negli aeroporti

Un asse prioritario di intervento riguarda dunque la riforma del sistema degli

interporti, dei porti e degli aeroporti, per qualificarne l’offerta di servizi e per

gerarchizzarne le funzioni, evitando una polverizzazione degli asset logistici che

costituisce uno dei principali punti di debolezza attuali.

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46

Da diversi anni i documenti governativi di pianificazione parlano della necessità di

costituire piattaforme logistiche43

che integrino in una organizzazione unitaria di

offerta ciò che oggi invece diventa micro-competizione territoriale distruttiva. Si

tratta ora di passare dalla consapevolezza alla implementazione di politiche coerenti,

creando processi di pianificazione e provvedimenti normativi tendenti ad incentivare

processi di aggregazioni tra porti, interporti, aeroporti e piattaforme logistiche, in

modo tale da generare per questa via processi di concentrazione industriale, capaci di

secondare percorsi di efficienza e di riduzione dei costi logistici.

Come abbiamo detto in precedenza, si è determinata invece, nel corso dei passati

decenni, una spinta localistica a disperdere gli investimenti in una pluralità di siti,

determinando per questa via l’effetto di una concorrenza territoriale che ha generato

processi di spiazzamento competitivo. Nella geografia della globalizzazione, per

attrarre gli operatori internazionali occorre disporre di una chiara articolazione

dell’offerta di servizi, valorizzando le sinergie possibili.

In Campania sono stati realizzati due interporti a distanza di poche decine di

chilometri (a Marcianise ed a Nola), l’arco ligure vede tre porti competere per attrarre

le compagnie di navigazione (Genova, La Spezia e Savona), lungo l’asse adriatico si

sono fronteggiati progetti antagonisti di sviluppo portuale (Monfalcone, Venezia,

Trieste), con discussioni teoriche che hanno avuto l’effetto solo di generare una

paralisi decisionale.

Per poter generare una geografia logistica coerente la competitività delle prestazioni

del settore e con la capacità di attrarre operatori del mercato, occorre che si superi

quindi il provincialismo nelle decisioni sugli investimenti da realizzare, e che si punti

su una maggiore qualificazione dei servizi offerti nelle piattaforme logistiche.

Entrambi questi aspetti hanno determinato un arretramento delle performance

industriali della logistica per le imprese. Nei porti, negli aeroporti e negli interporti

occorre attrarre funzioni qualificate di servizi per la logistica, per arricchirne valore e

competitività: meno investimenti in cemento, più investimenti nelle tecnologie e nella

organizzazione.

Non si è puntato ad una riqualificazione del mercato dei servizi offerti nelle

infrastrutture logistiche, continuando nella strada che era stata segnata dalla prima

riforma dei servizi portuali. Le infrastrutture per la logistica generano valore per

l’economia quando sono in grado di assicurare efficienza e competitività nei servizi

destinati alle operazioni di scambio modale, cucendo quella organizzazione

monomodale basata sul trasporto stradale che costituisce una eredità del passato, non

più funzionale alla diversa qualità della domanda di trasporto e di prestazioni

accessorie da parte del sistema manifatturiero.

43

Di piattaforme logistiche si parla negli allegati ai DPEF dei Governi degli anni passati, anche se lo slogan è rimasto

tale e non ha dato luogo ad alcun mutamento nel rovinoso disegno di frammentazione delle infrastrutture che ha

caratterizzato le scelte degli ultimi decenni.

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47

Ancora oggi, tanto per fare un esempio, alcune prestazioni di servizio costituiscono

un fattore bloccante per l’efficienza nella intera catena logistica: pensiamo ad

esempio al costo delle manovre ferroviarie in alcuni porti italiani, che rappresentano

una vera e propria barriera all’accesso per sviluppare l’intermodalità.

Rendite di monopolio in un singolo elemento della catena logistica, come è nel caso

delle manovre ferroviarie portuali, determinano conseguenze di spiazzamento

competitivo che si riverberano sulla intera catena della intermodalità marittima,

rendendo meno attraente la soluzione della integrazione tra mare e ferrovia, che

costituisce invece uno dei punti di svolta essenziali per ribaltare la tendenza ad una

organizzazione del trasporto e della logistica orientata oggi in modo eccessivo verso

la soluzione del tutto gomma.

La qualità e la tempestività delle operazioni doganali nei punti di interscambio

strategici per il commercio internazionale costituisce un altro elemento determinante

per incidere sull’efficienza delle prestazioni logistiche nel ciclo complessivo delle

lavorazioni: “Una chiave della nuova agenda è un approccio maggiormente olistico

nelle procedure di autorizzazioni doganali. Un tale approccio richiede maggiore

collaborazione tra tutti gli organismi deputati ai controlli sugli standard, ai controlli

sanitari, al trasporto ed alla salute, e l’adozione di approcci moderni alla compliance

regolatoria”44

.

Consentire i controlli doganali non solo nei porti di arrivo delle merci, ma anche negli

interporti, se la merce viene inoltrata via ferrovia, può costituire uno snellimento

delle operazioni ed un incentivo sostanziale all’utilizzo maggiore della intermodalità.

Modificare il sistema di incentivi nelle concessioni e nei contratti

Parallelamente, sono possibili, e devono essere rapidamente realizzate, riforme a

costo zero che consentirebbero una migliore utilizzazione degli asset esistenti,

modificando la struttura dei contratti e delle regole di concessione delle attività

economiche nelle infrastrutture logistiche.

Serve operare per costruire una politica industriale per la logistica, mediante:

selettività degli investimenti nelle piattaforme;

miglioramento della competitività dei servizi erogati;

incentivi selettivi alla domanda industriale per la logistica.

44

Banca Mondiale, “Connecting to compete. Trade logistics in the global economy. The logistics performance index

and its indicators”, 2012, p.29.

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48

Per andare in questa direzione è indispensabile riscrivere le regole di funzionamento

degli atti di concessione e dei contratti di servizio delle pubbliche amministrazioni.

Questo aspetto, che vale in generale per il miglioramento di efficienza nella

erogazione dei servizi pubblici, ha ricadute molto rilevanti nel funzionamento delle

piattaforme logistiche, soprattutto nei recinti portuali, che sono gestiti secondo

meccanismi di concessione o con contratti stipulati dalle Autorità Portuali. Il

fenomeno del contracting out di funzioni precedentemente erogate in modo diretto

dalla pubblica amministrazione costituisce uno degli elementi di più profonda

trasformazione che si sono determinati nei decenni scorsi.

Tale processo è stato realizzato mediante due leve: da un lato la “aziendalizzazione”

delle funzioni pubbliche, mediante la trasformazione in società per azioni sia di enti

pubblici nazionali (poste, ferrovie) sia di aziende municipalizzate (tutti i servizi

pubblici locali), dall’altro mediante il conferimento a soggetti del mercato di

prestazioni prima erogate direttamente nel perimetro della funzione pubblica. In

entrambi i casi, questo processo si è realizzato allargando in modo molto sensibile

l’area dei contratti di servizio pubblico e delle concessioni.

La matrice delle inefficienze nei servizi dipende anche proprio dalla assenza di

incentivi economici e di controlli sostanziali negli atti della pubblica

amministrazione, quando viene affidato a terzi lo svolgimento di attività economiche

(concessione di banchine portuali, contratti di servizi pubblico per il trasporto locale,

ecc.)45

. E’ una operazione a costo zero che può dare uno stimolo molto rilevante alla

riorganizzazione di molti mercati di prestazioni di servizio che sono decisivi per il

posizionamento competitivo e per il recupero di produttività dell’economia italiana.

Facciamo, giusto per comprendere la logica oggi applicata ed i possibili interventi

correttivi, un esempio relativo alle concessioni per la gestione delle banchine nei

porti. Attualmente le Autorità Portuali affidano le banchine ai terminalisti in cambio

di un corrispettivo generalmente fissato mediante un valore di affitto dell'area a metro

quadrato.

A quel punto, il gestore costruisce il proprio conto economico considerando il canone

di concessione un costo fisso, e lavorando per massimizzare gli introiti, che in larga

parte derivano dai tempi di stazionamento delle merci e dei contenitori in banchina.

L’esito di questa regola contrattuale è paradossale: il sistema è costruito, dal punto di

vista delle convenienze economiche, per massimizzare i giorni di stoccaggio delle

merci in porto, determinando per questa via uno spiazzamento competitivo della

portualità italiana.

45

In molti settori dei servizi, l’assenza, nel sistema dei contratti, di corretti strumenti di incentivazione per premiare i

comportamenti virtuosi è stata foriera di gravi inefficienze. A questo elemento, si aggiunge anche un assetto fortemente

instabile del quadro normativo, continuamente messo in discussione tra liberalizzazioni e monopoli. Il pendolo

istituzionale nella disciplina dei servizi, con tutte le connesse conseguenze di incertezza e di mantenimento delle

inefficienze, costituisce una delle tematiche critiche per il nostro Paese. Vale per la logistica come per il trasporto

pubblico locale. Per un riferimento alle recenti vicende connesse al trasporto pubblico locale, cfr. Andrea Boitani e

Pietro Spirito, “Chi guida il trasporto locale”, in www.lavoce.info, 4 dicembre 2012

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49

Mutando il sistema di incentivi alla base di concessioni o contratti, cambierebbe il

quadro delle convenienze per i terminalisti: se fosse in particolare definita una regola

in base alla quale il corrispettivo economico per la concessione o per il contratto

fosse inversamente proporzionale rispetto al numero dei giorni di stoccaggio in

banchina delle merci e dei contenitori (e quindi maggiore al crescere dei giorni di

stoccaggio), molto probabilmente i terminalisti dovrebbero agire per rendere più

spedito l’inoltro, evitando, come ha osservato Ikea, che i tempi di stoccaggio dei

container siano pari oggi a 9 giorni nel porto di Genova.

Cambierebbe a quel punto anche l’attrattività del sistema portuale italiano, oggi

certamente condizionata dalla lentezza e dalla costosità delle operazioni in banchina.

Modificando il meccanismo di assegnazione dei contratti di concessione delle

banchine portuali, cambierebbero le aspettative razionali degli operatori, ed i loro

comportamenti gestionali; l’attuale modello contrattuale pone gli operatori nella

condizione di massimizzare la propria rendita, speculando proprio sulla inefficienza

delle operazioni: più la merce o i container restano fermi, e maggiore è il loro

tornaconto economico.

Se invece si modifica l’algoritmo di questi contratti, passando ad una valorizzazione

proporzionale rispetto al tasso di rotazione della merce (il valore del canone pagato

dai concessionari cresce all’aumentare del numero di giorni medi di sosta della

merce), l’interesse degli operatori sarà allineato con l’obiettivo di efficienza delle

attività di movimentazione portuale, determinando, in un arco temporale ragionevole,

un miglioramento negli indici di attraversamento delle merci dallo sbarco dalle navi

all’inoltro verso la destinazione finale.

Per questa via si darebbe concreta risposta ad una delle ragioni per le quali le grandi

navi porta contenitori preferiscono percorrere maggiori giorni di navigazione per

toccare i porti del Nord Europa, anche per merce che è destinata al mercato

nazionale. L’efficienza delle operazioni portuali, ed i maggiori tempi di

attraversamento della merce, erodono oggi il vantaggio competitivo teorico dato dalla

minore percorrenza della navigazione marittima, in caso di scelta di un porto italiano.

Meccanismi di riforma di questa natura opererebbero in direzione di un rilancio della

competitività del sistema portuale nazionale, una questione che viene oggi affrontata

esclusivamente nella dimensione delle risorse necessarie a finanziare gli investimenti

per l’allargamento della capacità produttiva e per la ricezione delle grandi navi

container in termini di dragaggi e gdi miglioramento nella profondità dei fondali.

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50

Dalla intermodalità alla comodalità

L’evoluzione della intermodalità tra sviluppo del traffico marittimo e

crisi del traffico terrestre

In generale, possiamo definire intermodalità “quel concetto di trasporto dei

passeggeri e delle merci con due o più differenti modi di trasporto durante un singolo

viaggio, effettuato in modo tale che tutte le parti del processo di trasporto, inclusi gli

scambi di informazione, siano connesse e coordinate in modo efficiente”46

. Più

specificamente, si definisce intermodalità, nel settore delle merci, quella tecnica di

trasporto che consente ad una unità di carico di utilizzare diversi modi di trasporto

senza manipolare la merce nella fase di cambio tra le diverse modalità.

L’intermodalità rappresenta un indicatore qualitativo del livello di integrazione tra i

diversi modi di trasporto, in termini di infrastrutture, operazioni, attrezzature, servizi

e condizioni di regolamentazione.

Possiamo quindi dire che l’efficienza dell’offerta intermodale di un Paese sia una

proxi efficace del suo grado di adeguatezza complessivo, in quanto il funzionamento

dell’interscambio modale dipende essenzialmente dalla integrazione efficace tra le

diverse componenti che ne determinano il funzionamento, vale a dire i terminali

intermodali (porti, interporti, scali ferroviari), le attività vettoriali (ferrovia, strada,

mare, aereo), i servizi di interscambio modale (carico e scarico, manovre,

terminalizzazioni).

Che l’efficienza della offerta intermodale sia una componente determinante del suo

successo, deriva dal fatto che la rottura di carico introduce comunque costi aggiuntivi

al flusso della merce. “Per rendere il trasporto intermodale una alternativa preferibile

al trasporto camionistico, i costi generalizzati di trasporto dovrebbero essere eguali o

più bassi, in modo tale che gli extra-costi dovuti al carico e scarico nei terminal

intermodali possano essere compensati da costi più bassi nelle relazioni lunghe di

trasporto”47

. Si stima che i costi aggiuntivi derivanti dalle operazioni di carico,

scarico e trasbordo delle unità intermodali costituiscano tra il 25% ed il 40%del costo

totale di movimentazione di una unità intermodale nella logica di un collegamento

door to door.

Per questa ragione è indispensabile non solo che le singole componenti che ne

determinano la catena del valore siano prodotte con un adeguato grado di efficienza,

ma anche che siano costruite quelle condizioni di adeguata connessione tra gli anelli

della catena, in modo tale che il flusso nella sua interezza sia adeguato alle

caratteristiche della domanda, in termini di costo e di qualità della prestazione

erogata.

46

Christopher M. Monsere, “Trends in intermodal freight transportation”, Portland State University, dattiloscritto 2007. 47

Thor-Erik Sandberg Hanssen, Terje Andreas Mathisen, Finn Jorgensen, “Generalized transport costs in intermodal

freight transport”, 15th

meeting of the Euro Working Group on Transportation, 2012, p. 2.

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51

“Essendo l’intermodalità il risultato di una catena multi-attoriale è naturale che il

tema del coordinamento, informazione e comunicazione sia assai rilevante dal punto

di vista dell’analisi degli incentivi alla collaborazione ed all’influenza che ha il potere

di mercato e la struttura gerarchica della catena nel determinare il risultato

collaborativo”48

.

Veniamo da una storia dei trasporti del secolo passato caratterizzata da un approccio

settoriale per singola modalità: “Ciascun modo di trasporto (aereo, fluviale,

marittimo, attraverso oleodotti, ferroviario, stradale) ha attraversato la propria

evoluzione tecnologica ed è stato funzionalmente separato da una specifica struttura

di regolamentazione concepita per singola modalità”49

. Nel ventunesimo secolo il

trasporto intermodale delle merci deve essere reinterpretato sulla base di requisiti che

corrispondono alle catene globali della logistica.

L’evoluzione delle tecnologie di trasporto ha consentito di estendere il raggio di

applicazione della intermodalità, resasi sempre più necessaria anche per effetto della

crescita dei processi di globalizzazione industriale nel corso dei decenni più recenti.

Con la delocalizzazione delle fabbriche nei Paesi di nuova industrializzazione, è

inevitabilmente cresciuto il flusso degli interscambi su scala mondiale, e si sono

sviluppati trasporti che mettono in connessione da un lato i diversi insediamenti

produttivi per gli scambi di semilavorati e dall’altro le fabbriche con i mercati finali

di sbocco.

E’ per questa via aumentata quella che viene definita la intermodalità obbligata, vale

a dire quella condizione in base alla quale, per la lunghezza e la complessità dei

percorsi della merce, non sia una scelta la soluzione di utilizzare due o più modi di

trasporto, ma una necessità inderogabile. Del resto, più si allunga la distanza percorsa

dalla merce, meno incidono in termini percentuali i costi di trasbordo tra le diverse

modalità, rendendo per questa via l’intermodalità anche maggiormente competitiva,

oltre che necessaria: la globalizzazione dell’economia ha generato dunque

inevitabilmente un crescita robusta nel ricorso a soluzioni intermodali di trasporto.

In questo processo di internazionalizzazione della intermodalità, un ruolo essenziale è

stato giocato dalla marittimizzazione dell’economia: “L’intermodalità ha spinto i

porti a orientare in via prioritaria la loro attività verso l’interno anche a grandi

distanze, modificando la natura stessa del retroterra e producendo territori di

discontinuità in particolare delle aree situate subito a ridosso del porto stesso”50

.

Le catene lunghe del trasporto hanno anche determinato una maggiore articolazione

delle spedizioni intermodali, che spesso devono sopportare più rotture di carico, e

diverse modalità di trasporto coinvolte nel processo di produzione. La tratta

48

Romeo Danielis, “Il trasporto intermodale ferroviario: quale ruolo per l’analisi economica ?”, Riunione annuale

SIET, Genova 18-20 novembre 2004. 49

William DeWitt, Jennifer Clinger, “Intermodal freight transportation”, Committee on intermodal freight transport,

2000. 50

Paolo Sellari, “Geopolitica dei trasporti”, Laterza, 2013, p.25.

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52

prevalente di lungo raggio viene svolta in modo dominante dai vettori marittimi, che

spesso stanno passando dall’essere puri “carrier” delle spedizioni ad operatori

“merchant”, facendosi carico della consegna della unità di carico sino al cliente

finale.

Con l’accelerazione dei processi di delocalizzazione produttiva hanno assunto

rilevanza, accanto alla consegna del prodotto finito dalla fabbrica al cliente, anche i

flussi interstabilimento dei beni intermedi e dei semilavorati: dal concetto distrettuale

dell’industria primaria approvvigionata da fornitori limitrofi, anche la costellazione

degli scambi di beni intermedi è entrata dentro la rete delle connessioni

internazionali.

Paradossalmente, mentre cresceva per effetto della globalizzazione l’intermodalità

obbligata, connessa ai grandi flussi marittimi su scala internazionale, si è venuta

riducendo, in alcuni contesti, l’intermodalità terrestre, che aveva rappresentato invece

la principale strada di crescita di questa tecnica di trasporto nei decenni precedenti.

Tale fenomeno ha assunto dimensioni particolarmente rilevanti in alcuni Paesi, tra i

quali l’Italia, ed è connessa, per via indiretta, al processo di liberalizzazione

comunitaria del trasporto ferroviario, che si è realizzato compiutamente a partire dal

2007.

Nella lunga stagione della statalizzazione ferroviaria europea, l’intermodalità terrestre

si era sviluppata essenzialmente grazie al traino assicurato da basse tariffe di trazione

ferroviaria, che avevano attratto il mercato a scegliere anche tale soluzione,

soprattutto per i collegamenti nazionali nella direttrice fondamentale del Paese, quella

dei collegamenti tra il Nord ed il Sud dell’Italia.

Tale assetto aveva certamente drogato il mercato, che si era abituato a considerare

l’intermodalità una soluzione competitiva essenzialmente sul fronte della

convenienza economica, resa possibile da politiche di prezzo dei monopolisti

ferroviari che collocavano sul mercato il costo della trazione ad un valore

assolutamente non corrispondente non solo ai reali costi di produzione (inefficienti),

ma anche ad un ipotetico costo di produzione sulla frontiera della efficienza.

Eravamo in una stagione nella quale il trasporto ferroviario intermodale era

funzionale per calmierare i prezzi della soluzione tutto-gomma, e quale tecnica di

supporto per evitare una totale dipendenza dall’autotrasporto, che restava comunque

la soluzione dominante.

L’avvio della liberalizzazione ha indotto, inevitabilmente, gli incumbent

dell’industria ferroviaria ad abbandonare politiche di sostegno alla intermodalità, che

non si conciliavano più con l’applicazione di concetti di mercato e di competizione,

che impongono il pieno recupero della razionalità economica da parte degli operatori

di settore. In assenza di esplicite scelte di incentivazione pubblica verso

l’intermodalità, che sono state adottate da diversi Paesi europei (in particolare dalla

Svizzera, dall’Austria e dalla Germania), la rete dei servizi intermodali nazionali

terrestri, nel giro di pochi anni, è stata sostanzialmente azzerata.

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53

L’ex monopolista abbandonava una produzione di servizi ferroviari intermodali a

prezzi assolutamente squilibrati rispetto ai costi di produzione, ed i nuovi entranti non

erano nemmeno in grado di sostituirsi, perché il mercato si era intanto abituato a

corrispettivi della trazione ferroviaria inferiori rispetto ai costi efficienti di

produzione.

La mano pubblica degli incentivi, laddove è stata attivata, ha consentito di attenuare il

divario che si stava determinando tra aspettative della domanda e costi della trazione

ferroviaria, consentendo di reggere i volumi di traffico. Laddove, come in Italia,

questa politica non è stata adottata, se non per brevi stagioni intermittenti, lo scenario

è stato radicalmente diverso, ed il mercato dell’intermodalità terrestre ha subito un

drastico ridimensionamento.

Insomma, si è generata in Italia una forbice tra incremento della intermodalità

obbligata, indotta dai processi di marittimizzazione degli scambi economici, e

decremento della intermodalità opzionale, soprattutto nella componente dei trasporti

terrestri di medio e lungo raggio. Questo fenomeno asimmetrico ha indebolito la

completezza della gamma dei servizi intermodali complessivamente intesi,

impoverendo l’effetto di rete ed inducendo un vantaggio competitivo determinante

alla soluzione di una intermodalità marittima baricentrata nella soluzione integrata tra

nave e gomma.

Del resto, in questa direzione ha spinto anche il progetto governativo ed europeo

delle “autostrade del mare”, che ha finanziato mediante incentivi proprio

l’interscambio tra soluzione marittima e soluzione camionistica, nel tempo stesso in

cui veniva meno la rete dei collegamenti intermodali ferroviari sulle principali

direttrici del traffico terrestre nazionale. Insomma, proprio mentre l’intermodalità

cominciava a conoscere una stagione di forte sviluppo, l’intermodalità ferroviaria,

nella duplice dimensione del traffico terrestre e di quello marittimo, ha invece

conosciuto nel nostro Paese una crisi profonda, dalla quale ancora non si è ripresa.

L’intermodalità opzionale che si era sviluppata prima dei processi di globalizzazione

che hanno indotto verso l’intermodalità obbligata ha lasciato in eredità un prezioso

patrimonio industriale, indispensabile per consentire di dispiegare gli effetti della

rivoluzione nei trasporti che abbiamo conosciuto a cavallo tra la fine del secolo

passato e l’inizio del ventunesimo secolo.

Le unità di carico intermodali si sono standardizzate progressivamente nel corso del

tempo, ed il container è diventato lo strumento prevalente della intermodalità

marittima, mentre la cassa mobile ha assunto la stessa funzione nella intermodalità

terrestre. Le operazioni di carico e scarico delle unità intermodali si sono consolidate

nella esperienza dei decenni passati, ed hanno conosciuto processi di miglioramento e

di efficienza costanti. Insomma, standardizzazione delle unità di carico e

miglioramento dei processi industriali nei terminali hanno costituito le premesse

necessarie per la crescita dei traffici merci su scala internazionale.

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E’ il trasporto intermodale non accompagnato, nel caso delle merci, ad aver

conosciuto lo sviluppo più intenso, grazie alla rete dei collegamenti marittimi

mondiali, alla standardizzazione delle unità di carico, allo sviluppo di una rete di

terminali intermodali che hanno investito nella automazione delle operazioni di

carico e scarico. La velocizzazione di queste operazioni si è determinata in particolare

nei sistemi portuali, per le necessità connesse al gigantismo navale, ed all’elevato

costo di immobilizzazione delle grandi imbarcazione di transhipment, che devono

inevitabilmente minimizzare i tempi di sosta nei porti.

Non si sono invece evolute in modo economicamente sostenibile le tecniche di

trasporto intermodale accompagnato, che prevedono, come nel caso dell’autostrada

viaggiante, l’inoltro anche della tara costituita dal mezzo di trasporto su gomma e

dell’autista del camion, che viaggia su un vagone dedicato. La costosità di questa

tecnica la rende ancora oggi quasi totalmente dipendente dai sussidi pubblici dei

Governi, ed è utilizzata in modo significativo per l’attraversamento alpino, nei

collegamenti Italia-Austria, Italia.-Svizzera ed Italia-Francia.

Nel caso del trasporto ferroviario intermodale marittimo, uno degli ostacoli che

ancora non è stato rimosso per sviluppare tale tipologia di traffico riguarda l’assetto

infrastrutturale nei porti e l’efficienza delle operazioni di manovra ferroviaria nei

segmenti terminali delle tratte. La riforma portuale realizzata in Italia con la legge

84/94 ha assegnato alla titolarità delle Autorità Portuali le infrastrutture ferroviarie

che insistono entro il perimetro dei porti stessi.

Questo assetto ha generato una sorta di “no man’s land”, in quanto le reti terminali di

collegamento tra i terminali ferroviarie le banchine stanno dentro due giurisdizioni

diverse: quella del gestore della rete ferroviaria nazionale, per il primo tratto, e quella

dell’Autorità Portuale, per il secondo tratto. L’esito che si è determinato è una

mancanza di investimenti che sarebbero necessari per modernizzare le reti ferroviarie

terminali, dalla cui inadeguatezza dipende spesso sia la costosità delle operazioni di

manovra, sia l’inadeguatezza del livello di servizio.

D’altra parte, la gestione delle manovre nei porti, in molti casi, è caratterizzata da un

livello di costo troppo elevato, che incide in modo significativo sulla struttura

complessiva del servizio intermodale, soprattutto quando le tratte ferroviarie da

servire sono di medio raggio, come inevitabilmente accade, per motivi oggettivi di

natura geografica, nei collegamenti tra porti italiani del Nord e retroterra industriale

della Pianura Padana.

Le politiche per la intermodalità in Europa: il ruolo delle istituzioni e

degli operatori

L’Unione Europea, che per lungo tempo ha considerato l’intermodalità una delle

chiavi strategiche necessarie per il cambiamento strutturale del mercato dei trasporto

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nel continente comunitario, più recentemente, a partire dal 2006, è passata ad

utilizzare il termine co-modalità, intendendo con questa espressione “l’uso di

differenti modo di trasporto al fine di ottenere un impiego sostenibile delle risorse”.

In questo modo si intende sottolineare la necessità di un approccio ai servizi di

trasporto come componente integrata della catena logistica, evidenziando in

particolare la necessità di ottimizzare l’uso delle risorse proponendosi anche di

guardare alle implicazioni di sostenibilità.

Molta parte dello sviluppo della intermodalità e della comodalità dipende

dall’ambiente istituzionale e dalle regole del mercato. Inevitabilmente,

l’intermodalità introduce elementi di costo aggiuntivo rispetto alla soluzione

monomodale, in quanto deve almeno gestire le operazioni di scarico e carico tra un

modo di trasporto e l’altro, oltre che sopportare i costi di un sistema informativo più

complesso di tracciatura della merce da origine a destinazione. Nulla quaestio,

quando l’intermodalità non è una scelta, ma una necessità.

Siamo in questo caso nell’area delle spedizioni transcontinentali, che vedono il

vettore marittimo come mezzo modale per la connessione di più lungo percorso,

mentre il trasporto su gomma ed il trasporto ferroviario svolgono le funzioni ancillari

per i collegamenti via terra, in origine ed in destinazione.

Diverso è il caso della intermodalità solo terrestre, che vede il suo naturale

antagonista nella soluzione del tutto gomma. In questo caso, anche quando un

razionale uso delle risorse secondo una logica di sostenibilità (e quindi abbracciando

il concetto di comodalità) vedrebbe la soluzione intermodale avvantaggiata, occorre

creare le condizioni per una convenienza economica che induca gli operatori a

scegliere questa soluzione.

E’ questa la ragione per la quale molti Governi hanno da tempo deciso di mettere in

campo politiche attive di sostegno della intermodalità, che sono accompagnate da una

strumentazione di carattere fiscale tendente a tassare i veicoli maggiormente

inquinanti, secondo una logica di internalizzazione dei costi esterni. Ne abbiamo

parlato nel corso del secondo capitolo di questo percorso logico. Su tale strada si è

incamminata, con incertezze e con prudenza, l’Unione Europea, che, anche con gli

ultimi atti normativi, lascia ancora agli Stati la facoltà, o meno, di percorrere tale

sentiero di regolazione, pur ritenendolo opportuno e possibile.

Nella struttura del mercato per i servizi intermodali un nodo che non è stato ancora

pienamente sciolto è quello che si determina tra soggetti che organizzano puramente

l’offerta integrata di servizi rispetto ad altri soggetti che, essendo parte di una filiera

specialistica del trasporto, si propongono anche di offrire in aggiunta servizi

intermodali, cercando evidentemente di massimizzare anche la ottimizzazione del

proprio modo di trasporto prevalente.

Insomma, tra i cosiddetti multimodal transport operators, che svolgono una funzione

da puri intermediari, e gli operatori vettoriali che si convertono alla logica

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intermodale si determinano conflitti di mercato, acuiti anche dal tentativo, da parte di

soggetti delle piattaforma logistiche, di entrare la loro volta come soggetti che si

propongono di vendere al mercato servizi intermodali, con lo scopo, in questo caso,

di saturare la capacità delle piattaforme intermodali stesse.

Il gioco del mercato intermodale risponde ad una logica binaria, spesso in conflitto. I

puri intermediari si possono presentare alla propria clientela come soggetti che

svolgono una funzione “neutrale” tra i diversi componenti della catena del valore

intermodale, e per questa ragione possono comporre i diversi segmenti dell’offerta

seguendo una logica di massimizzazione della utilità del cliente finale.

D’altra parte, quando un singolo attore della catena intermodale si propone sul

mercato con una propria offerta di servizi, può presentarsi al mercato con elementi di

duplice vantaggio competitivo: da un lato può non ricaricare margini eccessivi sulla

funzione di produzione direttamente erogata, dall’altro, curandone direttamente parte

del processo di erogazione, può dare maggiori garanzie sulla qualità del servizio.

Agendo in un mercato ormai liberalizzato, e quindi competitivo, queste due logiche

espresse da operatori intermodali con caratteristiche strutturalmente differenti si

confrontano. Un ruolo fondamentale sull’esito di questa concorrenza deve essere

giocato dalle politiche pubbliche per la intermodalità. Negli indirizzi espressi dalla

Commissione Europea, sussidi pubblici finalizzati allo sviluppo di soluzioni

intermodali sono considerati ammissibili, a condizione che vengano erogati in modo

trasparente, ed a pari condizioni tra tutti gli attori del mercato.

Proprio per andare in tale direzione, sembrerebbe opportuno individuare meccanismi

che consentano di corrispondere ai principi stabiliti dalle istituzioni comunitarie. Per

quanto riguarda l’intermodalità in generale, e l’intermodalità ferroviaria in

particolare, occorrerebbe andare in direzione di assegnare gli incentivi per

l’intermodalità o direttamente ai clienti finali oppure indirettamente come

abbattimento di costi che siano comuni per tutti i soggetti che attingono agli elementi

della catena intermodale: nel caso ferroviario sarebbe in particolare opportuno

operare riducendo il pedaggio di accesso alla rete ferroviaria.

Se invece gli incentivi vanno ai soggetti della offerta intermodale, siano essi

intermediari o produttori diretti di una delle componenti della catena del valore, si

possono determinare condizioni di asimmetria che non consentono di generare una

diretta corrispondenza tra incentivi erogati e volumi di traffico intermodale da

sviluppare.

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Conclusioni

In sintesi, una politica industriale per la logistica, necessaria per recuperare il tempo

perduto, deve essere articolata su fronti convergenti: qualificazione e

gerarchizzazione delle infrastrutture, stimolo alla domanda delle imprese, una mano

pubblica più efficiente, che incentivi competizione e modernizzazione. E’ una delle

sfide prioritarie per modernizzare il sistema nazionale dei trasporti, inserendolo

dentro la rete delle connessioni internazionali.

Dentro la questione della ripresa di competitività dei servizi logistici sta il tema del

recupero di competitività del trasporto ferroviario delle merci, settore nel quale alla

compiuta liberalizzazione dei servizi su scala comunitaria, realizzata da ormai sei

anni, non è seguito in tutti i Paesi europei quell’auspicato recupero di competitività

derivante dalla apertura del mercato alla competizione.

A sei anni dall’avvio della liberalizzazione comunitaria, pur scontando gli effetti

della crisi economica che hanno certamente inciso sulla perdita dei volumi, si deve

registrare che la liberalizzazione di per sé, senza una politica industriale di

accompagnamento per la ripresa della competitività del sistema ferroviario, non basta

ad invertire la tendenza decennale all’arretramento delle quote modali.

Misure per la riorganizzazione e la competitività dei principali nodi di interscambio

(porti, interporti, aeroporti) devono essere accompagnate anche da politiche per

l’intermodalità, che possono essere rese praticabili da un lato orientando gli aiuti

pubblici all’autotrasporto verso l’aggregazione e la riorganizzazione industriale delle

aziende del settore, e dall’altro favorendo il ricorso alla intermodalità mediante un

sistema di incentivi tesi a favorire la crescita della modalità ferroviaria.

Soprattutto, una politica industriale per il trasporto e la logistica non può limitarsi ad

una ottica visuale solo concentrata su singoli segmenti di intervento, pur rilevanti, ma

deve abbracciare un arco coordinato di misure e di provvedimenti. In assenza di una

visione d’insieme, singoli provvedimenti, pur animati dalle migliori intenzioni,

rischiano di generare risultati solo parziali. Serve un approccio integrato, consapevole

delle interrelazioni che esistono tra le diverse modalità di trasporto. E’ questa la

premessa vera, e necessaria, per sviluppare poi l’intermodalità.