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“Il popolo delle scimmie”e la lettura gramsciana del fascismo negli anni venti
di Pier Giorgio Zunino
Sebbene il tema dell’interpretazione del fascismo da parte di Gramsci rappresenti un oggetto nel quale è pressoché inevitabile imbattersi allorché si attraversi la storia del primo comuniSmo o quando, più in generale, si considerino le vicende che portarono l’Italia alla dittatura, è difficile sfuggire alla sensazione che i molti fili di cui si compone la lettura gramsciana del fascismo non siano stati ancora riuniti in una interpretazione complessiva. Diremo subito che non è a colmare un tale vuoto che mirano le pagine seguenti; è nostra intenzione, piuttosto, compiere ancora una ricognizione preliminare, indugiando su un terreno, quello del Gramsci di fronte alla nascita e all’avvento del fascismo, che è forse meno noto (e meno sgombro di problemi) di quanto a prima vista potrebbe apparire.
Al contrario, alla questione del fascismo negli appunti del carcere l’esame degli studiosi è tornato più volte, e spesso con esiti molto interessanti, nonostante la consistenza enigmatica che talora rivelano i Quaderni. La lettura del fascismo in controluce alle riflessioni intraprese nel 1929 ha ormai messo in risalto gli aspetti salienti del pensiero gramsciano su questo tema. La connotazione bonapartistica del sistema politico fascista, il suo carattere di “rivoluzione passiva” ,
il connubio tra regime autoritario e razionalizzazione produttiva: vari studiosi ci hanno già offerto persuasive annotazioni su queste tessere del mosaico gramsciano1. Non vorremmo arrivare a dire che intorno a tali questioni i Quaderni siano stati spremuti fino all’ultima goccia e ci abbiano ormai detto tutto quanto avevano da dirci. Tuttavia, a nostro avviso, il contributo dell’ultimo Gramsci alla comprensione del fascismo ci sembra si collochi sui confini o addirittura al di là delle note del carcere, come denota il fatto che l’influsso di Gramsci sulle analisi del fascismo è stato ed è tutt’altro che lieve.
Almeno su due punti si è verificata una notevole consonanza tra lo sviluppo della ricerca intorno al fascismo e alcuni dei temi cruciali dei Quaderni: la questione degli intellettuali e delle ideologie, da un lato, il problema del consenso, dall’altro. Sono questi, come è noto, due temi dominanti nei Quaderni non meno che nelle riflessioni degli storici del fascismo. Il denso filone di ricerche sulla cultura, sull’intellettualità e sulle ideologie durante il fascismo è sotto gli occhi di tutti e non è arrischiato dire che una parte non piccola di questa linea di indagine sia frutto diretto o mediato dell’influenza esercitata da Gramsci sulla cultura dell’Italia postbellica. Più rilevante ancora, e in parte
1 Per tutti, ricorderemo i saggi di Luisa Mangoni, Il problema dei fascismo nei “Quaderni deI carcere”, in Aa.Vv., Politica e storia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1977, voi. I, pp. 391-438 e di Franco De Felice, Rivoluzione passiva, fascismo, americanismo in Gramsci, ivi, pp. 161-220.
Italia contemporanea”, giugno 1988, n. 171
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non del tutto messo a frutto, è l’apporto gramsciano sul tema del consenso; giacché i Quaderni del carcere delineano una immagine delle società occidentali nelle quali il consenso è l’elemento fondante. Per Gramsci è solo attraverso l’esame di una egemonia che è imposta dalle classi dominanti, ma che per molte vie — in primo luogo attraverso il canale ideologico — viene recepita e non solo subita dai ceti inferiori, che si può comprendere lo sviluppo delle vicende storiche che hanno visto, dopo l’esperienza russa, sia l’arresto del processo rivoluzionario, sia la nascita dei fascismi nel cuore del vecchio continente. L’idea che la sola coercizione dall’alto non sia sufficiente a spiegare l’andamento assunto dalla storia dell’Europa occidentale dopo il 1919-20 è un tratto fondamentale delle riflessioni del carcere. Come ha osservato Perry Anderson, è presente nel Gramsci dei Quaderni la convinzione che le società occidentali “si conservino con il consenso, non con la coercizione”; così come è caratteristica di Gramsci l’indicazione di una “relazione strutturale” tra la coercizione e il consenso2.
Questa sorta di universo della consensualità che prende forma negli appunti del carcere costituisce, ci sembra, uno dei più preziosi strumenti concettuali che gli storici del fascismo si sono ritrovati tra le mani. Si tratta infatti di una visione della società che consente di mettere a fuoco uno degli aspetti essenziali del problema fascista. Perché è anche grazie a Gramsci che può svilupparsi una lettura del rapporto tra dominanti e dominati nelle società occidentali che permette di sfuggire alla alternativa secca o coercizione o consenso in cui si è non raramente impigliata la riflessione sugli elementi fondanti del dominio fascista. Ad una concezione meccanica che non consentiva di giungere al nocciolo della questione (perché i due lati
del binomio sembravano essere in una posizione di inconciliabile esclusione) attraverso l’apparato concettuale rintracciabile nei Quaderni si può sostituire una ben più realistica e ben più proficua visione dialettica del rapporto tra la coercizione e il consenso. In questo quadro, ad una relazione oppositiva subentra un rapporto di inclusività, e diremmo anzi di complementarità sinergica tra le due leve del potere fascista. Si delinea così un rapporto tra consenso e coercizione che è davvero in grado di farci uscire dalle sabbie mobili di una contrapposizione senza fine tra due entità in perenne contrasto. Lungo questa via si attenua quella antitesi che costringeva ad affermare che se c’era Luna cosa, la coercizione, non poteva esserci l’altra, il consenso — e viceversa. Seguendo invece il Gramsci dei Quaderni verremo a comprendere come una relazione tra la coercizione e il consenso sia non solo possibile, ma addirittura necessaria. Verremo a intravedere la presenza di una serie di successivi punti di equilibrio tra i due poli, tali che all’accentuazione dell’impulso coercitivo si potrà senza soverchia difficoltà accostare l’accrescimento di una risposta consensuale. In definitiva, è nelle pieghe dei Quaderni del carcere che, a nostro avviso, si può trovare una chiave di lettura in grado di illuminare alcuni dei più profondi recessi della questione fascista. E così, non solo si potrà comprendere la coesistenza tra coercizione e consenso sotto il fascismo, ma non sarà impossibile cogliere il loro vicendevole intensificarsi che potrebbe farci approdare, e senza troppi sussulti, ad una conclusione che diversamente si sarebbe collocata del tutto fuori dal nostro campo visivo ed anzi sarebbe parsa a più d’uno non poco paradossale. Questo punto d’approdo è rappresentato dall’ipotesi secondo cui quanto maggiore fu nel fasci
2 Perry Anderson, Ambiguità di Gramsci, Roma-Bari, Laterza, 1978, pp. 40, 76, 80; si vedano in particolare le annotazioni circa il fatto che “in Gramsci la coercizione [viene] progressivamente eclissata dal consenso” (p. 90).
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smo la coercizione tanto più penetrante dovette risultare l’impulso verso il consenso.
Ma tutto ciò, come si diceva, si colloca sui confini, o al di là dei confini, delle pagine di Gramsci e, più che al rapporto tra Gramsci e il fascismo, attiene all’interazione tra teoria gramsciana e storiografia. Riteniamo dunque più utile, per intanto, ritornare agli anni antecedenti alla stagione dei Quaderni. Qui il campo di indagine è tutt’altro che esaurito e più d’una delle tessere del giudizio di Gramsci sul fascismo merita un attento riesame.
Gramsci e Kipling
Il 2 gennaio 1921 compariva sull’“Ordine Nuovo” un articolo destinato a diventare celebre. Sotto il titolo di II popolo delle scimmie si sviluppava una identificazione tra piccola borghesia, fascismo e, di riflesso, regime parlamentare attraverso la quale l’autore si prefiggeva lo scopo di rivelare la caduca sostanza (ridotta a “capricci isterici”) del movimento fascista. Due passaggi di quello scritto meritano qui una citazione diretta: il primo è laddove si ravvisa nel fascismo “la proiezione nella realtà di una novella della jungla di Rudyard Kipling: la novella del Bandar-Log, del popolo delle scimmie, il quale crede di essere superiore a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta l’intelligenza, tutta l’intuizione storica, tutto lo
spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo, ecc., ecc.”. In uno degli ultimi passi di quell’articolo si dice ancora: “Il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere libri”3.
Questo scritto di Gramsci ci pare richieda un esame molto attento, un’analisi che metta in atto una considerazione più ravvicinata di quanto sinora si sia fatto alle matrici, o quantomeno ai molteplici influssi culturali, e a volte esplicitamente letterari, che si esercitarono su Gramsci. In effetti, il titolo e l’immagine di fondo su cui si plasma il discorso gramsciano ci riportano ad un autore che, di primo acchito, ci sorprende non poco di trovare per le mani di Gramsci. In effetti, senza naturalmente volere addentrarsi nel ricchissimo campo della critica kiplin- ghiana, non è del tutto possibile dimenticare che l’immagine che Kipling proiettò di se stesso per lo più coincise perfettamente con quella di un campione del più acceso sciovinismo imperiale. Basterà ricordare il giudizio del pur conservatore Mario Praz, uomo bene inserito nella società del tempo fascista, che ne scrisse come di un “vate della razza eletta” che concepiva “le macchine come individui e gli individui come macchine”4. Del resto, per dirla con Orwell, “during five litterary generations every en- lightened person[had] despised him”5.
Ogni problema potrebbe immediatamente dissolversi se si riconoscesse in quella citazione null’altro che una delle tante formule
3 L’articolo apparve su “L’Ordine Nuovo” il 2 gennaio 1921, ora in Antonio Gramsci, Socialismo e fascismo. '‘L ’Ordine Nuovo”, 1921-1922, Torino, Einaudi, 1967, pp. 9-12. Si è detto della notorietà di questo scritto; si dovrà aggiungere che qualche problema interpretativo deve pur continuare a suscitarlo, se è vero che è stato oggetto di qualche omissione. Infatti, alla pur attentissima annotazione dell’edizione critica dei Quaderni deI carcere, laddove, a proposito di una ripresa dell’immagine del “Popolo delle scimmie”, si rinvia ad altri scritti dove già era comparso questo riferimento, stranamente si dimentica proprio questo articolo in cui la citazione kiplinghiana appare addirittura nel titolo (si veda A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi, 1975, a cura di Valentino Gerratana, voi. IV, p. 2521).4 Si veda la voce su Kipling redatta da Mario Praz per PEnciclopedia italiana, voi. XX, 1933.5 George Orwell, Rudyard Kipling, in Kipling’s Art and Mind, a cura di A. Rutherford, Stanford, Stanford University Press, 1965, p. 70.
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letterarie che, in abbondanza, dovevano trovarsi nel repertorio di un giornalista avveduto come Gramsci. Ma cosi non è, perché dietro il rivestimento letterario c’è qualcosa di più consistente. Prendendo ad esplorare il territorio circostante all’immagine del “Popolo delle scimmie” ed immergendosi nelle pagine gramsciane alla ricerca di echi e di assonanze, poco per volta quella raffigurazione cessa di essere una mera apposizione stilistica.
Diciamo, intanto, dell’incontro tra Gramsci e Kipling, che non appare così casuale ed esteriore come a prima vista potrebbe sembrare. Un incontro che avvenne, probabilmente, intorno al 1910 e che si dovette rafforzare attraverso le pagine della “Voce”, dove il nome di Kipling apparve più di una volta, e circondato da un intenso fervore. Sulla rivista prezzoliniana era Emilio Cecchi a presentare Kipling come il portabandiera di una “religione dell’operosità” e come il cantore di un uomo posto in precario equilibrio nell’eterno “gioco di vita e di morte” e “fatto per la lotta assai più che per la gioia”6. Espressioni e formule che è quasi superfluo sottolineare quante analogie presen
tino con taluni dei temi che avrebbero accompagnato Gramsci negli anni successivi. Senza lasciarci catturare da un’indagine sulla fortuna di Kipling in Italia, non si potrà non ricordare il diffuso interesse che lo scrittore inglese suscitò in quel periodo, e non solo in Emilio Cecchi o in Luigi Ambrosini, ciascuno dei quali gli dedicò un libro. Ritroviamo una grande attenzione per Kipling anche in un’altra figura, questa ben più essenziale alla comprensione dell’atmosfera culturale del primo Novecento italiano (e che a sua volta fu non casualmente tra gli ispiratori del giovane Gramsci): ci riferiamo a Renato Serra7.
Sin dalle prime battute dell’attività giornalistica di Gramsci, Kipling si afferma come una presenza insistente. Raksha, il demone che trova accoglienza nelle pagine ki- plinghiane, è un non raro nom de piume sotto cui si cela il giovane collaboratore del “Grido del popolo”8; nel 1916, con il titolo di Breviario per laici, Gramsci pubblica con grande risalto una poesia dello scrittore inglese, che viene presentata “come esempio di una morale non inquinata di cristianesimo e che può essere accettata da tutti gli uomini”9'
6 Emilio Cecchi, Rudyard Kipling, “La Voce”, 1 dicembre 1910. Su Kipling sarebbe tornato Piero Jahier (cfr. Il libro delle bestie, ivi, 29 febbraio 1912).7 II grande interesse di Serra per Kipling è attestato in vari passi dell’epistolario. Nel Libro della jungla, in particolare, egli ravvisava “l’opera di poesia più originale di questi ultimi anni” (cfr. la lettera a Luigi Ambrosini del 5 gennaio 1905, in Renato Serra, Epistolario, a cura di L. Ambrosini, Giuseppe De Robertis, Alfredo Grilli, Firenze, Le Monnier, 19532, voi. 1, p. 64). Ma in generale Serra vedeva in Kipling uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. Scriveva, ad esempio: “lo amo Kipling: con passione, con ardore mai rallentato, con delizia quasi sensuale a rileggere e ripensare” (a L. Ambrosini, data imprecisata del 1907, ivi, p. 148). E ancora: Kipling, “lo scrittore che amo tanto da non volerne parlare; e avevo resistito alla voglia di leggere Shakespeare e ho dovuto cedere al bisogno di leggere Kim nel testo inglese. [...] Parlarmi di Mowgli e di Kim è come parlarmi della donna a cui voglio bene” (a E. Cecchi, 24 gennaio 1911, ivi, voi. Il, pp. 355-356). Come è noto, infine, nel 1907 Serra scrisse su Kipling un lungo saggio che vide la luce solo nel dopoguerra. Per converso, gli influssi di Serra su Gramsci sono ancora da approfondire. Ma si veda uno dei primi scritti di Gramsci, redatto in occasione della morte del letterato, nel quale il giovane socialista additava la “nuova umanità” che aveva visto vibrare in Serra (cfr. La luce che si è spenta, “Il Grido del popolo”, 20 ottobre 1915, ora in A. Gramsci, Cronache torinesi. 1913-1917, Torino, Einaudi, 1980, a cura di Sergio Caprioglio, pp. 23-26. Non si tratterà d’altro che di un mero congiungimento esteriore, ma non si riesce a tacere il ricorrere nel titolo dell’articolo dedicato a Serra dello stesso titolo di un romanzo di Kipling).8 Si vedano vari articoli del periodo 1915-17 in A. Gramsci, Cronache torinesi, cit., pp. 30, 378, 479, 698.9 La poesia If, tratta dalla raccolta Rewards and Fairies, del 1910, viene pubblicata nelle cronache torinesi deI!’“Avanti!” il 17 dicembre 1916, ora in Cronache torinesi, cit., pp. 657-658.
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e nello stesso torno di tempo il giornale socialista torinese pubblica un racconto di Kipling10. Ma, soprattutto, è il riferimento a cui assistiamo poche settimane più tardi che attira la nostra attenzione; perché è una intera pagina della “Città futura” che si sviluppa sotto il segno di Kipling. La disciplina — una impronta più intimamente kiplin- ghiana e gramsciana al medesimo tempo sarebbe difficile da immaginare — è il titolo di un articolo in cui si sviluppa una distinzione tra l’ordine borghese, che “è cosa meccanica ed autoritaria” , e una disciplina socialista “autonoma e spontanea”11. Straordinariamente intenso è qui l’ispirarsi a Kipling. Scrive Gramsci: “In una delle Novelle della Jungla Rudyard Kipling mostra in atto ciò che sia la disciplina di un forte stato borghese. Tutti obbediscono in uno stato borghese. I muli della batteria al sergente della batteria, i cavalli ai soldati che li cavalcano. I soldati al tenente, i tenenti ai colonnelli dei reggimenti; i reggimenti a un generale di brigata; le brigate ai viceré delle Indie. I viceré alla regina Vittoria (ancor viva quando Kipling scriveva). La regina dà un ordine, e il viceré, i generali, i colonnelli, i tenenti, i soldati, gli animali, tutti si muovono armonica- mente e muovono alla conquista. A uno spettatore indigeno di una parata militare il protagonista della novella dice: ‘Poiché voi non sapete fare altrettanto, siete nostri sudditi’. La disciplina borghese è Tunica forza
che mantenga saldo l’aggregato borghese. Bisogna a disciplina contrapporre disciplina” .
È evidente in questi passi l’intenzione di rovesciare l’ideale kiplinghiano, e tuttavia qui affiora anche l’adesione intima ad un modello di relazioni caratterizzato da vincoli gerarchici molto intensi. L’impegno totale, l’obbligo, la scelta necessaria, la dedizione come imperativo assoluto, insomma: lo spirito di chi cantava i fondatori degli imperi si rivelava impastato della stessa sostanza che alimentava, pur nel mutamento di segno finale, il retroterra morale e ideologico di chi intendeva ricostruire la società e rifondare lo stato nella prospettiva della rivoluzione proletaria.
Lungo questi fili il dialogo di Gramsci con Kipling durerà fino agli ultimi giorni. Negli anni del carcere Gramsci tornerà in diverse occasioni a Kipling, ed ogni volta vi additerà la grande riserva di “forze vitali” e di “energia morale e volitiva”12. In una nota del 1930 scriverà: “La morale di Kipling è impe- ralista solo in quanto è legata strettamente a una ben determinata realtà storica: ma si possono estrarre da essa immagini di potente immediatezza per ogni gruppo sociale che lotti per la potenza politica. La ‘capacità di bruciar dentro di sé il proprio fumo stando a bocca chiusa’ ha un valore non solo per gli imperialisti inglesi [,..]”13.
Una lettura attenta di alcuni passi degli scritti gramsciani ci rivela un altro specifico
10 R. Kipling, La moglie legittima, “Il Grido del popolo”, 22 aprile 1916.11 La disciplina, “La città futura”, numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese, ora in A. Gramsci, La città futura. 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Torino, Einaudi, 1982.12 Lettera a Tania, 22 maggio 1933, in A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e Elsa Fubini, Torino, Einaudi, 19652, pp. 782-783; per altri significativi riferimenti all’opera di Kipling nelle lettere si vedano pure le pp. 87, 579, 791, 812.13 Cfr. Quaderni del carcere, cit., voi. 1, quaderno 3 (1930), p. 402 e anche quaderno 1 (1929-1930), p. 97. Questa nota era stata originata dalla lettura di un articolo su Kipling apparso sul “Marzocco” (cfr. A. Sorani, Rudyard Kipling, 3 novembre 1929, p. 2), nel quale non è difficile ritrovare alcune significative assonanze con i motivi gramsciani. L’autore dello scritto citava la “morale dello sforzo e dell’energia” come momento caratterizzante dell’opera di Kipling. Dell’autore inglese, poi, si citava il testo di una conferenza nella quale, tra l’altro, aveva affermato: “La vera scuola [...] è quella che vi insegnerà a conoscere e a dominare voi stessi [...] e quel dono prezioso che è la capacità di ‘bruciar dentro di voi il vostro fumo’, stando a bocca chiusa”. Sulla “missione educatrice” di quel “professore di
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debito verso lo scrittore inglese. Vi è infatti una formula che per un quindicennio cadenzerà le riflessioni di Gramsci, come una sorta di sintetica chiave di lettura della storia e della vita. Nel maggio del 1931, rivolgendosi alla moglie, suggellerà la sua lettura della realtà con l’espressione un “mondo [...] grande e terribile e complicato” . “Tempo di ferro e di fuoco”, le aveva scritto qualche anno innanzi; e alla cognata, negli stessi giorni del febbraio 1927: “Questo mondo così grande e terribile” . E ancora, in una delle ultime lettere a Iulca troviamo nuovamente il richiamo “al vasto mondo”14. C’è in questa espressione gramsciana il compendio di una visione del mondo nella quale una molteplicità di motivi di vita che sconfina in una vertiginosa vastità, da un lato, e, dall’altro, un senso vago di inesorabile inconoscibilità si condensavano in una atmosfera carica di tensione. Del resto, queste stesse immagini segnate da una luce non del tutto scevra di una oscura tonalità erano già largamente circolate nelle pagine del Gramsci di prima del carcere. Come in quell’articolo dell’ottobre 1919, dove la “grandezza e la terribilità della vita” era la cornice di un severo giudizio sul formicolante accalcarsi dei torinesi intorno alle urne delle prime elezioni postbelliche15; o come il senso “grandioso e pauroso nel tempo stesso” che egli intravedeva nella nuova volontà di partecipare “alla storia” provocato dall’esperienza bellica16. Le pri
me, probabilmente, di queste espressioni ci riportano al settembre-ottobre del 191717: sgomento di fronte al destino degli uomini “sperduti nella vastità del mondo”18 e sfida alle cose che sembrano frapporsi come un fiume di avversità talvolta distendendo un velo di ineluttabilità, talaltra lasciando aperti margini di intervento alle energie umane, questa formula si configura come un disegno di fondo nell’universo mentale di Gramsci. Forse lo si potrebbe dire un basso continuo; certo è che quegli spazi sconfinati, e spietati, non sono del tutto remoti rispetto alle regioni della disumanità e della desolazione. La stessa frattura rivoluzionaria, “una cosa grande e tremenda”19, emette bagliori grandiosi ma anche paurosi.
Ebbene, questo sostrato nel quale si annidava un “maleficio latente”20 che esigeva il riscatto rivoluzionario quale unica possibile via di redenzione — e quanto più corrotta era la materia da bonificare, tanto più corrosivo avrebbe dovuto essere il bagno purificatore — trovò forma in un’espressione che, anch’essa, veniva da Kipling. È in Kim (il romanzo del 1901 la cui conoscenza da parte di Gramsci è sicuramente attestata21) che l’espressione testuale ricorre più volte. “Ceci c’est un vaste et terrible monde”, dice il lama mentre da dietro un cespuglio osserva il misterioso e minaccioso sopraggiungere di un drappello di soldati. E in un altro passo: “Le mal est fait. Une cause s’est trouvée
energia” che era Kipling — altre espressioni i cui echi ritroviamo in Gramsci — si veda E. Cecchi, RudyardKipling, Firenze, Quaderni della Voce, 1910, p. 57.14 Cfr. Lettere dal carcere, cit., pp. 50, 54, 437, 850.15 Chiarezza, democrazia, ordine..., “Avanti”, 17 ottobre 1919, ora in A. Gramsci, L ’Ordine Nuovo. 1919-1920, a cura di Valentino Gerratana e Antonio A. Santucci, Torino, Einaudi, 1987, pp. 246-247.16 La paura della rivoluzione, “Il Grido del Popolo”, 5 ottobre 1918, ora in A. Gramsci, // nostro Marx. 1918- 1919, a cura di S. Caprioglio, p. 304.17 Cfr. Un vandalo, “Avanti!”, 24 settembre 1917 e II canto delle sirene, “Avanti!” , 10 ottobre 1917; entrambi gli articoli sono in La città futura, cit., pp. 356, 384.18 Stregoneria, “Avanti!”, 4 marzo 1916, in A. Gramsci, Sotto la Mole. 1916-1920, Torino, Einaudi, 1960, p. 60.19 Lo stato e il socialismo, “L’Ordine Nuovo”, 28 giugno-5 luglio 1919, in L ’Ordine Nuovo, cit., p. 119.20 II canto delle sirene, cit.21 Cfr. Il nostro Marx, cit., p. 629.
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lancée dans le monde, et, vieux ou jeune, malade ou sain, instruit ou non, qui donc peut tenir en bride l’effet de cette cause? La Roue reste-t-elle en suspens parce que c’est un enfant — ou un ivrogne — qui la fait tourner? Chela. Ceci est un monde vaste e terrible”22. E non è solo al nocciolo della formula kiplinghiana che ci riporta Gramsci; in un passo del 1917 il ricalco quasi letterale si estende ben al di là dei confini più ristretti della reminiscenza puramente letteraria: “Il mondo — scrive — è veramente grande e terribile e complicato. Ogni azione che viene scagliata sulla sua complessità sveglia echi inaspettati”23.
Realismo e pessimismo
Prima di tornare all’allegoria delle scimmie da cui abbiamo preso le mosse, ci sembra utile fare ancora un’incursione in una parte del territorio mentale gramsciano contigua a quella in cui ci siamo aggirati ora. Perché l’idea della grandezza e terribilità del mondo ci porta diritto verso un altro crocevia del sottosuolo gramsciano. Quello, per intenderci, sintetizzato nella celebre espressione: “Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà” .
L’addensarsi di annotazioni intorno a questo tema è ricorrente nelle pagine del giovane Gramsci. Mentre infuria la guerra, nella primavera del 1916, è una passeggiata domenicale al Valentino che lo induce a con
statare come ci sia “ancora chi gioca alle bocce e chi scattina e chi va a far le merende sui prati” . Questa arcadica visione, scrive Gramsci, “ci ha procurato [...] una grande delusione e ci ha fatto diventare pessimisti”24. Il fondo barbarico che ingombrerebbe l’animo umano, nell’invincibile spessore dei “bassi istinti dell’uomo”25 aveva, secondo Gramsci, incontrato nell’evento bellico una scintilla da cui era scaturito un fuoco inestinguibile. Il ritorno del tema della “barbarie” e, per riflesso, del pessimismo come di una “divinità” tutoria26 è continuo tra guerra e dopoguerra. Ora è l’immagine di un proletariato non del tutto affrancato da “anime di schiavi che non trovano di meglio che imitare i loro padroni”27; ora è l’in d ifferenza” e l’“assenteismo dei molti”28. Negli anni che vanno dal 1917 al 1920 si assiste a un intensificarsi di queste riproposizioni; note che contendono il terreno giorno dopo giorno al loro risvolto, e cioè all’ottimismo rivoluzionario. È un intreccio dialettico che si esalta vicendevolmente: quanto più intensa è la rivelazione che “la molla dello sviluppo storico” è “il dolore, il male”29, quanto più “mostruosa” appare “la presenza di forze demoniache incontrollabili” e percorse da “brividi felini”30, tanto più necessario e indifferibile si pronuncia in Gramsci l’appello alla catarsi rivoluzionaria. L’“immonda cloaca”, il “pullulare di malavita” ; “le perversioni belluine” e “gli individualismi animaleschi” di un “popolo arretrato e opaco, percorso da stimoli irrazionali e capriccio-
22 R. Kipling, Kim , Poitiers, Mercure de France, 1902, pp. 110 e 260. Si cita da una traduzione francese che rappresenta, presumibilmente, il testo letto da Gramsci, cfr. La città futura, cit., p. 20 e Lettere dal carcere, cit., p. 783.23 Un vandalo, cit.24 Atlanti e storie, “Avanti!” , 25 aprile 1916, ora in Sotto la Mole, cit., p. 126.25 Fuori dai cardini, “Avanti!”, 4 maggio 1916, in Sotto la Mole, cit., p. 132.26 Bombance, “Avanti!”, 1 agosto 1916, in Sotto la Mole, cit., p. 213.2 Bombance, cit., p. 214.28 L ’indifferenza, “Avanti!”, 26 agosto 1916, in Sotto la Mole, cit., p. 228.29 La passività, “Avanti!”, 16 giugno 1918, in // nostro Marx, cit., p. 122.30 Anche a Torino, “Avanti!”, 5 dicembre 1918, in II nostro Marx, cit., p. 430 (l’uso di “felini” al posto di “ferini” non compare una sola volta negli scritti gramsciani).
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si”31; e ancora: il dilagare “incomposto e atroce di tutte le passioni barbariche e feline”32. È su questo sfondo di degrado e di di- sfacimento che prende a innalzarsi l’edificio rivoluzionario bolscevico, ed è un orizzonte cosi oscuro che contamina per qualche suo aspetto anche il proletariato: “La rivoluzione — scrive alla fine del 1919 — trova le grandi masse popolari italiane ancora informi, ancora polverizzate in un brulichio animalesco di individui senza disciplina e senza cultura, ubbidienti solo agli stimoli del ventre e delle passioni barbariche”; “Di bene e di male è intessuta la vita, tutta la vita, anche quella proletaria”, dice ancora33. L’idea di rivoluzione in Gramsci, infatti, lo si dirà ancora una volta, ci sembra fortemente segnata da questa lettura della realtà italiana. “Dal panorama di rovina e di miseria” e dall’abisso della crisi, scrive Gramsci, si uscirà solo attraverso una “ferrea disciplina”34. È un esito che pare assumere i contorni di una ascesa volta alla redenzione da una sorta di peccato originale che graverebbe non solo sulla storia nazionale, ma anche sull’intero genere umano. La rivoluzione proletaria e la dittatura sarebbero state il ferro rovente che avrebbe dovuto cauterizzare la ferita. Nell’agosto del 1920 Gramsci scrive un brano esemplare in proposito: “Noi siamo persuasi profondamente che la classe operaia realizzerà la sua liberazione solo passando attraverso un periodo di ‘dittatura’, di costrizione, di Stato operaio. La guerra ha piombato la società degli uomini in tali condizioni di barbarie e di demoralizzazione, ha accumulato tali e tante rovine, ha scatenato tale rigurgito di bassezze e
di vigliaccheria, che solo una classe giovane, energica, ricca di spirito di disciplina e di sacrifizio come la classe operaia può, col suo esempio e con la costrizione del potere di Stato, tenuto fortemente dalle sue mani, ricondurre un ordine, ridare all’apparecchio di produzione e di scambio la possibilità di nutrire, vestire e dare un tetto agli uomini”35.
È in questo quadro che si definisce una delle più intense formule gramsciane — i cui elementi compositivi erano dunque ben presenti nel periodo precedente. Criticando l’ottimismo anarchico, Gramsci scrive nel 1920: “La concezione socialista del processo rivoluzionario è caratterizzata da due note fondamentali che Romain Rolland ha riassunto nel suo motto d’ordine: ‘pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà’. Gli ideologici dell’anarchismo dichiarano invece [...] di ripudiare il pessimismo dell’intelligenza di Carlo Marx”36. E pochi mesi più tardi: “La parola d’ordine: ‘pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà’ deve essere la parola d’ordine di ogni comunista consapevole degli sforzi e dei sacrifizi che sono domandati a chi volontariamente si è assunto un posto di militante nelle file della classe operaia”37. E quando sarà sorto il fascismo giungerà a dire: “Il nostro ottimismo rivoluzionario è stato sempre sostanziato da questa visione crudamente pessimistica della realtà umana, con cui inesorabilmente bisogna fare i conti”38.
Questo celebre aforisma assume un più preciso contorno all’apparire sull’orizzonte italiano del fascismo. È proprio l’esplosione squadristica della primavera 1921 che induce
31 Malavita scolastica, “Avanti!” , 22 marzo 1919; I romanzi d'appendice, ivi, 25 maggio 1918;/ cattolici italiani, ivi, 22 dicembre 1918 (cfr. // nostro Marx, cit., pp. 572, 61, 456).32 Fuori del dilemma, “Avanti!”, 29 novembre 1919, in L ’Ordine Nuovo, cit., p. 336.33 La settimana politica, “L’Ordine Nuovo” , 15 novembre 1919, in L ’Ordine Nuovo, cit., p. 317.34 La settimana politica, “L’Ordine Nuovo”, 16-23 ottobre 1920, in L ’Ordine Nuovo, cit., p. 716.35 Che cosa intendiamo per ‘demagogia’?, “Avanti!” , 29 agosto 1920, in L ’Ordine Nuovo, cit., p. 643.36 Discorso agli anarchici, “L’Ordine Nuovo” , 3-10 aprile 1920, in L ’Ordine Nuovo, cit., pp. 490-491.37 La settimana politica, “L’Ordine Nuovo”, 10 luglio 1920, in L ’Ordine Nuovo, cit., p. 583.38 Uomini di carne e ossa, “L’Ordine Nuovo”, 8 maggio 1921, in Socialismo efascismo, cit., p. 154.
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Gramsci a riaprire il discorso sulla “psicologia barbarica” che gli pare costituisca il substrato di fondo della società italiana. “Lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri” riporta al “basso livello di civiltà” del paese e alla “immaturità ‘umana’” di una parte assai rilevante della popolazione39. Questi temi e questi accenti, che esprimono un autentico modo di giudicare, e più ancora di sentire, si connettono, a nostro avviso, con un insieme di motivi e con una complessa stratificazione di immagini le cui radici non sono molto lontane da quelle ispirazioni che Gramsci traeva da Kipling. Come a dire, in sostanza, che “il mondo grande e terribile” non era altro che la cornice al cui interno si situava il pessimismo realistico, il quale a sua volta rimandava ad una
delle fondamentali fonti ispiratrici di Gramsci, vale a dire a Sorel40. La rivoluzione come necessità, la disciplina, l’utopia organici- sta: tutti questi fili si connettevano in profondità in quella densa sedimentazione di pensiero e di raffigurazioni. È un filo, però, che mostra di spezzarsi sotto i colpi insostenibili della vicenda carceraria. Il 29 maggio 1933, l’espressione famosa torna in uno scritto gramsciano, ma questa volta l’equilibrio è venuto meno: “Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire, pessimista con l’intelligenza e ottimista con la volontà. Cioè, sebbene vedessi lucidamente tutte le condizioni sfavorevoli e fortemente sfavorevoli a ogni miglioramento nella mia situazione (tanto generale, per ciò che riguarda la mia posizione giuridica, come particolare, per
39 Forze elementari, “L’Ordine Nuovo”, 26 aprile 1921, in Socialismo e fascismo, cit., pp. 150-151. Sulla stessa tonalità si vedano pure La settimana politica, “L’Ordine Nuovo”, 18 ottobre 1919, in L ’Ordine Nuovo, cit., p. 252; Epilogo, “Il Grido del Popolo”, 3 agosto 1918, in II nostro Marx, cit., p. 224; Lettere da! carcere, cit., pp. 479, 726, 736.40 L’origine della formula “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”, che Gramsci attribuisce a Romain Rolland, sino ad ora, come è noto, è stata avvolta nell’incertezza. Non essendosi trovato alcun testo di Rolland in cui fosse possibile riscontrare se non altro il calco del motto gramsciano, si sono aperte varie ipotesi. Alcuni vi hanno intravisto un filo che rimandava a Nitti, altri vi hanno colto un percorso che, indirettamente, potrebbe condurre a Benoît Malon (cfr. Alfonso Leonetti, Pagine inedite di Romain Rolland sul martirio di Gramsci, “Rinascita”, 20 giugno 1969; S. Caprioglio, Gramsci, Rolland e F.S. Nitti, ivi, 22 novembre 1974; Maurizio Torrini, Gramsci, Rolland e Benoît Malon, ivi, 17 gennaio 1975; la nota a p. 2510 dei Quaderni del carcere). A ben vedere, al di là dell’affannosa ricerca di remote coincidenze, che potrebbero poi rivelarsi del tutto estrinseche, non occorre cercare tanto lontano, perché se il riferimento a Rolland è probabilmente erroneo, i concetti cardine che danno sostanza all’espressione di Gramsci riportano ad un altro autore molto vicino al pensatore socialista e certamente assai più influente di Rolland, cioè Sorel. In una lettera a Daniel Halévy (direttore con Péguy dei “Cahiers de la Quinzaine”) posta quale introduzione alla seconda edizione delle Riflessioni sulla violenza, Sorel fa riferimento alla “concezione pessimistica”, un atteggiamento che elevava a “dottrina”, su cui si fondava la sua indagine. “In politica — scriveva — l’ottimista è un uomo incostante e anche pericoloso, perché non si rende conto delle grandi difficoltà che i suoi progetti presentano”. Poco più avanti aggiungeva: “Il pessimismo è ben altra cosa da ciò che generalmente viene presentato nelle caricature: assai più che una teoria del mondo è una metafisica dei costumi; è una nozione di una progressione verso la redenzione saldamente legata: da una parte alla conoscenza sperimentale che si è acquisita degli ostacoli che si oppongono al soddisfacimento delle nostre immaginazioni (o, se si vuole, legata al sentimento di un determinismo sociale); dall’altra alla convinzione profonda della nostra debolezza naturale. Non bisogna mai separare questi tre aspetti del pessimismo, sebbene sia nell’uso di non tenere affatto conto del loro stretto rapporto” . E ancora: “L’esperienza di questa grande epoca mostra assai chiaramente che un uomo di cuore trova, nel sentimento di lotta che accompagna questa volontà di redenzione, una soddisfazione bastante a conservare il suo ardore” (G. Sorel, Introduzione alle Riflessioni sulla violenza, in Scritti politici, a cura di Roberto Vivarelli, Torino, Utet, 1971, p. 91, 92, 97). In questi passi, sebbene non si trovi esplicitamente l’espressione gramsciana, non è difficile individuarne la matrice. Oltre ai riscontri interni, a favore di questa ipotesi depone un’ulteriore prova e cioè che proprio questo scritto fosse parzialmente ripreso sull’“Ordine Nuovo”, e con un titolo molto vicino alla formula di Gramsci (cfr. Una pagina di Sorel: pessimismo e rivoluzione, “L’Ordine Nuovo”, 18 settembre 1922).
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ciò che riguarda la mia salute fisica immediata), tuttavia pensavo che con uno sforzo razionalmente condotto, condotto con pazienza e accortezza, senza trascurare nulla nell’organizzare i pochi elementi favorevoli e nel cercare di immunizzare i moltissimi elementi sfavorevoli, fosse stato possibile di ottenere un qualche risultato apprezzabile, di ottenere per lo meno di poter vivere fisica- mente, di arrestare il terribile consumo di energie vitali che progressivamente mi sta prostrando. Oggi non penso più così”41.
Il popolo delle scimmie
È il tempo ora di tornare all’immagine del “popolo delle scimmie” da cui abbiamo preso le mosse. E si dovrà osservare, innanzitutto, che era quello un topos stilistico molto frequente in Gramsci. Un’espressione che ritornava spesso per connotare ciò che si definiva come pura apparenza, ciò che era semplice imitazione destituito di sostanza autentica. Ora si indica chi “non è neppure un uomo: è una scimmia”; ora si dileggia la “vecchia scimmia da palcoscenico”; “La scimmia — scrive altrove — cerca di diventare amica dell’uomo e di imitarlo, sia pure tra smorfie e contorcimenti” . E ancora: “F.T. Marinetti e la sua banda di scimmie urlatrici”; “scimmie ubriache”; “imitazione scimmiesca delle abitudini borghesi”; “la scimmia giacobina [...] non ha un’anima”42.
Non è dubbio che dietro queste metafore ci fosse la matrice kiplinghiana. La prima
volta che viene esplicitata è nel giugno del 1918, in un articolo sull’“Avanti!” nel quale dei “cittadini italiani [che] si riempiono la bocca delle taumaturgiche parole di libertà, giustizia, democrazia” si dice: “Non sono dissimili dai Bandar Log, dalle scimmie urlatrici della giungla di Rudyard Kipling, che gridano di essere libere e non hanno esatta nozione della libertà”43. Quasi un anno prima aveva scritto dei giacobini: “Sono scimmie, credono di essere uomini. Non hanno il senso dell’universalità della legge, perciò sono scimmie. Non hanno una vita morale”44. Poco più tardi le “arti scimmiesche” sarebbero state una allegoria della libertà caratteristica di una società che altro non era se non “una fiera rumorosa”45.
Dunque, è ben chiaro che assai prima dell’articolo del 2 gennaio 1921 Gramsci aveva preso a fare di questa immagine un uso non casuale; non meno evidente è lo slittamento, per non dire l’equiparazione che attraverso quella allegoria si viene stabilendo tra piccola borghesia, libertà e democrazia. In parti- colarre, il tema della democrazia ritorna in altre importanti pagine confermando questa identificazione.
Luglio 1918: “Così, è vero — secondo Rudyard Kipling — le scimmie Bandar Log della giungla cantano ogni minuto di ogni ora, di ogni settimana, di ogni mese, di ogni anno. Cantano e non fanno, parlano e il verbo non diventa mai carne [...]” . Ironicamente osserva Gramsci: “La democrazia italiana non è invece tribù di scimmie: alle parole fa seguire i fatti, educa le velleità e le fa
41 Lettera a Tania, 29 maggio 1933, in Lettere dal carcere, cit., p. 785.42 Le citazioni sono tratte, in sequenza, da II crepuscolo degli Dei, “Avanti!” , 26 aprile 1919, in II nostro Marx, cit., p; 612; Ridicolo e comico, “Avanti!” , 5 marzo 1916, in Cronache torinesi, cit., p. 763; Lotterie, “Avanti!”, 6 marzo 1918, in Sotto la Mole, cit., p. 635; Cavour e Marinetti, 16 marzo 1918, ivi, p. 749; Cronache dell’“Ordine Nuovo”, “L’Ordine Nuovo”, 14 giugno 1919, in L ’Ordine Nuovo, cit., p. 78; Il Partito comunista, “L’Ordine Nuovo”, 4 settembre 1920, ivi, pp. 651-652; La scimmia giacobina, “Avanti!”, 22 ottobre 1917, in Cronache torinesi, cit., p. 408.43 La libertà individuale, “Avanti!”, 27 giugno 1918, in II nostro Marx, cit., pp. 145-146.44 La scimmia giacobina, cit.45 La tua eredità, “Avanti!” , 1 maggio 1918, in La città futura, cit., p. 866.
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diventare volontà consapevoli dei mezzi e dei fini [...]. Rudyard Kipling dovrebbe fare un autodafé dei suoi libri della giungla, poiché i latini non sono più come i Bandar Log, che cantano e non fanno, che dicono di esser i più saggi, i più geniali, i più chiaroveggenti, ma rimandano sempre a domani la traduzione in pratica degli inni e dei discorsi” . Ma alla fine il velo di sarcasmo si lacera: “La democrazia ha svolto opera nobilissima, altamente encomiabile. Ha svolto? Ohibò, ha svolto o svolgerà; il futuro è uguale al presente: se non lo ha fatto quest’anno lo farà l’anno venturo o in un altr’anno. Si farà, si farà... noi siamo i più saggi, i più geniali, i più chiaroveggenti uomini della terra, vedrete cosa saremo capaci di fare... domani, perché la vita nuova incomincerà domani, come per i Bandar Log della giungla di Rudyard Kipling”46.
Novembre 1918: “Il popolo italiano non ha fantasia [...], è [...] ritenuto un’accolta di scimmie urlatrici senza criterio, senza inibizione volontaria [...]. La censura è il metodo di governo dello Stato italiano rimasto paterno e dispotico sotto la superficiale vernice dell’enfasi democratica”47.
Ce n’è abbastanza, crediamo, per intravedere dietro la citazione kiplinghiana a proposito del fascismo una materia densa che si distende lungo l’arco degli anni e che interviene a segnare alcuni dei tratti della visione del mondo gramsciana. Non ci rimane ora che compiere l’ultimo passo, quello che ci consente di metterci in contatto con la fonte originaria di tutte quelle immagini e di quelle suggestioni. Aprendo le pagine della novella Kaa’s Hunting ci si trova di fronte a formule ed espressioni che sono immediata
mente familiari al lettore di Gramsci. Diciamo pure che la sensazione dominante è di giungere a posare lo sguardo su un mondo tutt’altro che sconosciuto, saturo come è di echi già noti. Nelle parole della pantera Ba- gheera e dell’orso Baloo il “Monkey Peo- ple” appare composto dai “reietti” , ossia da “coloro che non hanno una legge” e “non hanno un capo” . Le scimmie “non hanno una lingua loro propria, bensì rubano le parole che sentono per caso. La loro strada e il loro modo di vivere non sono i nostri. Non hanno memoria. Loro schiamazzano e chiacchierano tutto il tempo; pretendono di essere un grande popolo sempre sul punto di fare grandi cose, ma basta che cada una noce di cocco e subito la loro testa si volge altrove, scoppiano a ridere e tutto è dimenticato” . Un ultimo passo: “Il popolo della giungla ha bandito le scimmie dalla sua bocca e dalle sue menti. Le scimmie sono tante, malefiche, sporche e svergognate; vorrebbero, se davvero fossero in grado di volere qualcosa, che noi ci accorgessimo di loro. Ma noi non le degnamo di uno sguardo, neppure se ci scagliano addosso delle noci o ci fanno sozzure sul capo”48.
Dopo aver colto questi passaggi sarebbe davvero difficile negare l’importanza del risalire lungo le fonti delle letture gramsciane. In particolare, risulta straordinariamente illuminato attraverso questi raffronti testuali il giudizio sul fascismo che Gramsci esprime nei primi anni venti. Quel fascismo totalmente schiacciato sul regime democratico-capitalista, quel fascismo che cosa è se non il “popolo delle scimmie” che nel brano kiplinghiano non si considera degno neppure di “uno sguardo”? Le pagine della novel-
46 Vita nuova!, “Avanti!”, 8 luglio 1918, in II nostro Marx, cit., pp. 167-168.47 La censura, “Avanti!” , 4 novembre 1918, in II nostro Marx, cit., p. 390. Sulla sovrapposizione “scimmie” e piccola borghesia, vedi ancora I trionfi della democrazia wilsoniana, “Avanti!” , 13 gennaio 1919, ivi, p. 493.48 La traduzione è nostra ed è condotta sul testo della Centenary Edition delle opere di Kipling (London, Macmillan, 1975, pp. 50-52).
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la della jungla forniscono un insieme di espressioni e di formule raffigurative che si imprimono nell’immaginario gramsciano sino a dare corpo ad una sedimentazione sulla quale lo studio del suo pensiero, in particolare sul versante riguardante il fascismo, non può non applicarsi con attenzione. In sostanza, a proposito della lettura di Kipling da parte di Gramsci si potrebbero fare le stesse riflessioni espresse da un letterato inglese quando ha scritto che Kipling “had an effect upon us in that obscure and impor- tant part of our minds where litterary feeling and politicai attitude meet”49. Né si dovrà trascurare il fatto che le forme metaforiche e i modelli mentali non sono, come è stato osservato50, del tutto neutri. Il loro uso spesso interviene a modificare la percezione degli oggetti rappresentati; e sebbene il linguaggio figurato costituisca un potente strumento di analisi, in esso si cela anche una funzione deformante. Da questo punto di vista, non meno che da quello dei motivi interni allo sviluppo del pensiero gramsciano, le icastiche rappresentazioni a cui Gramsci affida la sua interpretazione del fascismo richiedono un esame molto penetrante. In questo senso, un profondo legame salda il giudizio sul fascismo in Gramsci e il retroterra kiplinghiano, un rapporto che trova una correlazione intrinseca nella sequenza identificativa fascismo — “popolo delle scimmie” — democrazia. In effetti, il
“Monkey People” , tanto in Gramsci quanto in Kipling, non è altro che l’allegoria del caos democratico, del vaniloquio e dell’inconcludenza della falsa rappresentatività sulla quale deve scendere il rigore autenticamente liberante della disciplina e della legge espresse dalla rivoluzione51. Il fatto che per l’uno la guida dovesse essere il paese imperiale e per l’altro il proletariato costituisce una differenza ovviamente rilevantissima; ma ciò che importa qui sottolineare è la coincidenza di alcune coordinate di fondo e lo stratificarsi di una visione strutturata intorno ad alcuni concetti cardinali come la disciplina, l’obbedienza, l’ordine, la guida dall’alto.
Fascismo, democrazia, socialismo
Abbiamo ora i riferimenti necessari per capire nel loro vario consistere il giudizio e l’atteggiamento di Gramsci di fronte al fascismo negli anni venti. A chi si domandasse che cosa fosse in quel tempo il fascismo per Gramsci sarebbe difficile rispondere in termini molto sfumati: il movimento delle camicie nere si delineava come un fenomeno in larga misura destituito di consistenza autonoma. Il fascismo, che talvolta Gramsci nel 1921 scrive tra virgolette — quasi ad alludere ad una sua presenza fittizia —, è una “rappresentazione”, ovvero una espressione
49 L. Trilling, Kipling, in Kipling's Art and Mind, cit., p. 84.50 Cfr. M. Landau, On thè Use o f Metaphor in Politicai Analysis, “Social Research”, 1961, n. 3, pp. 331-353.51 Nella sterminata letteratura che ha per oggetto Kipling non mancano voci discordanti circa il sottinteso politico ultimo dell’autore inglese (qualche significativa traccia di questa molteplicità si trova nei saggi raccolti nel volume Kipling’s Art and Mind, cit.). L’immagine del “Monkey People” ha trovato qualche interpretazione piuttosto atipica (come quella, segnalatami dal dottor Giuseppe Carpinelli, di Robert Escarpit che vi vede criticato il popolo francese — cfr. Rudyard Kipling. Servitude et grandeurs des Inipériales, Paris, Hachette, 1955, pp. 155-156). Meno eccentricamente vi leggono il disprezzo per le masse e per l’anarchia democratica: M. Brion, Rudyard Kipling, Edi- tions de la Nouvelle Revue Critique, Paris, 1929, p. 176; A. Pierre, Une po/itique d ’après Kipling, in “Mercure de France”, 1" mars 1929, p. 272; Ph. Mason, The Glass, thè Shadow and thè Fire, London, Cape, 1975, p. 167; sul pensiero politico di Kipling, in generale, cfr. Romolo Runcini, La natura come legge e l ’organizzazione del destino: la poetica imperialista di Rudyard Kipling, “Il Mulino”, 1986, n. 2, pp. 233-262). Sul substrato pessimistico da cui deriverebbe l’esaltazione dell’ordine, della disciplina e della legge — una relazione che presenta un legame non secondario
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teatrale52 nella quale affiora 1’“insurrezione dell’infimo strato della borghesia italiana, lo strato dei fannulloni, degli ignoranti, degli avventurieri”53. Se qualcosa di sostanzioso c’è nel fascismo è solo il suo tratto violento che rivela una sostanza meramente deliquenziale54. Queste sono espressioni del 1921, ma il tono e la sostanza non mutano nel 1924 quando si dirà: “Non esiste una essenza del fascismo nel fascismo stesso”; “Fuori del terreno dell’organizzazione militare il fascismo non ha dato e non può dare niente, e anche su questo terreno ciò che esso può dare è molto relativo”; “La verità è che l’ideologia fascista è un trastullo per i balilla”55. E dirà ancora: “Il fascismo è “una pura organizzazione militare — molto ristretta anche come tale — completamente isolata dal paese”56. Per non dire poi di Mussolini, che — siamo ancora al 1924 — non si accredita neppure delle doti più usuali del dittatore, del quale conserverebbe invece solo “alcune pittoresche pose esteriori” . Mussolini, scrive Gramsci, “non è un fenomeno della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alle storie nell’ordine delle diverse maschere provinciali italiane [...]”57. È chiaro che ci si trova sullo stesso ramo che aveva germogliato tre anni prima gli sberleffi a Mussolini “epilettico” , “mosca cocchiera” e “apprendista negromante”58. Registrando queste
molteplici espressioni — talvolta affidate ad articoli di battaglia, ma presenti anche in interventi interni al partito — non è davvero possibile non cogliere la forte tendenza a svilire l’ampiezza del fenomeno fascista.
Quale il senso e quali le radici di questa deminutio che sottende il giudizio sul movimento che sfocerà nella marcia su Roma? È indubbio che nel Gramsci dell’immediato dopoguerra il fascismo appare come un semplice riflesso del sistema capitalista. È un Gramsci molto determinista, e non poco economicista, quello che ci viene incontro quando ne cogliamo il giudizio sul fascismo. È un Gramsci che gli scritti della gioventù e quelli dell’ultima maturità non riescono a renderci del tutto familiare. Non c’è passo degli scritti dei primi anni venti che non ci riconduca all’idea che il fascismo è un “giocattolo”59 in mano alle forze economiche dominanti. “Noi abbiamo una spiegazione di classe” del fascismo60, dice Gramsci a tutti quegli antifascisti che si trastullano con interpretazioni che tirano in ballo i sentimenti, gli umori, le ideologie, insomma le “psicosi” postbelliche61. Sarà stato pure vero che c’era molto di rancido dietro quell’i- nondare il campo dell’Italia diciannovesca solo dell’instabilità umorale degli spiriti scossi dalla guerra. Ma il trincerarsi, come anche Gramsci faceva, dentro le quattro pareti dell’oggettività delle classi e dell’econo-
con un certo retroterra gramsciano — cfr. le belle pagine di G. Sertoli alla voce R. Kipling, in Letteratura Inglese. I contemporanei, a cura di Vito Amoruso e Francesco Binni, Roma, Lucarini, 1977, voi. I, t. 1.52 II popolo delle scimmie, cit., p. 9.53 Politica fascista, “L’Ordine Nuovo”, 25 maggio 1921, in Socialismo e fascismo, cit., p. 167.54 Politica e delinquenza, “L’Ordine Nuovo”, 14 giugno 1921, in Socialismo e fascismo, cit., p. 190.55 La crisi italiana, relazione al Comitato centrale del PCd’I, 13-14 agosto 1924, in La costruzione del Partito comunista. 1923-1926, Torino, Einaudi, 1971, pp. 33-34.56 Lotta di classe, “L’Unità”, 24 giugno 1924, in La costruzione del Partito comunista, cit., p. 191.57 La crisi italiana, cit., p. 32.58 Sovversivismo reazionario, “L’Ordine Nuovo”, 22 giugno 1921; I capi e le masse, “L’Ordine Nuovo”, 3 luglio 1921, in Socialismo e fascismo, pp. 204-206, 224-226.59 I partiti e la massa, “L’Ordine Nuovo”, 25 settembre 1921, in Socialismo e fascismo, cit., p. 355.60 L ’alibi degli intellettuali borghesi, “L’Unità”, 10 ottobre 1925, in La costruzione de!Partito comunista, cit., p. 413.61 Russia, Italia e altri paesi, “L’Unità” , 26 settembre 1926, p. 343.
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mia innalzava un limite difficilmente valicabile al suo spingere in profondità lo sguardo sul movimento fascista. Dalla constatazione che il fascismo “non ha nessuna radice nell’economia”62 alla consolatoria affermazione secondo cui l’instaurarsi del regime dimostrava che “la politica è sempre in ritardo e in grande ritardo sull’economia”63, sino all’identificazione nel fascismo di una sorta di nemesi dell’economia “sulle ideologie”64: tutti i fili convergono in un punto centrale. E cioè che il fascismo è una mera “etichetta”, che il fascismo è una semplice espressione “tattica”65, giacché esso è solo il rivestimento esteriore e momentaneo di quelli che da sempre si riconoscono come i veri protagonisti, assieme al proletariato, della scena sociale, ossia il capitalismo e la borghesia.
Queste considerazioni ci conducono nei pressi di un punto cruciale del discorso su Gramsci e il fascismo negli anni venti. Perché se allineiamo sul nostro scacchiere il capitalismo, la borghesia, la democrazia e il fascismo non tarderemo a renderci conto che per Gramsci tra questi quattro elementi c’è qualcosa di più di un generico legame; da un capo all’altro di questa sequenza corre un flusso continuo e non è una forzatura affermare che tra questi fattori si instaura una sorta di gioco delle parti, per usare la formula di un autore a lui molto caro. Diremo di più, ogni sforzo di Gramsci si dispiega in questo periodo nella prospettiva di stracciare il velo del fascismo per mostrare ciò che si
cela dietro quella che altro non è se non una giustapposizione esteriore. Sotto e dentro il movimento delle camicie nere c’è la borghesia, il capitalismo, la democrazia borghese e nient’altro. In particolare, l’identificazione tra fascismo, democrazia e dittatura borghese, se solo si scorrono le pagine gramsciane di questi anni, balza agli occhi — e neppure, francamente, si comprende come avrebbe potuto essere altrimenti. “Il fascismo — scrive Gramsci nell’estate del 1921 — è figlio spirituale di Giovanni Giolitti, è giolittismo del più schietto e sincero”66; e aggiunge: “Le popolazioni vanno facendo la loro esperienza diffusa e profonda sul valore della democrazia parlamentare e della legislazione borghese [,..]”67. Reazione? aveva intitolato un articolo poche settimane prima68, come a dire: c’è davvero qualcosa di nuovo sotto il sole, il fascismo toglie o aggiunge alcunché al regime democratico-borghese che, in se stesso, già era una dittatura? “Il Parlamento è una sovrastruttura dello stato” , aveva aggiunto, volendo chiarire che sia sotto le spoglie fasciste sia sotto quelle della democrazia ciò che contava era solo il nocciolo duro del sistema borghese. In definitiva, se la legalità già non esisteva quando ancora le camicie nere non erano comparse all’orizzonte69 e se il parlamento era sempre stato “una cosa morta”70, quale mai poteva essere la radicale novità rappresentata dal fascismo? Del resto, a questa identificazione, che viene così bene evidenziata dall’uso delle immagini ki-
62 Le elezioni, “L’Ordine Nuovo”, marzo 1924, in La costruzione del Partito comunista, cit., p. 163.63 Un esame della situazione italiana, relazione al comitato direttivo del PCd’I, 2-3 agosto 1926, in La costruzione del Partito comunista, cit., p. 121.64 Un anno, “L’Ordine Nuovo”, 15 gennaio 1922, in Socialismo e fascismo, cit., p. 443.65 La crisi de! fascismo, “L’Ordine Nuovo”, 9 agosto 1921, in Socialismo e fascismo, cit., p. 546.66 “La Stampa” e ¡fascisti, “L’Ordine Nuovo” , 24 luglio 1921, in Socialismo e fascismo, cit., p. 251.67 Insurrezione di popolo, “L’Ordine Nuovo”, 23 luglio 1921, in Socialismo e fascismo, cit., p. 250.68 “L’Ordine Nuovo”, 23 aprile 1921, in Socialismo e fascismo, cit. pp. 144-147.69 Maggioranza e minoranza nell'azione socialista. Postilla, “L’Ordine Nuovo”, 15 maggio 1919, in L ’Ordine Nuovo, cit., p. 23.70 Cronache dell’“Ordine Nuovo”, “L’Ordine Nuovo”, 12 luglio 1919, in L ’Ordine Nuovo, cit., p. 125.
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plinghiane di cui si è detto, Gramsci arrivava sull’onda della critica corrosiva della democrazia che aveva cadenzato il suo pensiero negli anni di guerra e nel periodo immediatamente successivo71. Era questa una tessera essenziale della sua caratterizzazione rivoluzionaria. Se l’Italia non aveva mai cessato di essere una dittatura72, se la sovranità in regime popolare si era risolta in null’altro che fosse il “prevalere degli istinti animaleschi”73, il fascismo non poteva non divenire l’ultimo anello della catena di accadimenti di cui si era sostanziata l’esperienza democratica in Italia. “Dov’è la democrazia in Italia?” , aveva domandato Gramsci nel 1918, contemplando un “pullulare di mezze figure, burattini o briganti”74. Con l’avvio della stagione dello squadrismo sarebbe divenuto ancora più facile dare una risposta a quella domanda: la democrazia in Italia non c’era e non c’era mai stata, Mussolini o Giolitti era la stessa cosa (si trattava della stessa linea di pensiero che avrebbe portato, nel 1924, ad accomunare nella stessa categoria del “semifascismo” Turati, Amendola e Sturzo75).
Ma dire che tra guerra e dopoguerra Gramsci colloca il fascismo nel cono d’ombra della democrazia non è tutto. C’è un’altra correlazione, non meno essenziale, nel quadro di riferimento al cui interno Gramsci sviluppa la sua analisi, perché non è solo sul versante della democrazia che il fascismo sviluppa significative intersezioni. Secondo Gramsci anche tra fascismo e socialismo
corrono legami profondi. Non si potrà dimenticare come sia in questo periodo che in ambito italiano si verifichino il concepimento e l’incubazione di quella congiunzione tra socialismo democratico e fascismo che si condenserà verso la fine del decennio nella teoria del “socialfascismo” . La presenza di questo piano inclinato è avvertibile in molte pagine gramsciane dei primi anni venti.
“Contro l’avanzata della classe operaia avverrà la coalizione di tutti gli elementi reazionari, dai fascisti ai popolari, ai socialisti: i socialisti diventeranno anzi l’avanguardia della reazione antiproletaria”76. Certo, socialismo, e fascismo si configurano come i “due fronti”77 contro cui deve battersi il proletariato (ed è già cosa non irrilevante questa simmetria); ma talvolta i due fronti si saldano in uno solo e l’antagonista viene ad essere costituito da un indistinto nucleo in cui si addensano i più insidiosi anticorpi che il sistema borghese oppone alla rivoluzione proletaria. Ed ecco allora la ripresa della fatidica immagine del “Popolo delle scimmie” e la sua equa applicazione tanto ai socialisti quanto ai fascisti78. Ed ecco ancora la domanda che secondo Gramsci “ogni lavoratore intelligente” dovrebbe porsi nell’autunno del 1921: “Ma che differenza esiste ormai tra i socialisti e i reazionari, tra i socialisti e i fascisti?” . La risposta a questo interrogativo usciva dalla penna di Gramsci con una forma che non ammetteva replica: “I socialisti
;l Si veda un intervento esemplare come La sovranità della legge, “Avanti!”, 1 giugno 1919, in L ’Ordine Nuovo, cit., pp. 48-51.72 II lonzo ubriaco, “Avanti!” , 18 febbraio 1920, in L ’Ordine Nuovo, cit., p. 422.73 I gruppi comunisti, “L’Ordine Nuovo”, 17 luglio 1920, in L ’Ordine Nuovo, p. 592.'4 L'irresponsabilità sociale, “Avanti!”, 23 agosto 1918, in II nostro Marx, cit., p. 262.75 La crisi italiana, cit., in La costruzione del Partito comunista, cit., p. 39.76 Bonomi, “L’Ordine Nuovo”, 5 luglio 1921, in Socialismo e fascismo, cit., p. 226.1 II Partito comunista e le agitazioni operaie in corso, “L’Ordine Nuovo”, 22 novembre 1921, in Socialismo e fa scismo, cit., p. 403.78 Giovinezza, giovinezza..., “L’Ordine Nuovo”, 17 agosto 1921, in A. Gramsci, Per la verità, a cura di Renzo Martinelli, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 188.
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sono i battistrada dei fascisti”79. Anche qui, anche tra fascismo e socialismo non ci sembra azzardata l’ipotesi che secondo Gramsci si sviluppasse un fitto gioco delle parti: ai socialisti che aprono la strada ai fascisti, e che sono stati contaminati dall’idea democratica80, corrispondono sull’altro piatto della bilancia i fascisti che hanno già introiettato i germi della “tabe socialdemocratica”81. In verità, anche di fronte a queste annotazioni non sarà facile sottrarsi all’attrazione suscitata dall’astratto rigore logico dispiegato da Gramsci — una tagliente scansione non priva in qualche tratto di talune sfumature giacobine. Una nitidezza di visione sottesa da un impulso che sollecitava con forza irresistibile all’incessante rinvenimento di nessi, di sottili legami, di profondi congiungimenti. E tuttavia, sotto qualunque forma si sviluppasse l’itinerario gramsciano, ben presto, dietro il socialismo come dietro il fascismo, si levava la democrazia borghese e il capitalismo.
È tutt’altro che irrilevante cogliere i tratti caratteristici dell’universo mentale che si intravede sullo sfondo di questi giudizi politici di Gramsci. È un mondo estremamente ordinato quello che ci si trova a contemplare; un luogo dove le categorie di analisi disegnano un intarsio dalle geometrie rigorosamente definite. Tutto è preciso e netto nell’orizzonte su cui Gramsci posa lo sguardo; le simmetrie regnano sovrane, mentre una luce vivissima appiattisce le ombre e vanifica i chiaroscuri. Ora, tuttavia, nell’istante in cui si osserva quella serie di scansioni (comunismo/capitalismo; proletariato/bor- ghesia; stato operaio/democrazia borghese), è impossibile non avvertire il fatto che nei confronti di questo perfetto e immobile ordine intellettuale il fascismo avrebbe eser
citato una non trascurabile pressione distruttiva.
Il fascismo, vorremmo dire, prima ancora che un pericoloso antagonista politico, costituiva una insidiosissima obiezione concettuale a tutta l’impalcatura teorica gramsciana e comunista. Non è dubbio, infatti, che quelle simmetrie sarebbero divenute cenere una volta che si fosse introdotta l’idea di una presenza autonoma del movimento fascista. È di qui, e cioè dalla consapevolezza di questa incompatibilità del fascismo con il proprio quadro di riferimento teorico, che deriva la tendenza a indebolire l’immagine del fascismo sino quasi ad espungerlo dalla propria lettura della realtà. Del resto, proviamo a ipotizzare quali devastanti interferenze avrebbe provocato una diversa raffigurazione del movimento fascista. Ammettere che il fascismo fosse il frutto di una pluralità di impulsi, farne risalire le origini ad un campo più vasto di quello della congiura capitalista, affermare che il movimento delle camicie nere fosse una cosa, il capitalismo un’altra e la democrazia un’altra ancora; insomma, accedere all’idea che i rapporti tra questi vari elementi fossero molto più complessi e mediati, avrebbe voluto dire essere disposti a ridisegnare la strategia comunista, che è quanto dire il modo di concepire la storia e la società italiana in quei primi anni venti. Se non altro la prospettiva rivoluzionaria — e non era certo piccola cosa —, alla cui validità era ancorato il pensiero gramsciano di quel periodo, avrebbe subito uno scuotimento assolutamente destabilizzatore. Se in Italia si stava assistendo a qualcosa che aveva ben poco da spartire con il raggiungimento del momento di maggiore sviluppo del sistema democratico-borghese, quale senso avrebbe avuto il guardare alla situa-
79 II “delirium tremens” dei socialisti, “L’Ordine Nuovo”, 20 novembre 1921, in Socialismo e fascismo, cit., pp. 397-401.80 La disfatta borghese, “Avanti!”, 19 novembre 1919, in L ’Ordine Nuovo, cit., p. 324.81 La sostanza delta crisi, “L’Ordine Nuovo”, 5 febbraio 1922, in Socialismo e fascismo, cit., p. 454.
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zione del paese attraverso le lenti di una rivoluzione proletaria ritenuta ormai matura e inarrestabile? In Gramsci, come in tutti i comunisti dei primi anni venti, rivoluzione proletaria e democrazia borghese erano due facce della stessa realtà; l’una e l’altra cosa, verrebbe da affermare, simul stabunt, simul cadent. Come a dire che la precondizione necessaria al salto rivoluzionario era che si potesse puntare i piedi sul solido terreno di una avanzata e moderna democrazia e non del pantano della arretratezza preborghese. L’Italia del dopoguerra non era la Russia del 1917 e di rivoluzioni “contro il Capitale” in Occidente non si doveva né poteva favoleggiare. Tra democrazia e rivoluzione proletaria c’era quindi un nesso strettissimo e non era quindi ammissibile l’intrusione di alcun altro protagonista che ne offuscasse la cristallina consequenzialità. Ora, non può esservi dubbio alcuno sul fatto che il fascismo avrebbe proprio compiuto questo sconvolgimento dell’orizzonte su cui Gramsci non poteva non tenere gli occhi fissi. Il fascismo avrebbe riportato indietro l’orologio della storia e, di rimando, avrebbe aggiornato ad un altro lontano tempo la maturazione del balzo rivoluzionario. Alla mente di alcuni comunisti, verso la fine del decennio, questa idea che il fascismo non fosse del tutto riconducibile alla democrazia borghese si sarebbe pur affacciata, ma questa lettura della storia italiana li avrebbe condotti fuori dalle file del partito. Più avanti, l’intero partito comunista avrebbe percorso a ritroso questa via e sarebbe approdato alla stagione dei fronti popolari, della politica di unità nazionale, della lotta al fascismo in vista di un
ristabilimento della democrazia. All’alba degli anni venti, tuttavia, queste direttrici di lettura del fascismo europeo erano, né poteva essere altrimenti, del tutto estranee all’orizzonte di un dirigente comunista.
Perché si dovrà osservare, concludendo, che il giudizio di Gramsci sul fascismo riflette un orientamento che fu, in larga misura, corale. Senza voler annegare in una indistinta uniformità le differenziazioni presenti all’interno del partito comunista, sul terreno del fascismo ci pare che le convergenze prevalessero sulle discordanze82. Certo non troveremo in Gramsci la proterva beatitudine che mette in mostra Bordiga di fronte allo sprofondare dell’Italia nella dittatura. Ma basterà aprire le pagine dell’“Ordine Nuovo” o dell’“Unità” per ritrovare riflessi, echi e corrispondenze intensissime. Quando il 5 maggio 1921 si scriveva sulI’“Ordine Nuovo” che il fascismo “giova alla rivoluzione proletaria”83 o, poco più tardi, si affermava che il fascismo “integra e non demolisce il liberalismo borghese” e che il movimento delle camicie nere era “tutta organizzazione, niente ideologia”84; o ancora, quando sotto il titolo rivelatore di Stato fascista? si affermava che i “democratici e i fascisti si divideranno il bottino”85, non è dubbio che si esprimesse un giudizio che a noi ora appare come un orientamento collettivo rispetto al quale Gramsci rappresenta un tratto segnato da una particolarissima densità e raffinatezza intellettuale, ma non un elemento radicalmente estraneo. E dopo il 1924, allorché muterà l’indirizzo del partito e la polemica con Bordiga si farà particolarmente accesa, neppure allora si giungerà davvero ad una
82 Già altri, pur rilevando vari elementi di differenziazione, hanno dovuto notare alcune significative coincidenze tra Gramsci e Bordiga negli anni antecedenti al 1924 (cfr. Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, I, Da Bordiga a Gramsci, Torino, Einaudi, 1967, p. 138, dove, a proposito di un intervento dell’estate 1921, si scrive di un “Gramsci perfettamente bordighiano”).83 Rinascita?, “L’Ordine Nuovo”, 5 maggio 1921.84 A. Bordiga, Il fascismo, “L’Ordine Nuovo”, 17 novembre 1921.85 “L’Ordine Nuovo”, 8 ottobre 1922.
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rifondazione complessiva del giudizio sul fascismo. Affioreranno dei cenni, dei frammenti di un altro modo di porsi rispetto agli eventi che avevano condotto alla dittatura. Solo sulla soglia estrema, nel gennaio del 1926 al congresso di Lione, si noterà in Gramsci qualche mutamento di prospettiva. Gramsci si domanderà allora: “Quando il fascismo sorse e si sviluppò in Italia come bisognava considerarlo? Era esso soltanto un organo di combattimento della borghesia, oppure era anche un movimento sociale? La estrema sinistra che allora dirigeva il partito non lo considerò che sotto il primo aspetto, e questo errore ebbe come conseguenza che non si riuscì ad arginare la avanzata del fascismo come forse sarebbe stato possibile fare”86. E nelle tesi congressuali, da lui redatte insieme con Togliatti, ancora più nettamente affioreranno alcune novità, come laddove si riconoscerà che non tutta la borghesia si era intruppata nelle file fasciste87. Ma il risultato, come spesso accade nelle fasi di transizione, sarà la perdita di ogni omogeneità di giudizio, giacché queste annotazioni vivranno accanto ad altre in cui non verrà mai meno la caratterizzazione del fascismo come di un movimento che rientrava in pieno “nel quadro della politica tradizionale delle classi dirigenti italiane”88. Così come si continuerà, e per certi versi addirittura si accentuerà, la tendenza a dar corpo ai fantasmi, intravedendo “profonde reazioni delle masse” e accreditando una radica- lizzazione “anche delle categorie intermedie” di cui in quel terribile 1926, come è noto, non si sarebbe visto neppure un lontanissimo cenno89.
Compiendo ancora un ultimo passo in questa direzione, ci sembra che la valutazione dell’atteggiamento di Gramsci di fronte al fascismo nei primi anni venti non possa non tenere conto dello sfondo su cui si situa, che non è certo popolato solo dall’opposizione comunista. La sostanziale discrasia rispetto al fascismo, nei termini di una sua insistente sottovalutazione, discendeva in Gramsci direttamente dalla armatura ideologica rivoluzionaria di matrice soviettista che caratterizzava in quel tempo il suo pensiero. Ma non si potrà trascurare il fatto che ben pochi furono i settori della società politica italiana, qualunque ne fosse la sostanza culturale e dottrinale, che seppero riconoscere nel fascismo l’erompere di un movimento profondamente radicato nella storia del paese e costituito da ingredienti che non si sarebbero potuti facilmente disciogliere nella tradizionale nomenclatura delle forze dominanti nella società italiana. Muovendo da presupposti non solo diversi, ma spesso in antitesi radicale a quelli di Gramsci, a cavallo della marcia su Roma e ancora intorno al- l’Aventino, le voci che lo storico deve registrare sono quelle di Turati che additava l’imminente fine del fascismo “perché la necessità così vuole”90, o quelle di un Giolitti, di un Nitti, di un Einaudi che suggerivano di pazientare, confidando nel fatto che l’accesso febbrile rappresentato dal fascismo sarebbe sbollito da sé. Il primo, ancora nell’aprile del 1923, continuava a prendersela con le stelle, ovvero con la proporzionale da cui a suo avviso erano discesi tutti i mali possibili; il secondo puntava sulla riuscita di Mussolini, perché diversamente sarebbe stato il
86 Intervento alla commissione politica al congresso di Lione, in La costruzione del Partito comunista, cit., p. 486.87 La situazione italiana e i compiti del PCI, tesi approvate dal 111 congresso del Partito comunista, in La costruzione dei Partito comunista, cit., p. 496.S8 La costruzione de! Partito comunista, cit., p. 495.89 La costruzione del Partito comunista, cit., p. 497.90 Cfr. Renato Monteleone, Filippo Turati, Torino, Utet, 1987, p. 424.
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“caos” e l’ultimo filosofeggiava sull’utilità di “lasciar fare al tempo”91. Anche Alcide De Gasperi, che avrebbe svolto un ruolo non secondario nell’iniziale collaborazione del Partito popolare al governo uscito dalla marcia su Roma, dichiarava doverosa una “collaborazione leale, sincera e cordiale” con il governo fascista e per il futuro tratteggiava questo roseo quadretto: “Anche lo Stato fascista, qualunque possano essere le sue riforme istituzionali, sarà uno Stato a costituzione democratica parlamentare e colla garanzia delle libertà statutarie”92.
L’immagine proiettata dal fascismo all’esterno e, in particolare, sulle forze po
litiche antagoniste ci pare costituisca dunque un filone tutt’altro che marginale nel ripensare le vicende del 1919-26. Anzi, per taluni aspetti, è un’angolatura che offre scorci problematici ancora del tutto originali sul precipitare dell’Italia nella dittatura. L’incomprensione della molteplice natura del fascismo, la sostanziale sottovalutazione non solo della sua carica eversiva, ma anche della sua densità e consistenza, emerge come il tratto caratterizzante l’atteggiamento sia della classe politica liberale sia della opposizione di sinistra.
Pier Giorgio Zunino
91 Cfr. Nino Valeri, Giovanni Giolitti, Torino, Utet, 1971, pp. 372-381; Gabriele De Rosa, Giolitti e il fascismo in alcune sue lettere inedite, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1957, pp. 19-26; Nitti a L. Albertini, 8 gennaio 1923 e Einaudi a L. Albertini, 30 agosto 1923, in Luigi Albertini, Epistolario. 1911-1926, vol. IV, Il fascismo aI potere, a cura di Ottavio Barié, Milano, Mondadori, 1968, pp. 1682, 1750.92 Queste annotazioni venivano fatte in due articoli comparsi sul “Nuovo Trentino”, il 31 dicembre 1922 e il 16 febbraio 1923 (cfr. P.G. Zunino, Introduzione a Scritti politici di Alcide De Gasperi, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 31-32).