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LDB
Sarban
Ilrichiamodelcorno
TraduzionediRobertoColajanni
ConunaNotadi
MatteoCodignola
AdelphieBook
TITOLOORIGINALE:TheSoundofHisHorn
Quest’operaèprotettadallaleggesuldiritto
d’autoreÈvietataogniduplicazione,
ancheparziale,nonautorizzata
Incopertina:Franzvon
Stuck,LacacciaselvaggiaMuséeD’Orsay,Parigi
©MUSÉED’ORSAY,DIST.RMN-GRAND
PALAIS/PATRICESCHMIDT
Primaedizionedigitale2015
©1952THEESTATEOFJOHNWILLIAMWALL
Edizionepubblicatainaccordocon
PiergiorgioNicolazziniLiteraryAgency(PNLA)
©2013ADELPHIEDIZIONIS.P.A.MILANO
www.adelphi.it
ISBN978-88-459-7663-6
ILRICHIAMODELCORNO
1
«È il terrore che èindescrivibile».Guardammo tutti
AlanQuerdilion.Era laprima volta cheinterveniva nelladiscussione; quasi laprima volta che apriva
bocca dalla fine dellacena.Seneerarimastoseduto a fumare lapipa, lasciando vagarelo sguardo dall’unoall’altro degliinterlocutori, conquell’espressione dilieve stupore sul visoche sembrava ormaiessergli abituale:un’espressione che miricordava non tantol’innocenza di un
bambino, quanto lasemplicità di unselvaggio, per il qualelo strano suono dellatua voce è unameraviglia che lodistrae dal prestareattenzione al sensodelle tue parole. Dopoaver osservato per tregiorni quello sguardo,capii che cosaintendeva sua madrequando, confidandosi
con me, aveva dettocontristezzachequelloche i tedeschi avevanoliberato nel 1945 erasolounapartediAlan.Non lo vedevo da
quasi dieci anni, daquelgiornodel1939incui era partito perandarea imbarcarsi suunanavecometenentedella Royal NavalReserve. Forse troppospesso si dà per
scontatocheiltempoeuna dura guerra sianocausa di grandicambiamenti nelcarattere di unapersona, e in seguitomi stupii di aver datocosìpoca importanzaaquanto era cambiatoAlan. Perfino la suatrasformazionedall’esuberantegiovanottosicurodisé,vivace, pieno di
energia, che eccellevainogni sport, inquellacreatura silenziosa,apatica e insicura, miera sembrata soltantofar parte del generalestato di appiattimentoe di disfacimento delmondo edell’affievolirsi dellaforza e del morale dicui l’Inghilterraparevasoffrire fin dal 1939.Era facile dimenticare
che Alan non erasemprestatocosì.Fu facile anche per
me, almeno in queiprimi tre giorni aThorsway, finché suamadre non venne aparlarmi. Soltantoallora,quandoconariatriste mi chiesesommessamente checosa non andava inAlan, fui costretto ariconoscere il
mutamento che eraavvenuto in lui. Eracome se pensasse cheio, il suo miglioreamico ai tempi dellascuolaedell’università,possedessi la chiaveper liberare quellaparte della sua menteche era ancora tenutaprigionierachissàdoveochepotessipagarneilriscatto. Ecco comestavanolecoseper lei:
«Loro» avevanorimandato indietro ilsuo corpo, più o menosano, e con quel tantodicapacitàmentalichegli permetteva dioccuparsidell’amministrazionequotidianadellapiccolafattoria che suo padregliavevalasciato;masierano tenuti il resto.Che cosa gli avevanofatto? O che cosa lui
aveva fatto a se stessodurante i quattro annitrascorsiinquelcampodiprigionia?Tentai con fatica di
sottrarmi al ruolo dipsichiatra dilettante alquale questaconfidenza sembravainvitarmi. Proferiiqualche banalitàsull’esperienza dellaguerra e la monotoniadella vita di prigione –
luoghi comuni evocatidai ricordi di mieconversazioni con varialtri ex prigionieri diguerra; poi, forse pocodelicatamente,aggiunsi che in fondoerano passati diecianni, e chenonpotevapretendere che Alanrestassepersempreunragazzo. Lei scosse latesta. «È qualcosa dipiù profondo, e
soprattutto sono tristeper Elizabeth». Nonpotei fare altro cherassicurarla, anche sesenza troppaconvinzione, dicendochenonavevonotatoinlui un così grandecambiamento.Certo, tra i presenti
nel salotto in quellaserata invernalenessuno sembravameravigliarsi
dell’apatia edell’assenza di Alan,eppure lo avevanoconosciuto bene primadella guerra. E pensoche,comeme,nessunodi loro si aspettasse disentirlo intervenirenelladiscussione.C’erano gli Hedley e
la loro figlia Elizabeth.IlmaggioreHedleyeraun vecchio vicino deiQuerdilion ormai in
pensione che, comeAlan, faceval’agricoltore aThorsway. Poi c’eraFrank Rowan, uncugino di Alan cheinsegnava economia inun’università del Norde che come me stavapassando unasettimanadi vacanza acasa loro. Entrambiconoscevano Alan findabambinoe,seanche
pensavano che avessequalcosadistrano,conme non ne avevanofatto parola: davanol’impressione diconsiderarlo un uomosemplice, di buoncarattere, proprio iltipo che riesce a farfunzionare un trattoreriluttante o adaggiustare un motoremalandato, uno chepuò sorprenderti per
l’agilità con cui siarrampica sul tetto diun granaio o scavalcauna staccionata, macerto nonunuomodalquale aspettarsi unqualsiasi contributo auna discussione comequella che avevamointrapresodopocena.Eppure sua madre
avevaragione,equelladiscussione,piùdiognialtra cosa, mi rivelò
quanto fosse cambiato.Anche se non era maistato un cacciatore, icacciatori di volpi glipiacevano e amavatutti gli esercizi diabilitàedi forza fisica.Prima della guerra sierasempreiscrittoallaCaccia di Saxby, neidintornidiThorsway,esenonpartecipavaallebattute è solo perchéda sempre era più un
corridore che uncavallerizzo. ACambridge si eradistinto nella corsacampestre; era unatleta veramentecompleto, ma non erafatto per gli sport acavallo. Inquell’ambiente dicampagna facevapensare più aldiscendente di unastirpediagricoltoriche
non di nobiliproprietari terrieri, undiscendente diquell’antica razza dicontadini delLincolnshire chepreferivanoi levrieriaibracchi e amavanoaccompagnarli a piedia cacciare nelle landeventose. Ma gli sportcampestri ce li avevanelsangue.Eaivecchitempi, seFrankavesse
attaccato la cacciaallavolpe come fece quellasera, Alan sarebbestato il primo alanciarsiaspadatrattainsuadifesa.Inveceerarimasto in
silenzio per un’ora emezzo,mentre gli altribaccagliavano a piùnon posso. FrankRowan, che con farebellicoso si ostinava acombattere
retrospettivamente labattaglia persa dellalegge contro la cacciaalla volpe – proprio inquei giorni respintadalla Camera deiComuni –, erasarcastico, polemico,pungente, e a mioparere non proprioeducato nei confrontidellapadronadicasaedei suoi ospiti, quandosottolineava quanto
fosse basso il livellomorale e intellettualedi chi praticava oapprovava gli sportsanguinari.IlmaggioreHedley invece riunivain sé la sobrietà delbuon militare diprofessione e laconoscenza dellacaccia tipica dell’uomodi campagna; difese lacausa con competenzaerifiutòfermamentedi
farsi attirare là doveFrank potevasopraffarlo con le suearmi filosofiche epsicologiche.Non così Elizabeth
Hedley.Equellaera lacosa più strana, cheAlan non fossenemmeno indotto amormorare una parolain sua difesa, o adaccennareungestopersalvarladalgrovigliodi
contraddizioni e diincongruenze in cui latrascinavaFrankconlasua maligna dialettica.L’ardore di Elizabethavrebbe infiammatoanche un uomo assaimeno sensibile alfascino di una ragazzaanimosa di quanto nonlo fosse Alan ai vecchitempi; ora sembravasoltantoconfonderlo,o,come un paio di volte
mi parve di notare,spaventarlo.Elizabeth aveva
ventidueanni,erabellae piena di vita. Eranata e cresciuta aThorsway ed era statacompagna e devotaammiratricediAlanfinda prima della guerra,quandoeraancoraunabambina di undici ododici anni. I cavallierano sempre stati la
suagrandepassione, ele poche volte chel’avevo incontrata inquei tre giorni passatial villaggio avevamoparlato esclusivamentedi caccia, di mostreequine, di raduni alPony Club edell’allevamento deicuccioli di bracco. Sec’era qualcuno cheavrebbe dovutopreoccuparsi per il
cambiamento di Alan,era lei. Eppure, aquanto sembrava,aveva acconsentito asposarlo poco dopo ilsuo ritorno dallaprigionia e nessuno,eccetto la signoraQuerdilion, mi avevamai minimamenteaccennato che tra loronon filasse tutto liscio.Nell’atteggiamento diElizabeth verso Alan,
per quanto avevopotuto vedere, nonc’era neanche nulla dicompassionevole oprotettivo; nulla dellasollecitudine che unaragazza affettuosacome lei avrebbemostrato nei suoiconfronti se fossetornato dalla guerrainvalidoocieco.Ho detto che erano
fidanzati,manonsose
il fidanzamento fossemai stato annunciato;io lodavoperscontatodal modo in cui ilmaggiore, la signoraHedley e la madre diAlan parlavano dellacoppia. È vero, michiedevo perchétrascinassero la cosatanto per le lunghe,sebbene Elizabethavessesoltantodiciottoanni quando Alan era
tornato, ed era chiaroche i suoi preferivanoche aspettasse. Noncapivo però per qualemotivo non si fosserosposati nel corsodell’ultimoanno.Poi, osservando
Elizabeth nella foga diquelladiscussionesullacaccia alla volpe enotando la velataespressione di pauranello sguardo che il
povero Alan lerivolgeva, mentre leiindignata rimbeccavabrillantemente gliattacchi di Frank,dovetti dare atto a suamadrediaverintuitolaverità. Alan avevaperso tutto il suospirito;lasuavirilitàsiera spenta oaddormentata;qualcosa lo avevaalteratoatalpuntoche
la vivacità, lagiovinezza, l’ardore ela bellezza di quellaragazza lointimorivano. Avevasemplicemente pauradi lei, e ne conclusiche, sebbene gli altridessero il lorofidanzamento perscontato, in realtà nonloeranéperluinéperlei, perché Alan nonavevaosatochiederela
sua mano. Sua madresapeva che, se non sifosse ripreso, avrebbepersoElizabethe iomitrovai a condividere ilsuo timore. Sarebberostati davvero una bellacoppia; Elizabeth gliavrebbe dato proprioquello stimolo e quelsoffiodivitadicuiAlansembrava averebisogno.Mirifiutavodicredere che la sua
natura fosse mutata atal punto da renderloindifferente allabellezzafisicadilei;gliserviva soltanto unvecchio amico che glifacesse capire qualerischio correva,lasciando che questanuova insicurezzaprendesse ilsopravvento sui suoireali desideri... Primache la discussione
fosse terminata, avevoaccettato la parte chela signora Querdilionavevaprevistoperme.Lo scontro si
concluseinmanieradeltutto inaspettata.Frank,nesonocerto,loaveva prolungato piùper il gusto diprovocare Elizabethche non perché fosseseriamente contrarioalla caccia alla volpe.
La loro discussione,comehodetto,divennemolto accesa e a mioparere quasiingiuriosa, anche se,immagino, siconoscevanoabbastanza bene dapotersi prendere amale parole senzaoffendersi a vicenda.Eppure, dopo un po’,Frank cominciò amollare la presa e
lentamente trasformòquella disputa in unoscambio di battutescherzose, arrivandoalpunto di dire: «Be’,dopotutto nessuno hasaputo definire megliodi Oscar Wilde ilgentiluomo dicampagna inglese cheinseguealgaloppounavolpe: l’indescrivibile acacciadell’immangiabile».
A questo punto Alansitolselapipadiboccae disse con un tononaturale, di calmaconstatazione: «È ilterrore che èindescrivibile».La cosa che più ci
sorprese, oltre al fattoche Alan fosseintervenuto nelladiscussione, fuquell’osservazione cosìfuori luogo e
l’improvviso ritornoalla serietà. Frank e ilmaggiore avevanoun’aria assente, maElizabeth, dopo averlofissato senza capire,chiese bruscamente econ una nota dimalcelata ostilità nellavoce:«Terrore? Quale
terrore?».Alan si chinò in
avanti, con la pipa
stretta tra le mani, eguardò accigliato lagatta che se ne stavaplacidamenteraggomitolata sultappeto davanti alcamino. Gli era moltodifficile esprimere ciòche voleva dire e,almeno noi tre uomini,nonpotemmofarealtroche aspettare conindulgenza che sisbloccasse. Il
maggiore, dopo unprimo attimo disorpresa,orasembravadivertito e sorridevaincoraggiante, come sifarebbe con unbambino che hadifficoltà a iniziare lasua recita. «Vogliodire...» rispose infineAlan, sempre fissandola gatta «voglio dire ilterrorechesiprovaadessere cacciati: è
questo che èindescrivibile, è perquestochenoncisonoparole. Si puòdescriverelagente...».Elizabeth aveva
inarcatolesopraccigliae spalancato gli occhi.Tutto in lei esprimevaostilità e sfida; miaspettavo chesbottasse dicendo:«Sciocchezze!», e chelo assalisse con le
stesse veementiargomentazioni chequella sera aveva giàscagliato una dozzinadi volte contro FrankRowan;chedicessecheunamorteviolentaèlafinenaturaledituttelecreature selvatiche, eanche la piùmisericordiosa, e chegli animali non hannosufficiente fantasia perimmaginare l’orrore
della morte prima delsuo arrivo... Tutti iconsueti argomenti diquei cacciatori di volpiabbastanza imprudentida difendere il lorosport tentando diportare la volpe sulbanco dei testimoni.Erosicurocheavrebberibadito tutto questoanche ad Alan, perchéle espressioni del suoviso si potevano
leggere comequelle diun bambino:ma primache le parole leuscissero di bocca,evidentemente il corsodei suoi pensieri deviòd’improvviso, o cosìmiparve, verso un’altra edel tutto insolitadirezione. L’ostilità, ildesiderio di ribatterescomparvero dal suoviso;guardòfissoAlan,il cui atteggiamento
sembrava esprimereun’inquietudine e undisagio ancora piùgrandi mentre sicurvava in avanti,allontanando la testada lei, ed ebbil’impressione di vederapparire negli occhi diElizabeth, ancorasgranati, una specie diassortointeresse,diungenere chemi sarebbeparso naturale nella
gatta che stava traloro. Impossibile dire,inquelmomento,qualescoperta, quale nuovainterpretazione leavessero suggerito leparole di Alan. Potevosoltantoindovinarecheper lei l’oggetto delladiscussioneimprovvisamente nonera più la caccia allavolpe ma lo stessoAlan,echeintuisseche
la paura di cui luiparlava avesse perqualche strano verso ache fare con leipersonalmente;d’istinto era diventataguardinga, attenta anon lasciar trapelare isuoipensieri,erestavain attesa che uno deipresenti prendesse laparola.MalasignoraHedley
si stava preparando ad
andarevia.Alansialzòesilenziosamenteandòad accendere le lucidell’ingresso, equandogli ospiti se ne furonoandati prese unalanterna e uscì unmomento in cortile. Lasignora Querdilion ciaugurò ben presto labuonanotte e ancheFrank,dopoaverrisoescherzato ancora unpo’, compiaciuto per il
suo successo nelladiscussione e divertitodallo strano interventodi Alan, se ne andò adormire. Non avendol’abitudine di andare aletto così presto, miversai un po’ di birra,spensi le luci delsalotto e ravvivai ilfuoconelcamino.La gatta saltò sul
bracciolo della miapoltrona e, ripiegando
le zampe anteriorisotto il petto, si misecon me a fissare itizzoniardenti.Unrumoredipassie
unacorrentefreddamirisvegliarono daltorpore, o meglio, dauna specie dicontemplazione, unalunga serie di ricordiche si susseguivanosenzavolerlonellamiamente come le
immagini di un sogno.Alan era rientrato; losentii sprangaresilenziosamente laporta d’ingresso. Mialzai per andare adaccendere la luce, mami scontrai con luirientrando nel salotto.Avevailrespirocortoemi afferrò per lagiacca, ma poi, nonappena mi sentìparlare, accennò una
breve risatina disollievo e lasciò lapresa.«Ho dimenticato la
gatta» disse. «È qui?Pensavo foste andatituttialetto».La sua voce
sembrava incerta.Accesi la luce e rimasiimpressionato nelvedere il suo viso cosìpallido per lo spaventoche gli avevo
procurato. Pieno dirammarico, mi scusaiper essere rimasto lìappostato nel buio.Farfugliò con evidenteimbarazzo che nondovevo farci caso eavanzò verso il caminofingendo di cercare lagatta, ma muovendosiascatti,nervosamente,e mettendoci troppotempoperriprendersi.Pensai che fosse
meglio dire qualcosa etornai senza esitazionesull’argomentoprincipaledellaserata.«Non mi
meraviglierei sestasera Elizabeth sifosse improvvisamenteresa conto che puòesserci qualcosa digiusto nella causaumanitaria contro lacaccia. È stato perquello che hai detto,
naturalmente; o percome l’hai detto. Misembra che l’abbiafattariflettere».Si volse bruscamente
verso di me. «È unavita che va a caccia,»disse «perché mai unacosa detta da medovrebbe fare qualchedifferenza?».Allora mi fu chiaro
comelalucedelgiornoche loro due ne
avevano già discussoprima – e ancheanimatamente.Immaginavo cheavessero litigatoe,perquanto insignificantepotessesembrarmiunadivergenza di opinionisu una faccenda delgenere tra dueinnamorati, potevocomprendere che perloro fosse importante,in un mondo in cui la
cacciavenivapresasulserio. Ma perché Alanavrebbe dovuto volerecheleinonandassepiùacaccia?«Mah, non so»
replicai. «Pensavo chela tua opinionecontasse qualcosa... Inogni caso molto più diquella di Frank. Untempo ogni tua parolaera come un oracoloperlei».
Si chinò e mise unaltrocepponelcamino,come se avessecompletamentedimenticato che pocoprimastavaperandarea letto. Rimase ancoraun po’ con le spallecurve, in silenzio,osservando il ceppofumante chelentamente siconsumava.Finalmente, senza
guardarmi e con vocecontrollata,midisse:«Mia madre ti ha
parlato di me eElizabeth,vero?».«Be’...» risposi «di
te... È un po’preoccupata.Pensacheci sia qualcosa che titormenta, credo.Personalmente nonvedo niente di diversoin te, a parte che avolte sembra che tu
abbiapersolalingua,eituoinervi,scusasetelo dico, non hannol’aria di essere inottimo stato. Non misembra che tu sia ingran forma, eppuredovresti esserlo, orache vivi in campagna.Non è per caso labottiglia,vero?».Rise. «Nei tre giorni
che sei stato qui hopensato che siamo
rimastiproprioquellidiun tempo, davvero.Vederti mi ha fattobene. Forse non sonocambiato così tanto,dopotutto».«Certo,» replicai «il
carattereegliaffettidiuna personadovrebbero restareinalterati, ma d’altraparte per l’uomo cisarebbe ben poco dasperare,sel’esperienza
non gli facessecambiarecomportamentoemododipensare.Haiseiannidiguerraediprigioniaalle spalle. E dopoun’esperienza similecapisco perfettamenteche un uomo abbiacambiatoideasumoltecose».«Sì,» disse «tu
potresti capire, o inogni caso ti
interesserebbe.Senti!». Si raddrizzòimprovvisamente e sivoltò. «Non sei stanco,vero? Ti dispiace se tiracconto una cosa?Lasciacheti riempia ilbicchiere, poisediamoci e tiracconteròunastoria».Versò della birra per
entrambi, spense laluce, poi riattizzò lebraci finché la fiamma
nonsiriaccese.«Riesco a parlarne
meglio così, alla lucedel fuoco,» dissesistemandosi nellapoltronadifronteame«e se ti annoi, puoitranquillamenteaddormentarti senzacheiomeneaccorga».Riempimmo lepipee
aspettai.«Non ne ho parlato
connessuno,»cominciò
«néconmiamadre,néconElizabeth.E primadiiniziarevogliochetusappia che si tratta diuna favola; solo di unafavola, capisci, che tiracconto perché pensopossa interessarti.Nonti chiedo di ascoltarmiper farmidire cosac’èche non va: lo soperfettamente dame enessuno può farciniente.Sitrattasolodi
aspettare e vedere sesuccede ancora. Ormaisonopassatitreannie,seriusciròasuperarneun altro senza che siripeta, sarò sicuro chenonaccadràpiùepotròtranquillamentechiedereaElizabethdisposarmi,etuttoandràbene. Lei potrà andareacacciaconibracchienonlitigheremopiùperquesto...almenofinché
non chiederà anche amediandarci.Esochenonlofarà».
2
Non sono pazzo,nobilissimo Festo. No,malosonostato.Enonintendo dire soloeccentrico osquilibrato, masplendidamentesuonato: è cosa
certificabile al di là diognidubbio.Orastodinuovo bene. Davverobene, credo. Ma dopoessere scivolato unavolta, cosìall’improvviso,dall’altra parte, so conquanta facilità erapidità questo possaaccadere di nuovo, e avolte qualcosa diinatteso mi spaventaper un attimo – finché
non ho di nuovo lacertezza di trovarmiancoradaquestapartedelmuro,percosìdire.Nonèraro,sisa,che
un uomo in un campodi prigionia possaperderelaragione.Puòaccadereachiunque,enon necessariamente aquelli più fragili o aipiù tormentati. Neavevo visti moltiimpazzire prima che
accadesse ame.Noi liconsideravamofortunati, e credo disapere il perché diquella loro ariastranamenteindifferente: è moltosemplice, non sannoche cosa succede inquesto mondo mentreloro sono cosìindaffarati nell’altro. Eci si sentestraordinariamente
sani,sai.Nelmiocaso,almeno,sonocertochequando mi trovavodall’altra parte la miamente fossedoppiamente attiva,doppiamente sensibilea quello che accadeva,di quanto non lo fosseal mio ritorno fra lagente normale, e dinuovoingabbia.Ero felice che fosse
una gabbia diversa.
Nessuno dei mieicompagni là dentrosapeva che ero uscitodisenno,equandoallafine fummo tuttiliberati, gli psichiatrimi giudicaronoperfettamentenormale.Anche se, ovviamente,a loro non raccontaimai quello che storaccontandoate.Fummobombardatie
affondati al largo di
Cretanel1941epassaidue anni in un campodi prigionia dellaGermania orientale:l’Oflag XXIX Z. Quelpiccolissimo mondo midivenne moltofamiliare: filo spinato,naturalmente,baracche fatiscenti,troppo fredded’inverno e troppocalde d’estate, i sudicilavatoi, le latrine
puzzolenti, la terrachiara e sabbiosa, lanera foresta di pini inlontananza, gli sgherrisulle torrette diguardia;etuttiipiccoliespedienti,itrucchi,gliaccorgimenti e leinvenzioni che cisembravano cosìimportanti – be’, chesono così importanti,quando il tuomondo èridotto a quelle
dimensioni.Mi illudevo di
sopportare la vita diprigione molto megliodellamaggiorpartedeimiei compagni.Ovunque io sia, nonsono mai veramenteinfelice se riesco atrovare qualcosa dafare con le mie mani,ed è sorprendentecome in similicircostanze ci si possa
trasformare in operosiartigiani, se solo se neha l’inclinazione. Sonoveramente fiero dialcune cose che sonoriuscito ricavare dadelle vecchie latte.Matenevo occupata anchela mente. Decisi diriprendereastudiareilgreco. Forse sarebbestato più sensatoimparareiltedesco,macredo che il greco mi
attirasse perché misembrava così puro efresco e non avevanienteachefareconilcampo.Bene, dico questo
solo per chiarire cheero un prigionieropiuttosto sereno.Naturalmente mimancavalagiustadosedi esercizio fisico, ma,considerando lapovertà della nostra
dieta, probabilmenteera già tanto laginnastica cheorganizzavamo. Inoltrenon avevo particolariproblemi familiari.Ricevevo lettere dacasa più spesso dichiunquealtroe,finchémia madre e Elizabethstavano bene, nonavevo nulla di cuipreoccuparmi. È vero,stare forzatamente in
compagnia solo digente del tuo stessosesso è una privazionechepuòmettereaduraprova l’equilibriomentale – ma nonsaprei: eravamo tuttinella stessa situazione.Certo, forse ti puòmancare il piaceredelle avventure, macredo che se prima diessere messo sottochiavehai avuto la tua
normale e giustarazione di questipiaceri, puoisopportarne l’assenzaconpiùfilosofia.Eranoi ragazzi a soffrirne dipiù, non quelli dellamiaetà.No, guardando
onestamente eobiettivamente a quelperiodo – e un campodi prigionia è un buonposto per misurare le
deviazioni da uncomportamentonormale – avreipensato di essere unodegli ultimi a perderela ragione. Ma ecco ilpunto, mi è successoproprio questo.D’accordo, può esserestata la scossa... lascossa elettrica, oquello che era, adessoci arrivo. D’altra parteinpassatoavevosubìto
shock molto peggiori.Ero stato silurato duevolte in tre mesi, nelMaredelNord,pernonparlare deibombardamenti.Questishock avevano messoalla prova ilmio corpoben più della scossache avevo preso allabarriera diHackelnberg, ma nonmiavevanosconvoltolamente.
Ah! Non puoiimmaginare quantevolteinquestidueanniho cercato le provedella mia salutementale, e con quantacura l’ho passata alsetaccio per scovareogni minima falla, ilsegnodiunadebolezzanascosta, senza mairiuscire a trovarlo.Dovevo, dovevoscoprireperchéperun
certo periodo sonouscito di senno:capisci, sarebbe statala prova migliore nonsoltanto della miasalute mentale, madella validità di tuttoquest’ordine in cuicrediamo, la naturalesequenzadel tempo, leleggi dello spazio edellamateria, la veritàdituttalanostrafisica.Perché vedi, se io non
ero pazzo, alloradoveva esserci nelloschema delle cose unafollia troppo grande eselvaggia perché unuomo avesse ilcoraggiodiaffrontarla.Elacosaparadossale
ècheeroconsideratoiltipo più solido, sano eaffidabile di tutto ilcampo. C’era ilComitato per leEvasioni: i migliori
cervelli tra gli ufficialianziani, capaci digiudicare un uomomeglio di qualsiasipsichiatra. Se c’eraqualcuno in grado discovare una falladentro di me eranoloro, con tuttal’esperienza cheavevano di piani folli.Invece presi parte, investe di consigliere oassistente,aquasitutti
i tentativi di fuga chefurono organizzati.Diventai una specie diconsulente, il tipo alcuiespertoconsigliocisi rivolgeva prima disottoporre il pianoall’approvazione delComitato. L’evasione,naturalmente, eral’elemento nel quale,per così dire, vivevanotuttiinostripensieri;lenostre piccole
occupazioni e idivertimenti erano leonde superficialidell’esistenza e lostudiodell’evasioneerailmarecheci tenevaagallaintuttoquellochefacevamo.In realtà tutti i piani
difuganoneranoaltroche varianti di unostesso sistema. C’eraun solo modo dirisolvere il problema
essenziale dioltrepassare il filospinato: bisognavatrasformarsi in talpe escavare una galleria.Presi parte allaprogettazione di moltitunnelefuimembrodimolti gruppi che sioccupavano di scavaree nascondere la terra.Ma nessuna evasionedall’OflagXXIXZ ebbesuccesso fino al
tentativo che facemmoioeilmioamico.Non starò a
descriverti i dettaglidelpianoedelloscavo,proverebberoproprioilcontrariodiciòchestotentandodidimostrarticon questa storia,perché quel tunnel fuprogettatoescavatofintroppo bene. Tutto ilcampo ci sostennenell’impresa.
Avvenne una notteversolafinedimaggio,un’ora prima delsorgere della luna. Losbocco del nostrocunicolo si trovava uncentinaiodimetrioltreil filo spinato e ciavrebbeportatoacircacinquantametridaunapropaggine dellaforesta di pini. La piùsemplice applicazionedeiprincìpidelloscavo,
pensavamo, ci avrebbegarantito maggioriprobabilità di riuscita.Lagranpartedeipianierano falliti perché iltunnel non arrivavaabbastanza lontano. Illavoroeracosìpesantee il tempo necessariocosì lungo che, unavolta giunti sotto larete, la tentazione dismettere di scavare edi rischiare una corsa
più lunga era troppoforteperresistervi.Manoi resistemmo eriuscimmo almeno araggiungere il buionascondiglio deglialberi senza chevenisse dato l’allarme.Avevamo usato comecopertura il vecchiosistema di inscenareunarissafraprigionieriin uno dei blocchi, inmodo da distrarre
l’attenzione delleguardie: un truccomolto vecchio, mafunzionò.Inoltre, avevamo
resistitoallatentazionedi pianificare i dettaglidelle fasi successive.Sia io sia Jim Longavevamo lenostre ideesul modo migliore perviaggiare in Germaniain tempo di guerra, eper questa ragione
avevamodecisodi fareognuno a modo suo.L’obiettivo daraggiungere eraStettino: là avremmopotuto metterci incontatto con qualcunodell’organizzazioneclandestina che davaassistenza agli evasi eimbarcarcisuunanavesvedese. Questo, agrandi linee, era ilnostro piano, e tale
rimase. Potevasembrare vago eottimistico, ma ilrisultato dimostrò chepoteva funzionare.Long arrivò a Stettinoin treno, rimase unasettimana in unapensione per marinai,fu imbarcatoclandestinamente suuna nave da caricosvedeseeriuscìafarlafranca. Io non fui così
fortunato.Entrambi ritenevamo
che fosse meglioviaggiare in treno, manoneravamod’accordosul luogo in cui salirci.Jim, che parlava moltobene il tedesco e ilfrancese, era dell’ideadi andare a piedi finoalla stazione più vicinaal campo, mostrare isuoi documenti falsi dilavoratore francese,
comprare il biglietto eaffidarsi all’assolutanormalità dellaprocedura. Il miopiano, invece, era diallontanarmi il piùpossibile dal campoprima di salire sultreno. Puntai suDämmerstadt, checontavodiraggiungerein due notti dicammino,nascondendomi nei
boschi durante ilgiorno. Avrei viaggiatoneipannidiunufficialedella Marinamercantilebulgaracheandava a raggiungerelasuanaveinunportobaltico:lamiauniformedella Marinabritannica,conqualchepiccola modifica,avrebbepotutopassareagli occhi di untedesco, pensavo, per
quella della Marinamercantile bulgara, e inostri addetti aidocumenti mi avevanoprocurato un insiemeconvincente di carte,che includeva unpassaporto moltoesotico ebalcanicheggiante, incaratteri cirillici. Ilrischio più grande checorrevo era diimbattermiinqualcuno
che conoscesse ilbulgaro, ma calcolaiche le probabilitàfossero a mio favore.Perilrestoavevoviveriper quattro giorniforniti dai nostrisostenitori,unabussolaa bottone che itedeschi non avevanotrovato quando miavevano raccolto sullaspiaggia, un po’ didenaro tedesco e
l’abbozzodiunamappafornito dal ComitatoperleEvasioni.Jimeiocisalutammo
frettolosamentenell’oscurità deglialberi, mentre iltumulto della fintarissa continuavaall’internodelcampo.Icani abbaiavano comefurie e qualcuno deglisgherri urlava, manessuno puntò il
riflettore verso di noi,dall’altra parte del filospinato. La fasenumero duedell’operazionesembravaperfettamenteriuscita.Avevomemorizzatola
mappa e conoscevomoltobeneilpercorso.La prima parte dellaprima notte di viaggiosarebbe stata lapeggiore: significava
andaredritti versoest,attraverso la foresta dipini, fuori dai sentieri,per una distanza checalcolavo di circa treore di cammino. Poisarei arrivato a unastrada secondaria cheavrei dovuto seguireper quattro o cinquemiglia, più o menoverso nord-est, per poiprendere di nuovoverso est in modo da
evitare un villaggio, eproseguire per strettiviottoliconunpercorsoazigzagattraversounavasta pianura quasidisabitata fino aun’altra zona boscosache, secondo i mieicalcoli, avrei raggiuntoalle prime luci delgiorno. Là intendevonascondermi eriposare. La notteseguente avrei
continuato attraversoforesteeradurefinché,verso l’alba, avreiraggiunto la ferroviaproprio a sud diDämmerstadt.Non mi facevo
illusioni sulla difficoltàdiprocedereattraversola foresta di notte, ecercai di fare piùstrada possibile finchémisentivoalsicuro.Misembrava di poter
rischiare un incontrocondeicontadiniodeipoliziotti lungo lestradine di campagna,perché la notizia dellanostra fuga avrebbeprobabilmente tardatoa raggiungerli, econfidavoallegramentenella mia capacità diimitare in modopassabile un ufficialestraniero che, dopoessersi sbronzato,
aveva perso il treno, oera sceso alla stazionesbagliata e cercavaquella giusta. Neglianni ne avevoincontratidiversi.Una cosa va detta
sulle foreste di pini:sono di un buioinfernale,mamoltopiùsgombre di sottoboscorispetto alle foreste dilatifoglie. Non fuaffatto facile quel
primo pezzo dicammino,ecominciaiapensare di aversottovalutato l’effettoche due anni di dietacarceraria avevanoavuto sulla miaresistenza. Mi civollero quasi cinqueore per raggiungere lastrada, invece di tre,ma alla fine laraggiunsi, e – la cosaancora mi sorprende
quando ci ripenso –quasi nel punto esattoin cui avevo calcolatodi arrivare. È vero,avevo con me labussola,masoprattuttopenso di aver avuto,più di quanto mispettava, quello che inmarina vieneconsiderato l’ausiliopiù prezioso dell’uomodi mare: un po’ didannatafortuna.
Fu un sollievoritrovarmi sulla stradae avere qualche puntodi riferimento. Mifermai per un po’ emangiai qualcosa, manon osai prendermelacomoda, dal momentoche all’alba dovevorientrare nella foresta.Be’, puoi immaginartila sofferenza di quellacamminatanotturna:fupeggio di qualsiasi
altra escursione cheabbiamo fatto insiemeaivecchitempi.Ogni volta che
vedevo i fari diun’automobile dovevosgattaiolare in unfrutteto oaccovacciarmi in unfossato finché non erapassata e, conl’avanzare della notte,quelle continuedeviazioni dal mio
cammino faticoso eritmato divennerosemprepiùpenose.Unpaio di volte, mentremicostringevoausciredal fossato, pensai chenon sarei mai piùriuscito a muovere legambe, né a placare ildolore bruciante dellemie vesciche. Possodirtichequandoilcieloiniziò a ingrigire nonmiimportavapiùmolto
di quanto tempo ciavrebbero messo percatturarmidinuovo.Lasola cosa che miimportavaerasmetteredicamminareetrovaredabere.Questo fu il mio
secondo errore divalutazione:nonmieroportato dietro unabottiglia d’acqua pernon avere troppocarico. Avevo calcolato
che inEuropanon si èmai troppo lontani dauna fonte d’acquadiscretamentepotabile,ma non è così, per lomeno non sembra chesia così nell’Europaorientale. Evitavo ivillaggi, ovviamente, ein quella regionesabbiosa non ci sonoruscelli o stagni, masolo pozzi, e questinaturalmente stanno
dovesonolefattorie.Raggiunsi la
successiva zonaboscosa senza serimotivi dipreoccupazione, anchese quando ci arrivai ilsole era già alto.Potevo vedere unapiccola fattoria nonlontano e, in unrecinto, unabbeveratoiodall’aspetto molto
invitante. Ma non osaiinfilarmi nel recintoperbere:eragiàpienogiorno e anche seintorno non scorgevonessuno, dovevaesserci certamente uncane. Non potevo farealtro che rintanarminell’ombra dei pini eraccogliere carponi unpo’ di quella pallidaerba che crescevairregolarmente intorno
e sotto gli alberi, permasticarla.Miriposaipertuttoil
giorno nel posto piùfresco che trovai; erotroppo assetato estremato dalla faticaperpotermangiare,madormii, di quel sonnoagitato di chi è troppostanco. Le vesciche, imuscoli doloranti el’arsura della golasembravano stimolarmi
il cervello, ma lavolontà, o qualunquecosa sia ciò cheseleziona e disciplina ipensieri, era troppodeboleperimporsi.Saicosa si prova: è comese la mente fosse unproiettorecinematografico che,animatosiall’improvviso,assumesse il controllodell’azione
sostituendosiall’operatore, e simettesse a sfornaremetri e metri dipellicola solo per ilproprio diabolicodivertimento,accelerando sempre dipiù. Non ricordonessun dettaglio deisemi-incubi che ebbiquelgiornosullimitaredella foresta, maricordo come
gravavano sulla miamente, il loro numeroterrificante e lavelocità a cui sisusseguivano.Bene, fu forsequesto
a dare inizio a tutto:quell’enorme faticafisica e quel terribilestato di ansia che lasottendeva.Nonmieramai passato per lamentecheavreipotutonon essere abbastanza
forte. Forse non avreimai dovuto separarmida Jim Long.All’imbrunireritrovailacalma e mi rimisi inviaggio, ma quellanotte fu tutto moltodiverso.Avevopersolafiducia nella miacapacità fisica diportare l’impresa acompimento. Per laprima volta in tutta lamiavitailmiocorposi
era rifiutato di farequalcosa che gli avevochiesto, e questaribellione midemoralizzava. Invecedi cercare dirisparmiare le forzecontinuavoperversamente adabusarne, e non c’ètanto da meravigliarsise finii per perdermi.Dovevodirigermiversonord, ma più di una
volta mi imbattei instrette gole e dirupichemi portarono fuoristrada,avagaredaunaparte all’altra in cercadipassaggipiùfacili;avoltescorgevounalucein una radura e alloratrovavo ancora ilcoraggio e ladeterminazione pertentare una faticosadeviazione, invece diandare dritto verso di
essaearrendermi.Lamemoriainiziavaa
confondersi; le radureormai erano il miounico punto diriferimento e nonricordavo più quantene avessi passate, nériuscivo a identificarlesullamappa.Consumaitutti i fiammiferi percercare diraccapezzarmi, ma eroin un tale stato di
esaurimento e diangoscia che potevo amalapena leggere,figuriamociragionare.Alla fine arrivai su
una pista sabbiosa,illuminata dalla luceforte e chiara dellaluna. Sembravapuntareanord-est,maquellastradacosìlisciae tranquilla e quellaluce, dopo il buio el’asperità della foresta,
furonopermeunataletentazione che nonpotei resistereall’impulso di seguirla.Nella sabbia c’eranoimpronte di carri e dizoccoli. Immaginai chela pista conducesse auna fattoria, ma ormainon me ne importavapiù nulla, e miincamminai.Poco a poco, ricordo,
lamiamentesifecepiù
calma, e senza dubbioper la facilità delcammino e del passopiù regolare caddi inuna specie diautomatismo.Cominciai con quelgiochino infantile diripetere qualcosa cheandasse a tempo con imiei passi: dapprimafrasi senza senso, poiversi. Conosci laballata della fanciulla
dai capelli colornocciola?Quattro versicontinuavano amartellarmi il cervello,tan, tan, tan, come icolpi sordi di unmotore chemi portavaDio solo sa quantolontano:
Per un banditoquestaèlalegge,essere preso e poilegato,
senza pietà venireimpiccatoe dondolare sullaforcaalvento.
È ancora unmistero,
per me, come sottoquel meccanicomartellare di versi ioriuscissi di tanto intanto a pensare ancheal loro significato,avvertendo in essi unastrana e nuova
emozione.Quell’accostamento dimessaalbandoepietà:non ci avevo mai fattocasoprima.L’uomocheaveva scritto quellaballata sapeva che ifuorilegge non sonoeroi romantici, e chevoglionosolopietà.Ah,la crudeltà dellacondannachetichiudein faccia le porte dellapietà dell’uomo
comune!Se quello stretto
sentiero mi avessecondottoaunafattoria,penso che mi sareiappoggiatoconlatestacontro la porta e avreiimplorato la pietà diquei contadini;manonportava a nessunaabitazioneumana.Solo moltissimo
tempo dopo sentii chele buie pareti della
foresta si stavanoallontanandodame.Mifermai e cominciai adaccorgermi che ilsentiero mi avevaportato in cima a unbasso e ampio crinaleprivodi alberi, copertoda un’erba pungenteche mi arrivava alginocchio. Mi sonospesso domandatoquanto,dellascenachevidi quella notte, fosse
reale. Posso diresoltanto quello che hosaputo in seguito... ocreduto di sapere. Soesattamente come imiei occhi lo viderodall’altra parte – seriesci a capirmi –, madarei tutto per poterricostruireprecisamente cosa vidicon la mia vera vista,quella che uso ora. Ilproblema è, immagino,
che durante quellanotte, a poco a poco,avevopersolaragione.La fatica e l’ansiaavevano portato alloscoperto l’incrinaturache c’era in me eavevano continuato adallargarla, finché,quando raggiunsiquell’aperto crinale, lafrattura nella miamente era completa. Equando la terra ti si
apre sotto i piedi, checos’è che decide daqualelatodevisaltare?La luna era
abbastanza luminosa.Mi sembrò di vedereuna lunga crestaerbosa che correva danord-ovest verso sud-est. L’erba non erastata brucata nécalpestata. Era grigia,sotto la luna, e lespighe bianche
sembravano spargeresu di essa un chiarorelattescente. La miapista era svanita. Miero reso conto che daun po’ non seguivo leimpronte dei carri, manon riuscivo aricordare doveavessero cambiatodirezione.Dovevo aver
proseguito fino a metàdi quell’ampio sentiero
– un sentierotagliafuoco, pensavo,ma non ne ero certo –prima di fermarmi,perché vedevo laforesta dall’altra partesvanire in lontananza,giù per quel nudocrinale. Ma nessunvero chiaro di luna,almeno in Europa,potevaessere talmentefortedapermettermidivedere così
distintamente queglialtri boschi: era comese li vedessi in unfresco e gioiosomattino d’estate, equegli alberi, ah...com’eranodiversi!Nonuna nera, monotonapineta,maunaverdeesplendente foresta diquerce, faggi, frassini,con delicati e candidifiori di biancospino.Era un tale contrasto:
come fra il giorno e lanotte, la libertà e laprigione, la vita e lamorte.Eguardandogiùriuscivo a scorgere,proprio sopra le cimedegli alberi più vicini,una piacevole e vastaradura, e in quellaradura il pallidoscintillio dell’acqua diun laghetto. Ancorauna volta fu unasofferenza rimettere in
moto le gambe; eracomese imieimuscolifossero diventati dipietra; mami mossi, escesi verso quelbagliored’acqua.Ma c’era anche
un’altra cosa, e dinuovo darei tutto persapere con quali occhila vidi; perché ancoraadesso dentro di menon sono convinto chela scossa che ricevetti
fossereale.Sosolochenotai qualcosa laggiù,nel tratto che miseparava da queiboschi invitanti,qualcosa che siscontrava conl’esperienza, unfenomeno che sarebbestato abbastanzabanaleinunsogno,manon del tuttoimpossibile nellarealtà. Mentre
scendevo zoppicandoper quel dolce pendiomisembròdipercepiredi fronte a me, nelchiaroredellaluna,unaluce più debole, unazona di tenueluminescenza che siestendeva su entrambii lati.Nondritta,comeil raggio di unriflettore, maleggermente ondulata,come se seguisse il
contorno del crinale.So che è incompatibileconle leggidellafisicache un chiarore cosìdebole potesse esserevisibile nella luce piùforte della luna, ma tigiuro che io lopercepivo. Ero forsegià stato bandito,dunque, non dallalegge degli uomini madaquelladellaNatura?Nulla avrebbe potuto
trattenermi dal tentaredi raggiungerequell’acqua, e dopo unprimo momento disofferenza nelrimettere il corpo inmovimento, ancorazoppicante, mi lanciaiinunacorsadisperata.Devo essere andatoavanti come un cieco,con le braccia tese, atentoni,perchéfunellemanicheavvertiiperla
prima volta la scossa.Unbrucioreviolentomiattraversò i polsi, poiunlamposipropagòintutte le mie ossa e siaprì la strada versol’alto fuoriuscendodalla sommità delcranio; i miei occhifurono trafitti da unaluce gialla e il miocorpo, ormai privo dipesoedicoesione,salìturbinando in una
spirale verso l’alto,come un gasnell’oscurità.
3
Il corpo, con tutte lesue limitazioni, èqualcosa di certo e dirassicurante a cuirestareaggrappati.Eropassato dall’altraparte, non c’è dubbio,ma ero ancora
consapevole di quelche c’era da questa.Non avevo ricordiprecisi, che riuscissi aisolare con parole oimmagini, capisci,come si ricordano gliavvenimenti dellasettimana scorsa, o diun giorno di un annofa,maero coscientediunprima,diaveravutouna storia intensa ecomplicata prima di
svegliarmi inquel lettopulito e confortevole.Eranostatelemiemaniaoltrepassare il varco,erano le mie, ne erocerto, e ora mifacevano un po’ male.Rimasi a guardarle,appoggiatesullenzuolodavanti a me,accuratamentebendateedeltuttoinutilizzabili,maamemoltocare.A parte il leggero
dolore alle mani,raramente mi erosentito così bene,tranquilloefisicamentea mio agio come quelmattino, quandoper laprimavoltacominciaiadomandarmi dove mitrovassi. Sapevo chenonerailprimogiornoche avevo ripresoconoscenza. Ero sicurodi trovarmi già datempo in quella stanza
ariosa e piena di luce,con quel profumo difiori che si mescolavaall’odore più tenue dimedicinali,disinfettanteeceraperpavimenti.Laportaelafinestra dipinte dibianco, le graziosetendine e i mobili inlegno chiaro, tutto miera familiare, ealtrettanto familiari mierano i volti delle due
infermiere. Ormaidovevaesseredamoltochesiprendevanocuradi me, ma quel giornosieracompletatoilmiograduale passaggiodalla percezionepassivaall’osservazioneattiva.Se non fosse stato
per quelle infermierecon l’uniforme, avreipensato di trovarmi inuna casa privata più
che in un ospedale: lastanza era linda eaccogliente, troppopoco anonima pertrovarsi nel reparto apagamento di unqualsiasi ospedale. Lestoviglie, i bicchieri, ipiatti e tutti glistrumenti che usavanonon avevano quell’ariaconsumata che questecose hanno di solitonegliospedali;eilcibo
era troppo buono.Unaleggera brezza entravadalla finestra apertaspostandoletendinedilato, e quando almattino l’infermieravenne a sistemarmiappoggiandomi aicuscini vidi le verdicime degli alberi e ilcielo azzurro, e pertutto il giorno, dalleprime luci fino a sera,miaccompagnòilcanto
assordante degliuccelli.Non potevo usare le
mani per mangiare;l’infermiera di giornomisminuzzavailciboemi imboccava con uncucchiaio; mi radeva,milavavaemifacevailbagno, il tutto consicurezza professionaleeserenacompetenza.Avevo abbastanza
esperienza di
infermiere da sapereche quelle due nonavrebbero soddisfattofacilmente la miacuriosità, ma quelmattino decisi dichiedere all’infermieradi giorno dove mitrovavo, einevitabilmente ottennila solita pronta escherzosa risposta: «Aletto!». Credo siaconsuetudine, tra le
infermiere di tutto ilmondo, ritenere che ilpiù elementareesercizio d’intelligenzadapartediunpazientepossa essere diintralcio al lorocompito, o in qualchemodo comprometterelaloroautorità.Inognicaso feci un altrotentativo e le chiesicomesichiamava.«Nonhaimportanza»
rispose. «Mi chiamisoltanto infermiera digiorno».Nonostante tutto
quella rispostami offrìqualcosa su cuilavorare. Parlavainglese: un ottimoinglese, ma conaccento tedesco. Equesto consolidava ilponte chemi riportavaa quell’altra spondaancora così confusa e
lontana.Cominciai a
ragionare partendodalle mie osservazioni,inmanieramoltocalmae metodica.Immaginavo,ovviamente, che cosapoteva essermisuccesso, ma questononmiallarmòinalcunmodo. Saltai allaconclusione, ma poi lamisi da parte, come
una possibilità chesarebbe stataconfermata o meno atempo debito. Eroconvinto che avreiavutounlungoperiododiozio,e l’impressionedi aver trascorsoparecchi giorni in unostato di semicoscienzaeracosìfortedaesserediventataunacertezza;inoltre avevo la provatangibile che doveva
essere trascorso unperiodo ancora piùlungo dall’incidente,perché il dolore allemani si era ridotto apocopiùdiunpruritoeadellefitteoccasionali,mentrel’unicacosachericordavo constraordinaria chiarezzaera l’intensità deldolore che avevoprovato nel toccarequella barriera
infernale, o qualunquealtra cosa fosse. Leustioni dovevanoessere state moltogravi: ora erano quasicompletamenteguarite,esolounlungointervallo di tempoavrebbe potutopermetterlo. Il giornodopo aver recuperatola mia capacità diosservazione, se cosìvogliamochiamarla,mi
guardai attentamentele mani mentrel’infermiera di giornocambiava la fasciatura.Erachiarocheavevanosubìto delle brutteustioni, ma stavanoguarendo molto bene.Le cicatrici in effettisvanironotutte inpocotempo, e ora non sivedepiùnulla.Questo, in ogni caso,
mi dette una qualche
misuradel tempo.Nonavendo grandicognizioni dimedicina,non potevo fare unastima esatta, ma ilbuonsensoeunpo’diesperienza misuggerirono chedovevano esserepassate almeno tre oquattrosettimane.E lostato dei miei piedi,quandoliesaminai,melo confermò: le
vesciche erano tuttesparite, e so più omeno quanto tempo civuole perché unavescicaguarisca.Capire dove mi
trovavo non fualtrettanto facile. Sequelluogoeraunacasadi cura, comesospettavo, non potevosperare che alle miedomande fossero daterisposte precise. Le
infermiere miavrebberorifilatolepiùassurde bugie. Perciòera meglio starmenebuono e tenere gliocchi ben aperti,lasciar scorrere senzafretta le lunghegiornate, e cercare dimettereinsiemeipochiesparsielementidicuidisponevo fino adarrivare a unaspiegazioneplausibile.
Naturalmentecominciai dalleinfermiere – o meglio,da quella di giorno.L’infermiera del turnodi notte la vedevo soloper pochi minuti dopoil tramonto e a volte,fugacemente, almattino presto, perchéla notte dormivoprofondamente e nonavevo mai bisogno dichiamarla.L’infermiera
digiorno,comedicevo,era chiaramentetedesca, e altrettantochiaramenteun’infermieradiplomata; eppure nonriuscivo a credere chefosse soloun’infermiera di unospedale militare ocivile. C’era qualcosache non quadrava inlei. La sua eccellentepadronanzadell’inglese
rivelava un’istruzionesuperiore a quella chenormalmente hanno leinfermiere,manonerasolo questo. Dopotuttoil mondo è pieno digente bilingue. Credochefosseilmodoincuiera vestita, troppoelegante, troppopersonale, come delresto quella stessastanza. Eraun’uniforme, è vero,
sobria e curata,dall’aria immacolata easettica,maallostessotempo era graziosa,portatacongustoeconil palese intento diapparire attraente:qualcosa che nessunospedale, neanche unaclinica privata, perquanto ne sapevo,avrebbemaipermesso.Inoltre era certo chenessuna infermiera, in
un istituto pubblico,avrebbe potutodedicarmiun’attenzione cosìcostante, o trattarmicon tantaconsiderazione – neilimiti della suaprofessione,naturalmente. Quelledue non sembravanoaffattosovraccarichedilavoro; in realtà mi fupresto chiaro che non
avevano altri pazientioltre me. L’infermieradi giorno potevapassare con me untempo illimitato, e nonmi era mai neanchecapitato di sentirsuonare uncampanello. Anzi, oltrealle voci delle mieinfermiere, con i loropassi felpati sulpavimento di legnolucidato a cera, e al
cantodegliuccellifuoridalla finestra, perqualche tempo nonsentii provenire alcunrumore dal mondoesterno.Pensochesiastato il
silenzio così innaturaledi quei primi giorni aconvincermi che mitrovavo in una clinicaper malattie mentali.Optai per questainterpretazioneedecisi
di scoprire, sepossibile, sempre conlo stesso metodo diosservazione ededuzione, come fossiarrivato lì e perchévenissi trattato comeun facoltoso pazienteinvece che come unprigioniero di guerra,perché, capisci, non sitrattava di una veraamnesia: eroperfettamente
cosciente di essere unufficiale della Marinabritannica, e miricordavo il mio nome,la mia nave e il miocampodiprigionia.Interrogare
l’infermieranonmieradi nessuna utilità,sebbeneciprovassicontutta la sottigliezza dicui ero capace. Nonerauntipotaciturno,eanzi aveva la singolare
qualità di apparirevivaceeciarlierasenzadi fatto dire nulla chenon riguardassestrettamente il suocompito di occuparsidelle mie necessitàfisiologiche.Unsolofattoemerse:
il nome di quel luogo,mi disse, eraHackelnberg. E questomi offrì materia diriflessione per un
giorno intero. Era unfatto concreto,soddisfacente, ma nonmi portò a nessunaconclusione, o meglio,mi portò soltanto a unaltro fatto, senzatuttavia darmene unaspiegazione. Scoprii,con mio grandepiacere, che se miconcentravointensamente riuscivoa ricordare, poco a
poco, l’intero disegnodellamappa che avevoricevuto dal Comitatoper le Evasioni, ementre me ne stavo lìsdraiato, cercando divisualizzarla a occhichiusi,verificaichenonci fosse nessun nomeche assomigliava aHackelnberg. A quantosembrava dovevoessermi allontanatoparecchio dall’Oflag
XXIXZ,piùdiquarantamiglia, cioè il raggiodellamappa.Cercare di scoprire
se l’infermiera digiorno sapeva che eroun prigioniero diguerra inglese sarebbestato inutile. Daquando avevo ripresoconoscenza avevosempre parlato ininglese,esenzadubbioanche quando ero in
coma.Ildottoredovevaaverlo detto allapolizia, gli ufficiali delcontrospionaggiodovevano avermiesaminato – me liimmaginavo, unacoppia di giovani SSche rovistavano fra lemiepochecose, lemiecarte, la mappa, labussola a bottone, cheavrebbero rivelato lorotutta lamia storia, per
poi conferire con ildottore e infineaccettare la suadiagnosi sul mio statomentaleeandarsene.Già, ma andarsene
lasciandomiallecuredichi?A chi appartenevaquel luogo? E perchéchilodirigevaoneeraproprietario avrebbedovuto curarmi eaccudirmi? Luoghisimili in genere non
sono gestiti dafilantropi. Continuai arimuginare su questedomande per ore, conl’unico risultato digettare un’ombra didubbio sulla miainizialeconvinzionechequel luogo fosse unaclinica psichiatrica. Secosì era, allora laspiegazione piùprobabile dovevaessere che il mio caso
presentava per ildottore un particolareinteresse,echedunquelui mi curava e miteneva lì per motivi dicuriosità scientifica.Ma ora dovevoprendere inconsiderazione i «se»:perché, se quella nonera una clinica, potevasoltanto essere la casadi qualche ricco ecompassionevole
eccentrico, che dovevaanche avere unconsiderevoleascendente sulleautorità; forse luistesso – o lei stessa –un invalido: questoavrebbe spiegato lapresenza di infermierequalificate e al tempostesso il loro aspettocosìpocoistituzionale.Ho detto di un
«ricco»; e in effetti
tutta l’atmosfera diquel luogo emanavaricchezza.Nella stanzanon c’era nulla ditrasandato, leinfermiere, per esserecosì eleganti e cosìcurate, dovevanoessere ben pagate,l’impeccabile puliziadel pavimento e labrillantezza dei mobilidi legnolucidatiaceralasciavano presumere
uno stuolo di servitori,e sapevo che leinfermiere non sioccupavano in alcunmodo delle pulizie. Inrealtà, sebbene non ciavessifattocasofinchénonavevocominciatoaragionare in quelmodo, sapevo chifacevalepulizie.Lo avevo visto varie
voltelamattinapresto;eraungiovanerobusto,
silenzioso, che se nestavainginocchiotuttointento a strofinare illucidopavimento.Dopoquello che definirei ilmiocompletorisveglio,lo osservai piùattentamente. Erafloridoebennutrito, esebbene il più dellevolte fosse giratodall’altraparte,dalmioletto ero riuscitooccasionalmenteadare
una rapida occhiata aisuoi lineamenti. Avevaun viso regolare einespressivo, capellicastaniaspazzolaegliocchi di un azzurropallido. Il suo corpomassiccio,ilmutismoelosguardobovino,unitia quella postura daquadrupede,glidavanol’aspettodiungrossoemiteanimaledomestico–unmanzoounbueda
aratro; e tutto questoera accentuato dalmodoincuieravestito,quel mattino presto incuimimisiaosservarlopiù attentamente. Nonavevacamicia,soltantodei pantaloni piuttostostretti di un tessutomarrone dall’ariaresistente, e ai piediaveva un buon paio discarpechesembravanofatte interamente di
gomma, o forse di unaqualche specie di fintapelle che non avevomai visto prima. Midavanol’impressionediesseresolide,comodeeflessibili.Quelmattino,mentre
l’infermiera non c’era,provai a parlargli, malui non prestòattenzione alle mieparole più di quantononloavrebbefattoun
bue. In ogni caso nonera difficile indovinarechi poteva essere. Untedesco della sua etànon sarebbe mai statoimpiegato comedomestico: loavrebbero arruolatonell’esercito omesso alavorare in unafabbrica di munizioni.In un istituto militaredi qualsiasi altra partedel mondo sarebbe
stato evidente chequello era unprigioniero di guerra.Maero inGermania, econoscevo bene ilsistema che i tedeschiusavano per reclutareschiavi dai paesioccupati e metterli adisposizione di datoridi lavoro privati. Queltipo era chiaramenteun prigioniero diguerra slavo, ora
adibito ai lavoridomestici, e avevaproprio l’aria delmužik.Osservare le sue
scarpe e la stoffa deisuoi pantaloni contanta attenzione mispinse a esaminareancheglialtritessutiemateriali che avevointorno, e mi trovai difronte a qualcosa chemisorprese.Nonposso
dire di saperne moltoinfattodi tessutinédiessermene maioccupato tanto in vitamia, ma quelli micolpirono per esseretutti estremamentebelli e costosi. Il miopigiama, per esempio,era di seta, o diqualchealtrastoffachenon riuscivo adistinguere dalla seta;le lenzuola erano del
lino più pregiato e ilcopriletto anch’esso diseta; i piatti in cuimangiavodiporcellanafinissima; e quanto alvetro – be’, osservai ilbicchiere, i flaconidelle medicine e glialtri oggetti sulcomodino e giunsi allaconclusione che nonerano di vetro, ma diun qualche mirabilemateriale plastico che
poteva esserefinemente tagliatocome il vetro ealtrettanto brillante,ma che erainfrangibile. Me neaccertai facendocadereperterraconlamia mano fasciata unodei più delicatirecipienticheeranosulmio comodino, e nonsubìalcundanno.Sonopiccolecoseche
colpiscono, la provaindiscutibile diun’industria altamentesviluppata, di ungrande benesserematerialechepermettealle persone dimantenere tutto il loroequipaggiamentodomestico semprenuovo e perfetto. Itedeschi naturalmenteerano rinomati nelcampo dell’industria
chimica, della plastica,deimaterialisinteticiecosì via, ma trovareunataleabbondanzadicose simili dopo quasiquattro anni di guerrami lasciavasconcertato.I mobili e il
pavimentodellastanza,inognicaso,noneranodi formica o laminato,madilegnonaturale,lecui venature avevano
tutta la bellezza e lavarietà della foresta. Illegnoerastatosceltoelavorato da personeche lo amavano.Cominciai ad avere lasensazione diconoscerequalcosadelproprietario di quelluogo a Hackelnberg.Doveva essere ricco,ovviamente, forse unantico Junker o uno diquei principi del
vecchio impero che inazisti avevanoritenuto opportunolasciare in pace; unoche non solo si potevapermettere dicomprare i miglioriprodotti industriali,mache aveva anche ilgustodicombinarliconil meglio dellaproduzione artigianaleche utilizzava solomaterialilocali.Doveva
essere un vero cultoredellaforesta.Bene, tutto questo,
potrestidire,erafruttotanto di deduzionequanto di fantasia.Senza dubbio SherlockHolmes, con gli indiziforniti da una stanza eda tre persone,avrebbe fatto dimeglio, ma posso direcon un certo orgoglioche, in linea generale,
quello che avevoimmaginatoeraesatto.La prima conferma
mi venne dalla fontepiù impensata:l’infermiera di notte, acui dicevo a malapenabuongiorno ebuonasera. Ma quelloche si lasciò sfuggireeraalquantostrano.Ho accennato che il
silenzio irreale cheregnava in quel luogo
era uno degli elementialla base delle miesupposizioni. E questosiaccordavaancheconl’altra ipoteticaspiegazione,ecioèchefossi ospite, un ospiteprigioniero sepreferisci, in una casadi campagna. Laproprietà dovevaessere ovviamentemolto estesa. Quantograndenonavevoidea,
perché anche quando,in assenza delleinfermiere,sgattaiolavo fuori dalletto emimettevo allafinestra,nonriuscivoavedere nulla inlontananza: gli alberiche costeggiavanol’edificio erano troppoalti, il fogliame troppofittoperpermettermidiscorgerequalcosaaldilà di quel verde
groviglio. Non sisentiva, in ogni caso,nessun rumore ditraffico, neppure il piùlontano suono diclacson, o il fischio diuna locomotiva. Nonsentii passarenemmeno un aereo, equesto,nellaGermaniadel 1943, mi sembròmolto strano. È anchevero che, datal’espansione che aveva
allora raggiunto, ilTerzo Reich era unpaese molto più vastodell’Inghilterra; e lepistediatterraggionondovevano esserenecessariamente cosìfitte sul suolo dellaGermania orientalecome lo erano a queltempo per esempionell’Inghilterraorientale. E supponevoche Hackelnberg fosse
abbastanza a est datrovarsi fuori dallaportata dei radar deinostri bombardieri;nella mia stanza nonc’erano tendeoscuranti, né era maistata presa alcunaprecauzioneperevitareche la luce uscisse, enei discorsi delleinfermiere nullalasciava trapelare chesapessero anche solo
lontanamente che laGermania era inguerra. Tutto questoera voluto,naturalmente: facevaparte del loro compitodi accudirmi evitandoargomenti cheavrebbero potutoagitarmi. Ogni voltache nominavo laguerra, l’infermiera digiorno faceva finta dinon capire, mi diceva
di smetterla diriempirmi la testa conquelle vecchie cosepassate e cercava diattirare la miaattenzionesuifiori.Poi, circa una
settimana dopo il miocompleto risveglio,cominciai a udirequalcosa. Le mie manierano quasi del tuttoguarite emi sentivo inottima forma. Volevo
alzarmi; stare tutto ilgiorno a lettocominciava adannoiarmi,eilrisultatoera che la notte nonriuscivo più a dormireprofondamente. Inprincipio pensai chequei suoni fosseroparte di un sogno,perché li sentii neldormiveglia; poi miriaddormentai,emenericordai soltanto al
mattino. Erano suonitalmente remoti eisolati, così lontani daquella vita chiusa ecircoscritta che sisvolgeva intorno ame.Erano le note di uncorno da caccia,suonate a lunghiintervalli, ognuna cosìsolitaria nel buio e nelsilenzio assoluto, comeun’unica vela su unvasto oceano. Mi era
capitato di sentire deisuoni di tromba nelbuio e nella solitudinedel mare, e una voltaavevo udito il corno diuncacciatoreinglese,eso bene quanto quellamusicapossaserrartiilcuorecomeunamorsa.Ma queste note eranodiverse.Nonriuscivoaimmaginarmi in qualescenario potevanoessere suonate,
riuscivo soltanto asentirne la profondamalinconia, e laselvaggia stranezza;parlavano attraverso iltorpore del miodormiveglia con undolore e una penadesolanti.Il ricordo di quel
suono così triste miaccompagnò a lungoper tutta quell’allegragiornata, e la notte
seguentemi ritrovai inascolto,completamentesveglio nell’oscurità,attendendoloe insiemesperando di nonsentirlo.Una notte lo sentii
anche prima diaddormentarmi.Questavolta non potevatrattarsi di un sogno.Era una notte chiara,conlalunaquasipiena,e soltanto qualche
piccola isola di nubibianche. Scivolai fuoridal letto e mi misi inascolto davanti allafinestra aperta. Unvento leggero giocavacon le note del corno,ora sollevandole fino ame, ora girando etrasportandolelontano;e quell’irrompere esvanire sembrava darealla loro musica unaqualità differente. La
tristezza e il dolorec’erano ancora, maadesso dominavaqualcosa di selvaggio.Sembrava che il cornovagabondasse per iboschi battendoliavanti e indietro,lanciando il suorichiamo come allaricerca di qualcosa,talvolta con incalzanteferocia, talvolta conuna lunga e trattenuta
notadisconfitta.Lanotteerapienadi
rumori, la forestainsonnecome l’oceano.Il vento squassava ifaggi fuori dallafinestra; gli albericonversavano in unamoltitudine di lingue;l’intera orchestra delbosco suonava, e ilcorno conduceva. Misembrava di sentireogni sorta di voci e di
strumenti in quellaselvaggiaconversazione, la miaimmaginazione potevatrasformare il gemitodei rami ondeggiantinel guaito di cani dacaccia, e l’improvviso,sonoro stormire dellefoglie cherabbrividivanoal ventonello scalpiccio dellaloro corsa. Rimasi lì alungo, in ascolto,
attentosopraognialtracosa al suono delcorno, e sentii unastrana agitazionemontare dentro me;non era più tristezzaquella che sentivo, maunostatodiangosciaedi apprensione, queldebilitante senso dipericolo che capita avolte di provare primadi capire da qualeparte e da quale arma
sièminacciati.Restai ancora in
ascolto finché il suonodel corno non fusvanito in lontananzaeil mio orecchio non fupiù in grado didistinguerlodall’irrequietomormorio degli alberi,poimiinfilaidinuovoalettoerestai lìa lungodisteso, guardando ilriquadro della finestra
illuminato dalla luna,ancora in attesa delsuono di quelle note;ma alla fine miaddormentai.Alle prime luci
dell’alba ero già fuoridal letto, strappato dicolpo al sonno dalsuono del cornofortissimo e vicino. Ilvento era caduto, laluna tramontata; lamattina era grigia e
silenziosa; ed ecco ilcorno risuonarearrogante nel lividochiarore dell’alba, conuna insistente nota ditrionfo.Mi sporsi dallafinestra cercando dipenetrare con losguardo oltre labarriera degli alberi;gli squilli si ripeteronopassando per i boschinon lontano dalla miafinestra, svanendo
chissà dove alla miadestra.Con la coda
dell’occhio intravidiuna formabiancanellapenombra della miastanzaesobbalzaidallapaura prima diriconoscerel’infermieradinotte.«Aletto!»sussurrò,e
il tono basso epressante della suavoce suonò più
perentorio di quantonon lo avessi maisentito.Venneavanti esifermòdandolespallealla finestra, come perimpedirmi di gettarmidisotto,enotaicheerasempre intenta adascoltare le spavaldeed esultanti note delcorno, che oraandavanoaffievolendosi mentresi inoltravano nella
foresta.«Che cos’è?»
domandai, dopo averleubbidito ed essermirimesso sotto lelenzuola.La sua risposta seria
edirettamigiunsedeltuttoinaspettata.«ÈilContechetorna
acasa».Era vero, ne ero
certo; per un attimoaveva dimenticato che
erounpazienteeavevalasciato che dalla suavoce trapelasse quelvago sgomento che iostessoavevoprovatolanotteprecedente.«Il Conte?»
domandai. «Chi è ilConte?».Siavvicinòeabbassò
losguardoversodime;potevo appenadistinguere i suoilineamenti nella luce
grigiastra che entravadallafinestra.Mormoròqualcosa in tedesco,poidisseininglese:«Il Conte Johann von
Hackelnberg».«E chi è?» insistei,
determinato a trarre ilmassimo da quellaopportunità,oracheleisembravaspaventataalpunto da trattarmicome una personasana. Ma esitò, e mi
scrutò ancora unmomento prima dirispondere, come se lamiadomandaleavessericordatochedopotuttonon ero una personanormale; ma alla finerispose:«È il Gran Maestro
delle Foreste delReich».«Davvero?» risposi.
«Pensavo che la caricafosse del maresciallo
Göring».Seavessipronunciato
ilnomedellamiagattasarebbe stata la stessacosa.Capiicheormaiilsuo momento disincerità era finito, edera tornata a fingereche ilmondo intorno anoinonesistesse–unafinzionechesupponevofacessepartedellamiaterapia.Sembrava molto
perplessa, e ripeté unpaiodivoltequelnomecon aria assente,pensandoevidentemente atutt’altro. Poi, con unosforzo, tornò alle sueattività e si rimise asistemarmiicuscini.«Venga, ora» ordinò.
«Deve dormire. Nondeve svegliarsi cosìpresto. Non le fabene». E rapidamente
uscìdallastanza.Riesaminai tutta la
faccenda alla luce delsole, con una certasoddisfazione.Finalmente avevo inmano qualcosa diconcreto. Non sapevoche Hermann Göringavesserinunciatoaunadelle sue cariche, maera più che probabileche all’Oflag XXIX Znonneavremmoavuto
notizia. L’unica cosacerta era che mitrovavoaessereospitedelGranMaestrodelleForeste, e questo misembrava spiegare piùcose di quante non nelasciasse inesplicate.Ma che bizzarropersonaggio dovevaesserequestoGrafvonHackelnberg, perandare a caccia nellaforesta al chiaro di
luna.Robadarompersiil collo, devo averpensato;poimiricordaile storie che siraccontano su certieccentrici inglesi delSettecento. Potevabenissimo non essereuna caccia quella cheavevo sentito, ma unacavalcata di ubriachi,unagazzarradigiovaninazistifradicidivino,eil vecchio Conte che li
incalzava con il suocorno. Era plausibile,ma non mi convincevadeltutto.Ilcornoavevasuonato troppo spesso,troppo a lungo, e unabanda sfrenata digiovani ubriachi nonavrebbe potutoprovocarenell’infermiera unsimile turbamento; ilsuono di quel cornoche tornava a casa le
era familiare; avevapaura di qualcosa checonoscevamoltobene.
4
L’infermieradigiornoentrò indaffarataportando la colazione,e nei suoi modi notaisubito un nettocambiamento. Avevaun’aria tesa, altezzosae intollerabilmente
autoritaria, e non fuiper niente sorpresoquando, dopo averportato via il vassoio erimesso a posto inmaniera impeccabilegli oggetti sul miocomodino,miannunciòche stava arrivando ildottore. L’importanzaesagerata cheattribuiva a quellavisitamiinnervosì,ma,poco prima del suo
arrivo, quasi percompensarmi di queimodi bruschi, mi disseinconfidenzache,se ildottore fosse rimastosoddisfatto della visita,mi avrebbe fattoalzare. Mi lavò e misbarbò, mi cambiò ilpigiamaerifeceilletto.Lastanza,giàsenzaungranello di polvere,venne di nuovospolverata, furono
portatideifiorifreschi,e il pavimentosplendente fuulteriormente lucidatodal corpulentoservitore,chesimiseallavoro puntuale comeun orologio. Infinel’infermierami tolse lebende dalle mani,preparò losterilizzatore e varialtri strumentiluccicanti,equandoda
fuori si sentì unleggerorumoredipassiscattò sull’attenti aipiedidelmioletto.Il dottore entrò
canticchiando unallegromotivetto,detteuna rapida occhiataalla stanza e si rivolseall’infermiera, chesembravacongelatasulposto,conunosguardovitreo negli occhi.Avevo visto delle
infermiere, inInghilterra, eccederecon i loro «sissignore-nossignore» davanti aun chirurgo, e avevoavuto modo diconoscere un po’ delladisciplina germanica,ma questa le superavatutteinprussianità.Untimoniere che rispondea un ammiragliodurantel’ispezionenonera nulla in confronto
all’infermieradigiorno;sembrava fredda erigida comeuna figuradivetro,elesuerapiderisposte schioccavanocome colpi di frusta. Ildottore, invece, nonaveva affatto l’ariadell’ufficiale: anzichérestare in piedi si eramesso comodamenteseduto, e mentreinterrogaval’infermiera, la
squadrava pigramentedalla testaaipiedi,piùinteressato alle sueforme e al suoabbigliamento che aquello che gli diceva.Era un uomo giovane,con un viso slavato eun’aria abbastanzaintelligente,maconunche di vizioso eautoritario.Portavadeipantalonibianchieunacamicia di seta color
crema, e aveva unfoularddaicolorivivaciannodato connoncuranza intorno alcollo. A guardarlo sipotevaimmaginarecheavesse appena lasciatola racchetta da tennisfuoridallaporta.Dopoaverascoltatoil
resocontodell’infermiera e datoun’occhiataalla tabelladella temperatura,
venne avanti e miguardò aggrottandoper un attimo lesopracciglia,poiscossela testa con un certocompiacimento. Lavisita fu sbrigativa; miauscultò il cuore, sentìil polso, mi sollevò lepalpebre ed esaminògli occhi, e dopoun’ultima attentaosservazione delle miemani si raddrizzò e
disse in un ottimoinglese:«Adesso si può
alzare. Venga a faredue chiacchiere nelmioufficio».Nonappenaildottore
fuuscitol’infermierasiscongelò, e per ilsollievo di aversuperato la provadivenne quasiespansiva. Mi portòuna sontuosa vestaglia
dibroccatoeunpaiodipantofole, della stessamorbida pelle sinteticadelle scarpe che avevovisto addosso alservitoreslavo.Per quanto bene mi
sentissi, le mieginocchia,naturalmente, eranoancora molto debolidopo una così lungadegenza,efuilietochel’infermiera mi offrisse
ilbraccio.Eralaprimavolta che uscivo dallamia stanza e dovettisforzarmiperfrenareildesiderio di guardarmiintorno. Ma potei daresoltanto una rapidaocchiata, perché lostudio del dottore eramolto vicino, bastavaattraversare un’ampiaveranda. Tuttavia,riuscii a vedere che lamia stanza si trovava
all’angolo di unospazioso edificio dilegno a un piano, chepoggiava su un’altabase di mattoni. Laforesta arrivava moltovicino; non c’era ungiardino, soltanto iprati che crescevanonelleradure.Lastanzadeldottore
era più ombreggiatadagli alberi rispettoallamia.Vientravauna
luce verdastra, ma ilbiancodelleparetie lalucentezzadeimobililafacevano apparireluminosa. Era una viadimezzotraunostudioe un ambulatorio; allepareti si alternavanolibrerie e armadiettiper gli strumenti, e alcentro c’eraungrandetavolo di legno. Ildottore mi feceaccomodare in una
poltrona accanto allascrivaniaefeceruotarelasuasediainmododaavermi di fronte,congedandol’infermiera con uncenno.Quella mattina credo
di aver parlato moltopiù di quanto unprigioniero di guerranon dovrebbe. Dopoaver sopportato ilfrustrante
atteggiamento delleinfermiere, checontinuavano adassecondarmi come sifaconunmatto,eraungrande sollievoparlarecon qualcuno che,almenoapparentemente,sembravaconsiderarmiunapersonanormaleesana di mente. Senzadubbio fu ingenuo daparte mia, ma non mi
passòperlatestacheildottore miincoraggiasseaparlarealloscopodistudiarmi;credetti soltanto cheavesse voglia di fareuna chiacchierata. Midava l’impressione diannoiarsi, e che glifacessepiacereparlarecon un estraneo. Nonpensai a quante cosepotevagiàsaperesudime. Non so quante
norme di sicurezzaviolai, ma con il suoincoraggiamento, estimolato dal suointeresse, gli raccontaituttalastoriadellamiafuga, nascondendoglisoltanto che Jim Longera fuggito insieme ame. Mentre parlavo,faceva degliscarabocchi con unamatita su un taccuinoche aveva davanti, ma
senza prendereappunti. Poi, quandoebbi finito, mi fissò alungo. Fu soltantoallora, credo, quandotornaiaguardarlonegliocchi,chemiresicontoche c’era qualcosa dicalcolato nel suocomportamento,qualcosa di piùcomplesso eingannevole di quantononavessi inizialmente
creduto.«Senta,» dissi senza
riflettere «perché nonmi consegna allapolizia?Hoammessodiessere un prigionieroinglese».«La polizia?» replicò
con aria pensierosa.«Non è necessario. IlGran Maestro hagiurisdizione sulleforestedelReich».«Ma io sono un
prigioniero di guerra»insistei.«Dovreiesseresottoposto alla leggemilitare».«Ja, ja» disse.
«Capisco. Ma non c’èfretta.Primadobbiamorimetterlainsesto».Mi resi conto con
rabbia che aveva lostesso atteggiamentodelleinfermiere,quellochedisolitosiusaconi matti, e dissi in tono
disfida:«Leipensache io sia
pazzo,vero?».«Mio caro amico,»
rispose, e qualcosa miurtòneltonodisinvoltocon cui pronunciòquella frase col suoaccento tedesco «miocaro amico, non pensoaffatto che lei siapazzo. Del resto nonavrebbe moltaimportanza per me, se
lei lo fosse. Il suocasomihainteressatodaunpunto di vista clinico.Lei è stato colpito dairaggiBohlen.Ingeneresono fatali, ma lei hareagito bene alla miacura. E questo mirallegra.Dalmiopuntovista lei è guarito. Habisogno soltanto di unpo’ di tempo e diesercizio fisico perrecuperare
completamente l’usodeimuscoli».«In ogni caso pensa
che io sia unosquilibrato» insistei.«Anche se non leinteressa, lei è pursempreunmedico;esaquandounoèpazzo.Iolosono?».Guardò fuori dalla
finestra, storcendo lelabbra come setrovasse la mia
domanda fuori luogo osenza possibilità dirisposta. Poi, con tonoannoiato e sbrigativo,disse:«Deve esserci stata
senz’altro qualcheinterferenza cerebrale.Un’amnesiatemporanea sarebbedel tutto normale, e cisipotrebberoaspettareanche delleallucinazioni. Nel suo
caso sembra simanifestino nellaconvinzionedivivereinun periodo storicoprecedente. Immaginocheleiabbialettomoltilibri di storia, sullaGuerra dei DirittiGermanici e così via,nonèvero?».«Di storia?» dissi
sbigottito.«Sì...».Mi interruppe, con
l’aria di non dare peso
alla cosa: «Non mipreoccuperei,passerà». Mi guardòcon quella stessaespressione diindolenteapprezzamento con cuiaveva squadratol’infermiera,interessato soltanto almio stato fisico. «Ecosa importa, poi, senon passa?» domandò.«Lei ha riacquistato
l’uso del suo corpo. Edubito che qui troveràqualcuno che siaparticolarmenteinteressato alla suamente».Ancheseormaiavevo
capito quanto fosseillusoria la sua inizialecordialità, la brutalitàdi questa osservazionemi colpì. Per quantofossi sconcertato eallarmato per quello
che aveva detto aproposito delle mieallucinazioni, dentro dimeeroancoraconvintodi essere sano dimente, e decisi direagireconcalma.«Dottore, non sono
così presuntuoso dapensare che la miamente possainteressare qualcunooltre me, ma vorreiringraziarlaperessersi
preso tanta cura delmio corpo; adesso misento bene, la miaunicapreoccupazioneèsapere che cosa leiintenda fare di questomio corpo, ora che loha riparato. Verròtrattato come unprigioniero di guerra ono?».Mise i gomiti sul
tavolo, poggiando ilmento sulle mani
incrociate, e inarcò lesopracciglia,guardandomi conun’espressioneinquietante estranamentecompiaciuta.«Lei mi è simpatico,
lo sa?» disse. «Trovogradevole conversareconlei.Ecredochesiaanche un buonascoltatore; saràun’ottima cosa per me
esercitareunpo’ilmioinglese. Non ho laminima idea di cosaintenda fare di lei ilGraf,maqui, inquestomio piccolo ospedale,io sono il Führer – equesto,nel caso la suaepoca non arrivassefino ai nostri giorni,significa Dio –, e dalmomento chemi piacela sua compagnia, faròdituttopertenerlaqui
ilpiùalungopossibile.Lei non ha idea diquanto possa esseredeprimente per unintellettuale solitariocome me trovarsicircondato soltanto dasportivi e da schiavi.Sono certo che lei mispingeràafareungrannumerodi osservazionisu questo istituto efortunatamentelasua–ehm – infermità mi
permetterà diesprimerle restandorelativamentealsicuro.Potrà tenere la suacamera finché non neavrò bisogno per unaltro paziente, ma lapregodionorarelamiatavola. Cercherò dimostrarle qualcosa diquesta tenuta, quandonecapiteràl’occasione,ma devo metterla inguardia: non vada in
giro da solo,soprattuttodinotte.Miaddolorerebbe moltoche il mio primopaziente guarito consuccesso dagli effettidei raggi Bohlenvenisse dissezionato inmodo così pocoprofessionale dai canidacacciadelGraf,odaun’altra di quellecreaturechealleva».Si alzò in piedi, e
venendo rapidamentedalla mia parte midette una pacca sullaspalla sorridendomicordialmente.«Coraggio, Herr
tenente, accetti il fatodella guerra come unsoldato di quei tempieroici in cui vive, econdivida un piatto dicacciagione e unabottiglia di bordeauxcon il suo nemico, alle
dodici e trenta inpunto. Ach,dimenticavo!»esclamò.«Devo trovarlequalcosadamettersi. Isuoi vestiti devonoessere finitinell’inceneritore».Si chinò e parlò a
bassa voce in unpiccolo apparecchioche aveva sullascrivania. Mentre eraoccupato,mialzaiemi
misi a guardare ilbell’orologio elettricochestavasullalibreria,e che il dottore avevaindicato invitandomi apranzo. Era unmagnifico strumento,composto di unorologio, untermometro e unbarometro,echeinpiùaveva delle cifrecollocate in piccoleaperture illuminate di
cui sul momento nonriuscii a interpretare ilsignificato. Poi capiiche una dellecombinazioni dovevaindicare il giorno delmese. Evidentementeera il ventisette diluglio. Ma sotto,isolato,c’era ilnumero102.Mentre continuavo a
fissarlo, il dottore siavvicinò.
«Allora,» disse «lepiace il miocronometro? Comeufficiale dell’anticaMarina britannicadovrebbe interessarla.Checos’è che la lasciaperplesso?».Indicaiilpiccolo102.«Ach, ja» disse. «C’è
anche l’anno. Alquantosuperfluo,direi».«L’anno?» ripetei
fissandolo.
Gettòindietrolatestae scoppiò in unafragorosa risata; poi siscusò con esageratacortesia.«Ahimè, è difficile
accordarsi quando duepersone vivonocontemporaneamenteinduesecolidiversi.Miperdoni, devoinformarla –naturalmente solo percomodità – che io
aderisco allaconvenzionesecondolaquale noi viviamonell’annocentoduesimodel primo millenniogermanico, comestabilito dal nostroprimo Führer eimmortale Spirito delGermanesimo, AdolfHitler».
5
Ancora oggi nonriesco a spiegarmicome sia riuscito arestare cosìimperturbabilmenteconvinto della miasalute mentale, pertutto il tempo che
rimasi a Hackelnberg.Forse ci riusciioperando una sorta disospensione delgiudizio: mi trovavoimmerso in un insiemedi strane circostanze,delle quali non ero ingrado di darminell’immediato unaspiegazionesoddisfacente, masapevo che unaspiegazione doveva
esserci, e sentivo chealla fine l’avrei trovatagrazieal ragionamentoe a un’osservazionepaziente. Sentivodentrodimeun’infinitariserva di pazienza.Forse era un’ereditàdelcampodiprigionia:senza pazienza non sipuò progettare erealizzare lo scavo diun tunnel. Eppure èsorprendente con
quanta facilità ioabbiaperso di vista tutta laquestione cronologica.Il dottore era convintodi vivere un centinaiodiannidopo laguerra,iodistarci inmezzo: iltempo avrebbemostrato chi di noiaveva ragione. Iltempo, sì,ma anche lospazio. Se solo avessipotutoandareunpo’ingiro e vedere gli altri
abitanti diHackelnberg, avreisubito saputo comestavanolecose.Tuttavia, ragionavo
dentro di me, anchesupponendo che ildottoreavesseragione,questononprovavacheio fossi pazzo. Ildottore pensava chesoffrissi di innocueallucinazioni, ma forsec’era un’altra
spiegazione: nonpoteva il mio stato diincoscienza esseredurato un secolo? Nonpotevo aver dormitoper cento anni nellaforesta ora chiamataHackelnberg come RipVan Winkle sullemontagne di Catskill?D’accordo,probabilmentemi diraiche, se riuscivo aconsiderareseriamente
questa spiegazione,non c’era dubbio sulmio stato mentale. Mache cosa può pensareun uomo quando sisente così bene, cosìsano ed equilibrato, esoprattutto quando isuoi sensi funzionanoin modo così perfettoed è così pieno diinteresse per tuttoquelloche locirconda?Mai, in vita mia, ero
stato così deciso aosservare e amemorizzare tuttoquellochevedevo.E ticonfesso che il ricordodi quello che vidi aHackelnberg, di quelloche provai e feciquando ero lì, è moltopiù vivo e reale nellamia mente di qualsiasialtra parte della miavita.Tutto era così vero e
– per quanto possasembrarebizzarrovistoquellocheèaccaduto–cosìintrigante.Non voglio dire che
tutte le mie scopertefurono piacevoli.Nienteaffatto.Anzi,nesarei rimasto sconvoltose avessi continuato afare avanti e indietroper quello scartotemporale, se cosìposso chiamarlo, e a
guardare tutto con gliocchidel1943.Manonlo feci. Accettai lastoria degli ultimicento anni così comeveniva raccontata aHackelnberg, e piùtardimiconvinsichelafuga non era avvenutanel tempo, ma nellospazio. Ilproblemaeraattraversare di nuovoquella barriera diraggi.
Dopotutto, a essereonesti, chi, a metà del1943, avrebbe potutobiasimare un poverotenente della Marinamilitare britannica peraver in cuor suoaccettato l’idea che laGermania avrebbevintolaguerra?Pernoiche eravamo chiusi inquelcampodiprigioniaera come se l’avessegià vinta. E se l’aveva
vinta e quella vittoriaera consolidata da uncentinaio d’anni, allorai nazisti dovevanoessere letteralmente isignori del mondo. E icapi nazisti, come tuttisapevamo, avevano lastoffa dei piùincredibili tiranni, lecui dispotichestravaganze, se ilmondofossestatoloro,avrebbero fatto
apparire gli annalidegli imperatoriromani e dei khanmongoli come registriparrocchiali.Purtroppo, se si
guardano le cose daquesto punto di vista,ero finito in unaregione isolatadell’Impero germanico,una riserva privatadalla quale non avevoalcuna possibilità di
vedere che cosa fosseaccaduto al resto delmondo. Potevosolamente immaginarel’immenso, assolutopoteredeisignoridellaRazzasuperiore.Ufficialmente ero il
prigioniero-paziente –ospite, preferivachiamarmi lui – delloHerr Professor DoktorWolf von Eichbrunn,ma non avevo dubbi
cheallafineadisporredella mia personasarebbe stato il GranMaestro delle Foreste,il Conte Johann vonHackelnberg. Non mipiaceva il modo in cuitutto il personaledell’ospedaleabbassava la voce eassumeva un’ariavagamente servile nonappena venivapronunciatoilnomedel
Conte. E mi tornavanoin mente le parolesussurrate con tono diterrore dall’infermieradi notte, quando miaveva sorpreso adascoltare il suono delcorno.Soltanto il dottore
sembrava parlare condisinvoltura del GranMaestro delle Foreste,ma dietro quella suaostentata superiorità
coglievo un profondodisagio, e quando siprendeva gioco dellarigidadisciplinacheluistesso imponeva nelproprio ospedale,attribuendone la colpaal sistema, la suaipocrisia diventavapalese. Presto, quandoero a tavola con lui,iniziai a fare sempremeno caso alle suesaccenti osservazioni,
concentrando la miaattenzione sulpersonale. Avevoscoperto che solo lametà delle ragazzeerano infermiere,mentre le altre seierano semplicicameriere, sebbenefosse difficile capirequale lavoro dovesserosvolgere, a parteservire a tavola, dalmomento che in quel
luogoc’eraalmenounadozzina di uomini –tutti giovani estraordinariamentesimilipercorporaturaeaspettoaquel tipochefaceva le pulizie nellamiastanza.Duediloroportavano i piatti dallacucina alla sala dapranzo del dottore epoi restavano in piedidavanti alla credenza,mentre due cameriere
prendevano il loroposto e ci servivano atavola. Gli uominierano sempre a torsonudo, e così poteiosservare i loro corpilisci e ben nutriti; ipantaloni della livrea,di stoffa verde omarrone, erano cosìaderenti da modellarefianchi e gambe; siaveva l’impressioneche avessero tutti
tendenza a ingrassare,e che fosseromantenuti in formasoltanto grazie a unabuona dose di durolavoro, anche senessuno di lorodimostrava più diventidue anni. Tutti,notai, portavano unsottileelucentecollaredi metallo intorno alcollo.«Sono più economici
delle macchine» fu ilcommento del dottore,quando dissi qualcosasu di loro. «E poi ilGraf è contrario allameccanizzazione. Puòtollerarla al massimonelle armi didistruzione, mapreferisce darmi treschiavipiuttostocheunaspirapolvere».«Chi sono? Da dove
vengono?»domandai.
«Slavi, suppongo»disse scrollando lespalle. «Non mi sonomai interessato moltoalla loro provenienza.Perquantomiriguardanon sono altro cheesemplari diun’indifferenziatarazzainferiore.Oggivengonoallevati su larga scalanel Gau della Russiameridionale. Presumocheilpiccolointervallo
che la separa dalnostro mondo l’abbialasciataall’oscurodellescoperte di Wesslersulla fecondazionemeccanica, esull’applicazione delmetodo Röder-Schwabper l’accelerazionedello sviluppo. È bello,noncrede,pensarecheil padre di questi duemanzi sia lo stessopezzodifilodirame.E
quanti anni crede cheabbiano?».Circa ventidue,
pensavo.«Non più di quindici,
probabilmente dodici.Bambini precoci, noncrede? Mafortunatamente, direi,la loro precocità èsoltantofisica».«Adireilverononso
se sarei così felice diavere al mio servizio
dodici bestioni con ilcervello di unbambino»osservai.Il dottore ridacchiò.
«Oh, ma alcuneprecauzioni fisichevengono prese, e coltempo, non ne dubito,verranno prodotti solocon gli organistrettamentenecessari;per il momento gliallevatori asportanosubito dopo la nascita
solo quelli chepotrebbero creare lorodeiproblemi.Hanotatoche non parlano? IlGrafritienechesiapiùpratico sottoporli a unpiccolo intervento allecorde vocali prima diprenderli».Spostai lo sguardo
dai servi alle dueragazze in eleganteuniforme verde ebianca che ci
servivano, e chiesi seanche loro erano delleschiave.«No di certo!»
rispose, guardandolecon orgoglio. «Purarazza germanica. IlGraf fa uso di molteschiave, ma io nonvorreiaverletraipiedi.Se si educano bene lebambine tedesche, ladisciplina è un fattoautomatico: qualora
una ragazzatrasgredisca a unaregola, le altreimmediatamente ladenunciano.Selbstzüchtigung!1 Disolito è la stessacolpevole la prima adenunciare il proprioerrore e a proporre lagiusta punizione».Passò lo sguardo sulledue linde, giovani
cameriere, e quasiavesse l’acquolina inbocca aggiunsecompiaciuto: «E poinon sono così ingenueda proporre troppopoco!».Più vivevo in quel
luogocuratoeasettico,in quell’atmosfera dischiavitù cosìrigidamentedisciplinata, più lacaccia notturna del
Conte, nella suaeccentricità, miattirava. Di tanto intanto sentivo ancora ilsuo corno nei boschi emi lasciava semprequello strano senso diinquietudine e di vagaapprensione;ma finoaquel momento nonavevo visto traccia dilui o della sua corte.Sapevo, dalle miequotidiane passeggiate
con una delleinfermiere intornoall’edificiodell’ospedale, che loSchloss, come lochiamavano, si trovavaverso nord, poco al dilà degli alberi, mapoiché non mi erapermesso di uscire dasolo, ovvero senzaavere intorno uno diqueglischiavimutichemi controllavano a
vista, non feci alcuntentativo diattraversare la cinturadelbosco:ildottoremiaveva detto che cosasarebbe successo allaragazza se mi avessepersodivista.Il massimo che potei
fare fu di protestarecon von Eichbrunndicendo che quelmotocosì limitato per menon era sufficiente.
Ribatté cheeraquantone faceva lui. Ma eraun tale tormentoavereunacosìgrandeforestaa portata di mano edessere privato dellalibertà di andarci cheinsistei finché ungiorno, dopo avermiascoltato perl’ennesima volta confastidioeimpazienza,ildottoresirassegnò.«Capisco» disse «che
se non soddisfo la suacuriosità lei finirà perfare qualche grossastupidaggine, comecercare di fuggirseneda solo. Immagino cheabbiainmentequalcheromantica eavventurosa storiaanglosassone, non èvero? E se è così nonposso certo aspettarmiche la trattenga quelsuo senso di cavalleria
d’altri tempi verso lemie Mädel, né unqualcheriguardoperlasua pelle. Bene, sel’unica cosa che puòsoddisfarla è vedereHans von Hackelnbergsarà meglio che io laaccompagni alloSchloss.Megliochesialei, amico mio,» dissescandendo le parolecon grande enfasi«meglio che sia lei a
vedere lui, che non luiavederelei».Mentre pronunciava
queste ultime parolericordo che rovesciò ilvino – un bordeauxrosso–emisembròungesto deliberato.Poteva essere unalibagione, unapreghiera agli dèiperché siinterponesserotraluieunapotenzamalefica;o
un gesto teatrale, unespediente retoricosulla cui efficacia nonpotevo ingannarmi,mentre fissavo quellarossa pozza cheluccicava sul legno inmezzoanoi.Unadellecameriere la asciugòsubito con untovagliolo e lui spinseindietrolasediaconunsorrisoimbarazzato.«Ach, bene» disse
dopounapausa,conuntono più leggero eamichevole.«Organizzerò io lacosa.Ja,lefaròsapere.Dopodomani il Conteospiterà il Gauleiter diGuascogna e alcunisuoi amici.Farannoungiro nella foresta eandranno un po’ acaccia. Lo Schlossresterà vuoto per tuttala mattina. Ja, posso
mostrarle lo Schloss, eforse anche dellaselvaggina;sonosicurocheleinonhamaivistoselvagginacomequellacheilConteriservaperi suoi ospiti. E piùtardi, forse – ma badibene, non glieloprometto –, le lasceròdare un’occhiata aHans von Hackelnbergnelsuopalazzo».
1. Autocorrezione[N.d.T.].
6
Von Eichbrunnmantenne la parola.Due mattine dopo fuisvegliato molto presto,e prima ancora cheavessi finito diindossare gli abiti chemi aveva mandato per
il nostro giro nellaforesta, lo sentiichiamare dallaveranda. Era un belmattino fresco, e ilprofumo dolce epungente della forestaera inebriante. Quellanottenonavevosentitoil suono dei corni; ilmio sonno era statoininterrotto e senzasogni, e ora il cantosonoro degli uccelli, il
fremito dei boschi chesi risvegliavano e laluce che battevasempre più forte sullefoglie, sui tronchi e leradure erbose midavano un senso dieuforia.La tenutadeldottore
consistevainunpaiodipantaloni aderentiverde scuro con unlargo gallone dorato,stivali bassi di un
materialesimileapellescamosciata e un giletchesembravadidaino,riccamente guarnito dialamari e oro. Portavaun cappello di vellutoverde con una vistosapiuma di airone, eappeso alla cinturaavevaunlungospadinoda caccia conl’impugnatura inavorio. Il completo chemi aveva prestato era
dello stesso tipo, masenzaleguarniture.Miguidòlungounodi
quei sentieriserpeggianti che sisnodavanodall’ospedale, e notaiche ci aveva fattoseguire da dueservitori slavi. Nonavevamo percorso piùdi un quarto di miglio,quando scorgemmo iprimi edifici dello
Schloss. È difficile perme descrivere quelluogo, perché non neebbi mai una visioned’insieme. In effettisarebbe statoimpossibilevederloperintero, perché laforesta non solo glicresceva tutto intorno,madentroicortilieneivialetti,equaelàglisiinarcava sopra comeuna tenda. Era ben
lontano dall’essere ilcastello che mi eroimmaginato. Gli edificierano tutti bassi,costruiti per metà ointeramenteinlegno,ediformeestremamenteirregolari, come se gliarchitetti fossero statiobbligati a nonabbattere un soloalbero,maal contrarioa adattare i loroprogetti alla forma e
alla posizione delleradure e di tutti glialtri spazi aperti delluogo. E in certi puntienormi faggi o querceerano letteralmenteinglobati nellastrutturadegliedifici,epiccole stanze etorrette erano stateprogettate comefosseronidiinmezzoailororamirigogliosi.Qualcosa di strano e
segreto emanava daquel luogo in quelleprime, silenziose oredel mattino. Non erasoltanto perché in girononc’eraanimaviva:aquesto ero preparato.Penso piuttosto chel’aspetto austero,curato e luminosodell’ospedalemiavessefatto immaginare chelo Schloss fossequalcosa di simile, e
invece mi trovai difronte a una sorta dicapricciomedioevale,auna contorta eindecifrabilefantasmagoria.Gli edifici bassi e
irregolari, con i lorotetti spioventi e gliabbaini, lesporgenzeele nicchie, le stranefinestre e le porteincassate, sembravanoessersi insinuati
spontaneamente fraglialberi alla ricerca diombraedipace, comeanimaliselvatici.Eranovere e proprieabitazioni silvestri, edalle travi alle assi,dallacalceall’intonaco,daibasamentidipietraai gradini davanti alleporte, tutto provenivadallaterracheavevanointorno. Facevanoparte della foresta
come un teepeeirochese o la capannadiunselvaggio;eppurenon avevano nulla dirudimentale. C’eraqualcosa di moltoingegnoso nellamaniera in cui eranocostruite, nella lorosconcertanteirregolarità; il loromodo di fuggire, percosì dire, daproporzioni e schemi
abituali, aveva in séuna destrezza e unamaestria gotiche.Penetrammo in undedalo di cortili estrettisentieriricopertidimuschioediciottoli,avanzando in punta dipiedi lungo corridoirivestiti di pannelli egallerie di legno diquercia, mentrecresceva dentro di mel’impressione di
attraversarefurtivamenteunpiccoloe sperduto borgotedesco del Medioevoche la foresta avevaricoperto, ma che iltempomiracolosamenteavevapreservatodallarovina.Von Eichbrunn
parlavapocoeabassavoce, rispondendo soload alcune delle miedomande,e limitandosi
apoche,conciseparoledi spiegazione mentremi mostrava leabitazioni, i dormitori,le cucine, i canili e lescuderie. Mi sarebbepiaciuto fermarmi aguardare i cavalli e ibracchi, le carrozzenelle rimesse e lerastrelliere con leantiche armi e gliequipaggiamenti dacacciachesitrovavano
in alcune gallerie, malui mi metteva fretta,ansioso, pensavo, ditornare all’aperto,semprecheunaforestapossaconsiderarsitale.Potei soltantoconstatare che il GranMaestro delle Forestedel Reich possedevaunanotevolevarietàdicanidacaccia:unmutadicanidacervobianchie neri della razza
francese di Saint-Hubert, dei segugi edelle grosse bestiecomegli alani dal pelocorto e striato,straordinariamenteforti e feroci cometigri, che al nostropassaggio siavventarono contro lesbarre del canileringhiandoselvaggiamente. Nonavevo mai visto una
simile malvagità, unatale determinazione adattaccare, nemmenonei cani-poliziotto chele sentinelle tenevanonel nostro campo diprigionia.Il dottore si
mantenne il piùpossibile alla largadalle loro zanne e dailoro occhi chiari eferoci. La furia cheavevamo attirato su di
noi sembrava averloinnervosito a tal puntoda fargli perdere lastrada. Superate legabbie degli alani,eravamo sbucati in uncortiletto oscurato dalfogliame degli alberisovrastanti,dalqualesidiramavano diversipiccoli passaggi bui.Von Eichbrunn tornòindietro, esitando suquale prendere, poi si
voltò e fece un cennointerrogativoaunodeiservi che ci avevanoseguito. Ma prima chel’altro avesse il tempodi rispondere, da unodei passaggi una voceimperiosa ci intimò difarci riconoscere. VonEichbrunn ebbe unsussulto, poi, con unsorriso forzato, siprecipitò in quelladirezione,
trascinandomi con sé.Subito dopo, varcataunaporta,entròinunalunga stanza luminosa,con una finestra chedava sul cortile cheavevamo appenalasciato, mentre lealtre,postepiù inalto,lasciavano intravedereil cielo azzurroattraversolecimedeglialberi.Vidichequellocheci
aveva intimato difermarci era ungiovane vestito più omeno come il dottore,fatta eccezione per ilgilet, che avevapoggiato di latorestando inmanichedicamicia. Mentre loosservavo da dietro lespalle del dottore, misembrò un esemplarefin troppo perfetto diquello che eravamo
soliti considerare iltipico giovane nazista:non era di corporaturamassiccia,maqualcosanell’aspettoenelmododi atteggiarsi facevapensare a un pugile; icapellielecigliaeranodi un biondo cosìchiaro che, se nonfossestatopergliocchigrigi, avrebbe potutotranquillamentepassare per un albino;
un viso che nell’attimoprima di riconoscerevon Eichbrunn, conquell’aria sprezzante einquisitoria, era unamaschera di ostentataarroganza e freddaautorità, ma ora, dopoche il giovane avevabrevemente ricambiatoil saluto del dottore,sembrava esprimeresoltanto indifferenza escherno,conunapunta
di incurante brutalitànegli occhi e nellabocca.Parlavano in tedesco
e il dottoreevidentemente glistava spiegandoqualcosa a mioriguardo. Mi sentivoaddosso gli occhi delgiovane e li evitaiaccuratamente, dandoun’occhiata in giro perla stanza. Doveva
appartenere a unguardiano o a uncacciatore, perchéconteneva il piùbizzarro degli arsenali:tutti gli oggettiavevanol’ariadiessereusati abitualmente,erano ben tenuti,dispostiinbell’ordineea portata di mano.Perfino le lance per lacaccia al cinghialerisplendevano nelle
loro rastrelliereappoggiate al muro,pronte per essereusate. Era questa lastranezza del luogo: lamaggior parte diquell’attrezzatura nonquadrava per nientecon la cronologia divon Eichbrunn. Checosaci facevanoquellefile di balestreluccicanti, con le lorocordenuovee robuste,
quelle lance, quellespade, e più in là, infondo alla stanza,disposte su deisupporti di legno,quella serie di stranearmature chesembravano fatte dicuoio spesso, o di unmaterialesimile,inveceched’acciaio?Il Graf von
Hackelnberg dovevaessere un fervente
medioevalista. C’erauna sola concessionealla modernità: unarastrelliera di cortifuciliaunacannadiuncalibro molto grosso –di gran lunga piùgrosso dei nostricalibro otto o diqualsiasi altro calibroavessi mai visto usareper la caccia ai volatili–edellepilediscatoledi metallo, che
immaginavocontenessero cartucce.Infine degli accessoridi un genere che iltempo può modificareben poco: guinzagli eaccoppiatoi per cani,collariefrustini.C’era una vera
panoplia in quellastanza, ed ebbi solo iltempo di osservare lecose più evidenti. Nonc’erano trofei, teste di
cervo o di volpe e cosìvia,comeci si sarebbepotuti aspettare inunastanza del genere, maappese in fondo allaparete, vicino allestrane armature, notaidelle pelli, o parti dipelli, tutteapparentemente dellostesso tipo. Non eranoesposte come trofei,maappeseaunafiladiganci. Riuscivo a
vedere le loro codepenzolantiemiparverosimili a pelli dileopardo, o piuttosto aquelle striate del gattoselvatico; in effetti misembrava abbastanzaplausibile che unagrande foresta comequella di Hackelnbergnefosseinfestata.Ma c’era
qualcos’altrocheavevonotato: il giovane
biondo era rimasto inpiediaccantoalgrandetavolo al centro dellastanza,atrafficareconun aggeggio che stavain mezzo a millecianfrusaglie. Poi sispostò leggermente dilato per parlare con ildottore e posòl’oggetto sul tavolo.Era un piccoloapparecchio metallicoche stava lavorando
con una lima. Miavvicinai lentamente emi accorsi che sitrattava di uno stranocongegnofattodigancid’acciaiodisposti comefossero le dita di unamano,piùomenodelledimensioni della mia.In effetti facevapensare vagamente alguanto di un’armaturamedioevale, ma senzapolsino. Ce n’erano
parecchidiquelgeneresul tavolo, alcunimunitidicinturini,einunaltromomentoavreipotuto avvicinarmiabbastanza daprenderlo in mano edesaminarlo, ma ildottore mi afferrò perun braccio e mi portòfuoriconsé.Sembrava aver
placato i sospetti delgiovane guardiano,
perché quando quellouscì fuori con noi simise a chiacchierareaffabilmente con vonEichbrunn, anche se ame non rivolse unaparola. Senza dubbioparlava solo il tedesco,eperquanto,comesai,iocon il tedescoriescaa cavarmela e anche acapirlo se parlatolentamente, non loavevomai fatto sapere
avonEichbrunn.Il guardiano ci fece
attraversare il piccolocortileecicondusseinuna specie di parco,con delle file di alberidistanziatiuniformemente. E quipotei dare un’occhiatadisfuggitaaquellochemisembròl’edificiopiùgrandecheavessivistofinoaquelmomento.Sebbene fosse quasi
nascosta dagli alberi,riuscii a scorgere unamaestosa costruzionedipietrainstilegotico,daltettospiovente,conpinnacoli e torrette euna complessaornamentazione, quasiuna fantasiosariproduzione di unRathaus della RenaniadelCinquecento.Mi sarebbe piaciuto
guardarla più da
vicino,madinuovovonEichbrunnmiportòvia:quello che ilguardacaccia stavapermostrarci si trovava inun’altra direzione. Cicondusse lungo piccolisentieri, tra siepi dialberi potati, in mezzoaungruppodirecinti–la sua riserva diselvaggina, immaginai,datocheirecintieranopieni, per quanto
potevo vedere, didocilissimi caprioli,daini,alci,cervimaschie femmine, vitelli ecerbiatti. Al suorichiamo accorsero dalfolto degli alberi e daicespugli per mangiaredalla sua mano, e luipalpò loro i dorsi e ifianchi come uncontadino che soppesaunmaiale.AlGraf nonsarebbe mai mancata
lacacciagione,pensai.Nonriusciiascoprire
quanto fosse grandequell’allevamento, maaltri recinti, nascostidalle alte siepi,dovevano racchiuderecreature menomansuete, perché a untratto, mentreaccarezzavamo ilmusodiqualchecerbiattodalpelo fulvo, si sentì unostrano lamento a poca
distanza da noi. Icerbiatti subito sispaventaronoecorseroal riparo, il guardianoaccennò un rapidosorriso, ma vonEichbrunn sembròinnervosirsi comequando eravamopassativicinoalrecintodegli alani, e per unistante pensai chevolesse darsela agambe anche lui. Era
un suono strano etutt’altro chegradevole:hodettocheera un lamento, masomigliava più a ungrido soffocato emodulato, con unbarbugliare disottofondo che sialternava a striduliululati di avidaeccitazione, chesembravano quasiumani ma erano del
tutto ferini. Nonsembravano affatto deicani,eppureprovavolanettissima sensazionediavergiàsentitoqueisuoni,ediaverpensatochefosserodeicanidacaccia. Solo qualcheminuto dopo che fucessato, mi ricordaidove lo avevo giàsentito, omi era parsodi sentirlo: era lostesso suono che,
mescolatoallostormiredegli alberi, avevosentito la notte in cui,alla finestra della miacamera,erorimastoadascoltare il corno diHansvonHackelnberg.Allora avevoimmaginato che fosseuna muta di cani dacaccia,poi,ragionando,avevo pensato chedoveva essere il vento.Manon eranoné l’uno
nél’altro,neerocerto.Non osai fare
domande prima che ilguardacaccia ci avessecondotto fuori dal suoallevamento.Imboccammo unsentiero nella forestache il dottore,evidentementesollevato dal fatto ditrovarsinuovamentedasolo conme, si mise apercorrere a passo
veloce, camminando insalita. Poi, alla miarichiesta di andare avedere il palazzo,grugnì brevemente un«Nein», senza dareulteriori spiegazioni,finché non arrivammoin cima alla collina. Siappoggiòaunpinoesiasciugò la fronte,perché era unagiornata molto calda enoneraabituatoatutto
quel movimento. «No»disse con malumore.«Ne ho avutoabbastanza delloSchloss a stomacovuoto. Franck, ilguardacaccia, mi hadetto che la comitivadel Gauleiter pranzeràal padiglioneKranichfels, che è auna buona ora dicamminodaqui.Esaràun pranzo
maledettamentebuono:a quanto dicono, queigrassoni hannol’abitudine dirimpinzarsi, e ho tuttal’intenzione diprendermilamiaparteprimachetorninodallacaccia. Poi fuggirò daquesto verfluchte2caldo eme ne andrò adormire».«Pensavo che mi
avrebbefattovedereloSchloss»gliricordai.«Ja, non ne dubito»
replicò. Poi, facendosimeno irritabilemano amano che sirinfrescava, disse: «Sequesto pomeriggio mipromette di nonscappare,stasera forsela farò entrare dinascosto nel palazzo.Ma badi,» conclusebruscamente «non
rispondo delleconseguenze!».Ormai avevo iniziato
a capire il dottore;bisognavaprenderlounpo’ come un bambino,e così gli risposi concalma che certo, lui sisarebbe protetto daogni possibileconseguenza; quanto ame, ero pronto acorrere il rischio. Suqueste basi
proseguimmo per lanostrastrada.Dopounpo’ripresea
parlare, con la suasolita aria altezzosa enoncurante, ma questavolta non riuscii aresistere allatentazione di fargliabbassare la cresta:malgrado tutto il suodisprezzo verso queisemplici e atleticiguardacaccia, gli feci
notare, doveva purriconoscere cheavevano qualchecapacità che a luimancava – per nonparlare del coraggio –,seriuscivanoatenereabadadellebestie comequegli alani cheavevamo visto pocoprima.La sua reazione mi
colse di sorpresa. Siscostò bruscamente,
poi fece un respiroprofondo e dissequalcosaintedescochesuonava come unamaledizione sul giornoin cui si era assuntoquell’incarico; infine,con molta calma,aggiunse: «Sì, i canisonocattivi,èvero,macheDiociproteggadaigatti».Rimasi stupefatto
dall’autentico terrore
che percepii nella suavoce. «Si riferisce aquelle creature cheabbiamo sentito urlarequando stavamoguardando i cervi?»domandai.Ma si era offeso
perché lo avevocostrettoadammetterela sua paura, econtinuò a camminareinuncuposilenzio.Quelle poche miglia
furonodigrandeutilitàperme.C’erabenpocavita intorno a noi: inquel tratto di forestanon c’erano animali, aparte un paio discoiattoli rossi equalche uccello, ma ioero tutto intento aosservare laconformazione delterreno,amemorizzarela strada che avevamopreso, a imprimermi
nella mente ogniminuscolo sentiero eogni albero o rocciache attirasse la miaattenzione.Attraversammounpaiodi ruscelli, da cui ognivoltaildottoresifermòa bere, poicontinuammo a salirelentamente per quellungo pendio fino a uncrinale dovecrescevano fitti
cespugli. Lì, a pocadistanza da noi, sentiiimprovvisamentel’abbaiare di un cane.Von Eichbrunn sembrònon farci caso, ma unattimodoposobbalzòelanciòun’imprecazione.Un uomo era saltatofuori silenziosamentedaunnascondigliotraicespugli e ci avevasbarratoilcammino.Era un guardaboschi
vestitodiverde,con inmano una balestraleggera, un ragazzo diaspetto per nientesgradevole, chescambiòqualcheparolacon von Eichbrunn epoi rimase a guardarlocon aria divertita,mentre il dottorebrontolava irritato perquello che avevaappena sentito.Immaginavo più o
meno che cosa fosseaccaduto, e la miaipotesi fu confermataquando il dottore, pernulla disposto arinunciare al suopranzo, interrogò dinuovo la giovaneguardia. Eravamoarrivati troppo tardi. Aquantoparevalacacciaera iniziata, e seavessimo proseguitoper quella strada
avremmo rischiato difarallontanareleprededaifucilideicacciatori.La guardia,evidentemente, erapiazzatalìperriportareindietro la selvagginache fosse uscita fuoridalle linee diappostamento finendosulnostrocammino.Il cane abbaiò di
nuovo; la guardiainclinò la testa e
rimase in ascolto. Sisentìuncolpodi fucilevicinoanoi,daqualcheparte alla nostrasinistra. Il ragazzorestò in attesa ancoraperunmomentoepoi,con un sorriso, sollevòla balestra,immaginando di avereuncervosotto tiro,masubito dopo scosse latesta con rammarico:«Se quello lo avesse
mancato,» sembravadire «sarebbe statomio». Improvvisamentesi girò verso vonEichbrunne,daquantopotei capire, gli chieseperchénonandasseadaspettareall’appostamentovicino, dal momentoche la battuta nonsarebbe durata ancoraalungo.VonEichbrunnscosse la testa, ma il
giovane rise e,mettendosi un dito inbocca, feceun’imitazione cosìrealistica del botto diuntappodichampagneche il dottore siconvinse subito e silasciò guidareattraverso i cespuglisenza opporreresistenza.Lagiovaneguardiaci
condussegiùperl’altro
versante del crinale,facendoci passare peruna specie di galleriatortuosanell’intricodelsottobosco. Eraimpossibile vedere piùin là di un paio dimetri, e i cespugli daentrambi i lati eranotalmente fitti eaggrovigliati che astento una puzzolaavrebbe potuto farsistrada attraverso di
essi. Immaginai chequel luogo fosse statoscelto e adattatoproprioaquelloscopo,in modo che laselvaggina fossecostretta a seguire itracciatiprevisti, lungoi quali si sarebberonascosti i cacciatori. Equando arrivammoall’appostamento vidiche in effetti era così.Era di un genere che
nessun guardacacciainglese avrebbe maiarchitettato. Unboschetto ceduo, il cuicentro era statoaccuratamente ripulitodel sottobosco,lasciando intatti glialberelli, eracircondato da unterrapieno dove l’erbaarrivava all’altezza delpetto e al di sopra delquale correva una
bordura di bassicespugli. La parteanterioredell’appostamentoformava unamezzaluna, e loschermo dei cespugliaveva delle aperturedisposte in modo taleche da ognuna ilcacciatore potesseavere una completavisuale della raduraantistante.Inrealtàpiù
che di una radura sitrattavadiunapista,odi un vialetto, perchésul lato opposto c’erauna siepe ininterrottadi spessi cespuglidall’aspetto naturale,ma senza dubbiocoltivata e intrecciataad arte, allo scopo diconfinare la selvagginanella radura ecostringerla a passareproprio davanti
all’appostamento,rimanendo sempre atiro. Ci trovavamo inuna valle, e la pista,che la attraversavalongitudinalmente, siinterrompeva dove ilterreno diventava piùripido e dove duespondedi rocciagrigiaconvergevanolasciando soltanto unostrettissimopassaggio.Era chiaro che la
selvaggina, convogliataverso la valle lungoquesto o altri sentieri,una volta sfuggita aifucili dei cacciatorisarebbe stata bloccatadagli scoscesi dirupi ecostretta a tornareindietro davanti aifucili, o uccisa daiguardiani chestazionavano in fondoalla valle. Vedevamonitidamentegranparte
di quel triangoloformato dalle rocce,perché lì c’eranopochialberi, e quanto alsentiero da cui dovevaarrivare la selvaggina,correva dritto per uncentinaiodimetri, cosìi cacciatori avrebberoavuto tutto il tempo diavvistare le prede espararenelmomentoincuisitrovavanoatiro.Dei cervi
addomesticatiavrebbero garantito ilsuccesso al peggioredei tiratori. E, dopoaver visto chi era ilprincipale occupantedell’appostamento,capii che per lo piùdoveva essere quello ilgenerediospiteacuiilGran Maestro delleForeste dovevaprovvedere. Era unuomo basso,
disgustosamentegrasso, con un paio diLederhosen3 nuovi dizecca, bretellesgargianti, calzettonibianchi e una camiciaricamata. Era quasicalvo, con una testaquadrata e delleguance cascanti; unospesso rotolodigrassogli usciva dal collettosulla nuca, e il suo
posteriore sembravauna grossa chiatta.Non avrei saputoimmaginare uncontrastopiùgrottescocon le tre o quattrogiovani guardieforestali che insieme aluioccupavano il luogodi appostamento, conquei corpi così asciuttie in forma e quel loroabbigliamento in verdee oro, sfarzoso ma
insieme pratico per laforesta. Il pallidogonfiore delle suegambe e delle suebraccia cozzavatalmente con il loroaspetto atletico eabbronzato chesembravanoappartenere a duespeciedifferenti.Quando dal retro
entrammonell’appostamento si
voltò e ci guardò conaria ottusa attraversogli occhiali senzamontatura, poi tornò asorvegliare la radura.Era seduto davanti auno dei varchi fra icespugli, su unosgabello pieghevole ilcui sedile scomparivasottolepieghedeisuoilucidi pantaloni dipelle, e appoggiatisull’erba al suo fianco
c’eranodueotrefucili,uno dei quali simile aquelli digrossocalibroche avevo visto nelloSchloss, mentredavanti al varcosuccessivo c’era unasentinella con unabalestra, che vigilavasulla radura esull’ospite.VonEichbrunneioci
ritirammo sul fondodell’appostamento,
dove il dottore fuaccolto dalle altreguardie con unmormorio di saluti. Là,su un ampio lettoerboso,sottounatendadi foglie verdi, ildottore si sdraiòcomodamente,circondato dafiaschette con cuiristorarsi e da capacirecipienti per ilghiaccio; così io ebbi
modo di osservare checosastavaaccadendo.L’ospite doveva
essersi già dato unpo’da fare, perché da unramo di betullapendeva un dainosventrato da poco.Evidentemente, però,aveva mancato piùvolte il bersaglio,perché sul terrenodietro di lui giacevanotre o quattro bossoli.
Anche i suoi compagnivolevano prendersi laloro parte e, a breviintervalli e a variedistanze da noi,sentivamo i latrati diun cane e degli spari,al di là del foltoboschetto che siallungava impedendocidivederelavalle.Il nostro uomo
sembrava annoiato.Prese una scatola di
sigari e stava peraccenderne unoquando la guardiaforestale incaricatafece un cenno.L’attendentedell’ospitegli passò il fucile e logirò rispettosamentenella direzione giusta.Ilragazzoaccantoamemi dette una leggeragomitata e, dopoessersi alzato, miindicò il punto da cui
dovevo guardare al dilà del terrapieno peravere una buonavisuale della radura.Una coppia di bracchicorreva nella nostradirezione abbaiandoall’inseguimentodiunapreda;poiuncervocherisalivatranquillamentelavalleapparve all’orizzonte.Si fermò a cinquantametri
dall’appostamento, unpo’ sospettoso, madopoaver fiutato l’ariae scosso la testaproseguì al trotto,passandoaunaventinadi metri da noi. Nonsembrava affaticato daun lungo e accanitoinseguimento, e avevaun’ariamansueta–cosìfiduciosa che se fossistato sul punto disparare avrei
abbassatoistintivamente il fucile.Ma il nostro ospiteiniziò a sparare araffica. Ormai il cervoera uscito dal miocampo visivo e nonpotei vedere l’effettodei tre o quattro colpisparati dal nostrouomo, ma, mentre glialtri giovani saltavanofuoridall’appostamento, vidi
il capo delle guardieforestali nascondersidietro un albero perricaricare furtivamentela balestra. Poi sicongratulòsolennemente conl’ospite e quando iragazzi portaronodentro il cervoraggiunse vonEichbrunnesimiseroachiacchierare.«Das ist der Letzte»
lo sentii dire. «JetzthabenwirnurnochdieVögel, dannwollenwirsehen ob’s was zuessengibt».4Mentre alcuni
sventravano eappendevano il cervo,due dei ragazzipreparavanodeipaninie una bibita ghiacciataper l’ospite che,provato dal suo
striminzito sgabello dacaccia, affondò consollievo nel morbido efresco tappeto erbososul retrodell’appostamento. Iragazzi lo adulavanosenza ritegno, masebbene rispondesseconchiassosagiovialitàe ostentata cordialità,era palese che per luiquella mattinata nonera stata molto
soddisfacente. Tuttaviail suo interesse sirisvegliò quando ilgiovane capoguardia,dopo aver imbracciatolo strano fucile digrosso calibro eavergliene illustrato ilfunzionamento, si misea spiegargli la partesuccessiva delprogramma. Nonriuscii ad afferrarequello che si dicevano,
perché mi ero messounpo’ indisparte,nonvolendo attirarel’attenzione dell’ospite,e anche perché eromoltopiùinteressatoainuovi e straordinariarrivi nel nostroappostamento.Erano spuntati
silenziosamente daicespuglidietrodinoieavevano preso postonella parte alta del
terrapieno, dove,nascosti dal folto dellavegetazione, eranoperò in grado diosservare la raduraattraverso le aperturenel fogliame. Sitrattava di un giovaneforestale con in manounfrustino,chetenevaal guinzaglio duegrosse creature. Aprimavista,agiudicaredallatestaedallaparte
anteriore del lorocorpo, li presi per deibabbuini, ma quandoebbero il permesso dialzarsi e di allungarsi,miresicontocheeranodueragazzi.Ilorovoltierano interamentenascosti da mascherecherappresentavanoinmodomoltorealisticoilmuso dei babbuinigialli dell’Abissinia, odi quelle parti, con le
labbra contratte in unghigno che lasciavascoperte le grossezanne. Un mantello disetosi peli grigi ecastano doratoricopriva loro lespalle,laschienaeilpetto,finquasi alla vita; sottoerano completamentenudi, fatta eccezioneper una stretta cinturaintornoaifianchiconlaquale il guardiano li
teneva al guinzaglio.Nelle parti scoperte lapelle era di un coloremolto scuro, ma nonriusciiacapiresefosseper via del sole o sequello era il lorocoloritonaturale.Il nostro robusto
cacciatore li notò edemise un grido disorpresa. Il guardianosaltò dentrol’appostamento con i
due e, dopo averliliberati dal guinzaglio,gli fece fare dellecapriole con qualcheschiocco di frusta.Saltellavano e simettevano a quattrozampe o in posizioneeretta, imitando, congrande divertimentodell’ospite, tutte leabitudinieigestimenoeleganti dei lorooriginali, ma
perfezionando alcunidei loro giochi conun’ingegnosità cheprovavasenzaombradidubbio la loroappartenenza allaspecieumana.L’ospite rideva così
sguaiatamente da nonreggersi in piedi,finché, a un ordinedelforestale, il guardianoli richiamò ed essiubbidirono all’istante,
accovacciandosi etenendoilmusoinalto.Poi il guardiano passòloro una rete sottile eresistente, cheagguantarono conprontezza e sigettarono sulle spallecomefosseunacorda.Immediatamente
dopo, dal fondo dellavalle, risuonarono lenote di un corno dacaccia. Ilguardianoe i
suoi ragazzi-babbuinoritornarono con unbalzo alla loropostazione sulterrapieno, mentrel’ospitevenneriportatosul frontedell’appostamento e iosgusciaidinuovoversoun varco libero pervedere cosa stavasuccedendo nellaradura.Per un po’ tutto fu
tranquillo, poi sentiiancora dei caniabbaiareinlontananza,ma questa volta piùforte, e con un timbrodiverso. Per unmomento fu di nuovosilenzio, poi uno sparodalsuonosmorzato.Una delle giovani
guardie, che stava inpiedi accanto a me,mormorò: «Da schiesst
der Gauleiter los».5Guardai in alto, nonsapendo che tipo diuccelli intendesserocon Vögel, maaspettandomi qualcosadisimileaunfagianooa un gallo cedrone.Seguirono ancora unpaio di deboli spari, eimprovvisamente illatrato dei cani si fecemolto più vicino a noi:stavano risalendo il
nostro sentiero, ericonobbicheeranoglialani, quelle bestieferoci che soltanto alnostrosguardosieranoavventatefuriosamentecontro le sbarre delcanile. Avevo gli occhipuntatisullecimedeglialberi,ederoancorainattesa di sentire unbattito d’ali, quando laguardia mi dette unaleggera gomitata,
puntando il dito versolaradura.Si vedeva una figura
che correvavelocissima sull’erba.Era una figura umana,ma vestita in modoestremamentebizzarro.Avanzava correndoall’impazzata, come sene andasse della suavita, e gli invisibilisegugi le stavano allecalcagna e latravano;
non ci si potevasbagliare sulla lorointenzione di sbranaree uccidere. Nonriuscivo a smettere diguardarla: era unaragazza alta, dallelunghe gambe, con latesta e il viso nascostida una maschera abecco d’uccello daicolori brillanti, chedietro lasciavascoperta una nera
chioma ondeggiante.Guardarla correre perla radura era unospettacolostupefacente:eracomevedere una di quelledivinità egizie dallatesta d’uccelloerompereimprovvisamentedall’immobilità dellapietra in un volo diterrore. Una gorgieradi piume lucenti, d’oro
escarlatte,lecoprivailseno; sotto le bracciaerano attaccate dellealidallepiumecastanee di un verdeiridescente,edallavitapartivauna lungacodadi penne ricurvemarroni e dorate.Questi ornamenti e legialle calzature ai suoipiedi erano tutto ciòcheavevaindosso.Nonc’eranulla in lei
delladocilitàdelcervo;era terrorizzata ecorreva a una velocitàche difficilmente iostesso avrei potutosuperare quando eroallenato. Vidi lo sforzoimmane che stavafacendoquandosuperòilnostroappostamento,emiresicontochenonavrebbe potutomantenere quel passoper altri cento metri.
Poi scomparve dalmiocampovisivo,e inquelmomento sentii ilnostro uomo farefuoco.Inorridito, stavo per
saltare sul terrapieno,quandoilforestale,chesi era già alzato,esclamò a bassa voce:«Mancato! Ecco ilprossimo!».Mi voltai e vidi un
altro «uccello» che
correva, ma questavoltaavevadellepiumebianche, un’alta crestadorataeunacortacodadritta a ventaglio. Erapiù formosa dellaprima,noncosìveloce,e cominciava amostrare segni disofferenza; ma quandosentì crescerenuovamente dietro dileiilcrudelelatratodeicani fece uno scatto e
deviò, arrivando moltovicinoanoi.Mi alzai nell’istante
in cui il grassone fecefuoco e vidi qualcosache somigliava a unadiafana rete di sottilifilamentigialli,brillanticome la coda di unacometa,calaresudileiattraverso l’aria. Laragazza saltava eurlava; la rete sembròaprirsi e distendersi
come se fossetrascinata inavantidalgran numero di piccoliproiettili che laorlavano, come unaretedapescacircolare,dopo essere statagettata, si distendegrazie ai piombiniattaccati alle sueestremità. L’«uccello»roteavavorticosamente,colpendosi le carni
nude come se degliinsetti l’avesseropunto, e così facendoimpigliava sempre piùle braccia in queifilamenti; barcollava esi dibatteva, soffrendovisibilmenteall’impattodei proiettili; poi corseancora per qualchemetro, ma condifficoltà, perché ifilamenti sembravanovischiosi e, per quanto
sottili, terribilmenteforti, e ora leavviluppavano le cosceeleginocchia.Ilguardacacciachesi
occupava di noi emiseunanotadigiubiloconil suo piccolo cornod’argento, e il giovaneguardiano sciolse iragazzi-babbuino, checon forti e stridulegrida saltarono giùdall’appostamento e
corsero verso laragazza che sidibatteva. Di fronte aquelnuovoterroreessacercò disperatamentedi scappare e riuscì arompere i fili che leintralciavanolegambe,maidueinpochipassile furono sopra. Laatterrarono e in frettalegettaronoaddossolaloro rete, domando isuoi tentativi di
opporre resistenza eavvoltolandolastrettaeinerme dentro quellemaglie.A questo punto
l’ospitevenneaiutatoauscire e i forestali siprepararonoadandareall’inseguimento delprimo «uccello», chevedevamo procedere afatica in mezzo ai rarialberi in fondo allavalle,con lesuepiume
rosse e oro chespiccavanonelverde.Ilguardiano richiamò isuoi ragazzi-babbuinoper la caccia, mentreun attendente porgevaalgrassoneilfucile,mailnostrouomoneavevaabbastanza: non erafattopertrottaredietroa una preda checorreva a quellavelocità, per quantosfinitafosse.Esaminòil
suo bottino che sicontorcevastrettonellarete; ridacchiò,esclamando conenorme gusto i suoi«Fabelhaft!»,«Märchenhaft!»,6 mafece capirechiaramente chel’unicacosacheadessolo interessava era ilpranzo. VonEichbrunnsi dichiarò senza
esitazione della stessaidea.Cosìilguardianoeun
altro forestalepartirono da soliall’inseguimento,incitando allegramentei ragazzi-babbuino.Chiamati con unfischio, alcuni servitorivennero fuori dal foltodegli alberi. Il cervomorto e la ragazzaintrappolata furono
legati su delle aste etutti insieme ciavviammo verso ilpadiglioneKranichfels.Le mie speranze di
vedere al pranzo ilContevonHackelnbergfurono deluse. Nonpotei vedere nemmenoil Gauleiter diGuascogna e il restodella sua comitiva,perché von Eichbrunnmi portò a mangiare
con qualche sottopostoin un angolo tranquillodel giardino, mentreall’interno le personeimportanti facevanoungran chiasso. I ragazzimi osservavano conuna certa curiosità,senza cercare diconversareconme,madalle loro poche esommesse osservazionicapiicheilConteavevalasciato il comando
della battutamattutinaal suo vice. Prima dituttoavevamostratoaisuoi ospiti – nessunodei quali eramai statoa Hackelnberg – ibisontieglialci,epoi,come avevamo potutovedere,liavevalasciatia divertirsi nella valle.Il Conte, immaginavo,eratroppogelosodellasua selvaggina, siaanimale che umana,
perché gli piacessevederla cacciata daestranei. Per attrazionicome quella dellacaccia agli «uccelli»,un’abbondante scortadi belle schiaveprovenienti dalleregioni slave e dalMediterraneofornivaalConte il materiale permolte ingegnosevariazioni venatoriecon le quali
intrattenere i satrapidel Reich; ma laselvagginapiùpregiatae le creazioni piùbizzarre eranoriservatealsuopiacerepersonale.Chiesi a von
Eichbrunn cosa nesarebbe stato dellepredevive.Risposeconun ghigno: «Sarannoservite a cena stasera!Ach, vive e vegete,
proprio così. Il nostroometto ha preso unacolomba bella grassa.Voglio proprio vederecome se la caverà conlei...».Il pranzo durò a
lungo. I giovaniguardaboschi nonfacevano complimenti,ma sospettavo che ilnostro pastorappresentasse unaversione molto ridotta
delrinfrescoall’internodel padiglione. VonEichbrunn continuò aberechampagnefinchéil suo inglese divennetalmenteimpastatochenon fu più possibileconversare con lui inmodo accettabile; cosìdovetti rassegnarmiall’idea che ormai quelpomeriggio era perso.C’eranomoltecosecheavrei voluto fare e
vedere. Avrei volutoesaminare da vicinouna di quelle cartucceche lanciavano ifilamenti e unodi queifucilichelesparavano;avrei voluto parlarecon gli organizzatoridella battuta eandarmene in giro lìintorno, ma non mi fupossibile fare nessunadiquestecose.Iragazzicilasciarono
primacheilfestinodelGauleiter fosse finito,ma il dottore restòancora steso all’ombraper una mezzora,finchéunpaggiovennead annunciare che unacarrozza vuota stavascendendoalloSchloss;se volevamo, saremmopotuti tornare indietroconquella.Von Eichbrunn,
assonnato per tutto il
vino che aveva bevuto,insisté ostinatamenteche dovevamo tornareall’ospedale per fareuna siesta e non mirimase altra scelta cheseguirlo. Una voltaarrivati mi obbligò adarglilamiaparolachenon mi sarei mossosenza di lui. Così,mentre smaltivarussando gli effetti delpranzo, del caldo e
dell’esercizio fisico acui non era abituato,anch’io andai astendermi nella miacamera e aspettai piùpazientemente chepotei che arrivasse lasera.Quandomi chiamò si
era ormai fatto buio.Era di un umorebilioso, irascibile, cosìcercaiintuttiimodidiammorbidirlo e
assecondarlo, perpaura che cambiasseidea prima cheraggiungessimo ilpalazzo. Continuava alamentarsi della suatesta e del suostomaco, ma sembravaentusiasta all’idea diandare – e anzi erapreoccupato che peraver dormito troppo alungo potessimoesserci persi il
divertimento.Quando emergemmo
dal labirinto delloSchloss eattraversammo ilpiccolo parco, le altefinestre del palazzoeranoilluminatedaunaluce arancione. Dellepersone si muovevanonell’oscurità di fronteal grande portone evon Eichbrunn micondusse con
circospezioneintornoaun lato dell’edificio,dove, dietro unbastione, trovammouna piccola porta chepermettevadiaccederea una scala achiocciola. Salimmoqualche gradino, poiseguimmo uno strettocorridoio debolmenteilluminato dalla lucedel salone, che filtravaattraverso sottili
feritoie. Giungemmoquindi a una stanzettadi forma esagonale, suunaparetedellaquale,a mezza altezza, c’erauna finestra rotonda,senza vetri ma condelle sbarre e unacornice di pietrafinemente lavorata araggiera. Ubbidendoalle gomitate deldottore, sbirciai dallafinestraevidichedalì
si godeva di una vistaeccellente sull’interno,da una posizioned’angolo, a circa diecimetridialtezza.Non c’era elettricità,
ma il salone erasplendidamenteilluminato. A circa tremetridalpavimentouncornicione di pietracorrevalungolepareti,e su di esso, a brevi eregolari intervalli,
c’eranopiùdiquarantafigurechesulmomentopresi per statued’argento, tutteuguali,ognuna delle qualireggeva un’astalucente che terminavain una torcia,alimentata da unqualche combustibileche bruciavaproducendo unafiamma gialla ecostante. Ma quando
guardai con maggioreattenzione, vidi che lefigure respiravano ederano scosse da unlieve fremito: eranofanciulle il cui corpoera interamentericoperto di unavernice d’argento oinguainato in unapellicola di unmateriale così liscio eaderentecheognunadiloro, pur essendo viva,
simulava allaperfezione unaluccicantestatuanuda.Lalucecombinatadelleloro torce inondava ilsalone sottostante egettava un tenuebagliore verso l’alto,andandoailluminarelavolta a crociera elasciandoneintravedere gli oscurigrovigliintagliati.Suiduelatilunghidel
salone, il cornicione sucuistavanoleportatricidi torce era sostenutodaunafiladipilastri,einmezzoaognicoppiadi pilastri c’era unanicchia poco profonda.Davanti a tutte questenicchie correva unampioripianodipietra,ricoperto da unospessostratodipellidibisonte, di orso e dicervo, mentre al loro
interno, sopra pellidellostessotipo,eranosparsemorbidepelliccedi volpe, martora elontra.Nelvastospazioal centro, a notevoledistanza dai dueripiani, troneggiava lagrandiosa tavola dapranzo, che potevaospitare comodamentefino a un centinaio dicommensali. IlGauleitereisuoiamici
non erano più di unadozzina, e insieme aloro stavano cenandoaltrettanti ufficiali delConte. Tutti sedevanoversoil fondo,adebitadistanza l’unodall’altro, e acapotavola, proprio difronte alla nostrafinestra, su ungigantesco scranno dilegno scolpito sedevaHansvonHackelnberg.
Mi ero aspettato, sì,una figura fuori dalcomune. Mi eroimmaginato un uomoche nei tratti e neimodi avesse qualcosadella distinzionedell’antica aristocraziadell’Europa orientale;ma la solacorrispondenza fral’immagine che mi erofatto di vonHackelnbergelarealtà
cheavevodifronteeranella sua ferocia.Eppure l’uomo chesedeva là, dominandola tavola e tutto quelvasto salone, avevanello sguardo qualcosadi barbaro che nonavevo mai visto e chesuperavadigranlungale mie fantasticherie.Non apparteneva né almio secolo né a quellodel dottore; ed era più
lontanodaqueivolgarie chiassosi politicantinazisti che gli stavanointorno di quanto loronon lo fossero da me.La loro brutalità eraquella di una civiltà dimassa, urbana emeccanizzata, lasordidacrudeltàdiunatirannia fatta dialtoparlanti e di mitra.Hans von Hackelnbergapparteneva a un’èra
in cui violenza ecrudeltàfacevanopartedella persona, quandoil diritto di un uomo acomandare risiedevanella sua forza fisica;una così intima ferociaapparteneva al tempodegliUri,itoriselvaggidiquell’oscuraeanticaforesta germanica chela Città non era mairiuscitaadomare.Eral’uomopiùgrosso
che si fosse mai visto:un gigante al cuiconfronto il grandiosotrono su cui sedeva el’enorme piano diquercia che gli stavadavanti sembravanocose di dimensioninormali, e che facevaapparire il resto dellacompagnia un gruppodibambiniintornoauntavolo. Aveva i capellicolor rame, tagliati
corti,equestorendevaancora più mostruosala potenza del suoimmensocranioedellasua fronte taurina.Portava lunghi baffi euna fulva barbabiforcuta, che brillavaalla luce delle torceogni volta che giravaaccigliato la testa dauna parte all’altra,guardando torvamentei suoi ospiti. La parte
superioredelsuocorpoera rivestita da ungiustacuore verdesenza maniche, su cuisi incrociava uncinturone ricamatod’oro; intorno al colloavevaunacatenad’oromassiccio e sulla partesuperioredelbraccio,acingere i suoi poderosimuscoli, un moniled’orodi anticodisegnoceltico.
Nonmangiava,maditantointantoafferraval’enorme corno che glistava di fronte,tracannando il suocontenuto fino infondo; poi lo rimettevaa posto con una sortadi violenza controllata,comese il suobraccio,una volta sollevato, sipotesse a stentotratteneredall’abbattersi
autonomamente percolpireedistruggere;edi quando in quandostrappava un pezzo dicarne dalla coscia dibue che gli stavadavanti e lo gettava aicaniaccucciatiallesuespalle, con un gestocosì violento e unosguardocosìferocechesembravano direchiaramente cheavrebbe preferito
gettarelorolatestadelGauleiter. A volteinclinava la testaall’indietro e fissava letravi del soffitto, olasciava vagarelentamente lo sguardoarcigno lungo la filadelle portatrici ditorce, come perassicurarsi, con laminaccia del suosopracciglio, chenessuna osasse cedere
o dare segni distanchezza. Allora vidiche i suoi occhi eranodi un marronerossastro,acuitalvoltala luce gialla delletorce donava unbagliore infuocato,rendendoli simili atizzoniardenti.Eravamo arrivati
tardi e la festa eraquasifinita–oalmeno,le carni arrostite
sembravano aversaziato gli ospiti. Aquanto pareva eranostati serviti congrossolana espropositataabbondanza, rimpinzatidienormitaglidicarnedimanzo,dimontoneemaiale, oltre che diselvaggina, e c’eradavvero un disordinemedioevale, unammasso di taglieri
unti,digrandivassoiepiatti di peltro ed’argento cheingombravano latavola. I giovaniguardacaccia,abbigliati con sontuosevesti di raso ebroccato, giravanointorno alla tavolariempiendo di birra iboccali di legno, e divino i grandi cornibovini che stavano
accanto al piatto diogniconvitato.Eranounacompagnia
turbolenta e giàalticcia, e se nestavano stravaccati aschiamazzare e acantareasquarciagola,gareggiando a chifacevapiùbaccano,piùsguaiati di unacomitiva due volte piùnumerosa diuniversitari inglesi che
festeggino dopo unavittoria sportiva, e conla voce altrettantoimpastata. E non siacquietarono neanchequando sei aitantigiovani guardaboschi,abbigliati delle vestipiùmagnificheinverdee oro, salirono su unabassa piattaformadietro al trono delConte e, sollevando inalto i loro corni
d’argento,cominciarono asuonare una serie dirichiami di cacciaarmoniosamentevariati. Il Conte si eraappoggiato alloschienale del trono,ascoltando quellamusica conun’espressione truce,mentreunafiladiservisi precipitava asparecchiare lasciando
solo i recipienti perbere.Quandoebberofinito,
i suonatori fecero unapausa di pochi minutiper poi intonare unmotivo più rapido eallegro – una melodiadi caccia che misembrò familiare, unamusica dal ritmogaloppante etrascinante chefinalmente zittì il
baccano degli ospitiubriachi,obbligandoliatenereiltempo.Le due grandi porte
doppie in fondo allasala si spalancaronoimprovvisamente, e iservi rientrarono altrotto, trasportando, agruppi di quattro,enormi vassoi dimetallo lucente con ilcoperchio a cupola.Passarono lungo
entrambi i lati deltavoloedeposeroiloropesanti fardelli,facendo sì che ogniospite si trovasse difronte un gigantescorecipiente,cheavrebbepotuto contenere uncervo o una pecorainteri. A quel punto iservi saltarono sullatavola, mettendosiognuno dietro a unvassoio e afferrando il
manico del coperchio,mentre i paggifacevano il giro dellatavola, disponendo perogni ospite un coltellodacaccia.Il Conte Hans von
Hackelnberg si alzòlentamente e i suoiufficiali scattarono inpiedi facendounpassoindietro, mentre gliospiti,unodopol’altro,seguivano l’esempio
delpadronedicasaesialzavano barcollando epassando con occhiointerrogativodalConteai piatti di portata cheavevano di fronte. Letrombe emisero unosquillo sonoro e poitacquero.«Signori!» esclamò il
Conteconunavocechesomigliava al muggitodiuntoro.«Viinvitoadassaggiareunpo’della
selvaggina che avetecacciato!».I servitori alzarono
all’unisono i coperchi,tenendoli sospesi perunmomentoaldisopradelle teste deicommensali; poirapidamente lipoggiarono,allineandoli al centrodellatavola.Sul vassoio che ogni
ospite aveva di fronte
era esposto l’«uccello»che ciascuno avevacatturatoallafinedellabattuta di caccia delmattino: era statoprivato delle piume estrettamente legato, ilmentoalleginocchiaeipolsi alle caviglie, maportava ancora lamaschera con il becco.I guardacaccia condestrezzaallontanarono le sedie
dagli ospiti e poiindicarono in qualipunti dovevano esseretagliati i lacci chetenevano legati gli«uccelli».Gli ospiti per un
attimo sembraronotroppo sbalorditi perseguire le loroistruzioni, e ilGauleiter, che stavaalladestradelConteeavevadavantiaséuna
splendida creaturaabbronzata, la cuimascheravariopintadatacchino selvaticospiccava sulla fluentechiomabionda,scoppiòinunafragorosarisata,chinandosi in avantiper pizzicare la cosciaben tornita del suo«uccello». Alcuniufficiali brandironoesultanti i coltelli, maprima che qualcuno
potesse tagliare i laccidel proprio volatile,Hans von Hackelnbergbattéconforzailpomodel suo spadino sullatavola.«Signori!» mugghiò
di nuovo, e un silenziototale seguì il suorichiamo. «Signori!»ripetéilConte,oraconun tono di voce piùumano,masemprecosìforte che dalla nostra
stanzetta sentivo ognisua parola, e con talelentezza che riuscivo aseguire praticamentetuttoquellochediceva:«Spero che ognuno divoi taglierà le carnidell’uccello che hacatturato con lo stessopiacerechehaprovatocacciandolo. Laselvaggina è vostra;che ognuno soddisfi ilproprio appetito come
meglio desidera, e sequalcuno non troveràla carne abbastanzateneraper i suoigusti,i miei giovani aiutantisi occuperanno dieliminare le parti piùdure». E indicò il capodei guardacaccia che,ghignando,avevapresoin mano un frustino, elo faceva scorrerelentamente fra le dita.«Ma,»ruggìdinuovoil
Conte con tonoviolentementeimperioso «prima chevoicominciate,viinvitoa seguirmi per vederealtri esemplari dellastessa carne prelibata,ma sotto una pellediversa. Trattenete ivostri appetiti, signori,ancora per dieciminuti,evimostreròlospettacolo di unaspecie femminile che,
ve lo garantisco, listuzzicherà molto dipiù. Bitte! HerrGauleiter!».PreseilGauleiterper
il braccio e lo scortòverso la portad’ingresso del salone,dove non potevamovederlo. Gli ufficiali sioccuparono degli altriospiti, e questi, ancorapiù sconcertati perl’improvviso rinvio del
loro divertimento diquanto non lo fosseroquando era stato loroinaspettatamenteofferto,venneroguidatifuori dal salone comeuna torma dubbiosa acui nessuno davarisposte. Lasciaronocosì che le loroprelibatezze ancoraintatte siraffreddassero sulvassoio, per così dire,
sotto gli occhi deigiovani paggi che sipreparavano aingannare l’attesa coninmanodelle coppedivino, adagiati suiripiani ricoperti dipelli.Mentre gli ospiti si
ammassavano peruscire dal salone, leportatrici di torcegiraronorispettivamente a
destra e a sinistra,uscendo dalle apertureche si trovavanoall’estremità dei duecornicioni, e lasciandosul posto soltanto unterzo di loro, ancoraimmobili,ailluminareilsalone.Il dottore imprecò
stizzito nel vedereinterrotto lo spettacoloappenacominciato.Poimi tirò con insistenza
per la manicasussurrando:«Andiamogiù e prendiamocialmeno da bere primache tornino!».E subitomi trascinò via dallastanza, imboccandounostrettocorridoio.Non mi rimaneva
altra scelta cheseguirlo, ma cercai dicapire perché mai nonpotevamo andareanche noi a vedere
l’altro spettacolo. «No,no, no!» gridò ildottoreconinaspettataveemenza. «Io non civado!Perl’amordiDio,andiamoabere!».Si precipitò giù dalla
scalaachiocciolaefecifatica a stargli dietro;ma prima di uscireall’aria aperta avevogiàdecisodiseminarlo.A poca distanza dalsalone le torce gialle
avevano formato duefile ordinate, eavanzavano con passoregolare nell’oscurità;c’era una folla diservitori e una massaindistintadialtragenteche si accalcavaall’uscita dell’edificio ementre il dottore siaffrettava araggiungere il portonenon mi fu difficileliberare la mia manica
dalla sua presa emescolarmi alla follasilenziosa.Nonlosentiinemmeno chiamare ilmio nome mentre mifacevo largo a spallatetra i servitori,affrettando il passodietro le torce. Pensoche avesse troppapaura dell’oscuritàdello Schloss perrimanere da solo fuoridalpalazzo.
In pochi minutiraggiunsi la coda delcorteo, e mi unii a ungruppo di ufficialiforestalicheformavanola retroguardia.Nessuno si accorse dime,eppureletorcechefiancheggiavano lacomitivadovevanoaverilluminato ilmiovisoel’abito semplice cheavevo addosso. Leragazze dalla pelle
d’argento, che viste davicino erano alte comegranatieri, marciavanocon andaturavolutamentecerimoniale,sollevandole ginocchia a ognipasso, lo sguardo fissoin avanti, e reggendorigidamente le torce. Iguardaboschiscambiavano qualcheparola tra loro a bassavoce, ma gli ospiti,
infreddoliti dall’arianotturna, eranostranamente silenziosie il Conte vonHackelnberg, sempretenendo saldamente ilGauleiter per ilbraccio, avanzavaimponentetorreggiando su tutti esenza dare una paroladispiegazione.Procedemmocosìper
un centinaio di metri,
finché, a giudicaredalle alte siepi cheavevamo superato,immaginai che fossimoarrivati da qualcheparte vicinoall’allevamento cheavevo visto quellamattina.Quileduefiledelleportatriciditorcesi separarono, e ilConte e tutti noirestammo a osservarlefinché non si
ricongiunsero aformare sotto i nostriocchiunampioovale.Aquesto punto il Conte,con un tono giovialeche sentivo per laprima volta, disse agliospiti di prendereposto.Feci un passo in
avanti e, sotto la lucedelle torce, vidi unastrana fossa ovalecircondatadaunmanto
erboso. Il Conte fecesedere accanto a sé ilGauleiter sul bordointernodella fossa,e ilresto della compagniasi dispose a destra e asinistra, sotto la guidadiscreta dei forestali.Io mi spostaisilenziosamente versoun’estremitàdellafilaeguardaigiù.Leragazzeora avevano inclinatole lunghe torce in
avanti, in modo chesporgesseroilluminando inpieno lafossa. Le spondedovevano essere altecinque o sei metri, ederano rivestite dibianche assi levigate,mentre il fondo eraricopertodauntappetodierbabenrasata,eaogni estremità c’eraun’inferriata chechiudeva un passaggio
sotterraneo. Era unaspecie di circo romanoin miniatura, anche sesempliceerustico.Improvvisamente si
udì lo squilloperforantediuncorno,di una tale terrificantepotenza che miraggelò. Senza voleremigiraidiscatto,cometutti gli altri – e cosìdovevano aver fattoanche le portatrici di
torce, perché unmovimentoondeggiante attraversòil loro cerchio di luci,affievolendole per unattimo. Il Conte vonHackelnberg si eraalzatoinpiedi,eavevaavvicinato alle labbraun grande cornoricurvo d’argento, checome un anellosplendente gli passavasopra la spalla e
intornoalcorpo.Soffiòcontuttalapotenzadeisuoi polmoni, e ilfragoroso e insistenterichiamo echeggiò sudi noi dal folto deiboschi, così vicino eferoce da essere quasiinsopportabile.Mentre quel suono
svanivasentiiilrumoredi una delle inferriateche si apriva, e fuori,sull’ovale erboso
arrossato dalla lucedelle torce, apparverotre giovani, bardatidalla testa ai piedi diquelle strane armatureche avevo visto almattino nella stanzadel guardacaccia. Miresi conto che noneranod’acciaioodiunaltrometallo,madiunmateriale che, perquanto duro eresistente, era
abbastanza flessibileda permettere dimuoversi con agilità. Iprimi due tenevanodelle frustecon lunghee pesanti strisce dicuoio intrecciato; ilterzo guidava duedaine, due docili egrasse creaturemaculate, con deinastridisetaintornoalcollo.Avanzarono fino al
centrodell’arena,poisifermarono. Le dainetremavanoleggermente e sistringevano alguardiano che leteneva per il collare;ruotavano le largheorecchie e alzavano latesta impaurite, con iloro grandi, liquidiocchiscuri,chela lucedelle torce riempiva atratti di un bagliore
verdastro.Von Hackelnberg
suonòancoraunavoltail corno; fu uno squillobreve, acuto,perentorio,eprimachefosse cessato sentiiarrivare la risposta.Era quel selvaggio,ululante miagolio cheavevouditoalmattino,macheoraperlafameelabramadisanguesiera fatto quasi
insostenibile, e siavvicinava sempre dipiù alla secondainferriata; c’era lostesso orribilesottofondodivociquasiumane, ma ora piùforte e insistente,quello stesso urlioacuto e malvagio cheaveva così scosso inervideldottore.L’inferriata si alzò
fragorosamente, ed
eccobalzarenell’arenauna ventina di grandianimali. Ghepardi,credetti per un attimo,perché scattavano inavanti con un taleslancio che, mentrecorrevano, sembravanopoggiare soltanto sullezampe posteriori. Maanche prima direndermi conto chenon erano animali,sentiiitremendiscoppi
di risa del Conte, eallora capii che cosaavevainmentequandoaveva interrotto ilascivi piaceri dei suoiflaccidi ospiti. Ibellissimi e lustrimantelli maculati chevedevamo sotto di noisembravano aderireperfettamente alleschiene e ai seniprosperosi di unatruppa di giovani
donne, così simili perstatura, età eproporzioni chedovevano essere statericercate e selezionatecon grande perizia intutti gli allevamenti dischiavi del GrandeReich.Erano robusteeformose, ma nongrasse, e di aspettocosì sano e in unaformacosìperfettachele morbide curve dei
loro corpi e delle loromembra eranoprovocanticomeloèlapiù rara bellezzafemminile, mentre ilgioco dei loro muscoli,che si flettevano edistendevano sotto lapelle abbronzata elucente, suscitò in mequalcosa che andavaoltre l’ammirazione:eraunasortaditimore–no, un vero terrore –
del potere ferino chequelle forme cosìattraenti eapparentementeamabili possedevano esarebbero state ingrado di scatenare daunmomentoall’altro.Ariposo avrebberopotuto essere, per unoscultore, i modelli diun’ideale bellezzafemminile, ma quandobalzarono all’interno
dell’arena e presero amuoversi in cerchio,troppo veloci e agiliperché l’occhioriuscisseaseguirle,giànon avevano più nulladiumano:eranodonneche una demoniacasapienza avevaallevato, addestrato einfine trasformato inmagnifici,agili,rapidiepericolosifelini.Avevano la testa e il
collo ricoperti da unaderente cappuccio dipelle maculata, da cuispuntavano eleganti erotonde orecchie dileopardo, ma l’ovaledel volto era scoperto,e ogni viso, sotto laluce delle torce, eracontratto inunghigno,le rosse labbra ritrattea scoprire i possentidenti bianchi, e negliocchi un pallido
luccichio di purapazzia. I lorostraziantimiagolii oraassomigliavano aun’assurda canzone, eil loro impercettibilebarbuglioaundiscorsoconfusoeinsensato.Mitornaronoallamenteleparole del dottore aproposito dei servitorimuti, e non c’eradubbio, pensai, che ichirurghi avessero
operato anche quelledonne.Gli aderenti corpetti
di pelle coprivano lorolespalle,lebracciaeilcorpo fino alla basedelle costole, mentredietro,propriosopralenatiche, eranomodellatiapunta,edaquesta punta pendevauna coda dal pelocorto. I piedi eranofasciati fino alle
caviglie da stivalettifatti della medesimapelle maculata. Maquello che del lorocostumeattiròsubitolamiaattenzionefuronoibizzarri guanti con cuiterminavano lemanicheattillate.C’eraunbaglioremetallico,eper quanto mi fossedifficile fissare losguardo sulle loromani,dalmomentoche
correvano e saltavanodicontinuoperl’arena,riuscii a distinguereche ciascuna di loroavevaallacciatoaipolsiunpaiodiqueglistraniaggeggi a forma diuncino che avevo vistonella stanza delguardacaccia.Immagina quattrostrisce ricurved’acciaio attaccate auna placca flessibile,
conuna quinta strisciaopponibile fissata dilato, esattamente sulmodello di una manoumana – ma ognistrisciaeraprovvistadiun artiglio di leopardoin acciaio, con la baseconcava in modo dapoterciinserirel’ultimafalangedelleditaedelpollice, il tutto fissatoal palmo della mano esaldamente allacciato
intorno al polso, aldorso della mano e aogni dito. Il metallodovevaessereunalegaelastica,pensai,perchéle «gatte» riuscivanoquasi a stringere ipugni e spesso quandocorrevano andavano aquattro zampe,poggiando le nocchesul terreno. E sentiidistintamente illeggeroticchettiodegli
artigli d’acciaio che siurtavanoquandounadiloro passò sotto di mecorrendo in quellostranomodo.Non appena le
«gatte» furono entratenell’arena, i treuominisiriunironoalcentro;elà due di loro, rivoltiverso l’esterno comedomatori di un circo,continuavano a fargirare in cerchio il
branco tenendolo adistanza a colpi difrusta, mentre il terzoreggeva le due daine,che si dibattevano inpreda al terrore. Le«gatte» erano soloparzialmenteammaestrate e ilmassimo che potevanofare i due uomini eraimpedire, usandocontinuamente lefruste, che
interrompessero il lorosinuoso movimentocircolareprecipitandosiverso il centro. Ognivolta che una di essestava per lanciarsidentro, una pesantefrustata la ricacciavaverso l’esterno,ferendole condestrezza lagroppae ifianchi scoperti, e aogni schiocco l’urlodelle altre si innalzava
in un crescendosempre più selvaggio,mentre quella cheaveva assaggiato lafrusta balzava in alto,in una danza di doloreedi rabbia, ringhiandoe soffiando, e agitandocon furia verso ilguardiano i luccicantiartiglid’acciaio.Ealdisopra di tutto quelfrastuono sentivo,ancora e ancora, la
terribile risata diHansvonHackelnberg.I guardiani
continuarono a farcorrere le «gatte»lungo le pareti dellafossa finché le lorocoscenonbrillaronodisudore e i loro pettinon divennero ansanti.Allora il Conte suonòancora una volta ilcorno, emettendo unanota lungamente
trattenuta: era ilfunebre lamento cheannunciava la mortedelcervo.Non appena il Conte
iniziò a suonare,l’insostenibile clamoreche proveniva dallafossa si attenuòtrasformandosi in unavido mugolio, equando il suono siestinse i tre guardianisi fecero da parte
precipitandosi versol’inferriataaperta.Immediatamente e in
totale silenzio, piùterrificanti in questaloro muta e prontaconcentrazione che intutta la loro furia, le«gatte» si avventaronosulle due daine. Ipoveri animali fecerounbalzoaltissimo,mailucenti artigli d’acciaiosieranogiàdistesiper
lacerare e ora sistringevanoconficcandosi nel colloe nelle zampe,squarciando ventre efianchi.Perunmomentocifu
un orribile contorcersidi corpi, una mischiaconvulsa di cosce egambe scalcianti,mentre teste e bracciaaffondavano con furiaal centro dei due
gruppi di «gatte»; lenaricimi si riempironoimprovvisamente delfetorediinterioracaldee dovetti allontanarmidal bordo dell’arena.Pocodopole«gatte»sierano già sparpagliatedaognipartesull’erba,dimentiche deiguardiani,adilaniareeinghiottire i brandellidellacarnestrettafrailoro artigli
insanguinati. Non sisentiva altro che unrumorio continuo difaucichesbranavanoesbavavano, o un sordoringhio non appenal’una sfiorava l’altra.Tuttoera imbrattatodisangue, i volti, il pettoe le maniche deimorbidi corpetti, lapelle ambrata dei loroventri e delle lorocosceabbronzate.
Hans vonHackelnberg gridò agran voce: «Es ist zuEnde! Komm, meineHerren!».7 Iguardacacciascattarono in piedi, leportatrici di torcefecero dietrofront e simisero di nuovo inmarcia verso il palazzoformando due fileordinate, mentre gli
ospiti, distolto losguardo e nel silenziopiù assoluto,camminavano mestisotto gli occhi delConte, che torreggiavain attesa di chiudere ilcorteo, e sghignazzavaguardando dall’alto inbasso, con sadicodivertimento, quel suopiccolo branco dipalloni sgonfiati. Nonavevanoaffattol’ariadi
gente che stesseandando a godersi ilfinale di una serata dibagordi.Evidiancheilnostropiccoloegrassocacciatore del mattinoche se ne stava sottoun albero a vomitaremiseramente,sostenuto da dueguardie.Aspettai che anche
l’ultima coppia diportatrici di torce si
fosse allontanata dalprato, sperando chevon Hackelnbergseguisse i suoi ospiti,ma il bordo dell’arenavenne illuminato dallaluce bianca di alcunelanterne; temendo,poichéerosolo,didarenell’occhio, mi uniiall’ultimo gruppetto diquattro o cinquegiovaniguardie,esfilaimarciando a testa
bassadavantialConte.Pensavo di essere
passato inosservato,quando all’improvvisouna mano enorme miafferrò per la spalla, efu come andare asbattere contro ungrossoramodiquercia.Mi fece girare,esigendo di sapere chifossi, e mi ritrovaidavanti, a pochicentimetri di distanza,
quella barba fulva ebiforcuta, quella boccaspalancataeghignantee quegli occhiinfuocati. Poi, conl’altramano,Hans vonHackelnberg fermòbruscamente l’ultimaportatriceditorce,elasua fiamma oscillò perunattimo sopradinoi,prima di fissarsi sulmio viso. Il Conteripeté ladomanda,con
vocealtaeminacciosa.Le guardie cicircondarono, e io,mentre guardavoimpotentedaunapartee dall’altra, riconobbiuno dei ragazzi chequella mattina eranocon noinell’appostamento.Prima che riuscissi amettere insiemequalche parola ditedescoperrispondere,
quello gli aveva giàspiegato tutto. Mentreparlava, però, lo vidibattersi la mano sullafronte, e il Conte lointerruppe gridando:«Lo so! Lo so!». Poi,afferrandomi come sevolesse stritolarmi leossa della spalla, midisse: «Così lei èfuggito dalle prigioni,eh?Ilsuodesiderioèdiessere libero, non è
vero? Lo sarà. Liberonella foresta!Conducetelo neiboschi, ragazzi!Lasciatelo libero ditrovarsi il suo foraggioinsiemeaicervi!».Miallontanòconuno
spintone, facendomiperdere l’equilibrio, esubito le guardie miafferrarono.Istintivamente opposiresistenza, ma fui
sopraffatto. Ebbi ilbuon senso di capirequanto sarebbe statoinutile lanciarmi in unestenuantecombattimento, cosìtenni a freno la rabbiae lasciai che miportasserovia.
2. Stramaledetto[N.d.T.].
3.Calzonicortidipelle
[N.d.T.].
4. Questo è l’ultimo.Adesso ci restano sologliuccelli,poivedremose ci sarà qualcosa damangiare[N.d.T.].
5. Ora è il Gauleiterchespara[N.d.T.].
6. Fantastico. Favoloso[N.d.T.].
7. Lo spettacolo èfinito. Venite, signori[N.d.T.].
7
Le guardieeseguirono subito gliordini del Conte.Sebbene non avesserocerto un’ariaamichevole, quandoquella mattina mi erotrovato con loro in
compagniadeldottore,nonmieranosembrateapertamente ostili; orainvece non prestavanola minima attenzionealle mie domande,trattandomi come sefossi un animale. Sioccupavano di me conbrusca e spietataefficienza, senzaarrivare a colpirmiquando non ubbidivoall’istante, ma
facendomicapiremoltochiaramente quantofossero avvezzi astroncareogniaccennodiresistenza.Mi portarono in una
stanza di uno degliedifici checosteggiavanol’allevamento dellaselvaggina, e lì mifecero togliere i vestitiche mi aveva prestatoil dottore e indossare
uno strano costumepresodaunmagazzinoche aveva l’aria diessere pieno di tenutedel genere. Consistevainunpaiodicalzonialginocchio, di uncurioso tessuto che aprima vista potevasembrare pelle didaino, ma che scopriiessere fatto di unafibra elastica simile apelle viva, con una
corta peluria insuperficie, spessa efitta comequella di unanimale. Poi mifornirono una magliaattillata dello stessomateriale, con lemaniche lunghe, einfine mi feceroindossare dellecalzature in vera pelledi daino che, dandosiun gran da fare,allacciarono
saldamente ecomodamente ai mieipiedi.Dopo avermi
equipaggiato in questomodo, mi spinsero dinuovo fuori, in uncortile dove si trovavaun piccolo veicolotrainato da cavallisimile a un carro, omeglio,aunagabbiadilegno quadrata condelle ruote. Mi
sbatterono dentro, poilaportafurichiusaallemie spalle, e con unacoppia di guardiesedute sul tetto dellagabbia fui condottolungo un buio sentieronellaforesta.Procedemmo a una
buona andatura perquattro o cinquemiglia, su e giù pervallette e colline lungouna strada sterrata
piuttosto agevole,sempre attraverso fittiboschi di faggi e diquerce. Poi cifermammo emi feceroproseguire a piedi; ilconducente miprecedevaconinmanounalanternacheavevapresodalcarro,mentregli altri marciavanodietrodimetenendomipuntata alle reni labocca del fucile.
Continuammo per unostretto sentierosabbioso cheattraversava un’ampiaradura. La luna eraparzialmentecoperta,econ uno scatto avreipotuto tranquillamentefuggire e seminarli, senonfossistatoconvintoche almeno per ilmomento non avevanointenzione di farmi delmale: per quanto
bizzarri, gli ordini divonHackelnbergeranostati chiari, eovviamente dovevanoessere eseguiti allalettera.Orasapevochela foresta diHackelnberg eraprotetta dall’esterno inmodo estremamenteefficace; essere liberoal suo internosignificava soltantotrovarsiinunaprigione
più grande, ma sareistato padrone dei mieimovimenti,equestomisembrava già un belpasso avanti verso lacompleta libertà: nonavevo nessunaintenzione di perderequell’occasionerischiando diprendermi una fucilataallegambe.Ci fermammo e la
lanterna illuminò una
minuscola capanna inmezzo agli alberi. Erafatta di un compattograticcio di rami, ericoperta da unospesso tetto di canne.Mi spinsero verso lapiccola entrata buia eunodiloromidissecondurezza: «Tu ora staiqui. Potrai trovare delcibo nelle vicinanze.Ma bada che se tivedremo in giro ti
spareremo come a unabestia selvatica, o tiaizzeremo contro icani!». E di botto micolpì con la canna delfucile, facendomivolare nell’oscuritàdella capanna, doveper un po’ rimasi aterra, senza fiato eincapace di muovermia causa del colpo.Quando mi rialzai laluce della lanterna
stava già scomparendoinfondoallaradura.Feci qualche passo
brancolando nel buio,ma indietreggiaiimprovvisamenteperlospaventoquandolamiamano toccò unamassapelosachesimuoveva.Udiiungridoaffannosoe soffocato, e mi resiconto che quellacreaturadovevaessereancora più spaventata
di me; poi si sentì unfortefrusciodipagliaodi foglie secche equalcosa di grossoinciampò nelle miegambe, nel goffotentativo disquagliarsela versol’uscita.Loagguantaiemi ritrovai a stringeretralemaniunuomo.Crollò debolmente a
terra, singhiozzando emormorando qualcosa
con una voce cosìbassa e così rotta chenon avrei saputo direse quelle chepronunciava fosseroparole, o soltanto ipochi suoni deformatiche riuscivano aemettereglischiavidelConte. Poi, quando lotiraisutenendolosottole ascelle, si fece piùcalmoeriusciiacapirecheparlavafrancese.
Sebbene tremasse egemesse ancoraimpaurito, mi permisedi passargli le manisulla testa e sul corpo.Aveva la barba e icapelli lunghi eindossavalostessotipodi indumenti in fintapelle che portavoanche io.Eraunuomobasso e, mi sembrò,parecchio più vecchiodi me. Mentre cercavo
di fare il possibile perrassicurarlo nel miopessimo francese, lofeci sedere accanto ame, su un mucchio dipaglia asciutta chetrovai a tentoni sulfondo della capanna.Alla fine sembrò averacquistato abbastanzafiducia, perché iniziò asua volta a tastarmitimidamente il viso e ivestiti, emi chiese chi
fossi. Gli risposirapidamente che eroun inglese scappatodaun campo di prigionia,e che durante la fugami ero imbattuto nellabarriera di raggiintorno alla foresta diHackelnberg;poi,dopoessere stato sottopostoal trattamento deldottore, ero statolasciato libero nellaforesta per ordine del
Conte vonHackelnberg. A sentirequel nome l’uomorabbrividì ed emise unprofondolamento.«Ti uccideranno» mi
disse,quasi in lacrime.«Ti uccideranno. Ciuccideranno tutti. Micacciano da un postoall’altro. Mi caccianosenza tregua. Nonposso dormire. Stodiventando pazzo!». E
ripetè la parola«pazzo» una decina divolte, finché la suavoce non si trasformòinungridoditerroreedi disperazione che misconvolse.Ben presto mi
convinsichel’uomoerarealmente prossimoallapazzia,terrorizzatoda qualcosa di cosìabominevole che nonriuscii in nessun modo
a farglielo descrivere.Tentai di calmarlochiedendogli diraccontarmi la suastoria,manon riuscivaa pensare ad altro chea quell’orrore che loperseguitavacacciandolo nellaforesta. Sobbalzavacome un animaleselvatico al minimorumoretraglialberi;avolte mi zittiva,
tratteneva il respiro, erestava tutto teso inascolto dei più lievi eimpercettibili rumorilontani.Riuscii solo a capire
che era una personaistruita –probabilmente unoscrittore, perché,piagnucolandocomeunbambino che tenta digiustificare unamalefatta per cui è
stato picchiato,farfugliava parolesconnesse a propositodi certe lettere oarticoli che avevascritto,accozzandoallarinfusa una serie dinomi tedeschi malpronunciati e dicendointonolamentoso:«Hofatto soltanto quelloche mi hanno dettoloro.Iononsapevochefosse sbagliato. Perché
mi puniscono? Perchénon mi lascianoritrattare? Lo sannoche non l’avrei maiscrittoseavessisaputoche non andava bene.Mi hanno ingannato diproposito, lo hannofatto apposta pertorturarmi, peruccidermi e poi rideredi me. Dio mio! Miuccideranno per purodivertimento!».
Credodiaverpassatometàdellanottesedutosulla paglia accanto aquel povero pazzo, oratentandodiconfortarlo,ora cercando distrappargli qualcosa dipiù preciso su quellocheloterrorizzavacosìtanto;eppureDiosasenonavevovistoanch’iolamiapartediorroriaHackelnberg, e potevoben immaginarne altri
in grado di farammattire chiunque.Sentivo chequell’uomo, oltre atrovarsi inunostatoditremenda tensionenervosa, eramortalmente stanco;maquandoglichiedevoche cosa faceva neiboschi durante ilgiorno,dovetrovavadamangiare e se quellacapanna era il suo
abitualerifugio,luinonrispondeva oborbottava a bassavoce,conunaspeciedifolle ed egoisticafurbizia,chenonmeloavrebbe detto pertimorechelotradissi.Avevofame,manella
capanna non c’eraniente da mangiare;eroanchestanco,eallafine, rendendomicontoche più di tanto non
avrei potuto aiutarequell’uomo, né lui me,e pensando che da luinon avevo niente datemere,midistesisullapaglia e miaddormentai.Ilsolemisvegliòemi
ritrovai solo. Fuori laforesta era unameraviglia di verde eoro, fresca, gaia eincantevole.Guardai inbasso, verso il verde
chiaro della radura,ascoltando il cantodegliuccelli;mistiraierespirai a pienipolmoni. Forse la mialibertà era solorelativa,mapermeerareale,enelchiarorediquella prima luce delgiorno, nel profumo diquegli alberi così veri,così fedeli alla loronatura e cosìserenamente e
perfettamenteubbidienti all’eternociclo della vitadell’universo, nonriuscivo a credere chele maligne perversionidella bellezza naturaleche avevo visto allaluce delle torce, ladeformazione el’umiliazione di esseriumani di cui ero statotestimone il giornoprima, fossero
anch’esse reali. Miguardai intornocercando ilmiopoverocoinquilino,ridendoframe e me dei suoiterrori,manon lo vidi.E non potei fare ameno di ridere anchedel mio aspetto: conquelle brache peloseassomigliavo a unRobinson Crusoe a cuiavessero tagliato icapelli.
Mi meravigliava cheil personale del Conteprodigasse materialicosì eccellenti per uncriminale, comeimmaginavo miconsiderassero. Nonsembravapernienteunmodo di fare nazista: inazisti non sprecavanovestiti buoni per deirifiuti umani di cuiintendevano disfarsi.Ma poi ripensai a
quanto erano ricchi edelaborati i costumidelle ragazze-selvaggina. Per quantonon riuscissi a credereche i timoridelpoveroscrittore francese dimorire di morteviolenta fosserogiustificati, nondubitavo che entrambifossimo destinati adavere un ruolo inqualche bizzarra
battuta di caccia delConte.Poco distante da lì
sentii un lievemormorio di acquacorrente. Accelerai ilpasso avanzando inmezzo ai cespugli, epresiascendereperunpendio alberato indirezione di quelsuono. In una distesaombreggiatadafaggiecon scarso sottobosco,
un piccolo, limpidotorrente veniva giùscrosciando fra lerocce e si riversava inun’invitante conca colfondo di sabbia eciottoli. Ma prima chepotessi raggiungerlo,un’esplosione difuribondilatratimifecetornare con un balzosulpendio,esbirciandofra i cespugli vidialcuni guardiani con
unacoppiadialani,chetrafficavano vicino auna specie dirudimentale tavolopoco più giù dellaghetto. Uno di lorostava guardando nellamia direzione e, senzaalcun preavviso, alzò ilfucile e fece fuoco.Istintivamente,vedendo quelmovimento,abbassailatesta e sentii il piccolo
proiettile passare inmezzoai ramisopradime. Stando curvotornaidicorsaversolacapanna, e non miavventurai a scenderedi nuovo finché nonsentii che quei caniringhiosi venivanotrascinati via lontanonel bosco. Allora mimossi con grandecautela, rimanendoancora in ascolto e
guardandomi intornocon circospezioneprima di abbandonareilriparodeicespugli.Su quel tavolo
rudimentale avevanolasciatounaquantitàdicibo: pane, formaggio,patate,verdurecrudeemele. Avevo fame edero già sul punto diafferrare una fetta dipane, quando unimprovviso sospetto,
come un rivolo diacqua gelida sullaschiena, mi fecerabbrividire, e miprecipitai di nuovo alriparo.Esemiavevanoattirato allo scopertoperfornireaiguardianiunbersagliopiùfacile?Percircaun’orarimasiappostato fra icespugli, affamato, masenzaavere ilcoraggiodi avvicinarmi al
tavolo. Con unasemplice minacciaerano riusciti atrasformarmi in unacreatura selvatica. Inrealtà devo confessarechenoneradeglispario dei cani che avevopiù paura, ma delrischio di ritrovarmicon delle ferite chepotessero mettere arepentaglio le miepossibilità di fuga. In
ognicasoilrisultatofulo stesso: chiamalavigliaccheria oprudenza, fattostacherimasi ad aspettare,con la pazienza di unanimale, finchénon fuiassolutamente sicuroche il terreno fossesgombro.Allafinecorsigiù, bevvi in fretta,arraffai più provvisteche potevo e battei inritirata. Non tornai
però alla capanna, matrovai uno spiazzoerboso da dove potevoavere una buonavisuale mentremangiavo.Questa era
l’amarezza della miacosiddetta libertà:sapere di essere statoliberato soltanto perqualche crudelepassatempo del Conte,ma ignorando quale
forma esso avrebbeassunto e da qualegeneredi inganno o ditrappola avrei dovutoguardarmi. La foresta,ai miei occhi, era piùbella del paradiso, manon ne traevo alcunpiacere, perché tutti imiei sensi eranoperennemente tesi acogliere i segni di unpericolo che potevaminacciarmi.
Nonostante tuttoavevo uno scopo. Milusingavo di esserefatto di una pastadifferente rispetto aquel francese con inervi a pezzi. Non chemi piaccia farmisparare, ma ero statoinguerraeavevovistocosebenpeggioridiunpallettone da cacciache ti sfrecciasopra latesta.Così,sentendomi
molto più in forzegrazie a quello cheavevo mangiato, mimisi incamminoper lamiaprimaricognizione.La foresta non era
così selvaggia eintricata come miaspettavo e, adeccezione di qualchezonapiùfitta,sivedevadamolti indizi che eraben curata: ilsottobosco era stato
sfoltito, gli albericaduti erano statisegati e accatastatilungo i sentieri, el’erba veniva tenutacorta. A parte la suavastità, la foresta diHackelnbergnonavevanulladidiversodaunodi quei boschi cheabitualmentesitrovanonelle tenute dicampagna inglesi, eaveva anche quella
stessa aria discreta edesclusiva.Per tutta la mattina
non vidi anima viva,eccetto qualcheuccellino e un paio discoiattoli. Anchequestomistupì,mapoipensaiacomesiusavacacciare in quel luogo.Gli ospiti di vonHackelnberg volevanobersagli facili, senza leincertezze della caccia
ai cervi selvatici, cheandavano stanati ebraccati. Eppure avevoudito il Conte inpersonacavalcarenellanotte e suonare il suocorno nella foresta.Quale preda stava maiinseguendo sotto lalucedellaluna?Adessopensavo di conoscerela risposta a questadomanda, e calcolai aocchioleorecheilsole
aveva ancora dapercorrere prima ditramontare.Doveva essere più o
menometà pomeriggioquando raggiunsi labarriera. Avevocosteggiato un terrenobrullo leggermenteondulato e circondatodipini,emierotenutoal riparo degli alberi,dirigendomi verso untratto di bosco.
Arrivato all’estremitàdi quella cintura dipini, vidi un grandeprato di erba bassa,che disegnavaun’ampia curva adestra e a sinistra.C’erano almenoduecento metri senzaun riparo in grado dinasconderequalcosadipiùgrossodiunavolpe,ma quello che subitoattiròlamiaattenzione
fu una specie di altatorretta di guardia inlegno che stava alcentro della zonaaperta, a quattro ocinquecento metri didistanza da me. Laparte più alta dellatorre era chiusa, percui non potevo vederese era occupata, madentrodimeerosicuroche ci fossero binocolie mirini puntati a
sorvegliare quellospazio.Labarriera,dipersé,
sembrava ridicolmenteinadeguata: un’unicafila di pioli d’acciaiososteneva tre sottili filimetallici cheluccicavano al sole.Strisciai sul ventrecercando diavvicinarmi il piùpossibile,approfittandodegli arbusti che
crescevano per untratto oltre i pini. Nonsembrava affatto filospinato, e alla luce delgiorno non riuscivo adistinguere quellostrano flusso luminosoche avevo visto, ocreduto di vedere, nelchiarore lunare la serache ero arrivato aHackelnberg.Continuaiastrisciare
avanzando ancora di
qualche centimetro e,sentendomi muovere,unacoppiadifagianisialzò dai cespugli conun frullio d’ali a unpaio di metri didistanzadame.Rimasia guardarli mentre siallontanavano indirezione di quell’altrazona boscosa, chestava al di là dellabarriera. Il maschiovolavaalto,lafemmina
molto più bassa, e miresi conto che, se nonavessecambiato subitorotta, a malapenaavrebbe evitato il filometallico più alto, chestava a circa tremetrida terra. Ma si alzòleggermente, e alloracapiicheloavevavistoe che si apprestava asuperarlo.Improvvisamente peròcaddeaterrastecchita,
come se fosse statacolpita in pieno da uncalibro dodici. Sentii iltonfodelsuocorpochesbatteva sul terrenoduro e brullo, ai piedidella barriera. Eppuregiurerei chenonavevatoccato il filo; eracaduta ad almenomezzo metro didistanza, ne ero certo,e poi, se lo avessetoccato – un grande
uccello come quello,chevolavaancheaunadiscreta velocità –,avrei visto il filovibrare, perché era diunmaterialeluccicantee ben visibile. Dettiun’occhiata alla torredi guardia, per vederese ci fosse qualcheindiziochel’uccelloerastatoavvistatodalì,manullasimosse.Proseguii la mia
esplorazionedirigendomiasinistraemantenendomi vicinoai cespugli checosteggiavano il bosco.In certi punti potevoavvicinarmi di piùrimanendo al coperto,e da lì vidi che pertuttalalunghezzadellabarriera, da ciascunlato del filo più basso,una striscia di terrenolarga circa mezzo
metro eracompletamente brulla.Qua e là, su questazona di terra indurita,priva di vegetazione,notai dei ciuffetti dipelliccia e di piume:erano i resti degliuccelli o degli altripiccoli animali cheavevano tentato dioltrepassarla.Circa mezzo miglio
più avanti avvistai
un’altra torre di legno,e non era difficilepresumere che ce nefossero a intervalliregolari lungo tutto ilperimetro, in modo datenere sempre sottocontrollo l’interabarriera. Se così nonfosse stato, ragionai,era chiaro che nonavreimaipotutoesserelì, ancora vivo, aosservarla dall’interno.
Rimasinascostoancoraper un po’, riflettendosu quello che avevovisto e traendonealcune conclusioni.Adesso pensavo diavere la provadell’effettiva portatadei raggi Bohlen, chesupponevo fosserocondotti ed emessi daicavi metallici. Se ilraggiod’azionedi ognifilo era effettivamente
di mezzo metro, allorala barriera costituivaunostacololetalediunmetro di larghezza perquattro di altezza, el’unico modo persuperarla,evidentemente,sarebbe stato untunnel. Che il terrenononpotessefungeredaconduttore, altro cheperunabrevedistanza,mi sembrava
dimostrato dal fattoche appena al di là diquel mezzo metrol’erba cresceva folta erigogliosa. Ma se nonmi ero mai potutoavvicinare a meno diquaranta metri, avreiavuto il tempo discavare, da solo e conqualche attrezzofabbricato da me, untunnel lungo più dicinquantametri?
Mi rimisi moltopresto in camminoverso la capanna.All’andata avevolasciatosulsentierounbel po’ di tracce,facendo delle tacchesuitronchideglialberi,o segnando con unapietra le zone di terrabattuta, e così,malgrado qualcheabbaglio, raggiunsi lamia radura prima che
facesse buio. Avevoriflettuto sullepossibilità di sfuggireagliorribilipianiche ilConte aveva in serboper me, quali chefossero, e avevoconsideratol’eventualità di seguirel’esempio del francese– cambiando cioècontinuamente il luogoin cui avrei dormito.Maqualcosadiistintivo
– chiamalo orgoglio oostinazione – sirivoltava dentro di meall’idea di lasciarmibraccare come unanimale, di correrecome un gattoinseguitodauncane,edi procurare loroproprio il divertimentoche cercavano. Sefossero venuti atormentarmi,alloraerameglio farmi trovare
nella mia tana ecombatterli da lì.Desideravodisperatamente lalibertà, ma quello chedavveromispaventava,più che una lottaimpari, era l’idea diridurmi a un relittoterrorizzato e follecomequelfrancese.Così tornai indietro,
scendendocoraggiosamente fino
al tavolo, senza vederené sentire nessuno, edivoraileprovvistechec’erano, portandomidietro quello cherestava. Poi, arrivatoalla capanna, raccolsidei rami lunghiedrittie tentai di fissarli inmodo da formare unrozzo graticcio chebloccavalaporta;certonon potevano resisterea un assalto, ma
almeno, spezzandosi,mi avrebbero svegliatose qualcuno avessecercato di entrare.Infine, dopo averappoggiato vicino almio giaciglio il ramopiùgrossocheriusciiatrovare e una pietrabella pesante, misdraiai.Fuunanottedifficile.
Malgrado la lungacamminata non
riuscivo a dormire.Tutte le paure chedurante il giorno eroriuscito a tenere sottocontrollo con le mieoccupazioni orariesploserosenzafreni,e l’incessante frusciodella foresta, i suoisussurriescalpiccii,neerano il sottofondoideale. La miaimmaginazioneinterpretava anche i
suoni più riconoscibili,come il grido dellecivette, trasformandolinelle voci di quelleabominevoli creatureche von Hackelnbergteneva dentro le suegabbie; sentivo loscalpiccio di qualchepiccolo animale inmezzo alle fogliesecche del boschetto emi immaginavo iragazzi-babbuinochesi
aggiravano intornoallamiacapanna.Ma non era frutto
della miaimmaginazione quellochemi fecescattare inpiedi poco primadell’alba, con gli occhifissisulgrigioriquadrodella porta e leorecchie tese adascoltareunsuonochesi ripeteva: eral’inconfondibile suono
del corno del Conte,molto in lontananza,chesiprotraevainunalungaeperentorianotaconclusiva,quelladiuncacciatore cherichiamaisuoicaniallafinedellagiornata.Erastata una notte senzanuvole, e con la lunaquasi piena cavalcarenella foresta dovevaessere stato facile.L’aria fredda dell’alba
si insinuava nellefessure delle pareti erabbrividii.Quandoilsolefualto
fecidelmiomeglioperscrollarmi di dossoquella sensazione ditorpore e impotenza. Imieipianieranoancoramolto vaghi; avevosoltanto qualchegenerica idea che nonosavo mettere allaprova dei fatti, quei
pochi che conoscevo,per paura discoraggiarmi del tutto.Perciò mi limitai adarmi come obiettivoquello di procurarmiun’arma o un qualcheattrezzo,epertrovarloil metodo migliore misembrava provare aelemosinarlo daqualcunodelpersonaledel dottore, oppurerubarglielo. Non
riuscivo a credere chele infermiere che sierano prese cura cosìbene di me fosserotanto spietate e cosìmeccanicamenteligieeasservite come ildottore si vantava chefossero.Aspettai al riparodei
cespugli finché iguardiani non ebberolasciatosultavolodellenuove provviste: allora
presi una piccolapagnotta e delle melecome razione di ciboperlagiornataemeleinfilai sotto la maglia,poimimisiincamminoper ritrovare la stradache conducevaall’ospedale. Fu untragitto lungo efaticoso, e non senzamomenti di paura.Evitavo ogni pista osentiero che potesse
condurmi direttamentealloSchloss,maspessosentivo delle comitivemuoversi nellevicinanze; sentivo levoci dei guardiani e loscalpitio dei cavalli, euna volta dovettirestarmene disteso,immobile come unastatua, in mezzoall’erba alta in cima aun pendio. Poco al disotto, un gruppo
procedeva a passolento lungo il letto diun torrente con duesegugi tenuti alguinzaglio, quattroragazzi-babbuino chetrotterellavano con leloro reti davanti aiguardiani, mentre unacoppia di forestali, coninmanoquei fucili chesparavano filamenti,vigilava formando laretroguardia.
Poco dopomezzogiorno cominciaia intravedere fra glialberi alcuni edificidelloSchlosse,tirandoa indovinare sulladirezione da seguire,mi aprii un varcoavanzandoazigzagnelbosco. Fu per purafortuna che trovai lastrada:improvvisamente,quandoancoralacalda
luce del pomeriggiofiltrava attraverso ilfogliame, vidi in fondoa un piccolo sentiero,che passava sotto unagalleriadi rami, imuribianchi dell’ospedale equella stretta strisciadierbaemuschiodoveero solito passeggiareconleinfermiere.Ancoraunavoltanon
avevo nessun pianopreciso, ma sapevo
dove si trovava lacucina.Lamiaideaeradirestaredivedettatragli alberi e cogliere laprima occasione perintrufolarmi, e poiscappare con un’ascia,una pala, un grossocoltello, o un qualsiasialtro arnese chepotesse essermi utile.Se durante il giorno lapresenza degli schiavinon mi avesse dato la
possibilità diintrodurmi là dentroinosservato, sareirimastoappostatosottogli alberi finché nonfosseroandatia lettoepoi avrei tentato dientrare.Mentre mi aggiravo
furtivamente fra glialberi gettandoun’occhiata verso ildormitorio delleinfermiere, vidi la mia
infermiera di giornoche, seduta da sola suuna panchina di legnoappoggiata al muro,leggeva una rivista.D’impulso saltaitemerariamente fuoridai cespugli e dissi:«Salve,infermiera!».Lei balzò in piedi
gettando un gridolinotremulo, e non appenami riconobbe si tappòla bocca con il dorso
della mano. Mi fissavainorridita,eisuoiocchierano così pieni dimortale terrore che sele fossi apparso allaluce della luna,drappeggiato in unsudario,noncredochesarebbe rimasta piùimpressionata. Nondisseunaparola–ehoil sospetto che nonsentisse nemmenoquello chedicevo –ma
rimase lì,agghiacciata,con le nocche premutesulle labbra. Forseavrei dovuto provare aconvincerla che erovivo o che non volevofarle delmale,ma nonne ebbi il tempo: deipassiallemiespallemifecerovoltare,giustointempo per vedere unadelle altre infermieregirarsi e sparire dietrol’angolo dell’edificio
strillando asquarciagola.Stupidamente le corsidietro pensando diacciuffarla e impedirledi dare l’allarme, maera troppo tardi. Trerobusti schiaviscendevano già dicorsa le scale dellaveranda con dellescope in mano ecominciarono acolpirmi con violenza,
emettendo i loro versigutturalisimiliaringhi.Reagii, masopraggiunsero moltialtri schiavi armati dirandelli, emi presi deibrutti colpi alla testa,alle braccia e allespalle.Poiuna finestrasi spalancò, e con lacoda dell’occhio vidi ildottore in personaaffacciarsi, terreo involto,e incitareagran
voce gli schiavi. Gliurlai qualcosa ininglese,maluinonfecealtrocherispondermiasua volta con un gridoviolento,comeinpredaalpanico.Allorafuggii,proteggendomi la testae precipitandomi alriparodelbosco.Gli schiavi mi
inseguirono soltantofinoaiprimialberi,maio continuai a correre
ancoraunpo’primadifermarmi amassaggiare i lividi efare il punto dellasituazione. Era chiaroche quella notte nonavevo nessunapossibilità diintrufolarminell’ospedale. Ora nonsolo avrebbero chiusobene tutte le finestre,ma gli schiavisarebbero rimasti in
allerta, e non potevoescluderecheildottoreavesse già avvertito iforestalichemitrovavonelle vicinanze.Ovviamente la tenutache indossavo mifaceva identificarecome selvaggina delConte, e tutti eranoterrorizzati all’idea didarmi rifugio o disoccorrermicontravvenendo ai suoi
ordini.Approfittando delle
ultime luci del giornoripresi il cammino pertornare alla capanna,ma al sopraggiungeredella notte trovai unospiazzo di erba alta easciutta vicino a deifolti cespugli, e decisidi fermarmi lì. Simoriva di freddo, everso l’alba iniziòanche a piovere, ma
almeno non sentii ilcornodelConte.Il mattino seguente
fu la fame, credo, chemispinsearitrovarelastrada. Avevorimuginato un pianoper andare a rubaredirettamente nelloSchloss, in modo darimediare qualcosa didiverso da mettermiaddosso al posto diquelladannatalivreain
finta pelle di daino, eprocurarmi un’arma oqualche altro attrezzodai magazzini. Se solofossi riuscito a rubareuna divisa da guardiaforestale, pensavo, inun labirinto come loSchloss, con tuttaquella gente in giro,avrei potuto andare etornare più volte,approfittandodell’oscurità, senza
farmi scoprire. Maprima dovevoprocurarmi altro cibo,e quel progettoavrebbe dovutoaspettare fino allanottesuccessiva.Arrivai alla capanna
in tarda mattinata,presumendo che iguardiani avesserolasciato sul tavolovicino al torrente dellenuove provviste e che
senefosseroandativiada un pezzo. Mamentre strisciavo fra icespugli vicino allariva, scorsi qualcosache si muoveva nellatenue luce del bosco.Scostai le foglie pervedere meglio e miaccorsichenoneranoiguardiani, ma unaragazza,dasola,chesiguardava intornogirando continuamente
la testadaunaparteedall’altra, pronta ascappare via con unbalzo al minimorumore, ma intenta adivorarefamelicamentetutteleprovviste.I brandelli del suo
costume erano ancorariconoscibili, ed erosicurodiavergiàvistoquella folta chiomanera e quelle lunghegambe. Mi ricordavo
bene la battuta dicaccia a cui avevoassistitoqualchegiornoprima, con i segugi e iragazzi-babbuino, e mirallegrai enormementeal pensiero che quellagente potesse fallire, eche non avesseroancora catturatol’«uccello» che ilgrassone avevamancato al primocolpo. Era riuscita a
strapparsi la mascherada uccello e l’avevaspinta sopra la testa,dove ora il beccospiccavacomelapuntadiunelmo;siera toltale ali piumate dallebraccia e avevastaccato le pennemarroni e dorate dellacoda, anche se avevaancora addosso lastretta cintura a cuierano state fissate. Le
piume della gorgieraerano miseramenteinzaccherate e daipiedi alla vita eraimbrattata di fangosecco, come se avesseattraversato stagni epaludi.Mi scervellai per
trovare il modo dirivelare la miapresenza senzaspaventarla e farlascappare via, e arrivai
alla conclusione che lacosa migliore eramostrarmi concoraggio a una certadistanza, semprestando vicino altorrente, in modo chepotesse vedermidistintamente eassicurarsichenonerouna guardia. Così mispostai rimanendodietro i cespugli e poi,con aria noncurante
scesi verso la riva.Malei fuggì prima chepotessi arrivarci,balzando via tra glialberi proprio comeunagazzella.Scesigiùsenzafretta
e mi fermai vicino altavolo; presi un pezzodi pane e lo mangiai,continuando aguardarmi intorno. Madileinonc’eratraccia.Poi, dopo qualche
istante, gridai qualcheparola in inglese.Qualcosa si mosse inmezzoadei ramibassie frondosi, e capii chemi stava osservando.Dissi ancora qualcosain inglese, pensandoche, anche se non locapiva, il suono diquella lingua stranierasarebbe bastato aconvincerla che ero unprigioniero o uno
schiavo. Ma non ci furisposta, e non udiialtri movimenti.Guardai ancora fisso ilpunto dove le foglie sierano mosse: avevol’impressione che sifosse arrampicata suirami spioventi di ungrande faggioechesene stesse nascosta inmezzo al suo fittofogliame.Allora, senza più
pensare a qualespaventosoabissonellaStoria mi ero trovatocosìinspiegabilmenteascavalcare, o piuttostonon avendo nessunaprecisa memoria didoveequando,nelmiopassato, avessi vistoquelgesto,feciilsegno«V»conledita–sai, ilgesto di Churchill, chea quanto dicevano ipropagandisti era
molto diffusonell’Europaoccupata.Qualcosa si mosse di
nuovo tra le foglie evidi spuntare unbraccio che rispondevaal mio segno. Avanzaiancora di qualchepasso, poi mi fermaiall’estremitàdeiramiecominciai a parlarle intedesco, come megliopotevo. Le dissi chedurante la battuta
l’avevovistasfuggireaifucili e che anche ioero un prigioniero delConte. Ma fuiinterrotto da una voceferma, che mi risposeinpurissimoinglese:«Se conosci un posto
relativamente sicuro,andiamoci e parliamo.Vai,iotiseguo».Meravigliato dalla
calma e dallapadronanza della sua
voce, e stranamenteemozionato per averscoperto di dividere laforesta con una miacompatriota, ritornailentamente verso lacapanna; ma invece dientrareproseguiiversola radura dove mi erofermato a mangiare laprima mattina nellaforesta. Lì la visualeera abbastanza ampiasu tre lati, mentre sul
quarto c’era una foltaboscaglia, e davantiunagiungladi erbacceche ci avrebbe offertoun ottimo riparo peruna rapida fuga.Continuai ad avanzarenell’erba, senzaguardarmi intorno, equandomi fermaiemiaccovacciai,scopriichela ragazza si erarannicchiata proprioalle mie spalle, tanto
da essere quasicompletamentenascosta dallavegetazione. Siacquattò vicino a mecome una pernice, mavedevo soltanto la suatesta,conquelbizzarroelmoabeccod’uccello.Aveva un bel viso,lievementelentigginoso, eintelligenti occhi grigi.Aveva portato con sé
una quantità diprovviste, e mentreparlavamo continuavaa mangiare,studiandomi come pervalutarmi, conun’espressione che, alcontrario di quello chemisareiaspettato,nonsembrava néspaventata né stanca,ma piuttostocircospetta e talvolta,quando mi raccontava
le sue avventure,perfinodiffidente.La mia storia invece
doveva sembrarelacunosa e pocoplausibile: sapevo chesarebbe stato inutiletentare di spiegare – oanche solo didescrivere – quel mioincredibile balzoattraverso il tempo.Non volevo che avesseil minimo dubbio sulla
mia sanità mentale.Così le dissi solamentecheeroscappatodauncampo di prigionia,pensando che i campidi concentramentofossero ancora unadellecaratteristichedelReich. Non sembravacolpita, e in effettipensaichelacatturadiuningleseinGermaniadoveva essere per leiun avvenimento
piuttosto banale. Inogni caso mi fecealcune domande sulcampo, sul motivo percui mi ci avevanorinchiuso e sui mieicompagni, poiall’improvviso tacque,come se d’un trattocapisseerispettasse leragioni della miareticenza.Aquelpuntoavevo avuto modo diriflettere sulmio gesto
impulsivo,emistupivachequelsegnovenisseusato ancora oggi,dopo un centinaio dianni di dominazionenazista; così ledomandai cautamentecome avesse fatto ariconoscerlo.«Come,» disse con
aria sorpresa «non è ilsegno che si usavadurante l’anticaresistenza? Non ne so
molto di movimenticlandestini – non hoavuto il tempo distudiare un granchéprima che miprendessero, ma unavolta qualcuno tenneuna lezione al nostrogruppo di studio aExeter, e ci disse cheun tempo gli antichipartigiani siscambiavano quelsegno durante i
disordini, sai, dopol’invasione del ’45.Probabilmente stava aindicare la tacca delmirino nei vecchi fucilidi allora. Non sapevoche i Compagni lousassero ancora, maquandotihovistofarloho creduto che fossianchetuunodiloro».Mentre parlava del
suo«gruppodistudio»con quell’aria tutta
seria, sembravaproprio una ragazzina.Alternava improvvisislanci di confidenza adaltrettantoimprovvisiemisteriosi riferimenti oallusioniacertesigle–iniziali, suppongo, chedovevano indicarequalcheorganizzazionepatriottica clandestina.Mi parvedi capire cheanche dopo un secolodidittaturagermanica,
la resistenza inInghilterra era ancoraviva, per lomeno tra igiovani o gli studentiuniversitari come lei.Ormai non sembravapiù trattarsi di unaresistenza armata, masolo di calcolatedivergenze su sottiliquestionidottrinaliediteoria del partito –sottigliezze che per leidovevano avere
un’importanzacruciale,ma che a mesembravano pedantiquanto le dispute deiteologi medioevali.Eppure, riflettevo, nelMedioevo similidivergenzedall’ortodossiareligiosa portavano alrogo. Certo, queiragazzi non avevanodovuto combatterecomeme il nazismosu
unanavedaguerra,mala loro era pur sempreunabattaglia,anchesesi trattava soltanto didistorcere uno slogandelpartitoaunradunostudentesco. Anzi,avevano bisogno dimolto più coraggio,perché in fondo io e imiei commilitonieravamo liberi,combattenti addestraticon una potente
nazione alle spalle, e irischi erano gli stessi:non solo la morte, matutte le torture e lenefandezze che unassolutismo depravatocome quello potevasceglierediinfliggere.Le chiesi come fosse
arrivataaHackelnberge lei scrollò le spalle:«Come al solito,immagino:un’imprudenza e un
delatore. Sono statafortunata, comunque,perché non avevanoprove decisive controdi me. Così mi hannospedita in una dellegrandi scuole dirieducazione dellaPrussia orientale. Sai,quel genere di postidove addestrano gliufficiali delle leghegiovanili. È là chemandano i dissidenti
stranieri –vogliodire inordici, naturalmente.Ritengonoche il nuovoclima mentale possapurificare il loropensiero dall’errore.Inoltre i cadetti nazistihanno sempre bisognodimateriale nuovo peresercitarsinell’artedelcomando–esonofelicidi disporre di ribelliariani, soprattutto sesonoragazze».
«Ma come sei finitanelle mani di vonHackelnberg?»domandai.«Sono fuggita dalla
scuola» rispose concalma.«Ehosbagliato,lo so. La linea deiCompagni è che sefinisci in una scuola dirieducazione deviadattarti e impararetutti i trucchi delmestiere, in modo da
passare per unautentico nazista e, altuo ritorno, poterlavoraretranquillamente sottocopertura. Ma era uninferno.Non riuscivoaresistere. Così sonofuggita e,naturalmente, mihannopresa.Sescappiti classificano come“pernicioso”, e questosignifica che vieni
arruolato in un istitutodel Reich e sottopostoalla stessa disciplinadegli Stücke8 di razzainferiore. Ecco comesono finitaqui.Maorabasta parlare di me. Ilpunto è, che cosapossiamo fare per te?Sei in una situazionemolto peggiore dellamia».Le dissi che secondo
me eravamo più omeno nella stessabarca.«Oh,no!»rispose lei,
con quel senso praticoe quella categoricitàtipica della giovinezza.«Io per loro sono unaproprietà di valore, tusei solo un criminale –un elemento daliquidare. Non soesattamente che cosane faccia il Gran
Maestro delle Forestedei criminali che gliportano,masonocertacheèqualcosadi lentoe disgustoso. Quantosei riuscitoa vedere làdentro?».Glieloraccontai.Leiannuì.«Iononho
maivistoquelledonne-gatto,mamenehannoparlato. E soprattuttole ho sentite. Devonoessere quelle operate,
immagino». E lanaturalezza del suotonomiturbòpiùdellesue parole.L’asportazionechirurgica da un corpoperfettamente integrodi quell’elemento chegliconferiscelalucediun’animaumanaperleinon sembrava unafantasia da incubo,mapuraroutine.«Sono qui da sei
mesi» mi disse. «Sonouna Jagdstück – unaragazza-selvaggina,riservataespressamente aqueste battute dicaccia. Solo lemigliorivelociste vengonoscelte: siamo un’interacollezione, sia arianeche di razza inferiore.E non è poi cosìmale,tra una battuta el’altra. A loro modo i
forestali non sono cosìcattivi, fino a quandonon inizia la caccia.Allora sono i cani aterrorizzarti; dentro dite sai chenondovresticorrere; ma quando teli senti alle calcagnanon riesci più acontrollare la paura. Esai che se non corri iforestali tilascerebbero prendere,perché non saresti più
di alcuna utilità ai finidel divertimento efarebbero di te unospauracchio per lealtre. Alla fine anche ipiù buoni tra lorofiniscono per perderela testa quando tidanno la caccia. Sonostata cacciata in moltimodi, e a volte hannoospiti molto piùesigenti di questacomitiva del Gauleiter.
Cosìliportanoacacciadi cervi selvatici nellaparte più esterna dellaforesta, e qui, perdivertirsi, organizzanouna finta caccia alcervo. Ti lascianolibero un giorno primaepoiinizianoaseguirele tue tracce con isegugi. Cerchi dinasconderti nei luoghipiù impenetrabili, mauna volta che i segugi
tiscovano,echequellebestie feroci vengonosguinzagliate,naturalmente non puoifare altro che uscirealloscopertoemettertiacorrere.Aquelpuntotisparanoaddossounaspeciedipiccolodardoche ti si conficca nellacarne e a cui èattaccato un lungo filocolorato, che glipermette di capire chi
ti ha colpito. È perquesto che ti rivestonodi quella strana pelleresistente, come fossiun cervo, e ti lascianonudo solo là dove idardi ti siconficcheranno dentrosenza lasciare dannipermanenti. Quellecose bruciano daimpazzire e non puoitoglierle senzafermarti; ma poi,
appena vedono che seistato colpito, liberanole bestie da riporto – iragazzi-scimmia – perprendertielegarti.Èinquel momento che haipiù probabilità discappare: devonocolpirti nel puntogiusto, perché i dardinon riescono apenetrare la fintapelledidaino,esenonèunbuon tiro non
sguinzagliano lescimmie. Sono statacacciata tre volte inquel modo, e due diqueste sono riuscita afuggire».«E dopo vengono a
prenderti?» chiesi, e leraccontai della battutadi caccia a cui avevoassistito,conisegugieiragazzi-babbuino.«Oh, sì, certo»
risposecomeseniente
fosse. «Ieri mi hannoinseguita per quasitutta la giornata,ma liho seminati nellepaludi.Ovviamenteallafine mi prenderanno,perché sorvegliano itavoli con le provviste,ma a quel punto avrògiàunbelvantaggio».«Manonhaipauradi
quello che ti farannoquando ti avrannopresa?».
«Non mi fannoniente.Èvero,lascianoche le scimmie se laspassino un po’, ed èripugnante. Ma non tipuniscono per esserefuggita – dopotutto èquesto che vogliono.Per loro non c’èdivertimento se tiarrendi».«E se invece ti rifiuti
difuggire?».«Allora i cani ti
sbranano» rispose conuna sorta di calmarassegnazione. «Mauna volta che ti hannobeccatoconunodiqueidardi,faraidituttoperschivarli la voltasuccessiva, perché cimettono dentroqualcosa per farti piùmale».Restammo lì,
accucciati nell’erbaalta, per gran parte di
quella calda e assolatamattinata, e ascoltarequella gradevole vocedi ragazza che parlavala mia stessa lingua,con quello stranomiscuglio di ingenuitàe saggezza, e quellaserena accettazionedelle circostanze piùincredibili,fupermelacosa più strabiliante.Dopo un po’ mi resiconto che si era
convinta che avevofatto parte diun’organizzazionedellaresistenza inglese:c’era una specie dideferenzanelsuotono,quasi di ammirazione,quando accennava almio«lavoro»–comeseio fossi stato unveterano dell’attivitàclandestina, mentre leisolo una principiante.Spesso mi chiamava
«Compagno», e conun’aria così solenne,che pensai che quellaparola doveva essereunaformulaconsacratatra i membri dellaresistenza, e presto,rivolgendomia lei, finiiper usarla anch’io,notando quanto questolefacessepiacere.«Ma che cosa si può
fareperte?»ripeté.«Prestofuggirò»dissi
fiducioso.«Ahsì?Ecome?».«Attraverso la
barriera».Scosse la testa con
grande serietà. «Èimpossibile.Ècaricadiraggi Bohlen, lo sai,basta toccarla e seispacciato. Ne hoparlato con le altreariane “perniciose”.Una di loro a cuiavevano dato la caccia
eraterrorizzataall’ideadi essere ripresa, ediceva che sel’avessero cacciataun’altra volta sarebbecorsa dritta verso labarrieraecisisarebbelanciata contro peruccidersi. Be’, fumandatadinuovofuoricome cerva, c’eroanch’io. Si nascosevicinoallabarriera,mala trovarono e fu
colpitanonappenauscìallo scoperto. Hoassistito a tutta lascena: corse drittaverso la barriera, ma iraggi non la uccisero,non subito, almeno. Lavidicadereaterraelasentiiurlaredaldolore.Quello che fanno, inquesticasi,èspegnerlidalle torri di guardia,sequalcosadigrossocifinisce in mezzo. Così
andaronoaprenderlaela riportarono dentro.Immagino che siamorta per le ustioni,perché non l’abbiamomaipiùvista».Le raccontai la mia
esperienza con i raggi,poi le spiegai: «Ma ionon ho intenzione dioltrepassare labarriera, lamia idea èdi scavare un tunnel».Mi guardò perplessa e
così mi misi a parlaredell’arte dello scavo,come la intendono iprigionieri di guerra.Restò ad ascoltarmicon attenzione, manotòsubito idifettidelmiopiano.«Ci vorrebbe troppo
tempo,» disse «anchein due. Non tilascerannomai inpaceabbastanzaalungo».«Ma dovranno pur
esserci altri criminalinella foresta oltreme»replicai, raccontandoledel francese. A quantosembrava lui erarimasto libero per unbel po’, quindi sapevadovenascondersi.Chinò la testa, finché
il suo viso fucompletamentenascosto dall’erba.«Nonso,»disseavocebassa e con tono
esitante «penso disapere cosa gli siacapitato. Ho sentito ilsuonodelcorno...».«Be’,»dissi«iofaccio
un tentativo. Ora lacosa importante èprocurarsi degliattrezzi. Tu qui sei piùpraticadime, saidovetengonolevanghe?».Allora, vedendomi
così determinato epieno di coraggio,
accettò l’idea conentusiasmo e cominciòtutta eccitata apianificare comeavremmo potutoprocurarci qualchearnese. Sapeva dovetrovarli, dichiarò: alpadiglione Kranichfels.Era lì che tenevanogliattrezzi gli uomini chesorvegliavano gliappostamenti.Esapevacome arrivarci, perché
quando venivapreparata una battuta,le ragazze-selvagginavenivano tenute là.Così le proposi diandare insieme quellanotte a vedere cosapotevorubare.«No, no!» esclamò.
«Ci vado io! Tiscoprirebbero subito,vestito così. Io possoentrare al crepuscolosenza che se ne
accorgano. Ci sonodelleschiavelì,epossopassareperunadiloro.Dammi solo una manoa liberarmi di questacosachehointesta».Le diverse parti dei
costumi delle ragazze-selvagginaeranocucitecosì strette sui lorocorpichenonpotevanoliberarsene da sé,senza almeno un paiodi forbici o un coltello.
Andai in giro allaricercadiqualcosaconcui aiutarmi e trovaidue pietre. Ne spezzaiunainmodocheavesseunbordoaffilato,econquella tagliai lacucitura che tenevaattaccata la mascheraalla gorgiera. Ora chepotevo osservarla davicino, la fatturaperfettae lasoliditàdiquel costume mi
lasciaronostupefatto.«Ah, maledetta
precisione tedesca!»esclamò lei condisprezzo, e buttò lamaschera fra icespugli.«Èincredibilequantosidianodafareperché ogni minimodettaglio sia perfetto.Quei guardacacciasono dei monomaniaci,e quello che li rendeveramente disumani è
la loro impossibilità dicapire che tu sei unessere umano: tistannointornoperore,affinché il tuo costumesia esattamente quelloche ci vuole per laparte che ti hannoaffibbiato in uno deiloro spettacoli, eppuresenti chenonhanno lapiù pallida idea di chihannodifronte».Avevaintornoalcollo
una catenina d’acciaiocon una targhettanumerata.Lagirai,manon c’era un nome,soltanto delle lettere eunnumero.Lemieditasfioravano la pellemorbida e calda delsuo collo, e mentreparlava non potei farea meno di notare lariluttanza, il profondorisentimento che c’eraneltonodellasuavoce;
era ancora unabambina ed era statabrutalmente arrestataproprio all’inizio diquel cammino chel’avrebbe condottanella sconfinataregione dell’amore,della comprensione edella libertà fra esseriumani. Il corso dellasua vita era statodeviato verso questisentieri angusti e
contorti. Eppure erariuscita a conservareun meravigliosoequilibrio e uno spiritoindomito. Non potevosmetterediammirareilsuo coraggio e il suosangue freddo, maquello che più micommuovevae insiememi servivadaesempio,quello che mi dava dinuovo speranza emotivazione, erano la
suafreschezzaelasuainnocenza in quelmondo pervertito. Eracome uno di queibellissimi alberi dellaforestadiHackelnberg,che il Gran MaestrodelleForeste,contuttalasuafolleingegnosità,non poteva costringerea crescere tradendo laproprianatura.Vedi, fino a quel
momento mi ero
imposto di frenare lemie elucubrazioni e diconcentrarmiesclusivamente sucome superare labarriera;maaunacosanonosavopensare,unacosa che per tutto iltempo avevacontinuato a gravaresullamiaanima:quellospaventoso mondo dischiavi cheimmaginavo di trovare
fuori dalla barriera diHackelnberg. Ma orasapevo che là fuoriesisteva ancoraqualcosa di vero,qualcosadelcoraggioedell’orgoglio cheavevano fatto l’anticagloria dell’umanità.L’essenziale era uscireda Hackelnberg; egiurai ame stesso chesaremmo fuggiti e cheavremmo ritrovato i
suoicompagni.Continuavoagiraree
rigirare quellapiastrina tra le dita,mentre lei era rimastaconlatestaall’indietroe il mento sollevato,lasciandosiaccarezzareilcolloconunasortadiquieto e fiduciosostupore.«Non c’è nessun
nome, qui sopra» ledissi, ed ebbi la netta
sensazione che nellamia voce avessericonosciuto isentimenticheprovavoperlei.«MichiamoChristine
North,» disse «ma acasa mi hanno semprechiamataKit».Be’, non restammo
insiemepermolto:soloun giorno, dal mattinofino a notte inoltrata,una lunga giornata
estiva. La più lungadella mia vita. Ora mirendo conto di nonaver mai conosciutonessuno così benecome Kit; e so che seincominciassi araccontare ogniminimo dettaglio chemi rimase impresso eche amai di quellagiornata, non arrivereimai alla fine, anche sepassassi il resto della
vitaasetacciarelamiamemoria. L’immaginedi quella forestaintricataepienadiluceè ancora così vividanella mia mente chepotrei ricordareesattamentelapiegadiogni filo d’erba, laforma di ogni foglia edi ogni ago di pino,ogniarabescodiluceeombra,ognimaggiolinoeognifarfallasucuisi
posarono i miei occhiquel giorno; riescoancora a sentire nellenarici il profumo dellaterra, dell’erba e deipini; e nelle orecchieho ancora il cantoestivo degli insetti. Ec’era qualcosa diveramenterarointuttoquesto, che nonapparteneva né al suotempo né al mio,qualcosa di simile alla
dolcemagia che rendecosìluminosoilricordodi una giornata estivadiquandoeribambino.Lo splendore e lagrazia di quell’etàperduta, quando vivevie giocavi protetto, alsicurodaognipericoloe preoccupazione,libero di dedicartianima e corpo alleincomparabilimeravigliedellanatura
cheticircondava.Vagammo per
Hackelnberg come dueinnamorati che si sonoritrovati in una forestaincantata. A ciascunodi noi l’immediatopassato apparivaremoto e irreale, comeun orrendo sortilegioche i raggi mattutinidel sole avesserospezzato. Hans vonHackelnberg sembrava
l’orco di una favola, enoicicredevamosoloametà – solo quel tantoche bastava a renderepiù eccitante la nostraavventura. E ridevamoe facevamo progettiperlanostrafugacomesefosseungioco.Smettemmo per quel
giorno di credereall’esistenza di undomani; era tale lanostra gioia nello
scoprire il piacere chetraevamo l’unodall’altra, tale lostupore per la vastitàdiquelnuovoterritorioche avevamo appenascoperto; el’eccitazione diesplorare ogni angolodeinostricuoriappenanatieracosìviolentaeinsieme così dolce checi sembrava dipossederedentrodinoi
tutto ciò che di vero edi importante esistevaal mondo: noi soli,mentre vagavamo inquella mirabile e gaiaforestaestiva,eravamoilmondo.Per tutto il giorno
non vedemmo animaviva, né sentimmo ilsuono di una voce ol’abbaiarediuncane.Ilnostro impenetrabileisolamento ci dava un
tale senso di sicurezzache ce ne andavamo azonzo spensierati perquei sentieri erbosi,senza fretta, manonellamano,fermandociascherzareeagiocareogni volta che ciimbattevamo in unaradura.Passammocosìil resto della giornata,chiacchierando,giocando epasseggiando senza
meta,maapomeriggioinoltrato iniziammo aspostarci in direzionedi Kranichfels. Cifermammo araccogliere mirtilliselvatici in dellevallette boscose checonosceva Kit, erestammo un po’ lì, inmezzo a quei cespugliche ci arrivavano finoalla vita, mangiandomirtilli e ridendo delle
nostre labbramacchiatediviola.Poco prima del
tramonto arrivammodavanti a certe roccecalcaree che siaffacciavano su unruscello che andava aformare un piccolobacino. Ciarrampicammo e cisedemmo su unasporgenza erbosa dadove, sbirciando
attraverso il fogliame,sivedevaunapartedelsentierocheconducevaal padiglioneKranichfels che, aquanto diceva Kit, nondistava più di mezzomiglio. Era una seraperfettamente calma eilsolesiallontanavainun cielo azzurro esenza nuvole, mentregli ultimi raggitingevano di un colore
acceso le rocce, che ciriscaldavano con ilcalore assorbitoduranteilgiorno.«Ah,» disse Kit dopo
un lungo silenzio «sesolo,contuttoilpotereche hanno, avesseropreservato una forestacosì splendida erasserenante soltantoper l’amore; perché tue io e tutti gliinnamorati potessimo
vagabondarci, finchéduralagiovinezza...».Restammo seduti in
silenzio fino a quandol’oscuritànon fucalatafraglialberi.AlloraKitcominciò a strapparecon le unghie lecuciture della suagorgiera di piume. Iotrovai una scheggiaaffilata e le tagliai ipunti liberandola diquel che restava della
sua bardatura. Kitdisse che se per caso,in quella calda serataestiva, delle schiave sifossero aggirate per iprati di Kranichfels,sarebbero state nude;era quello il segnodistintivo della schiavadi razza inferiore. Ameno che non dovesserecitare una parte inqualche spettacolo, lasua livreaestivaera la
pelle. E se anche inquella debole lucequalcheguardiaavesseavvistato Kit, il suoocchio avrebbe notatoil luccichio dellacatenina d’acciaio, el’avrebbe presa per uncollare da schiava.Quanto al ritorno,passata l’ora in cui leschiave venivano disolito rinchiuse per lanotte, avrebbe potuto
fare affidamento sullafitta oscurità deglialberi.Silasciòscivolaregiù
dalle rocce e si bagnònel piccolo specchiod’acqua, ripulendosi lapelledaognitracciadifango.Laaccompagnaiper un tratto lungo ilsentiero, finchénonmiimpedìdiproseguire;aquel punto ciseparammo e io tornai
lentamente verso lerocce dove avremmodovutorincontrarci.Ancora immerso in
quellastrana,fiduciosasensazionechenulladimale avrebbe potutoaccaderci, ancoraconvinto chel’incantesimo delcrudele stregone erastato spezzato chissàcome dal mio incontroconKit,mi incamminai
a viso aperto sull’erbaal di là del ruscello.L’impressione chefossetuttoungiocoeracosì forte che nonprovavo nessun timoreo preoccupazione perKit; attendevo il suoritorno fremendod’impazienza, ma eral’impazienza di tenerladi nuovo tra le bracciae di sentire ancora lesue labbra. E perfino
l’impresa che avevamoprogettato di compiereinsieme sembravameno importante diquesto.Il buio si faceva
sempre più fitto e iocontinuavo a vagarenell’attesa di sentire ilsommesso segnale cheavevamo concordato. Irumori notturni dellaforesta cominciavano afarsisentire:ibisbigli,i
versi lontani e i vicinifruscii che mi stavanoormai diventandofamiliari.Mi inoltrai insilenzio
nel rado boschetto dibetulle che si trovavaoltrelaraduraerimasiin ascolto; non facevafreddo in mezzo aglialberi, ma c’era unafrescura persistente,checomeunasostanzainvisibile aderiva ai
pallidi tronchi appenavisibili.Avanzaiancora,e nell’oscuritàcrescenteeminacciosadelboscosentiitornaredentro di me quelladiffidenza da cervoselvatico, quellaprontezza a scattare eafuggirecheavevogiàprovato quandomi erotrovato da solo nellaforesta.Fral’erbaalta,inuna
zona che mi parvevagamente appiattita ocalpestata,comesedeicervi o altri animaliavessero sostato lì,inciampai in qualcosachenoneranéunramoné una pietra. Dopoaverlo raccolto mi resiconto, più al tatto chealla vista, che era unmocassino in pelle didaino simile a quellicheavevoaipiedi.Era
freddo e umido, e conle dita sentii che lasuola era quasiconsumata. Nient’altroche una scarpavecchia, gettata viachissà quando nellaforesta, ma mi fecebattere forte il cuoreper la paura. Volevofuggire via, il piùvelocemente possibile,da quel tratto di erbacalpestata, ma mi
forzai a frugare lìintorno, a tentoni,scrutando in cerca diqualcosa che potesseconfermare al di là diogni dubbio le miesupposizioni. E lotrovai: i brandellisparpagliati di unmaterialechealtattoeall’odorato mi sembròesattamente dellostesso tipo di quelloche avevo addosso –
erailcostumevillosodiuno dei criminalicondannati da vonHackelnberg. Ma ilpelo che ricoprivaqueibrandelli era tuttoincrostato, e ilmateriale eraimpregnato di unasostanza che si eraormai indurita. Ementre tenevo fra lemani quei resti sentiinuovamente risuonare
nella mia memoria lalunga nota del cornodel Conte, solitaria eirrevocabile, che avevoudito quella voltanell’oscurità dell’alba.Non osai cercare altreprove, non ce n’erabisogno; sapevo fintroppo bene checos’era lasostanzachesieracoagulatasuqueiresti.Ligettaiviaemistrofinai le dita
sull’erba fresca,benché fosseroasciutte;poi,conpassoincerto, uscii da quelboschetto di betulle emi ritrovai in unaspianata.Mancavaunanotteal
plenilunio, e la lunaaveva raggiunto lecime degli alberiilluminandodiunalucebiancailnostropiccolomucchio di pietre.
Timoroso ora di quellalucecomeprimaloerostato dell’oscurità delbosco, mi accovacciaiall’ombradellarocciaemi lavai più volte lemaninelruscello,comesecosì facendopotessiliberare la mia mentedall’orribile immaginedella morte delfrancese.Nonpotevoattendere
oltre il ritorno di Kit,
ma scesi brancolandogiù per quel sentiero,sotto una fitta volta difoglieestivechelalucedella luna non riuscivaa penetrare, con l’ideadi metterla in guardia,diimplorarladitornaredi corsa a Kranichfels,di arrendersi di nuovoalla schiavitù, disopportare qualsiasicosa pur di averesempreunsolidomuro
a proteggere il suocorpo da quelle zanneferoci.Procedevo piano
perché nel buio pestodel bosco avevo pauradi perdermi, e andavocontinuamente asbattere contro glialberi;maallafinevididi nuovo la luna, eattraverso le foglie ilbagliore intermittentedi una luce gialla che
doveva provenire dauna delle finestre delpadiglione. Mi nascosilìvicino,inunpuntodacui potevo tenered’occhio un tratto diquelsentieroilluminatodalla luna, e restai inattesa.Passò molto tempo.
Avevoaspettato invanoi passi di Kit, ma ilfatto di non aversentito nessun altro
rumoremirincuorò.Laluna era sempre piùalta nel cielo,ma tuttoancora taceva.Nessuna voce leparlava al di fuori diquelladellaforesta.Poi, non molto
lontanodameinfondoal sentiero, sentii undebole tintinnio,seguito dallo schioccodi un ramo secco, e dinuovo quel leggero
rumore metallico.Chiamaiabassavoceilnome di Kit e vidi unafigura entrare in quelpiccolo spiazzoilluminato, restareimmobile per unattimo,epoispariredinuovo nell’ombra.Sgattaiolai accanto alei e le parlaisottovoce, cercando dirassicurarla. Trovai ilsuobraccioesentiiche
era vestita, e lamorbida stoffa che lemie mani toccaronosembrava fatta di unaspessa lanapregiata,odi una sottile pellicciavellutata simile afustagno. Ridevasottovoce, tuttaeccitata ed esultante,ma non volle parlarefinché nonraggiungemmo dinuovo le nostre rocce.
Là si appoggiò, eancora ansimante mimise in mano unapiccola vanga dalbordo tagliente e unaroncola.«Micièvolutounbel
po’» disse. «Nonricordavopiùdov’erailcapanno degli attrezzi,e non ho osato andaretroppo in giro primache facesse buio; e aquell’ora gli edifici
erano stati chiusi achiave. Ma anche seerabuiosapevodovesitrovaval’Ankleidezimmer:9 è làche ci fanno mettere icostumi quandodobbiamo esserecacciate. E sapevo chelà dentro dovevaesserci unpo’ di tutto.Erachiusoachiave,maavevano lasciato una
finestraaperta.Cosìmisono arrampicata e hopreso questo vestito,poi ho scoperto che laporta di un magazzinoera aperta e ho presoanche questi attrezzi –sono nuovi! Ma nonsono riuscita a trovareniente da fartimettereaddosso».Rise ancora, ed era
cosìfeliceesoddisfattaper quello che era
riuscita a fare chenonebbi cuore diraccontarle che cosaavevo trovato e diimplorarla di tornareindietro. Soltantoquandosiinginocchiòabere dal ruscello e fuilluminata in pienodalla luce della luna,mi resi conto dellamaniacale coerenzache c’era in ognidettagliodella vita che
Hans von Hackelnbergprescriveva ai suoischiavi. Non c’eramodo di sfuggire allatrama di quel suounico,folledisegno:gliindumenti di Kitconsistevano inun’aderentecalzamaglia, comequella che potrebbeindossareunaballerinaperisuoiesercizi,fattainmododadisegnare i
contorni di una figuraumana, ma realizzatacon un tessuto chesimulava constraordinariaprecisione la pelle diun animale.Accovacciata a quattrozampe, con la testachina sull’acqua, ilvolto nascosto e quellostrano manto scuro elucentecherisplendevaalchiaroredellalunae
la rivestivauniformemente dallatesta ai piedi, Kitsembrava un’agile esnella fiera uscitadall’oscuritàdeiboschiperabbeverarsi.Perunistante mi sembròtotalmente estranea, econ un brivido diterrore sentii la retedel sortilegioavvolgerci ancora unavolta e vidi le rosse
labbra di vonHackelnbergschiudersiin una perfida risatamentreponevafineallanostra breve vacanzacomeesseriumani.Laafferraieconuno
strattone la tirai su,riportandola a unapostura umana, equando vidi che il miogesto brusco l’avevaspaventata, riusciisoltanto a balbettare
nervosamente che ilsuo costume eramoltostrano.«Forse lo è per te»
rispose seria. «Ma iol’ho visto abbastanzaspesso.Èquelloche leschiave portanod’inverno: proteggeanche dal vento piùpungente e non lasciapenetrare né neve népioggia».«Andiamocene via da
qui» dissi, e dopo averraccolto gli attrezzi mifeci strada passandodietro alle rocce,lontanodalpratoedalbuio boschetto dibetullealdilàdiesso.Non era ancora
troppo tardi perparlarle,eavreidovutofarlo;avreidovutodirlecheinrealtàilmiononeraunbuonpiano,cheera assurdo pensare
chevonHackelnbergcilasciasse in pace pertutte le settimane checi sarebbero serviteper scavare il tunnel.Ma ormai la avevoaccesa di entusiasmo;non erano statesoltanto le mie parole,ma la mia stessapresenza e il mioamore, a convincerlache la fuga erapossibile, troppo
fortemente desiderataormai per apparireirrealizzabile. E lei eracosì soddisfatta eorgogliosa di comeaveva portato atermineilsuocompito,chenonmelasentiididistruggerequell’illusione.Ci incamminammo
veloci lungo queisentieri illuminatidallaluna,eKitnonsmisedi
parlare un momento,ragionando a bassavoce su quale tra iposti che ricordava diaver visto vicino allabarriera fosse il piùadattoperfermarsi,maio non riuscivo aprestareattenzioneallesue parole. Dovevoescogitare un altropiano, ma non ne erocapace. Di nascostotastaiilbordotagliente
della vanga; la roncolaera senza dubbiol’arma migliore, ma lavanga era più pesante,così chiesi a Kit diportarelaroncola.Ci stavamo dirigendo
verso la parte dellaforesta che, a quantodiceva Kit, era la piùlontana dallo Schloss.Era un tratto menobattuto, dove ilsottobosco e gli alberi
caduti non venivanorimossi. Lei ci si eranascosta durante unafintacacciaalcervoedera riuscita a sfuggireper una settimana aibracchi e ai ragazzi-babbuino. Avevaimparato la strada perpoterci tornarenell’oscurità,scendendo di notteverso i tavoli con leprovvistedicibochesi
trovavano nella partepiù frequentata dellaforesta. A quanto siricordava, in quellazona la macchia el’erba alta arrivavanomolto vicino allabarriera. Quello era ilposto per il nostrotunnel, là avremmolavorato di notte e cisaremmo nascosti digiorno, e perprocurarci del cibo lei
avrebbeperfezionatolostesso stratagemma diKranichfels, e sisarebbe intrufolataanche negliappartamenti deglischiavi dello Schloss.Per neutralizzarel’efficienza germanicabisognava farequalcosa di totalmenteassurdo: i tedeschinonavrebbero mai potutoimmaginare che
un’ariana si facessepassare per unaschiava di razzainferiore.Così, mentre Kit
continuava a correreallegraefiduciosa,eiomi scervellavo perescogitare un’altrasoluzione,arrivammoaun’altura con qualcheraraquerciaeunafittavegetazione di felci ederbaselvatica.Erauna
notte molto silenziosa,enonfacevapernientefreddo. Kit fece unprofondo sospiro e sislacciò il collo dellatuta. «Dio!» esclamò.«Sto morendo di caldodentro quest’affare.Quantovorrei...».Si interruppe
bruscamente e mipreseper il braccio; lalunafecebrillareisuoigrandi occhi sbarrati.
«Hai sentito?»sussurrò.Si, l’avevo sentito.
Era il suono cheattendevo da quandoavevo trovato i miseriresti del francese.Distante, eppurechiarissimo in quelsilenzio, si era udito ilsuono del corno.Attraverso i boschiilluminati dalla luna ciraggiunse una nota
allegra e spavalda, unrichiamo che in unagrigia mattinad’autunno mi avrebbeelettrizzato. Restammoa lungo immobili, inascolto, anche dopocheilsuonocessò,nonosandoguardarci.Poiilcorno risuonònuovamente, con unaccento di trionfo, diesultanza e dieccitazione, e ad esso
ora si mescolarono ibrevi, avidi latrati deicani che avevanofiutatolatraccia.Afferrai Kit per le
spalle: «Devi tornareindietro! Deviassolutamente tornareindietro! Torna aKranichfels! Vai earrenditi. Questo è ilConte che mi dà lacaccia, se non rimanicon me sarai salva!».
Insisteicontuttelemieforze,maleinonsifececonvincere.«No,nontilascio. Ti mostreròdove nasconderti. Lorononmi faranno niente,anche se sono con te.Riconosco il latrato diquei cani, non sonoquelli feroci, sonosoltanto i cani cheusano per seguire letracce. Non lisguinzaglieranno,
possiamo seminarli!Vieni,dai!».Quello che diceva
poteva anche esserevero. In ogni caso lanostra unica speranzadi salvezza eraraggiungere quellezone di foltavegetazione che leiconosceva. Cosìfuggimmo, correndosenza tregua lungo unsentiero che passava
attraversoiradiboschidiquerce.Ben presto ebbi la
prova che il miopassato non eraun’allucinazione,perché inquell’incredibilepresentemitradì.Avreidovuto essere in gradodi mantenere senzafatica un passoregolare, da corsacampestre, ma come
durante la mia fugadall’Oflag XXIX Z miresi nuovamente contoche due anni diprigionia, dimalnutrizione e dimancanza di eserciziofisico mi avevano toltoforza e resistenza.Dopo il primo migliocominciaiagrondaredisudore;avevoilrespiroaffannoso e le miegambe erano come
pezzi di legno. Noncercai più diconvincere Kit alasciarmi, e nonsoltanto perché nonavevo fiato dasprecare: la verità èche senza di lei nonsareimaistatoingradodi andare a quellavelocità. Eppure eraduro da accettare che,perfino mentrefuggivamo da lui,
stavamofacendoquelloche voleva vonHackelnberg. AvevaaddestratoKitaquestopreciso scopo, eme loimmaginai mentreguardava conammirazione la sualunga falcata e il suorespiro senza affanno,ghignando alla vistadellapropriaoperaconmalignasoddisfazione.Dopo un po’
sentimmo di nuovo ilsuono del corno, maquesta volta era piùdebole. Avevamo unnotevole vantaggio suicani, ma eravamoarrivatiinunazonapiùimpervia e dovemmoscendere, aiutandocicon le mani, giù persentieri che erano piùsimili a letti di piccolitorrenti, dove sarebbestato facile cadere e
prendersi una storta orompersi una caviglia.Ma imieimocassini dipelle di daino e leflessibiliscarpecheKitaveva ai piedi cipermettevano dicorreresicurisuquellerocce lisce, e la pauradiciòcheavevamoallespalle ci facevaprocedere a lunghefalcate.Midicevocheilnostro odore non
sarebbe rimasto suquelle fredde pietre e,dove potevamo,cercavamo dicamminare sulle lastredirocciadisseminatealmargine della valle.L’acqua sarebbe statail nostro più sicuroalleato, e mi accorsiche quella era anchel’idea di Kit. Arrivatialla fine affondammonell’erba alta, in una
rada vegetazione dipioppi e betulle, e aquelpuntosentiicheilterreno iniziava acedere e mi ritrovai asguazzare nel fango.Sbucammo in unpantano invaso dalleerbacce, e avanzammoa fatica affondandosempre più, finchél’acqua non mi arrivòall’altezza del petto. Aquestopuntoilfondosi
fece abbastanzacompatto, e remandocon le bracciaproseguimmo per tuttala lunghezza di unostretto stagno cheoccupavailcentrodellapalude. Andammoavanti finché nontrovammo l’immissarioe, dopo averlo seguito,inciampando esguazzandotrapietreebuche, risalimmo
lentamenteilsuocorsotraifianchidellavalle,finoa raggiungereunaspecie di altopianopaludoso, dove cifermammo a riposarcisu quella terramalferma.«Perderanno tempo
nella palude» disse Kitansimando. «Dovrannofare il giro per fiutaredi nuovo le nostretracce.Andiamo!».
Ma ormai avevaperso l’orientamento,esprecammo anche noimolto tempo adannaspare in quellapianura paludosa,fermandoci incontinuazione,cercando diriconoscere alla lucedella luna la formadelle basse collineboscose che cicircondavano.Eravamo
appena tornati su unterreno asciutto e Kitaveva detto di saperedove eravamo, quandosentimmo di nuovo illatratodeicani.Continuammo ad
avanzare a fatica,correndounpo’appenaerapossibile,maperlopiù arrancando eincespicando. Kitadesso era esausta.Non avevamo più
energia per parlare eandavamo avanti insilenzio, vicini, maognuno isolato dallapropria sofferenzafisica, dall’imperiosobisogno di occuparsidel proprio cuore chebatteva all’impazzata,deipolmonichenoncela facevano più, dellemembra doloranti. Iotenevo ancora inmanolavanga,perquantomi
fossed’intralcio,maKitaveva perso la roncolae io ero troppo sfinitoperfarglielonotare.Ora non c’era più un
sentiero e ci facevamostrada alla ciecanell’intrico delsottobosco, così fittoche in alcuni punti cicostringeva ad andarea quattro zampe. Nonso per quanto tempocontinuammo a lottare
per aprirci un varco inmezzo a quellasterpaglia, e non hoideadiquantadistanzaavessimo percorsonella nostra fuga. Lesue tappe siconfondevano nellamente senza soluzionee sembrava che lanostrapenadurassedaun’eternità, come sel’attraversamento diquel lungo stagno
appartenesse a untempo infinitamentelontano, quandoeravamoancorafreschieinforze.Inciampai nel corpo
di Kit. Giacevaimmobile a terra equando la toccai emiseun gemito. «Non ce lafaccio più» sussurrò.Mi sdraiai accanto alei, troppo esausto amia volta per poterla
spronare, e rimasi inascolto. A parte ilnostro respiro nonriuscivo a sentirenient’altro. Restammodistesi ancora per unpo’,finchénoncipassòl’affanno, mentre ilsilenzio continuava aregnareininterrotto.Stavamo lì, proprio
come voleva il nostrofolle cacciatore: ridottidal terrore del suo
cornoedeisuoicaniadanimali impauriti,rannicchiati nellaboscaglia,pateticamente illusi dipoter fuggire. Non cirestava che sperareche i cani non citrovassero, perché nonriuscivamo più acorrere. Sfiorai dinuovo il bordo dellavanga e impugnai ilmanico. Almeno avrei
potuto sistemare unpaiodiquellebestiacceprima che misbranassero.Maquellonon era il posto giustoper tenerle a bada;avevobisognodispazioper roteare la miaarma, mentre lìl’intricodellaboscagliami bloccava; un caneavrebbe potutointrufolarsi strisciandoe catturarmi come un
furetto che acchiappiun topo in una tana.Così cercai diconvincere Kit aspostarsi verso unluogopiùaperto.«Questa è la parte
più fitta» risposestancamente. «Labarrieranondev’esserelontana.Peroralacosamigliore è restare qui.Se usciamo alloscopertoperloroèsolo
piùdivertente».Rimasi disteso finché
nonebbirecuperatounpo’ di forze, ma nonpotevo restare lì senzafarnulla,equell’attesasilenziosa diventòinsostenibile.Trascinando la vangacominciai ad avanzarestrisciandoper cercaredi vedere fin dove siestendeva il nostroriparo.
Mentre proseguivochiamai Kit un paio divolteabassavocee lasentii rispondere. Nonvolevo inoltrarmi al dilà della portata dellasua voce per timore diperderci. La boscagliadopo un po’ si feceleggermentepiùradaescoprii che potevocamminare standodritto e aprirmi lastrada aiutandomi con
le spalle, ma nonvedevo ancora nulla,salvo qualche scorciodella lunasopradime.Non pensavo diessermi allontanatomolto da Kit quandosbucai fuori daicespugli. Ma dovettiabbassarmi subito emettermi al riparoperché di lato, a tre oquattrocento metri dame, c’era una torre di
guardia. Di fronte, auna cinquantina dimetri, vedevo labarriera: un muro didebole chiarore, comel’avevo visto inquell’altra notte diluna, anche se ora misembrava didistinguere le lineepiùchiaredei filimetallici.Avanzai lentamentelungo il margine dellaboscaglia alla mia
sinistra,allontanandomi dallatorre di guardia,pensando dimantenermi sempreallastessadistanzadalluogo in cui avevolasciatoKit.Andando avanti, vidi
che la vegetazione sidiscostavagradualmente dallabarrieraed’improvvisomi trovai di fronte a
una specie di ampiapista abbandonata chetagliava quel tratto diforesta vergine.Potevaessere un anticosentiero tagliafuoco, econduceva dritto allabarriera: allorami resicontoche,secifossimotrovatisolocentometripiùasinistra,avremmopotuto raggiungere ilnostro nascondigliosenza fare tutta quella
faticanellaboscagliae,con il cuore in gola,realizzaichesuduelatieravamo quasi alloscoperto; così misedetti a pensare checosa convenisse fare.Ma mi ero appenapiazzato in mezzo aquell’erbaaltaquando,alle mie spalle, sentiiabbaiare i cani dacaccia.Oraeranovicinissimi,
e conoscevo bene iltimbroforte,sicurodeiloro latrati. Tesil’orecchio e sentii unaltro rumore, unoscricchiolio di ramisecchi che venivanocalpestati. Unprolungato, allegrogrido di caccia risuonòdistintamente dallaboscaglia e fu raccoltoda qualcuno che stavapiù lontano sulla pista.
Nonpotevorischiaredichiamare Kit, e ripresilentamente a strisciarefra i cespugli neltentativo diraggiungerla. Poi peròmi fermai a riflettere,tornai indietro verso lapista e mi rannicchiaidi nuovo inmezzo alleerbacce. I cani eranostati lanciati sulla miatraccia, ne ero certo,perché di notte non
andavano a caccia diragazze-selvaggina.Anche Kit lo sapeva.Così, ragionai, avràpensatodiallontanarsi,perché i segugi non sisarebbero mai direttiverso un’altra predaorache lamiasciaeracosì forte. L’avrebberooltrepassata,continuando a seguirele mie tracce, eavrebbero fatto il giro
pertrovarmiall’aperto.Impugnai saldamentela vanga e restai inattesa.Li sentii abbaiare
ancora,eoradovevanocertamente aversuperato il punto doveavevo lasciato Kit.Rimasi accucciato,cambiandoimieipiani,pensando, ora cheavevoripresofiato,cheavrei potuto correre
sulla pista attirandolilontano da lei. Maprima che potessirimettermi in piedi, dalaggiùsisentìunsuonosquillante: il suonoforte ed esultante delcorno del Conte, cheimperiosamenteaizzava e impartivaordini, poi il sordorimbombodeglizoccolidei cavalli e,spaventosamente
vicino e stridulo,ancora più terrificanteperché del tuttoinatteso, quel folletorrente di urla e quelbalbettante brusio divoci umane snaturateche già per due volteavevo sentito aHackelnberg.Hans von
Hackelnberg stavarisalendo a cavallo laraduraconlesuegatte
assetate di sangue. Siavvicinavano a unavelocità spaventosa eio, in preda al terrore,nonriuscivonéastarefermo né a fuggire.Vedevoleneresagomedei cavalieri chegaloppavano nell’erbaalta e davanti a lorouna dozzina – forse dipiù, una ventina – difigureumane,cheperònon correvano, ma
procedevanoagrandieagili balzi in quelgroviglio di erbeselvatiche. Vedevoquelle teste di panterastagliarsi come neriprofili contro il cieloilluminato dalla luna;vedevo quelle formegrigiastre curve sullosfondo verde dell’erba,poi di nuovo il pallidoscintillio delle loromembra scattanti
balenare nella lucelattescente. I caniabbaiavano alle miespalle, continuando acercare in quel trattovicino alla barrieradoveeropassato,maiogiànonglibadavopiù.Nonriuscivoastaccaregli occhi da quellefigure che siavvicinavano a balziverso di me, e nonriuscivo a pensare ad
altro che al luccichiodell’acciaio con cuiterminavano le lorobraccia scure. Alloravidi avanzare fra loroun cavaliere che nelchiarore della lunaappariva gigantesco, eche aveva avvoltaintorno al petto unalucente spiraled’argento. Soffiò dinuovo nel suo corno,proclamando con forza
e insolenza il suodiritto a massacrareper puro piacere. Miasciugai il palmo dellemani sul pelo deipantaloni e mi alzailentamente, poiindietreggiai contro ungrosso cespuglio einiziai a roteare lamiaarma.Qualcuno alle spalle
di Hans vonHackelnberg lanciò
improvvisamente ungrido fortissimo; ilConte frenò il suocavallo ed emise unacuto richiamo con ilcorno.Alloraleurlaeilborbottio delle gatte siunirono di colpo in ununico verso prolungatoe stridulo.Ma non eroio quello che avevanoavvistato.Una forma scura era
saltata fuori dalla
boscaglia e stavaattraversando laspianata a pochi metridal branco. Poi girò ecorse dritta indirezione dellabarriera. Le gattesfrecciarono tra icespugli.Le lorostridaerano cessate, maquando mi passaronodavanti sentii unaspecie di singulto,come se avessero
inspiratotutte insieme,o come se ogni fieraavesse appenaingurgitato unaboccata d’aria giàcarica dell’odore delsangue della suavittima. La figura nerastavaancora in testaecorrevacomeunessereumano corre persalvarsi la vita, madirigendosidrittaversoquel muro che
irradiava un pallidochiarore, quellaluminescenza cheappariva ancora piùbianca nella luceazzurrinadellaluna.Miresi conto troppo tardiche non avrebbedeviato. Senza saperechecosastavofacendo,senza curarmi di HansvonHackelnberg,dellesue gatte e dei suoicani, lanciaiungridoe
cominciai a correreversodilei.Anche von
Hackelnberg avevacapito quello cheintendeva fare Kit.Tuonò qualcosa rivoltoal branco, imprecandocon tutta la potenzadella sua voce, poicominciò a suonarebrevi, furiosi squilli,richiamandolegatte.Ilsuoseguitoavanzavaal
galoppo dietro di lui eudii il suono acuto deifischietti che sisovrapponevano alcornodelConte.Ma le gatte ormai
avevano preso di mirala loro preda, lastavano rapidamenteraggiungendoesapevoche nulla avrebbepotuto richiamarleindietro. Vidi Kit chesaltava verso
quell’inconsistentebarrieraluminosacomesefosseunsolidomuroda scalare, e gridai ilsuo nome, raggelatodall’orrore di vederlacosì, resa folle dallapaura, lei che erasempre stata tanto piùsaggia di me. Masubito dopo capii chemi sbagliavo: al disopra di tutte quelleurla, dei fischi e degli
squilli del corno, sentiichemichiamava,enonc’era ombra di follianellasuavoce,masolostraziante devozione:«Alan! Alan! Passa!Passa! Ti prego,passa!».Sottodilei,addossoa
quello schermo didebole luce bianca, ilbrancosiammucchiòinunamassadicorpichesi contorcevano e di
braccia che sitendevanoselvaggiamenteversoilcielo, tutti neri sullosfondo di quellaluminescenza.Lesentiidinuovourlare–brevi,frenetiche strida egemiti di agonia. Leforme indistinte deicavalieri siprecipitaronoondeggiando tra labarriera e gli alberi,
mentre i fischietticontinuavano asuonare incalzanti e ilcorno di vonHackelnbergriecheggiava unosquillodopol’altro.Continuai ad
avvicinarmi correndofra i radi cespugli almargine dellaboscaglia,gliocchifissisu quella figura nerasopra il viluppo di
corpi. Stava appesalassù, perfettamenteimmobile, le bracciadistesecomesefosseroappoggiate sul filometallico più alto, ilcapo reclinato inavanti, le gambe chependevano giùmollemente.Leiera là,mortanellaposastessadel sacrificio e dellasalvezza. E quando mifermai,affondandofino
alleginocchianell’erbaincolta che siestendeva fino allabarriera,vidiilcorpodiKit risplendere di unatenue incandescenza,come se ogni pelo diquel manto vellutatoche la rivestiva fossecopertodibrina.Lamiamenteeilmio
cuore erano talmentescossi che midimenticai del pericolo
cheleiavevacercatodiallontanare da me.Credo di avercominciatoadavanzareallo scopertoincespicando,dirigendomiversodileiegridandoilsuonome,quando, come fosserouna vera eco, le sueparole rintoccarono dinuovo alle mieorecchie: «Alan!Passa!», e allora capii
perché era corsaincontro alla morte, emi ricordai che leistessa,unavolta,avevaassistitoaquellascena.Il chiarore cheirradiavadallabarrierasi spenserepentinamente e ifischi si interruppero.Dettiun’occhiataalfilometallico chemandavaun freddo luccichiosotto la lucedella luna
e per lo spazio di unsecondo ebbil’impressionedivederedietro di esso degliarbusti di erica e dellebetulle,epiùlontanolamassa nera di unaforesta di pini, primache dalla torre diguardia venisseproiettata la lucediunriflettore. Per unattimo sfiorò labarriera,poi,dopoaver
inquadrato il gruppovicino al filometallico,sifermòsudiesso.Allora, con grande
freddezza, capii checosa dovevo fare. Iguardacaccia a cavalloavevano quasiraggiuntolabarriera,esentii lo schioccaredelle loro pesantifrusteeleacuteurladidolore cheinterrompevano i
miagolii e i forsennatilamenti. Il groviglio dicorpi e di membrarotolòviadallabarrierae si sciolse,frammentandosi inunadozzina di gatte che sisparpagliarono tra icavalieri, ringhiando,soffiando eschiamazzando,perpoitornare indietro adilaniare congli artiglile compagne ferite
mentre i guardiani lecolpivanoripetutamente eimprecavano,allontanandole afrustate e radunandoledi nuovo verso illimitare dellaboscaglia. Corsi avantirestando al di qua delraggio del riflettore,sicuro che chi ne erainvestito non potessevedermi, sicuro che i
guardianitrattenesseroisegugi,convinticheilloro compito fosseterminato; ero certoche l’attenzione dellesentinelle sulla torrefosse tutta concentratasuquelcherestavadelbranco. Attraversaiquel tratto di terrabrulla chemi separavadalla barriera, poitastai i cavi metallici,mi infilai tra l’uno e
l’altro,e,standocurvo,corsi inmezzoall’ericaversoilcorpodiKit.Prima che potessi
raggiungerlo,HansvonHackelnberg e unacoppia di guardacacciaerano smontati dacavallo. I due giovaniavanzarono a grandipassi in mezzo alleforme che giacevano aterra, alcune immobili,altre che si
contorcevano, e conbruschi e violenti colpidi sciabola zittirono legatte che ancora simuovevano. Hans vonHackelnberg marciòdrittoversoilcadavereappeso alla barriera.Lo staccò dal filometallico e reggendoloconlesueenormimanilofecepenzolaresoprala testa. Fino a quelmomentononmiaveva
visto, perché ero fuoridalla portata deiriflettori, ma orascattai in avanti e miscorsenellapenombra,a non più di quattrometri di distanza.Eravamo separatisoltanto da quellasottilebarriera.Ancheigiovani mi videro, epuntarono le lamecontro di me, come sevolessero caricarmi,
ma vonHackelnberg lifermò con un seccogrido.Senestava lì inpiedi, reggendo quelcorpo inerte con il suosudario di velluto cherisplendeva cinereosotto il fascio di luce;quindi si voltòlentamente verso lesuperstiti gattemugolanti, che iguardiani a cavalloriuscivano a stento a
tenere a bada. Ma poisi girò di nuovo versodi me. La vivida lucerendeva i suoi trattisimili a una mascheradi rabbia e crudeltàanche più disumana diquella delle creaturegenerate dai suoimalvagiartifici,maoranonavevopiùpauradilui. Passai con losguardo dalla suaferoce imponenza alla
misera creatura mortache reggeva tra lebraccia,eper laprimavolta capii come unaperdita simile possasradicare dall’animatuttelealtresofferenzee fare del cuore undeserto dove nonpossono più crescerené paura né dolore.Rimasiindifferentealleparole che il Conte miurlò con violenza, e
solo più tardi, quandoormai era lontano,capii davvero che cosavolevanodire.«Va’ pure» gridò.
«Sei libero, per questanotte. Hans vonHackelnberg ora tirisparmia per darti lacaccia sotto un’altraluna!».Non sapevo, né mi
importava di sapere,per quale regola del
suo folle gioco mistesserisparmiando.Leguardie si ritirarono erinfoderarono lesciabole. Avrei dovutoattraversare di nuovola barriera e andareincontro a quelle fieredagli artigli d’acciaio,ma il fasciodi lucedelriflettore si spense, ibianchi raggi dellabarriera ripercorserocon un lungo e unico
guizzo tutta la radura,e attraverso quellostrano schermo vidivonHackelnbergconilsuo fardello, incolore,senza ombra, spogliatodi ogni sostanza,distantedamecomeloero io dalla pallida etranquillaluna.Vidi la sua vuota,
spettrale figuradirigersiagrandipassiverso il branco
fantasma, sollevare dinuovo il livido corpo escagliarloinmezzoallebelve.Non so per quanto
tempo rimasi distesonella brughiera, afissare quel sottilemuro di luce. Deveesserestatopermolto;e anche dopo chel’ultima ombra,dall’altra parte, erasvanita, io ero ancora
incapace di pensare odi muovermi. Nonsentivo e non vedevopiù nulla. Nella miamente non c’è tracciadi ciò che accadde piùtardi quella notte, omolte notti dopo;soltanto il mio corpoconserva ancora oggiuna qualche memoriafisica di quando mialzai e mi strappai didosso la livrea di von
Hackelnberg, ecamminai, esausto, inuna sorta di tranceattraversoiboschi,finoachelalucedellalunae l’oscurità noniniziarono aconfondersi davanti aimiei occhi e nondivenni completamentecieco, mentre la terrami sfuggiva da sotto ipiedi.
8. Letteralmente«pezzi»[N.d.T.].
9.Spogliatoio[N.d.T.].
8
Non appena AlanQuerdilion smise diparlare, la gatta, cheda un’ora dormivatranquillamente sultappeto davanti alcamino, si svegliò,sbadigliò e saltò sul
bracciolo della suapoltrona.Alansialzòespinse col piedel’estremità dell’ultimoceppo nel fuoco ormaiquasi spento, erabbrividìperilfreddo.«Quando mi
ritrovarono in quellostato,» disse «chevagavo completamentenudo lungo i binaridellaferrovia,lapoliziatedescanonebbemolti
dubbi che fossi matto.Fu in una piccolalocalità chiamataKramersdorf, nonlontano,misembra,daDämmerstadt, lastazione verso cui erodiretto. Mi tennero inospedaleperunmeseepoi, non so se perchépensavano che fossiguarito o perché in findei conti non glieneimportava molto, mi
rimisero in gabbia; main un campo diverso.Questo avveniva nelsettembre del ’43, e cirimasi fino al maggiodel ’45, quandoarrivaronoirussi».«Ma non hai proprio
ideadidoveseistato?»cominciai.«Vogliodire,la polizia tedesca nonscoprì mai che cosaavevi fatto da quandosei fuggito la prima
volta dal campo diprigionia a quando tihannoritrovato lungo ibinari?».«Se anche lo
scoprironoamenonlodissero»rispose.Restò a lungo in
silenzio poi fece unlungorespiro.«Be’, questo è tutto
quello che mi èsuccesso quando erodall’altrapartee,come
ti ho detto, se non siripete più per un altroanno, chiederò aElizabeth di sposarmi;e spero un giorno dipoter dimenticare chec’è stato un tempo incui sono stato pazzo.Sei rimastosvegliopertutto il racconto, maora vai a letto, edimenticati di averlomai sentito. Perchénessun altro lo sentirà
più».«No» dissi.
«Elizabeth devesapere. A lei deviraccontarlo».Alan uscì senza
rispondere e lo sentiiaprire il catenacciodellaportad’ingresso.«Non so» mormorò,
come parlando tra sé.«Davverononloso».Eall’improvviso imprecòsottovoce: «Dove
diavolo è andata acacciarsi di nuovoSmut? Igatti sonounamaledetta seccatura,sia che li lasci uscire,siachecerchiditenerliincasa».
IRISVOLTIDISARBAN
DIMATTEOCODIGNOLA
IllustrazionediEleanorWallperlaprima
edizionediTheSoundofHis
Horn(1952).
C’èstatountempoincui un editore nonaveva140caratteriperpresentare un suolibro, ma – a secondadei gusti, e delleimpostazioni grafichedella casa – qualcosafrai2500ei3500,piùaltri 500 circa perintrodurrel’autore.Era
una prerogativa cuinon si rinunciava acuor leggero, specie inassenza di strumentialternativi con cui farcapire come il libroandasse letto, esoprattutto perchédovesse esserecomprato. Ma qualchevolta, naturalmente, siesitava. Quando? Be’,ad esempio quando illibro aveva
caratteristiche di stileevidenti alla lettura,che però unadescrizione correntenon avrebbe reso conla necessaria efficacia.O quando la storia eratalmenteazzardatacheanticiparla in pocherighe avrebbecompromessolafutura,eventuale sospensionedell’incredulità.Oppure quando il
romanzo o il raccontonon rientravano inalcuno dei generifamiliari al lettore, purbordeggiandoneparecchi. O, magari,quando l’autore stessopreferiva che del suolibro,edilui,sidicesseilmenopossibile.Agli editori capita,
insomma,dinonsaperebenecomemuoversi.Edalmomentoincui,nei
primi giorni del 1948,aveva dichiarato il suointeresse perRingstones e AChristmas Story, dueracconti di un certoJohn William Wall,Peter Davies si eraritrovato in unasituazioneeffettivamentepiuttostoimbarazzante.Di Wall non sapevanulla, e della sua
produzione conoscevasolo quei due lavori. Iracconti erano statirecapitatidipersonaincasa editrice dallamoglie dell’autore,Eleanor, quindi che lovolesse oppure noDavies avevacominciato a trattarecon lei. Come avvio diun rapporto erapiuttosto insolito, maper fortuna di tutti i
soggetti coinvoltiDavies era un uomomoltocauto,econunasensibilità tuttaparticolare per gliingressi poco ortodossinell’etàadulta.La cautela Davies
l’aveva imparata a suespese, nel senso chel’ultimo gestoimpulsivo che si fosse
concesso gli eracostato decisamentecaro. Risaliva al 1937,quandodavantial lettodi morte del padreadottivo, J.M. Barrie,aveva deciso ditelefonare all’odiatasegretaria delgrand’uomo, CynthiaAsquith, percomunicarlechelafineera vicina. Risultato,Asquith aveva
viaggiatotuttalanotte,arrivandointempoperfarcambiareaBarrieiltestamentoasuointerofavore. Calcolare aquantoammontasseroidiritti maturati inventicinque anni daPeter Pan nelle suevarie incarnazioni èpiuttosto complicato,madisicuroconquellatelefonataDaviesavevarovinato se stesso, e i
ragazzi Llewelynsuperstiti. Vero,immediatamente dopola morte di Barrie,Davies, furioso, si eraprecipitato a lanciarenel Tamigi le letteredel defunto a suofratello Michael –definite in unmessaggio a un amico«un po’ eccessive» –,ma il gestoapotropaico, per
quanto spettacolare,nonavevanésancitolafine della saga nera diKensingtonnérisoltoilsuorapportopersonalecon quello chechiamava sempre esoltanto «l’orribilecapolavoro». No,l’ombra dell’eroe cheportava il suo nome loavrebbe perseguitatoper tutta la vita, alpunto che, quando si
deciseaunmatrimoniosocialmenteaccettabile, dopo unalunga relazione conunadonnaditrent’annipiù vecchia di lui,Davieslesseconorroregran parte dei giornalilondinesi titolare, conminimevarianti:«PeterPansisposa».Dalla sua storia
familiare, quantomenoanomala, Davies avevase non altro ricavatouna tolleranza delleeccentricità superiorealla media. Non avevaquindi considerato poicosì strano discutereper lettera non con ilsuo autore, che,sebbene di stanza inlocalitàfuorimano,erapur sempre vivente,bensì con la moglie,
momentaneamente inInghilterra.Perilresto,si era comportato conla solita circospezione.Aveva cioè ammesso ilsuo entusiasmo per idue racconti,precisando, comeavrebbe fatto qualsiasisuo collega di allora,maanchedioggi,cheiracconti vendevanopochissimo,equellidelgenere «erudito-
fantastico» (definizionediEleanor)anchemenodegli altri. Dopodichéavevachiesto,comedaregolamento, se percaso l’autore nonavesse nel cassettoqualcosa di più lungo,che l’editore potessepresentare, eauspicabilmentevendere, come un«romanzo». A quelpunto l’autore si era
manifestato – perlettera – sostenendo diessere al lavoro su unmanoscritto checontava di finire neimesi successivi. Erivelando, colprogredire dellacorrispondenza,qualcosa di sé. Nonmolto.JohnWilliamWallera
un diplomatico inglesedi medio livello. Natonel 1910 da un padreferroviere – di cuiavrebbe gelosamentecustodito per tutta lavita la lampada – e daunamadreconqualchetrascorso nel music-hall, Wall avevastudiato a Cambridge,ma soprattutto avevaimparato l’arabo, cheimmediatamente dopo
la laurea gli avevadischiuso una carrierapotenzialmenteluminosa. Nel 1933, aventitré anni, Wall eragià viceconsole aBeirut, e in unasuccessione piuttostorapida aveva ricopertoincarichi a Gedda,Tabriz, Isfahan,Casablanca. Piùsorprendente delcursus in sé era
tuttavia il disinteresseche Wall sembravariservargli,sullosfondodi un disincanto più omenopervasivo («Cosavoglio? Cosami piace?Non ne ho la minimaidea. Vivere in unaspecie di fiaba,penso»). Il lavorosembrava nonriguardarlo, e a uncerto punto avrebbefatto tutto quanto in
suo potere per nondiventareambasciatore. Le cittàe le regioni in cui sitrovava a vivere – lestessecheirretivanodadecenni legioni di suoiconnazionali in viaggio– gli apparivanoricopertedaunostratouniforme di unamateria per lui nontollerabile, la polvere(«The dust of Asia»
sospiraovunquearrivi),anonime eirrimediabilmenteprivedi fascino, specie inconfrontoall’indimenticabilesplendore del natioYorkshire, dovetornava appenapossibile. I fattiincandescentidiqueglianni accadevano inlontananza, e l’unicocui Wall risulta aver
partecipato, conl’atteggiamento dellospettatore di undiorama, è un duellofra la Marinabritannica e quellaitaliana al largo diGedda.Conlepersone,ancheeminenti,chegliaccadeva di incontrarenon stabiliva contattiparticolari, nésembrava smanioso diapprofondirli.Mentreè
distanzaaCasablanca,nel 1948, riceve VitaSackville-West, ma nelsuo diario annotasoltantocheèun’ospitedeliziosa. Qualchetempo dopo gli arrivauna telefonata diChurchill, diventato illeaderdell’opposizione,in procinto di esserericevuto in formaprivatadalsovranodelMarocco. Sul bordo
dell’irritazione che piùo meno tutto gliprocurava, Winstonvuole sapere se, cometeme, si mangeràmarocchino. Wallconferma. E quanto abere – qui l’irritazionelascia il posto a unaschietta ripugnanza –acqua, immagino. Ohno, risponde Wall,elencando gli alcolicianche sofisticati offerti
a lui in un’occasioneprecedente. Churchillemette un rantolo chepotrebbe essere ditripudio, e Wall sicongeda, annotandol’episodio sul diariosenza ulterioricommenti.Ildiario,cheWall tiene da semprecon estremo scrupolo,sarebbe anche la sededove cercare tracce diuna vita amorosa, o
sessuale. Praticamentenoncenesono.L’unicosbandamento Wallsembrerebbe averloavuto nel 1943 perNorah Bird, figliadiciottennedell’ambasciatoreinglese a Gedda, cuiavevadatoperqualchetempo lezionidi arabo.Wall ammette diessersi «mezzoinnamorato» della
piccina, ma quando ledifferenze di età e diconfessione religiosarendono l’unioneimproponibile siconsola alla svelta,annotando che,comunquesianoandatele cose, Norah porteràsempre con sé«l’influsso che hoesercitato su di lei».Del resto da qualcheanno, cioè dal 1939,
Wall aveva unarelazione con EleanorAlexander, allorasposata alcapocontabiledell’Imperial Bank: ebenché Eleanor gliispirassepiùomenolostesso trasporto digran parte delle sedicui veniva destinato,finirà per sposarla, eper passare con leigranpartedellavita.
Si potrebbe pensarechetuttoquestoavesseuna ragione ovvia, cheoccupazioni esentimentiquotidianiloinfastidisseroperchélodistoglievano da unapassione totale edivorante per lascrittura. Neanche persogno. Venivano messiavanti per giustificareil ritardo nellaconsegna (o, più
spesso, nella stesura)di un certomanoscritto, questo sì,maeranosolopretesti.Quando, subito dopo ilprimo contatto conDavies,Eleanorglidiceche se tutto va benepotrebbe tornare inInghilterra e scriverefinalmente uno o dueromanzi, Wall la gelacon una letterina dellesue: «Questa storia di
scrivere non ha senso.Non ho un libro dapartorire – e certoneanche una bricioladella fertilitànecessaria a scrivereracconti, articoli,eccetera. In tutti glianni passati a gemeresu un foglio bianco,non ho mai inventatonécreatonulla».
Ingenere,«schivo»o«appartato» sonoepiteti riservati aivirtuosi dei media –solo che Wall lo eradavvero.Edauncertopunto di vista sipresentava come ilsognodiognieditore–un autore modesto,remissivo, vagamentemasochista, pronto arimangiarsi nellalettera successiva ciò
che aveva proposto inquella precedente.Quando finalmenteentra incorrispondenza direttacon Davies, concordacon lui sul fatto che idue racconti cheEleanor gli haconsegnato nonpossano uscire così, eche un bel romanzosarebbe l’ideale. Fral’altro, sostiene, ne sta
scrivendo uno, ed è abuonpunto.Solocheafinirlo ci metteun’eternità, perché ilnuovo incarico, alCairo, gli porta viamolto più tempo delprevisto.Equandoallafine consegna PeterWenzel, storia di dueinglesi all’estero cheentranoincontattoconuna setta islamicaeretica, Davies gli
risponde (sei mesidopo,beitempi)chelascrittura del libro èammirevole, ma lastoria, purtroppo, nonregge,anzi,nonc’è.Unaltro autore avrebbealmeno provato adifendersi, invece Wallreagisce con unlaconico, eautolesionista:«Nonmidice niente che nonabbia già pensato io».
Rimette il libro nelcassetto (dove resteràper una ventinad’anni),econcordaconDavies che è meglioprocedere con iracconti. Ne invia altritre,cheaquestopuntofanno,comesidice,unlibro,enonsoloperunfatto di foliazione. Lecinque storie hannoinfatti setting diversi(tre mediorientali, due
inglesi), ma un trattocomune, nel senso chei personaggi – infanti,adolescentioragazzottiformati che siano –abbandonano quasiinavvertitamente ilmondo protetto in cuisono vissuti fino a uncerto momento perentrare incontattoconuna dimensioneparallela, einquietante. Davies dà
alla raccolta il titolodiuno dei racconti,Ringstones, decideunatiratura piuttostoprudente (4000 copie,1500 delle qualidestinate al mercatoamericano) e nel 1951pubblica, dopo unabreve trattativa sullopseudonimo con cuiWall intende firmarsi.Alla fine, di comuneaccordo, viene scelto
«Sarban», chesignifica, in parsi,«carovaniere». Sulrisvolto del libro,redatto con estremacuraestudiatodaWallparola per parola,Sarban si presentacosì:«Sarbanha trascorso
metà della vita inMedioOriente.Attrattodal Levante per due
suepassioni, i viaggi ela filologia orientale, èstato in Nordafrica,Siria, Arabia e Persia.Durantel’ultimaguerraha servito il Governo.Hainsegnatol’arabo,elavorato cometraduttoreeconsulentedi aziende inglesispecializzatenell’esportazione.Tuttele sue opere narrativesono state scritte in
città mediorientali,dove ha tratto enormepiacere,essenzialmente, dalricordo delle colline edeicampiinglesi».Le reazioni al libro
sono buone,ma nientedi cui scrivere a casa.Come sempre succedecon gli esordi, irecensori annaspanoalla ricerca di
parentele, citando aseconda dei casi De laMare, i due James(Henry e MontagueRhodes) e Machen, echiudono dichiarandodi preferire una storiao l’altra. L’unicalettrice di un certolivelloèRebeccaWest,che sostiene il librol’abbia rallegratadurante unaconvalescenza dalla
polmonite, e scrive aDavies di incoraggiarel’autore a tirare fuoriqualcos’altro.Davies,poveraccio,ci
prova, braccandol’autore tramite leRegie Poste – cheperaltro funzionanoabbastanza bene.Sarban intanto dalCairo è passato adAlessandria, poi nelBahrein, dove è finito
coinvolto in unoscandalo piccolo maabbastanzacompromettente, nonessendosi reso contoche un domesticoindianoavevaprelevatodalle cassedell’ambasciata millesterline per giocarselealbingo.AlCairoperòaveva avuto modo discrivere due romanzibrevi, o racconti
lunghi. Uno è TheSound of His Horn,l’altroThe DollMaker,dovesiraccontadiunaragazzina che entra inun bosco (inglese) eincontra uno stranosignore, che fabbricastrane bambole: ilseguito si puòimmaginareabbastanzabene,comesi può immaginarebene anche il
contenuto di un terzoracconto inviato aDavies in quello stesso1951,TheTrespassers:bastailtitolo.ADaviespiacciono entrambi, eper un po’ tentenna:pubblicarli insieme,separatamente, edeventualmente in cheordine.AllafinedecidecheTheSoundèquellocon più possibilità, eprocede.
Sarban, come suosolito,nonhaobiezioni,enullalasciaintendereun particolareattaccamento a uno oall’altro dei due testi.Nel suo diario non c’èun solo accenno alleorigini del racconto, oalsensochel’autoregliattribuiva. Che cosadiavolo fosse quellafantasiadeveesserselochiesto anche Davies,
per quanto ammiratodalla sua riuscita.Tant’è vero che almomentodipresentareil testo – di scriverecioè le poche righe incui si isola il punto diun libro,adispettoeadiscapito di tutto ilresto–tentenna,eallafine prende ladecisione, sofferta, dichiedereaWallseselasente di provvedere
personalmente. Wallobbedisce, e il libroesce con questorisvolto, anonimo mad’autore:«Alan Querdilion è
evasodauncampoperprigionieri di guerra,ed è stato ripreso. Idue fatti sono staticonfermati datestimoni indipendenti.Per sapere quanto è
accadutotralafugaeilmomentodellacattura,invece,abbiamosololasua parola.Ovviamente, tuttoquesto non è maisuccesso. Ma inquell’anno i nazisticredevano ancora allavittoria finale. Hitlerera ancora in grado didecidere, come si eravantatodivoler fare, ildestinodell’Europaper
i successivi mille anni.Il futuro su cui AlanQuerdilion pensava diessersi affacciatodurante il suo crollonervosononeraancoraimpossibile.«Dalle finestre
dell’inferno, moltispettri avrannoosservatoconinteressela costruzione delReich. Se quellamostruosa fabbrica del
male fosse stataportata a termine, ildiavolo in personaavrebbe probabilmenteabbandonato la suaresidenza perassumervi un qualcheincaricoufficiale.Perilposto di Gran MaestrodelleForestedelReich,nella cui riserva AlanQuerdilionsconfinapercaso, non si puòimmaginare un
candidatopiùadattodiHansvonHackelnberg,il Cacciatore dellaSelva diventato, nellaGermania medioevale,una leggenda. Così,nella mente diQuerdilion un passatoleggendarioeunfuturonon impossibilefiniscono perconfondersi.Ilrichiamodelcorno è la storiadiun sogno – il sogno di
una fuga dal male. Ilsognatore si sveglia inun mondo sano; l’ecodel corno si spegne inuna remotalontananza».Mah.ComecopyWall
non era quello che sidice un fenomeno. Iltesto è prolisso,confuso, e contiene unpo’ troppi spoiler. Facapire – molto
vagamente – cosasuccede, ma non deltutto dove sial’interesse.Insostanza,noninvogliaaprendereil libro e passare allacassa. E infatti. Daviesnon tocca una virgola,e il 29 maggio 1952 illibro debutta inlibreria, con risultatimolto deludenti. Lerecensioni sonodecisamente tiepide, le
vendite pure (come iltitolo precedente,ancheIlrichiamofiniràper attestarsi sulle4000 copie, e innessunodeiduecasisiarriverà a unaristampa). L’unicolettore autorevole nonsolo simpatetico, maentusiasta (per i suoistandard) è KingsleyAmis, che apprezza inparticolare – e in un
suopezzosottolinea–ilsottotesto sadico efeticista del racconto,mentre in seguitososterrà che per anninon aveva più potutoascoltare D’Ye KenJohn Peel, la canzonepopolare sulla cacciache è una delle fontidel libro, senza unbrivido lungo laschiena. Nelcomplesso, tuttavia,
l’unicità del Richiamonon viene colta danessuno – o a nessunointeressa.Davies però è
cocciuto – oggiverrebbe radiatodall’albo per moltomeno, ma alloral’insistenza eraconsideratasemplicementeunferrodel mestiere. Un annodopo, il 1° settembre
1953, esce The DollMaker, cui si èaggiunto, oltre aiTrespassers, un terzotesto,AHouse of Call.L’accoglienza è ancorapiù timida – e non c’èda stupirsi, essendo itre racconti moltomeno sorprendenti. Levendite scendonoancora, ma i dueprincipali interessatinonbattonociglio,anzi
Davies chiede subito aWallqualcos’altro.Wallal solito promette, maintanto gli è nata,tardivamente, unafiglia, Jocelyn, e ilForeignOffice,dopounpassaggio a Salonicco,lo ha speditoaddirittura adAsunción. Nonconsegnerà (e nonpubblicherà) più nulla,anche se in realtà
passeràanniascrivere,e soprattutto ariscrivere, unimponente e moltoambizioso romanzodistopico, TheGymnarchs, in cuiimmagina una societàfutura completamentegovernata da femmine.Èinqualchemodounosviluppo del Richiamo,ma la riuscita non è lastessa, e Wall è come
sempre il primo asaperlo.Davies intanto
continua a informarlosullesortideisuoilibri,cioè sul solito piccolocabotaggio dei titoli dicatalogo, finché,nell’ottobre del 1959,gli comunica unabuona notizia:Ballantine pubblicherànegli Stati Uniti, intascabile, Il richiamo,
con un’introduzionescritta appositamentedaKingsleyAmis–cheovviamente Sarbangiudica, appenapresane visione,«troppo buona, per unlibrocosì».Ballantineèun grande editorepopolare, e comeintenda presentareSarban appare chiarosia dalla scelta dellacollana in cui farlo
uscire, quella«BallantineChamberofHorrors» che era unaspeciedisacrariodellanarrativaunderground,sia dalla copertinaadottata, dove, allafaccia della tipografiaprediletta da Davies,una ragazza nuda – efucsia – fugge, in unaselva blu, da uncavaliere bianco (in untascabile Sphere di
qualcheannodopounabionda nuda di spalle,lacarnebiancasegnatadalgraffiorossodiunafiera, si aggrappadisperata a un paio dicalzoniprepotentementemaschili, anche se unpo’ troppometropolitani per ilcontesto,elastoriadelpackaging editoriale diSarbansiarricchiscedi
un altro capitolo). Illibro esce nel marzo1960, e stavolta siguadagna recensionieccellenti (sulla «NewYork Times BookReview» Richard Plantscomoda, nell’ordine,laShirleyJacksondellaLotteria, Kafka, Poe e,sa il cielo perché,Tennessee Williams),una ristampapressochéimmediata,e
un vendutocomplessivo di 80.000copie, più la solitaopzione – maiesercitata – daHollywood.Wall avrebbe da
festeggiare,seastrettogiro non gli arrivasseun’altra notizia,stavolta tragica. Unmese dopo i trionfiamericani, legge infattisu un «Telegraph» di
qualche giorno primache Davies è mortosotto un treno dellametropolitana, inSloane Square. Lastampa e lamagistratura copronotutto con un verdettounanime di morteaccidentale, ma cosasia successo, eperché,Sarbanlosabenissimo.Scriveimmediatamentea Nico, l’ultimo
superstite dei ragazziLlewelyn,chehapresoin mano la casaeditrice, e con il qualeresterà in contattoanche negli annisuccessivi. Ma nonaccadepiùnulla.Qualche tempo dopo
Wall torna in patria,rivesteancoraincarichiconnessi in variomodoalle istituzionigovernative, e quasi
fino alla mortecontinua a lavorare aThe Gymnarchs, senzaperò mai nemmenotentare di pubblicarlo.Abbozza altri racconti,che nella maggiorparte dei casi nonfinisce. Nel 1969ripropone timidamentea Nico Davies PeterWenzel, ma il lettoreche lo riprende inmano conferma il
giudizio già emessovent’anni prima, eWall, col solitorealismo in eccedenzarispetto a quello deimonarchi, si dichiaraintenzionato adistruggere ilmanoscritto.Più o meno è tutto,
nel senso che lavicendadiSarban–treannidiribalta(sifaperdire), un capolavoro
minore (ammesso chela definizione,vagamente ridicola,abbia senso), poi lasparizione e l’oblio –nonoffrealtriappigliaicacciatori di misteri. Ivicoli che si sarebbetentatidiintraprendere– lo stranomatrimonioquasi a distanza conEleanorconclusodaunnon meno singolaredivorzio tardivo,
l’ossessione per unabambola molto sinistracostruita per Jocelynappena nata, efotografata da ogniangolazione, le paginepiù franche, o se sivuole più grafiche, deldiario strappate una auna–nonconduconoanulla.Achinegliultimianni si interessavaallasua vicenda, e glichiedeva qualche
dettaglio biografico,per una ragione o perl’altra, Sarbanrispondevarimandandoalla propria voce sulGotha,cheeraunmeroelenco di incarichidiplomatici. Scorrendole bozzedi unpensososaggio, il cui autore aun certo punto siinterrogava sulleragioni profonde delsuoprecoceritirodalle
scene, Sarban avrebbeannotatodi suopugno,a margine, l’unicaspiegazione per luiaccettabile: pigrizia. Enonèdettochefosselasolita civetteriad’autore.Restano i libri,
naturalmente, esoprattutto questo. Avoltedellaletteratura–inparticolaredellesuespecie che fioriscono
all’improvviso, eall’improvviso, senzauna spiegazioneapparente,appassiscono–bisognaaccontentarsi. Ilrichiamo offre allettoredosimassicce,emolto superiori allamedia,diquelloche inun’epocaremotasieradeciso di chiamare ilpiacere del testo – piùomenoallostatopuro.
Ma al tempo stessorespingeconunacertadurezza analisi einterpretazioni –perfino quelleautorizzate,sesipensache Davies rifiutò diinserire nel volume idisegni di Eleanor,temendo chesuggerissero unaprospettiva fuorviante.Achivuolecapirecosaquesto libro volesse
esserenonrestaquindiche armarsi dimicroscopio, e cercareuna particella di veritàdove la verità(letteraria) spesso siannida, e cioènei testipiù lavorati, e piùsofferti, che l’editoriaproduca. Dai duerisvolti riportati sopra,letti con attenzione,qualcosa volendotraspare. Dove Sarban
diceva la verità, di sestesso, e doveinventava. Che cosapensavadiaverscritto,e in fondo ancheperché. È un tipo diindagine che ognunopuò condurre inproprio, e che, data lamateria di cui questolibro assolutamenteunico è fatto, potrebbeanche portare lontano.Ma in ogni caso, per
fortuna, Il richiamoparladasé.