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Il nuovo e molto dilettevole giuoco del Bradipo.

Il nuovo e molto dilettevole giuoco del Bradipo. · Il sangue di mio nonno scorre nelle mie ... come appresi dai suoi servizievoli amici, che si occupava di gestire alcuni onesti

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Il nuovo e molto dilettevole giuoco del Bradipo.

Il nuovo e molto dilettevole giuoco del bradipo

Prefazione

A cura di Me Stesso (non posso permettermi un prefattore…non ancora)

Viviamo in un mondo dynamico, popolato da persone dynamiche, che non hanno tempo da

perdere, e vogliono tutto subito quando fa comodo a loro.

Perché dunque perdere tempo a fare capitoli strutturati, una trama complessa, usare parole

ricercate e una punteggiatura studiata fin nel minimo dettaglio, quando ciò che conta è il

risultato?

Quando ciò che conta è avere qualcosa da leggere mentre si fa quel quarto d’ora di metro al

mattino per andare al lavoro?

Leggetevi sto libro va.

Mattia Grandi

1. Itaca2. Il Lenguado3. A new hope4. Coconut5. Naso6. Grand Bucarest Hotel7. ‘nDuja8. Spazzatura9. In fondo al mar10. Droga11. Matrix12. Take a look around13. Il riempimento automatico della cassetta delle carote14. Il mio tessoro15. Non è semplice esser Cupido, molto meglio essere Bacco16. Un capitolo noioso17. Scaraface18. Tre cuori e un open space19. Questione d’odore20. L’amore è una cosa semplice21. Una vita in salita22. Yang e Ying23. §oldi24. Un re senza corona25. Scendere dall’olimpo per parlare coi mortali26. Take it, Eazy27. 99 Problems28. Cagnotto29. Sotto attacco30. Il lucertolone tenerone31. Colombo32. 72 Ore33. Il mio mondo, le mie regole34. Vexilla regis prodeunt inferni35.Troia

Il Nuovo e molto dilettevole giuoco del Bradipo

1. Itaca

Non ho mai avuto un nome.

A dire il vero non sapevo neanche cosa fosse, un nome.

Non prima di arrivare qui, a Miami.

Suona proprio bene: “un bradipo a Miami”… dovrebbero farci un film. Ma Lasciatemi raccontare.

Insomma, io me ne stavo lì, sonnecchiando tranquillamente appollaiato sul mio albero, a godermi il sole, quando sento che il tronco comincia a tremare no?

Guardo giù e vedo questi due gringos che si avvinghiano intorno al MIO albero e cominciano a strattonarlo energicamente no?

Cosa pensavano di ottenere? Non sono mica una noce di cocco io…ho una luuuunga tradizione di famiglia…gente seria. Mio nonno, per intenderci, prima di morire cadendo da 200m di altezza per aver scambiato il suo braccio per un ramo, era uno tosto. Ha resistito per 2 ore con un puma appeso alla schiena, mio nonno.

Ma quei due tizi non si perdevano d’animo...d’altronde non potevano saperlo.

Sono ingegnosi, gli umani. All’epoca non li conoscevo molto bene, li vedevo poco spesso e da lontano, ma sapevo che erano ingegnosi.

Proprio quando stavo per riaddormentarmi…ecco che quei due rompipalle tornano alla carica. Stavolta portandosi dietro un cordino. E niente, uno dei duelega ‘sto cordino al tronco del MIO albero, senza nemmeno chiedere il permesso, e comincia a saltare zompando lungo il tronco, mentre l’altro gli urlava frasi di incoraggiamento da sotto.

Neanche il tempo di fare un passo che con la coda dell’occhio vedo il tizio che si allunga verso di me, afferrandomi per la pancia e iniziando a tirarmi.

Naturalmente ho fatto tutto ciò che era in mio potere per fermarlo: l’ho ignorato.

Nonostante i miei sforzi, il tipo non mollava. Naturalmente non mollavo neanche io. Non mollava neanche lui. Ma non mollavo neanche io. Tuttavia neanche lui mollava. Insomma, avete capito.

Dovevano aver capito che ero un duro. Il sangue di mio nonno scorre nelle mie vene, dopotutto.

Ma sono ingegnosi, gli umani. L’ho già detto?

Proprio quando pensavo di aver trovato un nuovo amico ecco che, nel tentativodi strapparmi dal mio ramo, sciuf, il tizio scivola, ritrovandosi aggrappato solo ame, sospeso a mezz’aria a 50 metri dal suolo.

Io non avrei mai perso la presa. Dopotutto non sono così ingegnosi, gli umani.

Io fisso lui. Lui fissa me. Noi fissiamo il ramo. Crack. Buio.

Mi ritrovo a terra, a quanto pare il corpo del mio nuovo vecchio amico mi ha protetto dalla caduta, lui non ne sembra molto felice però. Naturalmente sono ancora aggrappato al mio pezzo di ramo, sono un duro io.

Poi mi mettono in un sacco. Buio.

2. Il Lenguado

Proprio quando pensavo di aver raggiunto il mio paradiso fatto di Cecropie e fiori d’Ibisco, ecco che mi risveglio nella mia gabbia dorata. Non che fosse una gabbia vera e propria eh…diciamo che era un villone di 30 ettari di proprietà di don Ròmulo Martinez, un gentiluomo, come appresi dai suoi servizievoli amici, che si occupava di gestire alcuni onesti lavori, come li definivano loro, tra i quali il traffico di polvere di stelle, un prodotto molto richiesto tra gli umani, il coordinamento di bachaqueros e l’assistenza ad alcuni amici che, da come ho capito, metteva a dormire.

Non che potessi lamentarmi eh, si stava bene a casa di Ròmulo…avevo un albero tutto per me, un cesto per la frutta, un’umana che puliva i miei bisogni settimanali…e niente puma. Una pacchia insomma.

Inoltre ero la star indiscussa della casa.

Ròmulo mi prendeva, mi coccolava….era un gran tenerone quello. Certo, un po'lo capisco: come si fa a non amarmi?

Poi, un giorno, l’affronto.

Ròmulo decise che puzzavo. E mi fece lavare.

Ma andiamo con ordine….se ripenso a quel tradimento, sigh, mi piange ancora il cuore.

Mi fidavo io! Pensavo di aver trovato finalmente un amico…ma le leggi degli umani sono spietate.

Fu un azione rapida, veloce e organizzata. Sicuramente premeditata. Forse studiata a tavolino. Un mossa scaltra, astuta, arrembante. Non potei fare niente per fermarli. Mi presero con l’inganno. Insomma…cose così….avete capito.

Un pomeriggio, vennero da me due delle chicas che abitualmente si accoppiavano con Ròmulo. Tra l’altro senza produrre mai progenie…dovevano essere guaste, ma la cosa non sembrava preoccupare troppo il mio ex-amico.

Comunque, vennero da me e, come abitudine, cominciarono a venerare la mia figura offrendomi una gustosa carota.

Come ogni star che si rispetti, decisi di farmi desiderare ma, dopo un po', non potei più ignorare il richiamo della carota, e cominciai la mia discesa nel mondoterreno.

Come uno stolto lenguado abbocca all’amo, ecco che anche io caddi nel tranello ordito contro di me e, non appena afferrai la carota, ecco che le due donzelle mi presero con la loro forza bruta e mi portarono sul banco sacrificale agghindato per l’occasione: alla mia destra la striglia, alla mia sinistra il secchio, a nulla valsero i miei lamenti – pacati, perché sono educato - di protesta e, colpo dopo colpo, mi pulirono, con 23 spazzolate dritte al cuore.

Nel frattempo, il mio signore, mi fissava impassibile e compiaciuto. Tu quoque! Mi fidavo di te, o Ròmulo.

Privato del mio muschio e ferito nel mio animo, altro non potei fare che bramare vendetta, sognando una fuga rocambolesca verso il MIO albero.

Da quel giorno decisi che avrei cercato il più possibile di comprendere gli umanie il loro mondo, e iniziai a immagazzinare tutte le informazioni che mi arrivavano dall’osservazione diretta dettata dalla coesistenza forzata che mi era stata imposta.

Poi, un giorno, la mia pazienza fu premiata.

3. A new hope

Era una calda nottata d’estate, quando venni svegliato all’improvviso da un fruscìo tra i cespugli vicino al cancello sul retro, oltre la piscina…

Pensando si trattasse di un puma, mi preparai allo scontro imminente nel miglior modo possibile: salendo più in alto.

…Però non era un puma!

Silenziosi come ombre, dei figuri dal volto coperto sfilavano ai piedi del mio albero, diretti verso l’entrata posteriore della villa principale, mentre io li fissavo pigramente.

Uno di loro mi guardò, facendomi un cenno. Ho sempre un certo fascino.

Poi, proprio quando avevo deciso che quanto stava accadendo ai miei piedi non meritava la mia attenzione, preferendo concentrarmi sul mango che avevo lasciato mezzo smangiucchiato perché non abbastanza succoso, eccoche, proprio in quel momento, di colpo, si fece giorno.

Scoppi. Urla. Luci. Pim Pum Pam. Che palle sti umani, non stanno mai tranquilli.

Dopo un po', vidi uscire i miei vecchi conoscenti. Qualcuno a braccetto dei figuri senza volto – dovevano essere amici – qualcuno sdraiato sanguinante su una branda – maledetti puma…probabilmente un attacco notturno.

Poi, in fondo a quella malconcia carovana, ecco che anche Ròmulo fece la sua comparsa sulla porta di casa, camminando con lo sguardo basso ed uscendo dal cancello principale in compagnia dei senzavolto, senza nemmeno salutare.

Maleducato.

Fu l’ultima volta che lo vidi.

4. Coconut

La vita al campo di polizia non era male…ma non era neanche delle migliori.

Era Meh…

Avevo fatto amicizia con uno dei soldati più in forma della Caserma, Dominguez, 115 kg per un metro e settanta di uomo. Un vero maschio Alpha.

Probabilmente una calda bomba sexy pronta ad esplodere per le femmine dellasua specie.

Se ne stava tutto il giorno seduto a rispondere a una cosa chiamata telefono fisso passando telefonate alle varie auto, a quanto avevo capito. Doveva essere uno importante, lì dentro.

Tra una chiamata e l’altra, passavamo il tempo a guardarci.

Si alzava.

Prendeva due frutti, ne dava uno a me, poi mi fissava addentando il suo mentresudava davanti a un ventilatore che girava troppo piano, seduto sotto il porticciolo esterno della caserma, col telefono a portata di braccio, ascoltando costantemente una radiolina gracchiante che parlava da sola.

Ma veniamo a noi.

Non mi piaceva il mio albero.

Sognavo ancora il MIO albero.

Capite la differenza?

Questo non mi piaceva: troppo basso, pochi rami. Diciamo che, per parlare il vostro linguaggio, era un monolocale. Io meritavo di più, meritavo una villa.

Ero l’animale preferito del potente Dominguez, dopotutto.

Non ero l’unico non umano lì dentro, infatti, c’eravamo:

- Io- Due pappagalli Ara – uno rosso e uno blu, wow – parlavano troppo;- Un tapiro – grasso, continuava a grufolare buttando terra ovunque –

decisamente no;- Un paio di scimmie – due Cebi Cappuccini, rompipalle – non stavano mai

ferme e continuavano a urlare.

Non c’erano dubbi, io ero il Re.

Ed ero l’unico a non essere chiuso in una gabbia. Segno di rispetto. Ero l’animale preferito dal potente Dominguez.

Insomma, ero perfetto, ma il mio albero non lo era. E questo non mi piaceva. Perciò decisi di scappare.

Architettai il mio piano alla perfezione, cominciando a scendere dal mio albero al calar delle tenebre, alle 22.00.

Alle 23.00 ero a terra, freddo come un’aquila.

Alle 3 arrivai alla base del cancello d’entrata, silenzioso come la nebbia.

Alle 5 varcai il cancello, agile come il vento.

Alle 6.30 mi raccolsero a 3 metri dall’ingresso, riportandomi indietro.

La verità mi colpi come una noce di cocco troppo matura colpisce il terreno.

Non ero l’unico libero perché mi rispettavano.

Ero l’unico libero perché ero lento…

5. Naso

…e Dominguez non era affatto potente.

Lui e la sua radiolina mi avevano insegnato molte cose e trattato con garbo, ma la conoscenza e la gentilezza non possono nulla contro la brutalità.

Lo capii nel momento in cui lo vidi imbavagliato e legato alla sua sedia cigolante, con una mela in bocca.

Ma andiamo con calma. La calma non è mai abbastanza.

Dunque:

In città erano scoppiati dei disordini, così li chiamavano gli umani, e così ripetevano ossessivamente i pappagalli nelle ultime 48 ore. “Disordini” era una delle nuove parole che avevano imparato e, a quanto pareva, i pappagalli adoravano imparare e ripetere allo sfinimento nuove parole.

Al tapiro, in compenso, non fregava niente di nulla. Avevamo molto in comune, saremmo potuti diventare buoni amici.

Comunque, in seguito a questi disordini, il tempo passato dai vari policias in caserma era diminuito notevolmente. Detto tra noi, diciamo che ci stava sempre e solo l’annoiato e all’epoca potente Dominguez.

Così, un giorno, fui rapito.

RAPITO!

BAM!

‘nzomm, per farla breve capitò che, in pieno giorno, quattro tizi con una strana passione per bandane e tatuaggi fecero irruzione nella caserma. Irruzione per modo di dire. Diciamo che entrarono camminando e reggendo in mano dei tubi di metallo simili a quelli usati dai policias a casa di Ròmulo, ma stavolta senza fare casino. Erano, in qualche modo, più educati.

Capii che Dominguez tanto potente e rispettato non era quando si lasciò legaree imbavagliare con una naturalezza disarmante, senza opporre la minima resistenza, con i quattro burloni che lo agghindarono cacciandogli una mela in bocca stile porco al forno.

Dopo aver reso inoffensivo il già poco offensivo Dominguez, i quattro pensarono bene di rubacchiare qua e là il rubacchiabile, me compreso.

A quanto pare dovevo avere un qualche valore. Affettivo se non altro.

Vennero sotto al mio albero mi guardarono. Li guardai. Si parlarono. Sbadigliai. Mi presero.

Mi portarono in un carretto munito di gabbia attaccato a una vecchia auto infangata che uno di loro aveva nel frattempo guidato all’interno della struttura.

Erano ben organizzati, nulla da dire, bisognava riconoscerglielo.

Ad aspettarmi nella gabbia trovai tutti i miei quasi amici, poi, i miei rapitori, misero in moto sgommando fango sul vialetto d’ingresso e sui miei giorni felici fatti di mele in compagnia del mio grasso amico.

Non sapendo che fare afferrai il naso del tapiro, che sembrò gradire.

6. Grand Bucarest Hotel

Il viaggio non durò molto, per fortuna.

Dopo poco, ci ritrovammo a percorrere strade sterrate in direzione della foresta, mentre le scimmie tiravano merda in segno di protesta contro bersagli invisibili ai lati della strada finchè, una volta scariche, si calmarono, rassegnate al loro destino.

Il tapiro, dal canto suo, non aveva molto da fare: il pavimento di metallo del carretto era ingrufolabile. Così passammo il viaggio a guardarci. Furono indubbiamente dei bei momenti.

Poi, nel bel mezzo del nulla, l’auto si fermò.

Dopo poco tempo, un piccolo camioncino arrivò dalla parte opposta.

Gabbie.

Trasportava gabbie vuote. Che strano… Ah.

Una figura si avvicinò a noi. Cercai di intimorirlo guardandolo male. Non funzionò.

Dopo un breve tira e molla mi passò la voglia e mi lasciai prendere, mollando lasbarra a cui ero aggrappato.

Le scimmie non furono altrettanto accomodanti, e combatterono a modo loro: strillando e cacando. Alla fine ci ritrovammo separati.

Decisi di non sprecare il tempo a mia disposizione facendo qualcosa di costruttivo, così mi misi a dormire.

….

..

….

Venni svegliato da un tizio che maleducatamente sollevò la mia gabbia, impilandomi svogliatamente su altre casse in un angolo maleodorante. Non so dire in quanti fossimo in quel condominio improvvisato, ma eravamo TANTI.

Non so dire neanche quanti giorni rimasi in quella gabbia minuscola, un po' per via del fatto che solitamente dormo 19 ore al giorno, certo, ma in parte sono sicuro dipendesse anche dal fatto che quel luogo era palloso. Monotono.

Così, passavo i giorni guardando i miei vicini urlare e dimenarsi, attendendo pazientemente il compimento del mio destino.

Se non altro, in quell’umida e stretta dimora, i miei adorati muschi avevano ricominciato a crescere sul mio corpo. Ahhh che bella sensazione.

Ero un Arbre Magique gusto pino.

Poi….un giorno..come – devo dire – mi capitava spesso in quel periodo, un’entità superiore decise che il mio tempo nella baraccopoli era finito, e mandò un emissario a prendermi.

7. ‘nDuja

Avevo le treccine.

E non quelle allegre treccine dovute alla troppa umidità nell’aria che fa raggrumare il pelo formando quei simpatici bitorzoli. Proprio le treccine. Treccine rosa.

Me le aveva fatte Dora.

Maaaaaa procediamo per step.

Veloci che non ho voglia.

Tanto avete imparato la solfa.

Pare che fui comprato. Stop.

Viaggio in macchina. Stop. Prima classe ma è uno sballoNO. Stop.

Messico…Ahiiii…Carrambaaaaa…Sombrerooosss..peperoncini. Capito no? Stop.

Villa di trafficante di droga….solita roba. Stop.

Casa delle bambole. Sigh.

Vivevo in una casa delle bambole : (

Più o meno….era un castello rosa di tremetripertrè con alcune sbarre per farmi appendere. Mi mancava TANTO il MIO albero…

Me ne stavo lì, al chiuso, appeso a sta sbarra senza niente attorno…con le treccine rosa. Ero un salame fatato.

A differenza di quel brav’uomo di Ròmulo – sempre affettuoso – non vidi mai il padrone di casa qui, se non per brevi attimi mentre passava in lontananza. E dico in lontananza perché la stanza di Dora era Enooooorme.

Ero ostaggio di Dora, un piccolo essere urlante che adorava strapazzarmi in vari modi. Non era troppo diversa dalle scimmie ma, se non altro, non mi lanciava la sua merda addosso.

I miei pomeriggi consistevano nel fissarla mentre mi acconciava in vari modi, colorandomi le unghie e tingendomi il pelo, riducendomi in uno stato in cui il mio beneamato nonno non sarebbe stato felice di trovarmi.

Oltre a ciò, usavamo bere il the assieme. Cioè, lei beveva il the, io mangiavo le bustine. Credo che il rapporto di coppia funzioni più o meno così.

Spesso amava osservarmi mentre mangiavo, per cui cercava di costringermi a farlo spesso ficcandomi in bocca verdure di vario genere. Provai a morderla per scoraggiarla ma pare che lei lo trovasse adorabile, perciò smisi.

Più tentavo di ribellarmi, più lo interpretava come un gesto d’affetto, per cui dopo un po' desistetti, divenendo apatico.

Quella fu la mossa vincente.

Dora si stufò di me.

E mi lasciò dormire nel mio castello per giorni e giorni.

E giorni.

Poi, finite le carote, capii che quello poteva significare per me la morte.

E mi misi a rimpiangere le mie treccine….

8. Spazzatura

Beh…che dire: pareva proprio che la mia aguzzina si fosse stufata della mia compagnia, lasciandomi a marcire in un ergastolo solitario nel mio castello rosa. Ero un vestito fuori moda.

All’inizio non capivo come una cosa del genere fosse potuta accadere, voglio dire, per via del mio intramontabile fascino.

Poi, un giorno, capii.

L’illuminazione arrivò come un lampo, anticipata da un tonante e tenero guaìto seguito dalle urla scomposte di Dora.

Aveva un altro

Mi sentivo usato. Mi sentivo tradito. Mi sentivo…solo.

E affamato. Ok forse ero solo affamato…volevo fare un po' il melodrammatico, non me ne fregava gnente.

Avevo una fame fottuta.

Per fortuna, la dieta impostami nelle settimane precedenti mi aveva reso obeso.

Chi dice che la felicità non si trova sul fondo di un bicchiere ha ragione. La felicità sta sul fondo delle scodelle.

Poi, un giorno, proprio quando cominciavo ad avere le prime allucinazione circala mia ascensione verso un modo migliore in cui i tronchi degli alberi sono carote giganti e le foglie enormi fiori d’ibisco…ecco che il cancello si aprì, lasciando entrare un fascio di luce.

Quanti colpi di scena nella mia storia, eh?

Una domestica aprì la porta con una smorfia disgustata e mi afferrò per le ascelle.

Mentre mi portava fuori dalla stanza lo vidi: un cucciolo di cane. Una tenera piccola gioiosa palla di pelo. Un classico, niente di speciale.

I nostri occhi si incrociarono mentre Dora lo sollevava tra le sue grinfie, abbracciandolo e non degnandomi neanche di uno sguardo.

Lui sorrideva.

Stupido stolto, ancora non sapeva cosa lo aspettava.

Mi caricarono in auto, sul sedile del passeggero.

Posto d’onore.

Partimmo, e il mio autista personale mise la radio.

Non voleva mi annoiassi.

Ci fermammo.

Aprì la portiera, probabilmente doveva fare i suoi bisogni.

Ci guardammo.

Mi prese mano nella mano.

E mi lanciò

9. In fondo al mar

Volai…

Mi sentivo leggero

Poi arrivò la consapevolezza. Agitai le braccia in cerca di un appiglio. Trovai qualcosa e lo afferr…tonf

Era la radice di un albero. Ahia.

I miei residui di ciccia comunque fecero il loro dovere, proteggendomi.

Mi guardai attorno: il nulla.

Ero libero!!

Non mi restava che tornare a casa, dal MIO albero.

Dovevo fare come gli uccelli: dovevo migrare.

Bene.

Come si fa a migrare? Si, insomma…avevo la buona volontà, non avevo fretta, ma mi mancavano le basi.

Decisi comunque di mettermi in viaggio, così scelsi la direzione che mi sembrava più promettente e comincia a strisciare in cerca di un albero su cui arrampicarmi.

∞∞

Non so quanta strada percorsi, forse 3, 5…10 metri, fatto sta che dopo un po' mi stancai, e decisi che avevo bisogno di dormire, almeno per un po'. Così, abbandonai l’idea di trovare un ramo a cui appendermi e mi lasciai cullare dallemorbide braccia di Morfeo.

Non so dire quanto dormii, ma la scelta della posizione non doveva essere statamolto saggia, in quanto al mio risveglio mi sentivo poco riposato e con le gambe intorpidite.

Mi presi i miei 5 minuti per svegliarmi, poi decisi di mettermi in moto cominciando con il cercare qualcosa da sgranocchiare, così, per darmi un po' dienergia.

Puntellai le mani contro un sasso e feci per avanzare, ma fallii. Mi sentivo pesante.

Tentai di agitare un po' le mie gambe ancora intorpidite, ma fallii. Mi sentivo molto pesante.

Poi, guardando indietro, capii.

Un serpente mi stava mangiando.

Che palle

Era lentamente arrivato all’altezza dei miei fianchi e procedeva instancabile e deciso verso la mia testa.

Visto che ancora era lontano, mi presi il tempo per pensare a cosa fare.

La mia ciccia, a quanto pare, mi stava salvando ancora, rallentando l’azione metodica della serpe.

Visto che lui non sembrava voler desistere, mi decisi a combattere.

Così, cominciai a schiaffeggiargli la faccia con le mani.

La natura non era stata molto generosa con me, in fatto di armi di difesa.

Il tempo intanto passava, e la bocca sbavante del mio nemico si avvicina sempre di più all’obiettivo: me.

Avevo le gambe fuoriuso, compresse dai potenti muscoli del biscione, e i miei schiaffi non erano serviti a molto. Cominciai a vagare senza meta per lo sterrato, trascinandomi dietro di peso il serpentone come una lumaca si trascina dietro il guscio;

Mi apparve di fronte una foresta, così ebbi un’idea geniale: se fossi riuscito a salire su un albero, il serpente sarebbe scivolato giù per via della forza di gravità come un frutto maturo e si sarebbe spatasciato per terra rendendomi libero.

Geniale.

Passai un paio di minuti a compiacermi della mia idea, poi iniziai a strisciare come un berretto verde in guerra.

Alzando lo sguardo, notai comparire finalmente, al di là di una piccola stradina, un albero in mezzo a quella desolazione, e lo puntai, agitandomi come una focaall’asciutto per raggiungerlo nel minor tempo possibile.

Arrivai a metà strada, ma lo fece anche il serpente.

Era faticoso: anni e anni di arrampicate per nulla, le braccia cominciarono a tremarmi.

Superata la strada, ero arrivato ormai alla base dell’albero. Non ce la potevo fare. Il serpente avrebbe avuto la meglio, io riuscivo a malapena a sollevare un braccio.

.

.

.

Skeeeeeew

La presa si allentò all’improvviso. Voci umane.

“Amigo, abiamo messo sotto qualcossa”

“Che è sta roba?

“ahi ahii…es una sirena!!”

“Ok, quindi secondo te abbiamo messo sotto una sirena”

10. Droga

Non sono mai stato una sirena, e non lo ero certo in quel momento, come capirono i due umani.

Però l’effetto dato dal serpente schiacciato con me che uscivo dalla bocca davaun po' la sensazione che fossi una bellissima sirena pelosa. Beh, ciò che conta è che, comunque, ero e – spoiler – sono ancora vivo.

Venni estratto sbavato dalle fauci dellabbestia morta e studiato come si studia un sacchetto di cereali in cerca dei pezzetti di cioccolato. Alla fine decisero che ero abbastanza vivo.

“E’ un bradipo”

Sentenziò uno degli scienziati.

Giusto, 1 punto per te: sono un bradipo.

“I bradipi non strisciano”

Disse l’altro. Beh, su questo avrei qualche dubbio, viste le mie ultime avventure, ma andiamo avanti.

“I bradipi non stanno in Messico”

Beh, io ci sono.

Ero stufo di ascoltare, ero stanco, volevo andare a casa. Mangiare un cetriolo, bere in pace il succo di un bel frutto maturo..quelle cose lì. Robe da maschio.

Gli morsi il naso.

“Ahia”

Eh eh…divertente.

“Portiamolo dall’Americano”

Mmmh..pessima idea…non ne ho mai visto uno..non so nemmeno cosa sia un ameriCane. Qualche razza strana.

“Ok”

Beh, avevano deciso loro per me. Non è che avessi molto potere decisionale al momento. Poi non avevo più voglia di migrare, pensavo fosse più divertente e meno pericoloso. Lasciai perciò decidere loro per me. Ci ero abituato ormai. Non mi dispiaceva.

Dopo qualche ciancia, mi portarono dall’americane.

Non era un cane, era un umano che parlava strano.

Mi sollevarono di fronte a lui come Simba nel Re Leone.

Lui mi guardò negli occhi togliendosi gli occhiali da sole, poi, sempre fissandomi, fece una chiamata parlando in una lingua strana che non avevo

mai sentito ma che avrei presto imparato – linglese – poi chiuse il telefono sorridendomi.

Mi prese, mi mise in una prigione di cortesia – una di quelle in cui gli umani solitamente tengono crudelmente i loro infanti – e mi diede del cibo.

Ero diffidente.

Ma lo mangiai. Era pur sempre cibo.

E poi è maleducazione rifiutare.

Tornò e mi sorprese con una mela in bocca. Mi sorrise, blaterò qualcosa nel suo idioma incomprensibile e mi accarezzò la testa.

Poi mi infilzò a tradimento.

Mi venne sonno.

Stavo chiaramente per diventare un sacrificio: mi avevano incastrato un’altra volta.

11. Matrix

Mi risvegliai in una stanza futuristica. Cose mai viste, surreali.

Eravamo in tanti…7…8…ognuno in un cubicolo trasparente-opaco dello stesso materiale di cui sono fatte le bottiglie, ma più duro.

Animali mai visti.

Uno aveva una bocca oblunga e giaceva su un fianco respirando a fatica, ancora drogato della sostanza che avevano probabilmente iniettato nel mio corpo.

Poi, in un altro cubicolo, stavano tre esseri beige simili a dei piccoli cani bipedi. Uno stava in piedi a fissare ritmicamente gli oggetti nella stanza – me compreso - facendo rimbalzare ansiosamente gli occhi a destra e a sinistra, mentre gli altri due si agitavano ossessivamente smuovendo gli stracci bianchi su cui erano alloggiati in cerca di chissà cosa, probabilmente in crisi d’astinenza.

“Di più, ne voglio di piùùùùù” sembravano dire i loro occhi sbarrati.

Più lontano, un telo copriva qualcosa di grottesco…che si iniziò ad agitare a scatti, fino a che notai una testa rivolta verso il muro da uno spiraglio, che improvvisamente si girò di 180° fino a fissarmi con degli enormi occhi gialli.

Ero finito all’INFERNO.

Sentii, dei passi provenire dal corridoio…Lui stava arrivando.

Una mano smosse la maniglia…un’ombra strana stava per entrare.

Feci quello che mi veniva meglio: finsi di dormire.

Funzionò.

Un uomo entrò nella stanza, diede un’occhiata in giro, soffermandosi sul cubicolo con i tre cani iperattivi, e poi uscì.

Aprii lentamente gli occhi che tenevo socchiusi per vedere meglio nella penombra. La porta era rimasta socchiusa…non si chiudeva perfettamente.

Neanche il tempo di pensarlo, che il demonio fu di ritorno, accompagnato da una accolita che spingeva un carrello. Oddio. Forse volevano lavarli.

Li spiaii. Hi Hi.

Spinsero il carrello di fianco ai cagnoli e poi, con una mossa sincronizzata, sollevarono l’intero cubicolo di plastica, appoggiandolo delicatamente sul carro,che cigolò in risposta.

I tre, intanto, si erano addossati ad un angolo, agitati.

Poi, la servitrice del mefitico cominciò a spingere la comitiva fuori dalla stanza.

Avrei dovuto avere paura, ma i miei sensi di bradipo ebbero la meglio, calmandomi e assopendomi. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità, loso – anche se a me le responsabilità non piacciono poi troppo.

Un’altra seccatura da sbrigare.

Notai ancora lo spiraglio di luce provenire dalla porta…era rimasta ancora aperta.

Dovevo andarmene di lì, e dovevo farlo in fretta.

Poi, riflettendo su quanto avevo appena pensato, mi ricordai che quella parola mi faceva schifo.

12. Take a look around

Decisi comunque di muovermi.

Mi guardai attorno: l’architetto che aveva progettato la mia prigione di plastica non era stato molto furbo. O almeno, non abbastanza furbo per imprigionare un bradipo.

Mi avvicinai ad un angolo, e feci a ponte con i miei arti, incastrandomi alla perfezione e facendo leva sul braccio sx e la gamba dx.

Facile.

Poi sollevai la gamba sx appoggiandola sul braccio sx, e mi alzai facendo forza su me stesso, per poi incastrarmi con il braccio dx e la suddetta gamba sx.

Easy.

Guardai in alto: ero ancora lontano.

Ripetei l’operazione.

Un gioco da ragazzi.

Lo feci ancora.

Routine.

E ancora. E ancora.

Allungai le mie tre dita trepidanti verso lo spigolo superiore e…

Aggancio perfettamente riuscito.

Notai che una palla spinosa mi guardava con ammirazione.

Feci un po' il figo dondolandomi mentre mi mantenevo appeso con un solo braccio, ammiccando un po'. Perché io posso.

Poi decisi di uscire: non si sa mai che tornassero i cattivi.

Adocchiai una serie di tubi sul soffitto, così decisi di tentare di fuggire nel modoper me più naturale: penzolando a testa in giù.

C’era solo un problema: i tubi non portavano alla porta.

Va beh, ci avrei pensato dopo, una cosa alla volta.

Mi arrampicai lento e inesorabile verso il mio obiettivo, inerpicandomi lungo le strane apparecchiature che costellavano la stanza color cielo, fino a raggiungere i tubi, poi, una volta in alto, finalmente nel mio habitat, la soluzione mi apparve davanti agli occhi, sottoforma di una piccola finestrella aperta verso cui correvano i tubi.

Proseguii uscendo, finchè non mi ritrovai all’aria aperta...mmm e mo? Boh, seguiamo i tubi.

Due di questi rientravano nella parete, mentre un terzo proseguiva attorno all’edificio. Non avendo ancora il potere di trapassare la materia, decisi di seguire quest’ultimo.

Attorno a me c’erano solo strani alberi con poche fronde, comunque troppo lontani per essere raggiunti, e comunque privi di rami comodi.

Proseguii svoltando l’angolo. E un altro angolo.

Fantastico. Anche questo tubo terminava nel muro, proprio sopra ad una finestra. Che mi restava da fare? Entrai nella finestra.

Era buio, con una forte e fastidiosa fonte di luce bianca che proveniva da uno schermo quadrato e sottile che si trovava appeso a un lato della stanza.

Mi calai su un lungo tavolo trasparente e sollevai la testa per guardarmi intorno.

Attorno a me, un gruppo di umani fissava apaticamente il quadrato luminoso mentre una voce metallica proveniva da qualche parte nella stanza.

Erano vestiti in modo uniforme, con lievi sfumature di colore a differenziarli gli uni dagli altri, e portavano al collo dei guinzagli che li legavano probabilmente alla base del tavolo: anche loro erano prigionieri in quell’edificio.

Poi si accorsero di me e si voltarono a guardarmi.

Non mi restava che fomentare una rivolta dal basso, per riuscire a scappare da quel fottuto manicomio.

13. Il riempimento automatico della cassetta delle carote

…eeeee invece no.

Mi ero sbagliato di brutto!

Questo è quello che pensavo mentre, sdraiato su un’amaca, sorseggiavo frullatie ricevevo attenzioni da un’umana che mi faceva i grattini.

Ero in uno zoo, che nella lingua degli umani vuol dire una prigione a cinque stelle in cui questi pagano per guardare altri animali. Umani esclusi. A meno che gli addetti alle pulizie facessero parte dell’esposizione…non l’ho mai capitobene.

.

.

Va beh.

Fatto sta che, dopo la mia intrepida incursione, fui preso e portato di peso in una stanza, dove fui rivoltato dalla testa ai piedi da un manipolo di uomini impiccioni, che mi pulì, analizzò e certificò.

Alla fine mi regalarono una cavigliera superchic e mi portarono fuori.

Non era male lì.

Ero in un open space, che nel linguaggio degli umani indica un grande spazio chiuso.

Ma a me non me fregava poi molto: avevo il cibo. Avevo un sacco di alberi BELLI GROSSI. Non erano il MIO albero, ma va beh, sono un tipo che sa accontentarsi.

Cos’è la libertà quando hai il riempimento automatico della cassetta delle carote?

Spesi la mia prima settimana esplorando la mia nuova casa. C’era un sacco di gente li.

Un sacco di animali, intendo…e…e un sacco di piante!

Era come stare a casa, solo che non vedevo il cielo, perché era coperto dal soffitto dell’open space.

Dopo un po', mi ero fatto la mia crew: mi conoscevano tutti lì dentro eh.

C’erano i pangolini, dei buffi folletti corazzati che quando li toccavi si appallottolavano su loro stessi, c’erano le scimmiette – rompipalle ma divertenti – c’erano dei grossi pesci colorati, sottili e tondi, che si muovevano lentamente in grandi vasche piazzate ai lati della struttura…insomma c’era movimento, diciamo.

Ogni mattina – suppongo fosse mattina – mi svegliavo, facevo il mio giretto appendendomi qua e là, poi tornavo nel mio giaciglio e mi rimettevo a dormire.Che pacchia.

Ogni tanto spiavo che facevano gli altri…ogni tanto passava un umano a sincerarsi che tutto fosse a posto…e così filavano via le mie giornate.

FINO AL GIORNO DELL’APERTURA.

14. Il mio tessoro

Orde di umani sciamavano qua e là come moscerini impazziti attirati dalla luce di una lampadina.

La luce eravamo noi.

Si riversavano ogni giorno nel nostro open space come una grandinata d’estate, iniziando a entrare dalla porta grigia a piccoli gruppi scoordinati per poi fluire incessantemente fino alla sera, quando tutti insieme, all’improvviso, sparivano.

Entravano e passavano sulla passerella, allungando le mani per toccarci, bramosi del nostro calore, andando avanti e indietro, schiacciandosi contro le barriere pur di sfiorare il nostro pelo.

…i più fastidiosi erano i piccoli.

…ed erano anche i più furbi.

Spesso portavano delle esche per attirarci e per poterci accarezzare.

Esche irresistibili e fortemente personalizzate.

Così, accadeva che estrassero banane e che le scimmie corressero ad afferrarle, o che tenessero in mano granaglie finchè un Ara non si posasse vicino a loro per mangiarle.

Io non resistevo alla vista di una carota. Era più forte di me.

Nonostante ne avessi quante ne volevo. Nonostante potessi mangiarne a sazietà. Quelle nelle mani altrui mi sembravano sempre più buone. Più uniche.

Così, ogni volta che un bambino ne protendeva una verso di me, agitandola con fare amichevole, io partivo lentamente all’attacco.

In mezzo alla folla, di tanto in tanto, si aggiravano delle Maglie Verdi.

Le Maglie Verdi erano degli umani si nascondevano furtivi tra gli altri della loro specie, ma in realtà erano nostri alleati, e si prendevano cura di noi. Erano dei traditori, sotto questo aspetto.

Ogni Maglia Verde si occupava di un gruppetto ristretto di animali: le scimmie avevano Max, i volatili avevano Esther, i pangolini avevano Lou, e così via.

Io, in qualità di unico bradipo, avevo il mio body guard personale: Chris.

Chris era un umano giovane, sebbene credo avesse raggiunto la maturità sessuale già da un po', di stazza media – non sembrava destinato ad accrescersi in questo senso – e con dei lunghi capelli neri.

Mi faceva spesso visita, e ogni volta che mi veniva a trovare passava il tempo aparlarmi mentre mi lavava, mi trasportava in giro o mi portava i rifornimenti. Grazie a lui affinai la mia comprensione del linguaggio degli umani d’oltreoceano e appresi molti termini difficili, tipo arzigogolato e tubolare.

Feci la sua conoscenza un giorno durante l’orario di punta.

Due bambini volevano accaparrarsi la mia attenzione contemporaneamente – altra parola difficile eheh – e presero ad agitare ossessivamente verso di me unmango e una papaya.

Sebbene nessuna delle due fosse una carota, non sapevo cosa scegliere!

D’altronde si sa, esistere significa "poter scegliere"; anzi, essere possibilità. Ma ciò non costituisce la ricchezza, bensì la miseria del bradipo. La sua libertà di scelta non rappresenta la sua grandezza, ma il suo permanente dramma.

Così, spinto dalla disperazione, alla fine decisi che le volevo TUTTE EDDUE.

Procedetti lentamente sopra le loro teste, appendendomi per le gambe e protendendomi verso di loro con le mani bramanti di dolcezza. Che errore da principiante.

Quando mi accorsi del fuoco maligno nei loro occhi era già troppo tardi: mi avevano preso.

I due diavoli cominciarono a tirarmi per strapparmi l’uno dalle braccia dell’altro,senza sosta. Nessun adulto all’orizzonte a fermarli. Sarei presto finito strappatoa metà, come il loro mango. O la loro papaya.

Fu in quel momento che incontrai il mio salvatore. Il mio mentore. Il mio Chris.

Arrivò di corsa da una porta segreta, mi prese dalle braccia dei bambini e mi riportò su un albero lontano dalla passerella.

Poi mi indicò e mi disse: “allora, come va Brad?”

Fu allora che scoprii di avere un nome. E capii a cosa servisse la cavigliera superchic.

15. Non è semplice essere Cupido, molto meglio essere Bacco

Chris veniva spesso a trovarmi.

Anche se sono quasi sicuro che fosse costretto, penso gli facesse piacere farlo.

Voglio dire, non quando doveva pulire la mia cacca, ma di solito sì.

Ogni volta che mi trovava, dopo essere entrato nell’open space, mi sorrideva, mi indicava col dito e mi faceva “Ehilà, Brad!”

Io avevo imparato ad alzare il braccio in segno di risposta, e questo sembrava renderlo molto felice; Anche se in realtà non riuscivo bene ad indicarlo come faceva lui con me…era come se mi mancasse un dito. O due.

I mesi comunque passavano lenti, e io iniziavo altrettanto lentamente, grazie a Chris, a capire la lingua linglese. Ciò che non capivo più era Chris.

Negli ultimi tempi, infatti, era cambiato, e subiva improvvisi e repentini sbalzi d’umore. Accadeva infatti che improvvisamente smettesse di parlarmi, diventasse rosso e iniziasse a sudare.

Sebbene potessi capire il secondo fenomeno – probabilmente un goffo tentativodi mimetismo – non riuscivo a spiegarmi gli altri due. E non ci sarei mai riuscito senza la spiegazione che mi diede.

La colpevole era la nuova addetta alle scimmie: Ola.

Ma non era negativo, mi spiegò, e un giorno, mi disse, avrei capito anche io.

Ciò di cui ero certo è che lei non intendeva mangiarselo, non era di quello che aveva paura.

…magari lui sì…al massimo.

Io, in qualità di suo migliore amico, mi sentivo in obbligo di aiutarlo. Anche se non avevo ancora capito cosa volesse da lei, ero certo che in qualche modo desiderasse avere a che fare con lei.

Ci serviva una strategia.

Anche perché ero stufo di avere un amico a mezzo servizio.

Già non avevo più il MIO albero, almeno rivolevo il mio umano.

Lui non si decideva a cacciarla, così la cacciai io per conto suo: l’avrei conquistata e portata da lui. Forse, pensai, vedendola da vicino, avrebbe attaccato.

Così accadde che, il giorno dopo, Ola entrò con lo scopo di riempire le riserve delle scimmie ragno, e io partii subitamente all’attacco.

Seguii i suoi lunghi capelli rossi muoversi fino alla cassetta delle banane, poi calai dall’alto.

“Hey!” mi fece lei.

La guardai negli occhi. Verdi.

Non sapevo bene che fare, in effetti. Avrei dovuto studiarmela meglio.

Dopo un po' lei si stufò, mi spostò con un braccio e si mise a lavorare.

Non sapendo che fare, cercai di rubare una banana.

“No!” mi fece lei, dandomi uno schiaffetto sulla mano. Nel frattempo era entrato Chris.

“Tieni” mi fece lei con il suo strano accento, togliendosi un fiore che aveva in testa a mò di fermaglio e infilandomelo tra le dita. Poi se ne andò.

Avevo fallito…

Chris si avvicinò. Guardai il fiore. Triste. Lo mangiai cercando di annegare nel cibo la mia tristezza.

Lui si avvicinò a me alzando il dito, ma io non risposi al saluto: ero troppo giù.

Poi mi prese il gambo smangiucchiato dalla bocca e fece un’espressione stupefatta. Mi guardò, mi diede un buffetto e mi disse tutto contento: “Bravissimo Brad, sei il mio eroe. Oggi doppia razione di carote”

Eh Eh…

Non capendo perché, sorrisi in modo stupido e me ne andai.

16. Un capitolo noioso

Questo, è un capitolo noioso.

Tutte le storie ne hanno almeno uno.

E la mia storia non fa la differenza.

E’ stupido pensare che debba sempre succedere qualcosa no?

Non è … realistico.

Tutti abbiamo quelle giornate in cui non succede NIENTE.

In cui vorresti fare qualcosa…ma in realtà no.

Di quelle in cui a fine giornata ti senti in colpa per non aver fatto niente. Per aver lasciato il mondo come lo avevi trovato alla mattina. Per non aver scritto neanche una riga della tua vita, lasciandoti trasportare e semplicemente aspettando che succedesse qualcosa. Guardando l’orologio. (Si ok, sono un bradipo…non so come si usa l’orologio…non avendo un polso non potrei neanche portarlo….però volevo fare un po' il filosofo dai).

Beh comunque molte delle mie giornate erano capitoli noiosi.

Mi alzavo….facevo un giro….aspettavo la chiusura con pazienza….ve l’ho già spiegato qualche capitolo fa, no?

Che palle…

Mi mancava il MIO albero…

Però non avevo la forza di fare niente. La forza mentale intendo.

Va beh insomma…facciamo che…Ok…allora…

Non ho manco voglia di raccontarlo bene…

Facciamo che andate direttamente al capitolo dopo no?

Tanto non è successo niente. Nulla da raccontare.

Solo un capitolo inutile che però allunga inutilmente l’attesa di qualcosa di interessante.

Tanto domani mi sveglio e faccio qualcosa…domani ci penso.

Se, come no.

17. Scaraface

Chris cercò di divorare Ola in un freddo mattina preprimaverile.

Io li spiavo da lontano.

Lui le si avvicinò e la bloccò con le braccia, come un pitone che avvolge un inerme capibara: per lei era impossibile scappare.

Dopodichè spalancò la bocca e cercò di divorarla partendo dalla bocca, come una mantide che metodicamente mastica la testa di un grillo.

Poi si staccò.

I due sorridevano.

Fu lì che ebbi l’illuminazione: non voleva mangiarla, voleva accoppiarsi. Certo era strano, era fuori stagione. Era naturale che non ci avessi pensato. Che esseri bislacchi gli umani.

Non capivo cosa ci trovasse in Ola, era chiaramente troppo magra per avere la certezza che potesse generare prole sana. Ma va beh. Non mi interessava.

Ciò che contava, è che Chris finalmente tornò come prima. Anzi più felice di prima. Talmente felice che ora fischiettava mentre mi raspava la schiena.

Così anche io ero felice.

Ma non durò molto.

Perché nuove nubi nere arrivarono ad oscurare il mio cielo. E non parlo del cielovero e proprio…quello mica lo vedevo, da dentro l’open space. E’ una metafora.Sono belle le metafore.

…Perlaprimavoltadaquandoavevolasciatoilcaldogiacigliorappresentatodallapellicciadimiamadre, vidi un mio simile.

UnA mio simile.

Sarei dovuto essere felice di ciò.

NON LO ERO.

Era nel mio territorio.

Quando la vidi la prima volta, la teneva in braccio il MIO umano maglia verde.

Il MIO amico Chris, che ora si accoppiava regolarmente solo grazie a me, e che mi guardava indicandomi e sorridendo.

Arrivai veloce come un lampo – brrr ho detto di nuovo “veloce” – per rivendicare ciò che era mio.

Scoprii che avevano portato una nuova cassetta del cibo, ed era arancione.

La mia era blu.

Ho sempre desiderato una cassetta arancione.

Ero su tutte le furie: raccomandata.

Ci guardammo.

Lei aveva preso in mano una carota dalla sua cassetta, e la mangiava guardandomi.

Gliela rubai.

E mentre mi guardava con sguardo triste e interrogativo, la gettai a terra facendole capire il messaggio: “Qui comando io”.

18. Tre cuori e un open space

La convivenza con la bradipa non fu facile.

Il problema principale era che lei era adorabile e non faceva nulla per farsi odiare. E questo mi mandava in bestia.

Ci avevano piazzato le provviste nello stesso punto, così, sebbene normalmente stessimo su alberi diversi, non era facile evitarla.

In più lei non sembrava volermi evitare. E gli umani facevano di tutto per farci socializzare.

Arrivarono persino a chiuderci in una stanza in isolamento per una settimana. Non capivo cosa avessi fatto per meritarmi tutto ciò.

Volevano farci accoppiare.

Almeno, questo è quello che percepii ogni volta che Chris cercava di invogliarmi a socializzare con l’invasora, letteralmente spingendomi sopra di lei.

Beh io non volevo. A me lei non interessava.

E comunque non mi piaceva essere forzato…ho bisogno dei miei tempi, io. E poi volevo scegliere io la mia compagna. Sono un bradipo emancipato, io. Un figlio del nuovo millennio.

Così, dopo un po', si arresero, rimettendoci in libertà.

E fu lì che mi accorsi di quanto il mondo possa essere crudele.

Erano giorni bui.

Una notte, allo spegnersi delle luci, mi svegliai. Il vento sulla pelle.

Mi presi il mio tempo per assicurarmi che la Seccatura non fosse in giro, e poi decisi di discendere tra i vivi per andare a fare i miei bisogni terreni.

Arrivato a terra, mi diressi verso il mio punto preferito e mi diedi da fare.

Mentre riaprivo gli occhi soddisfatto, notai che una faccia a testa in giù stava violando palesemente la mia privacy, e non sembrava preoccuparsi di ciò.

Pensai subito che si trattasse della Solita Rottura, poi notai che questa presenza era diversa.

La rivelazione mi colpì dritto in faccia: non bastava una inutile bradipa appiccicosa: ora ce ne era anche un secondo. Un maschio. Era un’invasione.

Tornatevene a casa vostra, non ho capito.

E questo era GROSSO…ma GROSSO!

Era tipo…il doppio di me.

Era grasso, peloso, puzzava…un vero Maschio Alpha. E aveva 2 dita.

Mmm

Cosa potevo fare contro ‘sto Golia?

Finii di fare i miei bisogni e battei in ritirata, con il mostro che mi osservava, immobile.

Come potevo sconfiggere quell’ammasso di muscoli e testosterone, e ristabilirele gerarchie?

Ero forse destinato ad abdicare e a vivere la mia vita nella sua ombra?

19. Questione d’odore

Cambiò odore.

Come un frutto che da acerbo e duro matura fino a diventare molle e colorato econ quell’odorino che ti dice “mangiami prima che lo facciano i vermi e concima con i miei semi l’intera foresta, fammi tuo!”

La volevo. Oooooh se la volevo.

Non so cosa fosse successo in me, in lei o nell’aria, so solo che adesso la volevo. Non mi stava più antipatica.

Avevo persino imparato ad apprezzare quello stupido ammasso di lardo e pelo dell’altro bradipo.

Stavo diventando un rammollito.

All’inizio mi faceva un po' paura, lo ammetto. Sembrava così enorme, brutto e cattivo. Poi, osservandolo e conoscendolo, notai che era solo stupido.

Abbracciava qualunque cosa. Cercavi di mangiare qualunque cosa. Faceva amicizia con i sassi.

In principio pensavo che volesse rubarmi la bradipa, proprio ora che l’avevo elevata a mia musa…la abbracciava!

Poi lo vidi abbracciare anche Chris. E un pangolino. Eeee il cesto della frutta. Gliuccelli si posavano su di lui. Era inoffensivo.

Lei, poi, non sembrava particolarmente interessata a lui, nonostante lui avesse tutto ciò che, a mio modesto parere, una bradipa potesse desiderare: un folto pelo ricoperto di muschio e tanta tanta ciccia.

Cosa avevo io???...beh…io avevo 3 dita. Eheheh

Non so bene perché, ma stando a quanto diceva Chris, questo era molto importante per lei.

Non mi restava che conquistarla.

Bene.

Non ero così in difficoltà da quando tentai di migrare. Per fortuna, qui non sembravano esserci animali pericolosi, per lo meno. Bambini a parte.

Non sembrava esserci verso di tornare nella cella d’isolamento. Che stupido che sono stato, quello sì che era un luogo romantico. Decisi di mettermi in mostra.

Andai di fronte a lei, mi sedetti, e la fissai.

Non successe niente.

Così, dopo un po', lei se ne andò, attratta da un insetto che camminava pigramente lontano da me.

E’ che non mi ero mai accoppiato prima…quindi non sapevo bene come fare…

Provai a pensare a come aveva fatto Chris…ma poi pensai che dopo 3 mesi Olanon stava ancora producendo eredi, per cui la sua strategia – qualunque essa fosse – era senza dubbio sub-ottimale.

Decisi di avvalermi della consulenza esperta del mio grosso amico obeso, visto che ai miei occhi doveva essere un grande conquistatore. Così, mi arrampicai fino al suo giaciglio, sorprendendolo a fissare un ramo con un’espressione stupefatta.

Cercai di fargli capire il mio problema.

Lui cominciò a spostare ossessivamente lo sguardo dal ramo a me, e viceversa.Alla fine abbandonò i suoi propositi verso il ramo e mi abbracciò.

Ci misi un po', poi, capii.

Grazie amico, sei sempre stato qui per me e io non l’avevo mai capito, prendendoti in giro.

Me lo scrollai faticosamente di dosso e me ne andai aggrappandomi ad una liana. Dopo un po' mi voltai: era tornato a fissare il ramo.

20. L’amore è una cosa semplice

Ce l’avevo fatta.

Era stato piuttosto semplice.

Arrivai di soppiatto alle sue spalle e mi aggrappai saldamente a lei.

Alla fine lei, non riuscendo a scappare, si innamorò di me.

Poi boh…non so bene cosa successe…diciamo che mi lasciai un po' trascinare dagli eventi.

Ricordo solo che gli umani ridevano di gusto mentre mi guardavano…boh, valli a capire, sti spioni.

Alla fine, Chris pareva orgoglioso del mio operato. Probabilmente ammirava la mia efficienza.

Ola ancora non era produttiva, mentre la mia Bradipa era già pronta a perpetrare la mia specie, producendo un erede sano.

Difatti avevo di colpo perso nuovamente ogni interesse in lei.

Era tornata ad essere un’inutile ladra di cibo e alberi.

Anche la compagnia del ciccione cominciava ad annoiarmi.

Con gli altri animali poi, non avevo mai legato molto.

In poco tempo, la noia tornò ad abbattersi violenta e silenziosa sulla mia vita.

La routine mi stava sempre più stretta.

Volevo rivedere il sole. Volevo sentire nuovamente il vento sul pelo. Ma, soprattutto, rivolevo il MIO albero.

Non è bello fare la cacca in casa altrui, non c’è la stessa sensazione di familiarità. Dovreste saperlo, voi umani.

Dovevo andarmene dall’open space. Dovevo scappare.

Non c’era altra soluzione.

Un po' mi dispiaceva lasciare Chris, ma ormai tanto lui aveva imparato tutto da me, e si poteva considerare autosufficiente…l’avevo istruito bene, e ora era senz’altro capace di cavarsela.

Era il momento di sviluppare un piano.

Entrai in modalità spia, osservando l’ambiente da ogni angolazione in cerca di punti deboli da sfruttare per la mia fuga. Mi sentivo un ninja.

Dopo una settimana di osservazione metodica e speculare, capii cosa dovevo fare: arrendermi.

Non c’era assolutamente nessun modo di scappare. Boh. Che schifo la vita.

Cominciai a passare il tempo mangiando e bighellonando in giro, sconsolato e senza uno scopo.

Anche Chris se ne accorse, e cercò di tirarmi su grattandomi la pancia. Ma il mio era un dolore troppo profondo per essere raschiato via così.

Anche lui, poi, non è che mi cagasse poi troppo. Ecco… Non appena era entrataOla aveva smesso di parlarmi e darmi attenzioni e si era messo a seguirla in giro per il posto.

Notai una carota spuntare dal suo zaino. Un residuo del giro per riempire le vaschette.

Solo Dio sa quanto mi attirano le carote altrui. Sarà l’ebbrezza del furto, boh.

Mi spinsi fin dentro il suo zaino per mangiarla…avrei potuto mangiare le mie con calma più tardi tanto. Poi, all’improvviso, il cielo si oscurò.

Stupido umano! Mi aveva chiuso dentro!!

Cercai di farmi notare sollevando un braccio ma fui sballottato improvvisamente sul fondo: ci stavamo muovendo.

In mezzo a quel trambusto non riuscivo nemmeno a mangiare la carota, tra l’altro.

Un ultimo urto, poi avvertii come se avessimo iniziato a muoverci più velocemente. Se non altro ora potevo mangiarmi la carota.

Passò un po' di tempo, poi ci fermammo e sentii Chris parlare con qualcuno. Forse sarei finalmente potuto uscire. Mossi il braccio verso l’uscita, ma subito una forza più grande mi sollevò con tutto lo zaino eeeeepum. Un altro urto. Mi rassegnai. Nuovo viaggio sballonzolante. Poi ci fermammo nuovamente.

Lo zaino si ribaltò totalmente catapultandomi per terra.

Non mollai la carota. Piuttosto sarei morto.

Un urletto di stupore si levò da sopra di me. Era una voce femminile, di sicuro non era Chris. Alzai lo sguardo incrociando due grandi occhi che mi fissavano stupiti. Che succede amica?

21. Una vita in salita

Mi trovavo all’aperto. Giacevo tra la roba di Elvis, mentre una donna bionda sorrideva guardandomi.

“Teneroneeeeee”.

Poi mi prese in braccio, fece una smorfia e mi strinse con foga.

Poi mi rimise nello zaino. Deciditi.

10 minuti e un nuovo sballonzolante viaggio al buio dopo, arrivammo a destinazione, e vidi di nuovo la luce, venendo partorito su un tavolo tondo in una stanza minuscola.

“Allora? Non è un amore?” fece una voce sopra di me.

Davanti a me, una ragazza pallida pallida interloquiva con una ragazza nera nera.

Stavano disquisendo sul mio futuro che, a quanto sentivo, era in bilico tra una vita piena d’amore e un sacco dell’immondizia.

La bianca voleva riportarmi indietro e buttarmi da qualche parte.

La nera diceva di tenermi, che ero troppo carino.

Vinse la nera.

La mia bellezza era, ancora una volta, la mia condanna.

“Va beh, vediamo cosa aveva quel coglione nella borsa, a parte ‘sto coso peloso” replicò alla fine la sconfitta in segno di resa.

Chissà che cos’era un coglione.

Si spartirono le cianfrusaglie di Chris, e sembrarono piuttosto felici alla vista deldanaro – fogli di carta che gli umani utilizzano come talismano tenendoli sempre con sé – mentre restarono indifferenti alla vista di una mela gialla scintillante. Maledizione! Mi era sfuggita.

Decisi di condividere con le mie nuove compagne il mio piano di viaggio…il mioprogramma diciamo…la mia idea ecco. Di fargli capire come intendessi raggiungere il MIO albero e trovare una soluzione per cui potessi in qualche modo sfruttarle.

“Chettenero! Sta cercando di abbracciarci!” risposero loro agitandosi.

In quel momento, capii che la strada verso il mio obiettivo era lunga, ed estremamente ripida.

22. Yang e Ying

Loro si chiamavano Luna e Lady, e pare che fossero delle ladre professioniste. Come le scimmie.

Mi presentai mostrando loro la mia targhetta sulla cavigliera.

“Oooh ma hai anche un nome”

Anche io reagii allo stesso modo quando lo scoprii la prima volta.

Comunque.

Torniamo a noi.

Ogni giorno le due pulzelle scandagliavano i boulevards in cerca di tonti da fregare: si alzavano presto ogni mattina, mi davano un bacino in fronte, e poi uscivano, rinchiudendomi nella loro gabbia e rincasando solo in tarda serata, stanche ma soddisfatte. Erano delle gran lavoratrici.

Mi curavano secondo i dettami di un forum online – un posto dove dei seri professionisti si scambiavano opinioni sul mondo dei bradipi battendo ritmicamente le dita davanti ad uno schermo.

Erano molto affettuose, ma, poiché non avevo interessi ad accoppiarmi con loro, avrei preferito degli individui meno appiccicosi. Magari che mi liberassero.

Fui perciò MOLTO felice quando, una sera, Luna tornò agitata ed ansimante, ripetendomi che LORO avevano preso Lady e che dovevamo andarcene in fretta.

La sua agitazione non mi toccava particolarmente…ero abituato ad essere preso, io… eppure eccomi lì, vivo e vegeto, a leccare pigramente un avocado. Routine.

Mi prese e mi infilò in una saccoccia molle, insieme a qualche suo vestito, e poi uscimmo facendo le scale di corsa.

Il piano – mi spiegò – era di riportarmi allo zoo lasciandomi davanti all’entrata, cosicchè mi avrebbero subito trovato e portato dentro.

Fantastico: dopo tutta quella fatica per scappare, stavo per tornare al punto di partenza.

Ma dico io, chiedere la mia opinione no?

Stupidi umani.

Va beh, mi lasciai trasportare dagli eventi. Come sempre.

Lei cominciò a camminare spedita chiudendo la zip della borsa: ero di nuovo al buio.

All’improvviso si fermò: “Merda! Sbirri”

Aprì la zip, mi guardò nervosa e mi fece “E mò?”. Richiuse.

Vedevo delle luci agitarsi cambiando colore, trasparivano all’interno della borsacreando un effetto psichedelico che mi sballava assai.

Poi ci fermammo di nuovo, aprì di nuovo la borsa e fece per prendermi. No. Ci ripensò. Stavolta non richiuse. Ci incamminammo di nuovo.

Da uno spiraglio vedevo in lontananza lo zoo. Lo stavamo circumnavigando, fino a quando non raggiungemmo un ingresso laterale.

Un uomo in un gabbiotto fissava ipnotizzato uno schermo non curandosi di noi.

“Bene…noi ci separiamo qui” mi prese in braccio stringendomi “Addio Brad”.

Mi adagiò sull’erba e mi indicò energicamente l’ingresso “sorvegliato” dal tipo nel gabbiotto.

“Mamma deve tornare a casa ora…tu vai lì! Quella è casa tua! Vai lì!!!”

Poi si voltò e se ne andò coprendosi la testa.

Io guardai il tizio, mi girai e me ne andai dall’altra parte.

23. $oldi

Mi trascinai un po' a casaccio seguendo l’istinto, finchè non mi ritrovai su una larga strada che

costeggiava una spiaggia.

Al di là del mare si trovava, da qualche parte, il Venezuela.

Al di là del mare si trovava, da qualche parte, il MIO albero.

Lo sapevo perché un giorno Chris mi spiegò il mondo mostrandomi un disegno, e indicandomi più

o meno da dove secondo lui provenivo.

Analizzai a sangue freddo la situazione:

- Gli alberi non camminano; Questo è un punto a mio a favore;

- I bradipi non volano; Questo era un grosso limite;

Decisi di salire su un albero e scrutare la situazione dall’alto. E magari farmi un riposino.

Gli alberi qui non erano il massimo.

Non avevano rami, se non giusto in cima, e il tronco era troppo largo per essere abbracciato. Se

non altro, in cima si stava abbastanza comodi, ed erano abbastanza facili da scalare, per uno del

mestiere, avendo parecchi appigli comodi.

Mentre salivo, due ragazzi sfrecciarono alle mie spalle scivolando sui propri piedi, incuranti di me.

Notai, sul tronco, una mia foto.

Che diavolo ci faceva una mia foto sul tronco di un albero a Miami?

Poi, capii.

L’albero era un mio possedimento, e qualcuno lo aveva segnato per me.

Molto più moderno della classica pisciata sul tronco in effetti. La tecnologia fa passi da gigante.

Tronfio d’orgoglio e riconoscente verso l’amministrazione – molto efficiente – terminai la mia

salita carico d’energia.

In cima, mi sistemai un po' sul fogliame largo, e diedi un’occhiata in giro:

attorno a me, spiagge lunghissime da un lato, puzza e sporcizia grigia dall’altro; mi era piuttosto

chiaro dove andare.

Lungo la strada, una luuuuunghissima fila d’alberi tutti uguali. Ma uguali uguali eh.

Anche sugli altri alberi c’era la mia faccia. I miei possedimenti erano sterminati.

Il sole intanto, stava iniziando a sorgere in lontananza, giunto a salutare il mio regno.

Ora potevo finalmente dormire da Re.

24. Un re senza corona

Sebbene non fosse mai totalmente deserto, di giorno il mio reame si riempiva. Di più. Si saturava.

Migliaia di umani correvano ai miei piedi come formichine mentre io li scrutavo dall’alto.

Ogni tanto, di notte, quando c’era più tranquillità, scendevo e cambiavo albero in cerca di qualche raro germoglio tenero e qualche bacca da sgranocchiare.

Avrei preferito un collegamento diretto, ma i progettisti non avevano pensato a questo.

Va beh, non si può avere tutto.

Comunque, nessuno sembrava notarmi.

Da lassù affinai la mia conoscenza delle abitudini e degli utensili utilizzati dagli umani, cominciavo seriamente ad essere un fine conoscitore del loro mondo, anche se spesso faticavo a comprendere i loro comportamenti, per esempio, la maggior parte degli umani teneva la testa bassa mentre passava sotto il mio albero, illuminandosela con degli schermi artificiali su cui strisciavano ritmicamente le dita.

Semplice riverenza? No…

.

.

.

Vi racconto.

Una sera, un umano accompagnato da un cane si avvicinò al mio albero propriomentre stavo scendendo.

Lui subito abbassò lo sguardo sul suo schermo, in segno di rispetto, il cane invece si avvicinò incurante al mio tronco sollevando la gamba per provare ad orinare. Gli mollai un ceffone.

Come ti permetti??? Pussa via.

Mi guardò sorpreso, ma si mise ad annusarmi scodinzolando.

Gli mollai un secondo sganassone.

Va via!! Abusivo!

Finalmente se ne andò guaendo offeso, seguito dal suo padrone che non si era accorto di niente.

Lo vidi pisciare sull’albero dopo. Non potevo farci niente. Non c’è più rispetto…

Va beh…tanto io sto in alto….

Quell’avventura, comunque, mi scosse.

A che serve essere re, se nessuno ti riconosce come tale?

Tornai in cima rimuginando.

Rimuginai due giorni.

Poi trovai la soluzione: dovevo farmi conoscere.

Dovevo smetterla di essere il re delle palme, e diventare il re delle persone.

Il giorno dopo sarei sceso, al sorgere del sole.

Così circa in tarda mattinata avrei raggiunto il mio obiettivo.

25. Scendere dall’Olimpo per parlare coi mortali

Avevo scelto il mio primo obiettivo con cura.

Dovevo optare per un campo in cui eccellevo, in modo da instillare nei miei sudditi l’immagine di un sovrano vincente.

Così feci la mia mossa scegliendo la cosa in cui riuscivo meglio.

Davanti al mio albero preferito – quello più GROSSO – si trovava una piccola area circolare in cui erano presenti alcuni attrezzi metallici dall’aria molto pesante; ogni giorno, alcuni umani si recavano in quell’area e si ingegnavano per sollevarsi tra i tubi e piegarli in vario modo, sudando e faticando apparentemente senza motivo.

Col tempo, appresi che era una pratica comune tra gli umani per provare ad aumentare le probabilità di accoppiamento, ma all’epoca pensavo si trattasse di condannati che scontavano la pena per qualche crimine molto grave.

Come pianificato, nel momento in cui raggiunsi il campetto il sole era già alto nel cielo, e c’erano già diverse persone che mi fissavano con stupore mentre strisciavo tra la gente comune.

Circondato dalla folla, cominciai ad issarmi lungo un tubo, alla cui base un uomo grosso sbuffava e grugniva spingendo alcuni blocchi, producendo i tipici versi del tapiro in amore.

Presi posizione e decisi di osservare un po' i miei compagni prima di entrare in azione: volevo più gente, sono un esibizionista, che ci posso fare. Mi piace fare lo show, sono fatto così.

La gente cominciò ad avvicinarsi a me sollevando i loro classici aggeggi rettangolari mentre, voltandosi di spalle, si scattavano foto che li ritraevano assieme a me. Evidentemente avevo dei fan.

Detto tra noi, non ho mai capito esattamente a cosa servissero quegli accessori…credo fossero usati per evitare di parlare con le altre persone. Nonostante non avessi esattamente chiaro il loro scopo, ne desideravo uno.

Comunque, era tempo di cominciare lo show.

Era il mio momento.

Cominciai ad ondeggiare lentamente sul palo, poi iniziai a fare su e giù sollevandomi sulle braccia, come facevano solitamente gli umani.

Su e giù, su e giù.

“Oooooh”

I primi mormorii d’ammirazione. Bene, tutto secondo i piani.

Era il momento di passare allo step successivo: con una mano.

Eeeeee hop!

…e su e giù, e su e giù

“Woooooooow!”

Eheheh…era il momento di dargli il colpo di grazia tirando fuori l’artiglieria pesante: con i piedi!

Oplà!

E su e giù e su e giù e su e…

“Riportiamolo allo zoo…”

Piango.

26. Take it, Eazy

L’uomo che si incaricò di riportarmi allo zoo si chiamava Eazy J.

Era un rapper, un rapper “emergente”.

Non so bene dove stesse emergendo…però apparteneva alla scena “underground”…quindi le due cose probabilmente erano correlate.

Quel che conta comunque – mi diceva – è che presto sarebbe diventato una star.

Ero molto confuso.

Comunque, torniamo a noi.

Eazy J disse a tutti di stare tranquilli. Che ci avrebbe pensato lui, mi avrebbe riportato a casa, allo zoo. Che avrebbe subito messo in moto la sua Pontiac e che prima di sera sarei stato chiuso al comodo nella mia gabbia.

Poi non fece nulla di tutto ciò.

Per mia fortuna.

Strani tipi, gli umani. Dimenticano tutto molto in fretta.

Alla fine mi portò in un vicolo dove parlottò con alcuni suoi amici, additandomi entusiasta mentre mi teneva sotto la felpa.

Non riuscii a sentire cosa si dissero, in realtà, poiché in quel momento ero molto preso dai cordini penzolanti della felpa rossa di Eazy…desideravo terribilmente masticarli.

Poi ce ne andammo a casa sua.

Eravamo entrambi soddisfatti: lui aveva fatto un buon affare, e io avevo finalmente raggiunto un cordino. Eravamo in sintonia.

A casa, mi diede alcune fettine di cocco da sgranocchiare e poi si mise sul letto stringendosi la testa tra due grosse piastre morbide mentre si accendeva una sigaretta profumata.

All’improvviso, dalle piastre partì un rimbombo ritmato che Eazy seguiva facendo su e giù con la testa. Mi incuriosiva, così mi avvicinai per sentire meglio.

Una voce umana accompagnava i rimbombi…era in spagnolo…DeE..SpaA..Cito…non riuscivo a trattenermi. Alla fine iniziai anche io a ondeggiare la testa a ritmo.

Poi la porta si aprì improvvisamente, un altro ragazzo entrò spedito per poi soffermarsi qualche secondo ad ascoltare: “Bro ma che ‘zzoca ti stai ascoltando?”

Eazy si agitò di colpo…cambiando di getto il ritmo che usciva rimbombante dalle piastre…quest’altro non mi piaceva…il cantante pareva molto arrabbiato.

“E ‘sto coso che sarebbe Bro?” Chiese l’altro indicandomi.

“E’ un bradipo Zio! Lo mettiamo nel video di Money, Chicks ‘n Cars!”

27. 99 Problems

Passai la notte a casa di Eazy.

Non fu molto divertente.

Lui stava tutto il tempo con la testa pressata a digitare ritmicamente sul cellulare, incupendosi e sorridendo a intermittenza, mentre Zio passava ogni tanto e se ne andava dopo aver detto qualche battuta.

Io me ne stetti un po' nell’angolo, arrampicandomi sui mobili e bighellonando ingiro, finchè non trovai un punto comodo in mezzo ad alcune giacche e mi addormentai appeso a testa in giu.

Al mio risveglio, Eazy era C-A-R-I-C-H-I-S-S-I-M-O.

Saltellava qua e là raccogliendo roba e cambiandosi i vestiti mentre faceva smorfie passando davanti agli specchi. Assomigliava molto alla danza del tucano in amore, mentre provava le sue pose…probabilmente si esercitava per poi impressionare i suoi simili e farsi accettare come maschio Alpha, in modo da trovare facilmente una partner.

Quando fu finalmente soddisfatto, uscim…no, non andava ancora bene.

Si tolse la maglia prescelta, e si mise a sollevarsi spasmodicamente sulle braccia per qualche secondo. Poi, contrasse i muscoli mentre si osservava compiaciuto, si rimise la maglia, mi sollevò, e finalmente uscimmo a riveder il sole.

Per poco.

Perché mi infilò nuovamente sotto la felpa…quindi non riuscii a vedere poi molto, né a capire dove stavamo andando: riuscivo solamente a guardare versol’alto, dove ad aspettare il mio sguardo trovavo solo la sua facciazza che si continuava a scrutare attorno con circospezione.

Finalmente arrivammo a destinazione, e potei respirare la puzzolente aria di città a pieni polmoni.

Ci sedemmo in un’auto senza tetto, e lui si mise a salutare alcuni amici che mi guardarono ridendo e si misero a lodare Eazy per quanto fosse pazzo.

A me non sembrava pazzo onestamente, solo un pochetto scemo.

A un certo punto però, Eazy si incupì…qualcosa di terribile era successo.

Alcune ragazze avevano dato buca, preferendo andare al cinema che partecipare al megaprogetto per il successo di Eazy…così questo se la prese con i suoi amici perché, a suo dire, non si poteva proprio fare il video di Money, Chicks ‘n cars con solo 1/3 delle cose.

Il suo ragionamento in effetti pareva avere senso.

28. Cagnotto

Comunque, iniziarono le riprese.

Mi misero in testa un cappellino – troppo largo – e mi diedero degli occhiali da sole – troppo larghi – e alcune collane – troppo larghe!

Poi, uno di loro appoggiò un oggetto nero di forma cilindrica sotto alla mia sedia in macchina….che improvvisamente cominciò a vibrare e a sputare fuori musica cattiva.

Quell’evento fece tornare improvvisamente il buonumore nel gruppo, che iniziò a programmare le tappe del proprio successo e a pensare a come spendere i soldi che sarebbero presto iniziati a piovere.

Poi, partimmo.

Davanti a noi procedeva lentamente una moto su cui stava appollaiato un amico di Eazy. Al contrario. Va beh.

Questo armeggiava con un cellulare – scoprii che si chiamavano così proprio allora – nella nostra direzione. Se devo essere sincero, mi sembrava più pazzo lui di Eazy.

Sulla macchina intanto, i ragazzi cominciarono a muoversi e ad assumere qualche posa studiata a tavolino, obbedendo agli ordini di quello che stava seduto al contrario in moto…poi iniziarono a muovere la testa avanti e indietro a ritmo.

Li guardai e capii cosa volevano da me. Glielo diedi, mi sentivo generoso.

Così, iniziai anche io a fare avanti e indietro con la testa sollevando le braccia. La cumpa si eccitò a dismisura.

Nell’aria c’era adrenalina a palla, così anche io mi lasciai prendere la mano e cominciai a seguire il ritmo a modo mio, lasciandomi andare un po'.

Eazy e i suoi amici cominciarono ad importunare i passanti fischiando alle ragazze, dando scappellotti ad alcuni malcapitati e lanciando cartacce al vento.

In preda all’euforia, feci la linguaccia ad un passante: mi sentivo parte del branco.

Poi, arrivati ad un semaforo, ai miei cumpas svanì l’euforia mentre un uomo saliva con uno scatto sulla macchina spingendo uno spuntone metallico contro il fianco di Eazy.

Io continuai per un po', poi il nuovo arrivato prese l’oggetto cilindrico parlante elo scagliò via…così mi fermai anche io. E mi misi ad osservare quanto stava accadendo al mio fianco.

Il tizio chiedeva molto cortesemente i soldi per la sua fottuta roba, afferendo che li aveva visti lanciare banconote dalla macchina e che questa era molto bella, quindi loro dovevano averli per forza.

Il mio amico emergente balbettò con altrettanto garbo che i soldi erano finti e che la macchina era del padre di Yogi, e che stavano giusto facendo un video prima che questo la rivolesse.

L’altro replicò con calma ma poca lungimiranza che non gliene fregava un cazzo e che voleva i suoi soldi subito, e che il video potevano metterselo nel culo. Non specificò se tramite chiavetta o via dvd, ma a me la prima alternativasembra anatomicamente più semplice, quindi probabilmente intendeva così.

Eazy comunque ripetè che i soldi non li aveva e che il loro amico lo aveva ripreso mentre saltava in auto, e quindi di continuare a conversare amabilmente come stavano facendo fino ad allora senza agitarsi. Poi disse che poteva prendere me se voleva.

Me???

Bah..ci risiamo.

Ne avevo abbastanza. Decisi di andarmene.

Mentre questi discutevano, sollevai un braccio e mi appesi alla portiera, issandomi sul bordo.

Procedevamo lentamente lungo una strada poco trafficata.

“Bro, ma lo sai quanto vale uno di sti cosi? E’ un bradipo ORIGINALE…tipo 100.000$...un affare!”

Un albero sporgente si avvicinava.

“Eh insomma…a chi cazzo lo vendo un bradipo?”

Allungai la mano e rimasi facilmente appeso.

Osservai la macchina allontanarsi lentamente…nessuno aveva badato a me.

Poi, di li a poco, mi tuffai nel fiumiciattolo che passava lì a fianco.

29. Sotto attacco

La mia idea era semplice, ma grandiosa.

E come tutte le idee semplici, era geniale.

…e mi venne non appena vidi il piccolo fiume che costeggiava la strada.

Sentite qua:

Tutti i fiumi portano al mare, o ad altri fiumi. Che poi comunque portano al mare!...o ad altri fiumi…e via così. Fino al mare!

Questa, almeno, era la teoria che avevo personalmente sviluppato con l’esperienza. Non avevo mai visto un fiume portare alla montagna, perciò doveva essere per forza così.

Mosso da queste certezze, mi lasciai cadere nell’acqua fresca.

Per chi non lo sapesse, i bradipi sono ottimi nuotatori, e io non facevo eccezione.

Stetti un po' a bagno godendomi l’acqua fresca e lasciandomi trasportare dalla debole corrente, poi osservai come dal mio corpo i sedimenti raccolti nel corso del mio viaggio dallo zoo si staccassero come pioggia per cadere mollemente sul fondo.

Mi sentivo leggero. Ero a tutti gli effetti una nuvola.

Ruotai un po' su me stesso scrollandomi di dosso la sporcizia, finchè un gruppo di pesciolini non sopraggiunse a mangiare frenetico litigandosi l’un l’altro ogni briciola di cibo.

Erano tanti, e velocissimi sfrecciavano come cuspidi d’argento sotto di me. Io provavo a toccarli, ma erano troppo veloci…

Evitavano ogni mia mossa allontanandosi per poi tornare correndo a smangiucchiare direttamente dal mio braccio teso, schernendomi.

Mi rassegnai e mi lasciai trasportare, facendo fare ai pesci il loro lavoro da pesci, mentre io bradipamente facevo il mio lavoro da bradipo.

Dopo un poco di placida navigazione assistita, percepii una diminuzione nel movimento sotto di me: mi girai a pancia in giù, e notai che tutti i pesciolini erano spariti.

Poi, con la coda dell’occhio, notai un’ombra enorme che passava velocemente al limite del mio campo visivo.

30. Il lucertolone tenerone

Decisi di non allarmarmi. E mi voltai a pancia in su.

Poi, qualcosa di molto ruvido mi toccò la gamba.

Lo vidi.

Un’enorme lucertola acquatica mi stava toccando le gambe col muso.

Non avevo mai visto una cosa del genere…e sì che ne avevo viste di cose eh…

Probabilmente neanche lui aveva mai visto una cosa del mio genere.

Era come un’iguana cattiva. Aveva una bocca enorme, munita di denti enormi, che si attaccava ad un collo enorme che finiva in una coda enorme.

Mi voltai faccia a faccia. Anzi faccia a bocca.

Ci guardammo negli occhi e lui si immobilizzò, irrigidendo i muscoli già rigidi.

Capii.

Voleva attaccare.

Neanche il tempo di pensare che non avevo scampo, che questo diede un colpodi coda partendo a razzo verso la mia faccia, aprendo la bocca e serrandola immediatamente nella carne morbida. Del pesce che passava li davanti.

Fiuuuu

Poi prese a ruotare un po' su se stesso, e poi ingoiò il pesce per intero, senza masticare, buttandolo giù con uno scatto.

Poi tornò a toccarmi col muso.

Era un giocherellone.

31. Colombo

Navigammo in simultanea per un po', fino a quando la corrente si cominciò a placare.

In quel momento, improvvisamente, quell’iguanone pescivoro se ne andò inabissandosi tra le alghe.

Non mi salutò neanche…

Un secondo prima era lì col musone sulle mie zampe…e quello dopo se ne andava spezzandomi il cuore.

Comunque, mi guardai un po' attorno e notai che il fiume si era allargato: ero arrivato al mare!

Decisi di avvicinarmi al bordo e salire su un albero per cercare di scoprire in chedirezione navigare: se dall’alto fossi riuscito a scorgere il MIO albero, avrei facilmente capito dove dirigermi per tornare a casa.

Così, mi issai sulla sponda erbosa puntellando le zampe a uncino su una radice,e poi stetti un po' ad asciugarmi godendomi il sole. Poi salii.

In cima, una bellissima sorpresa mi illuminò il tramonto: la costa era molto più vicina di quanto immaginassi.

Non riuscii comunque a riconoscere il MIO albero, ma ero soddisfatto: valutai che in un paio di giorni di navigazione sarei agevolmente arrivato in Venezuela.

Decisi di concedermi la notte per riposarmi, e che sarei ripartito il giorno seguente nella mia migrazione.

Mi misi comodo ed osservai un po' l’ambiente circostante.

Un uomo storto avanzava arrancando lentamente verso il mio albero, trascinandosi dietro alcuni sacchetti malconci.

Alzò lo sguardo verso di me e mi sgamò a spiarlo.

Era la prima volta che un umano si accorgeva di me con tanta rapidità.

Mi urlò contro. “Ehi!Ehi! Chi siete Voi? Andate via! Quella è casa mia!!”

Strano.

Non avevo mai incontrato un essere umano che abitava su un albero. Solitamente stanno nelle case. Magari era più evoluto degli altri.

Strano. Era tutto molto strano.

Troppo strano.

Di colpo notai che nel mare non c’erano onde.

Strano. Parecchio strano.

Cominciai a scendere. D’altronde ero un bradipo educato, mi sarei trovato un albero libero.

Mentre scendevo, notai un altro particolare: non c’era sabbia.

Il manto erboso si tuffava fieramente a capofitto in acqua.

Strano. Corposamente strano.

Scesi e lui mi prese in braccio: “E Voi cosa siete?”Lo lasciai fare. La mia mente già colma di incertezze non aveva posto per altri pensieri.

Anche perché lo annusai. E capii.

Contrariamente agli altri umani, non odorava di artefizi pungenti, ma aveva un buon odore di muschio e umidità. Naturale.

Quello che non era naturale era l’odore nell’aria.

L’aria non sapeva di sale. Non sapeva di mare.

Non sapevo dove mi trovassi, ma quello che avevo faticosamente raggiunto non era l’oceano, e quello che vedevo non era il Venezuela.

Ecco perché non riuscivo a vedere il MIO albero.

32. 72 Ore

Passai la notte a casa del mio profumato amico, scoprendo che lui non viveva SULL’albero – come ogni bradipo sano di mente avrebbe fatto – ma SOTTO di esso. Va beh, era già un inizio. Col tempo magari si sarebbe evoluto.

Comunque, passò la notte a raccontarmi la sua vita. Senza che glielo avessi chiesto.

Ma fu piacevole.

Si chiamava Traveller. Ed era molto educato. Mi dava del voi. Non sapevo cosa volesse dire, ma mi parlava al plurale. E mentre raccontava della sua storia parlava di sé stesso in terza persona, come se non stesse direttamente facendoparte della storia che raccontava.

Era proprio pazzo.

Mi piaceva.

Mi sarebbe piaciuto poter parlare…avrei avuto un sacco di cose fiche da raccontare. Ma purtroppo avevo giusto imparato a salutare (con molta fatica), emi ero fermato lì. Non ci riuscivo proprio, ad articolare dei suoni, era come se mi mancasse qualcosa.

Ascoltare le sue storie fu piuttosto interessante; anche lui, come me, aveva viaggiato molto, e ora si era fermato per un po' qui a Weston Park in attesa del passaggio di Irma. Ecco, quella non fu una bella notizia.

Non tanto per l’arrivo di questa Irma, di cui non me ne fregava poi molto, ma per il fatto che mi diede conferma che non mi trovavo dove pensavo di essere.

Ero un po' scoraggiato e disorientato, e non sapevo bene cosa fare…

…poi lui mi disse che se avessi voluto sarei potuto andare con lui.

Che sarei potuto essere il suo animale da compagnia, e che se di lì a qualche giorno fossi rimasto con lui senza andarmene, avrebbe significato che per me andava bene.

Ero sconvolto.

Nessuno mi avevo mai chiesto prima cosa volessi fare né tantomeno dato la possibilità di scegliere.

La cosa mi piaceva.

Così, decisi che sarei partito all’avventura con lui, e che sarei stato il suo animale da compagnia e lui sarebbe stato il mio animale da compagnia.

Soddisfatto, risalii sull’albero e mi misi a dormire.

Al mio risveglio, lo strano uomo non c’era più. Eppure sentivo che stavolta mi sarei potuto fidare.

Era dai tempi del potente sedentario Dominguez che non mi sentivo così in sintonia con qualcuno.

Lo aspettai con pazienza, restando sull’albero a cazzeggiare tutto il giorno, osservando la gente ignara.

Non vedevo l’ora di partire: quando si fece sera, la figura barcollante del mio amico comparì all’orizzonte, trascinandosi dietro il solito fardello di roba puzzolente.

Anche quella sera scoprii molte cose sul suo conto.

Mi raccontò che qualcuno gli aveva assegnato una casa e un lavoro, ma che non si sentiva libero in quel modo. Che lui voleva solo essere libero e che l’unico modo per diventare libero era scegliere per sé, e lasciarsi alle spalle tutto quello che ti lega in catene, per poter ricominciare a vivere.

Altrimenti ci sarebbe sempre stato un legame con il passato, e con i legami nonsi poteva essere davvero liberi.

Mentre mi spiegava, un velo di tristezza gli copriva il viso…così si mise a dormire, sperando che non lo avessi notato.

Ma io noto tutto..eheh…però avevo sonno, così andai a dormire senza pensarci troppo.

Anche il giorno seguente passò come quello prima, così, la sera, il mio amico annunciò che ci saremmo mossi la sera dopo, se tutto fosse andato secondo i piani, al suo ritorno dal suo solito viaggetto quotidiano.

Così, andai a letto felice e pieno di aspettative.

E mi svegliai tra le braccia della polizia.

33. Il mio mondo, le mie regole

Mentre ci separavano, i nostri occhi si incrociarono tristi.

Avevo ufficialmente perso il mio animale da compagnia.

Mi riportarono allo zoo, dicendomi che ero a casa, ma ora avevo una nuova linea di pensiero. La mia casa era il MONDO!

…questo era ciò che pensavo prima.

Prima di trovare la sorpresa più incredibile di tutta la mia vita.

E non parlo del fatto che dopo mesi rividi la bradipa e che aveva un piccolo me con se: mio figlio.

Non parlo del fatto che ora non mi trovavo più nell’open space ma dietro le sbarre, in una gabbia tutta mia.

Tutto questo aveva poca importanza alla luce di quello che avevo DENTRO. (Dentro la mia gabbia)

Il mio mondo, le mie regole, il MIO albero.

Tutti i miei propositi per il futuro, la mia voglia di viaggiare e girare il mondo, il mio lasciarmi tutto alle spalle..tutto dimenticato. PALLE.

Eravamo di nuovo insieme.

L’ultimo anno in giro per il mondo mi aveva reso diffidente, così feci qualche controllatina di rito:

Cecropia √

Grandezza giusta √

Colorazione perfetta √

Tronco robusto √

Fogliame vigoroso √Era tutto perfetto. Non c’erano dubbi: era lui!

Mi avevano spostato nella gabbia perché, a quanto pareva, c’era una qualche emergenza in città. Non capivo, non mi interessava. Ero felice.

Ero iperattivo: scendevo a terra e risalivo continuamente. Almeno 3 volte al giorno.

I miei sforzi non erano stati vani.

Finalmente mi sentivo soddisfatto e gratificato.

Finalmente mi sentivo a casa.

Finalmente mi sentivo…

…inutile.

…e triste.

34. Vexilla regis prodeunt inferni

Per tutto quel tempo non avevo desiderato altra cosa se non il mio albero, e orache lo avevo, sarei dovuto essere felice. Molto felice.

Invece ero triste. Molto triste.

Passavo le giornate a non fare niente.

Non c’era più neanche nessuno che mi passasse a guardare: lo zoo era chiuso.

Io ero chiuso. Dentro la mia gabbia. Che era chiusa in un capannone. Dentro lo zoo.

Intuivo che il tempo non era dei migliori fuori, perché il grande telone che avvolgeva la zona si scuoteva paurosamente. Eppure, dentro, la calma regnavasovrana.

Non c’era un alito di vento.

I giorni passavano tristi e monotoni mentre fuori si scatenava la tempesta, e io non facevo altro che aspettare che scattasse il riempimento automatico della cassetta del cibo, breve momento di gioia nella mia lunga giornata piatta.

Poi, una mosca mi fece capire.

Capii cosa c’era che non andava, cosa mi affliggeva penosamente. La osservai zigzagare tra le sbarre, libera di entrare ed uscire, di volare dove le pareva.

La osservai per un bel po' (non avevo molto da fare come vi stavo dicendo). Forse troppo.

Alla fine si schiantò per terra e morì. Ma si sa, le mosche vivono poco. Sicuramente era morta felice…c’era un che di gioioso in quel vibrare assatanato a destra e sinistra.

Comunque, tanto bastò per farmi capire che tutto quello che mi era mancato, in quel periodo lontano dal Venezuela, non era il mio albero. Avevo focalizzato i miei turbamenti, le mie ansie, le mie paure sull’ALBERO. Ma quello non era che un oggetto, un simbolo.

Ciò che davvero mi mancava era molto più profondo. Ciò che mi mancava era la mia libertà

La possibilità di scegliere cosa mangiare, quando lavarmi (mai), dove fare la cacca.

Ripensai alle parole di Traveller, sul rinunciare a tutto per essere libero. Non capivo bene come fare…non avevo molto a cui rinunciare.

Feci rapida mente locale, e decisi di rinunciare al mio nome.

Non l’avevo scelto io. Non mi piaceva.

Così, staccai a morsi la targhetta appesa al mio arto, e la lanciai via.

Attesi.

Non successe niente.

La calma regnava sovrana.

Forse non bastava?

Guardai il MIO albero.

E cominciai a scendere.

Gli feci un’ultima carezza…e mi girai dall’altra parte.

Non ce la facevo a guardarlo.

Osservai il telone sbattere impazzito e poi fermarsi.

Attesi.

Non successe niente.

Evidentemente stavo sbagliando qualcosa.

Poi, la terra cominciò a sollevarsi.

Mi cacai sotto.

Mi aggrappai alle sbarre di ferro, osservando il mio albero che si inclinava di colpo, sradicando il terreno e andando a colpire con violenze le inferriate sul lato opposto a quello in cui stavo, sfondandole e aprendo uno spiraglio, poi continuò la sua caduta fino a che si appoggiò mollemente al telone.

Questo resistette un po', per poi squarciandosi impietoso, mostrandomi il cielo brullo.

35. Troia

I miei ricordi sono un po’ ovattati riguardo a quello che successe dopo.

Mi muovevo come in automatico…ero in trance.

Ricordo gli urli ossessivi degli altri animali in gabbia…lo sguardo della bradipa che mi fissava curiosa, mio figlio sulla sua schiena che se ne fregava di tutto e continuava a dormire – a volte i figli sono soddisfazioni grandi – ricordo l’ultimo saluto all’albero, che giaceva morto su un lato: l’amico che si era sacrificato per me.

Mi muovevo lento ma inesorabile nella calma surreale che regnava sovrana sulla città, finchè raggiunsi passo passo il mare.

Mi appesi a testa in giù ad un cartello, e restai a contemplare assorto l’orizzonte nuvoloso.

In città non c’era nessuno, solo qualche foglio che svolazzava in preda alla brezza, e alcuni gabbiani che volavano in tondo.

“Anche voi qui eh?”

Mi voltai incrociando lo sguardo stanco del mio guru mentre questo addentava un panino sporco.

Non mi sorpresi di vederlo lì…quell’incontro mi sembrava naturale…quasi scontato.

Ci fissammo.

Poi prese una foto sbiadita dalla tasca, la appallottolò e la lanciò con forza verso il mare, per poi osservarla mentre, dopo essere stata accarezzata dal vento per un po', annegava lentamente.

“Andiamo a dormire, domani dobbiamo partire…anche se non so ancora per dove”.

Mi addormentai felice, conscio che stavolta sarebbe stata la volta buona.

Al mio risveglio, cominciai a raccontare.