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Rassegna bibliografica
Il mito della ‘capitale morale’ tra politica e letteratura
di Massimo Legnani
Tra gli esiti più positivi della recente storiografia sullTtalia contemporanea va certo annoverato il progressivo articolarsi ed arricchirsi delle ricerche sulle culture della industrializzazione /modernizzazione. Gli stessi termini di industrializzazione e modernizzazione, frequentemente confinati in un limbo di misurazione puramente quantitative o appiattiti su troppo elementari semplificazioni sociologiche, tendono ad assumere una più duttile capacità di concettualizzazione. In estrema sintesi, si può dire che ad un ciclo di studi spesso contraddistinto dalla denuncia delle ‘assenze’ (ovvero dei ‘vuoti’ che rendono la vicenda italiana radicalmente diversa dall’inglese o dalla francese o dalla tedesca) sembra subentrare una fase di studi più impegnata a individuare le ‘presenze’, il delinearsi dei concreti caratteri nazionali, a valutarli nella loro genesi interna non meno che attraverso i necessari raffronti con il quadro europeo. Così è per il tema, di rilievo centrale, della cultura industrialista nelle sue varie latitudini — e si pensi, tra gli altri, ai contributi di Lanaro e Castronovo —, così per l’analisi degli impatti ideologici provocati dal profilarsi dell’urbanesimo e della società di massa. In quest’ultimo caso il riferimento va anzitutto alla storia letteraria intesa nella accezione più larga, quale emerge, ad esempio, dagli apporti di Asor Rosa, Madrignani, Portinari, Spinazzola.
Il saggio di Giovanna Rosa, Il mito della capitale morale. Letteratura e pubblicistica a
Milano fra Otto e Novecento (Milano, Comunità, 1982, pp. 320, lire 18.000) si inserisce appieno nella storiografia degli intellettuali portandovi i risultati di una ricerca sistematica e largamente originale. L’invito, tante volte ripetuto, ad una ricostruzione della realtà postunitaria (culturale non meno che sociale e politica) da condurre attraverso la molteplicità e distinzione degli osservatori regionali, trova nel discorso su Milano un campo di verifica particolarmente esemplare. Il dato strutturale è indiscutibile. Se per altre parti del nuovo regno il ‘localismo’ riveste segni prevalentemente conservativi, Milano vive invece il proprio ruolo di metropoli incipiente come travagliata — e spesso,10 vedremo, contraddittoria — conciliazione tra particolarismo geloso e rivendicazione ostentata di una funzione guida nel contesto nazionale. Come ha osservato Spinazzola, “l’unico mito ideologico serio, non retorica- mente fittizio, elaborato dalla borghesia italiana dopo l’Unità è stato il mito di Milano,11 mito della capitale morale" (V. Spinazzola, La “capitale morale”. Cultura milanese e mitologia urbana, in “Belfagor” , 1981, fase. 3, pp. 317-327). L’indagine di Giovanna Rosa è propriamente dedicata ad investigare le componenti e le oscillazioni di questo mito segnandone il dipanarsi sul filo del concorso che alla sua propagazione/contestazione dettero alcune figure intellettuali: narratori, polemisti, giornalisti. È anzi indispensabile, per comprendere l’architettura del libro, te-
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ner conto che esso prende forma dall’instaurazione di un nuovo rapporto tra il mondo letterario e l’universo cittadino così come si viene strutturando in base allo sviluppo economico; è la ricerca, da parte della nuova borghesia imprenditoriale, di intellettuali professionali, organici al proprio disegno, a scandire i tempi di nascita di una ‘industria culturale’ ignota alle altre parti del paese o presente con modulazioni profondamente diverse nelle riviste della Roma ‘bizantina’. Rosa è estremamente puntuale nel rilevare le gradazioni e i risvolti di questo processo, che ha peraltro radici robuste nell’allargarsi del mercato editoriale nei decenni precedenti l’unificazione e nella incidenza che sul fenomeno esercita la concezione del rapporto con i lettori proprio della cultura romantica lombarda.
I numerosi nodi problematici attraverso cui si sviluppa la ricerca sono riconducibili a due nuclei principali: il primo è rappresentato dai modi e dall’intensità di presenza degli intellettuali nella ‘autocelebrazione’ di cui Milano si rende protagonista nel momento del decollo industriale; il secondo dalla costruzione/eversione del ‘mito ambrosiano’ lungo l’arco di tempo che da Cattaneo e Jacini attraverso la pubblicistica e letteratura del positivismo conduce sino al Novecento di Carlo Emilio Gadda. Va da sé che i due nuclei non costituiscono campi alternativi ma fortemente comunicanti. Spesso, a dimostrazione di quanto incida l’organizzazione imprenditoriale della produzione culturale, è la sede in cui il lavoro intellettuale si esprime più che non la presenza, nel singolo autore, di una visione ideologica complessiva, a determinare la specificità di alcune posizioni. È assai significativo, infatti, che la fonte da cui il saggio prende avvio sia costituita dalle pubblicazioni che accompagnano l’Esposizione nazionale del 1881, vero e proprio manifesto della ‘capitale morale’ (e su cui ha recentemente richiamato l’attenzione Enrico Deeleva, L ’Esposizione del 1881 e le origini
del mito di Milano, in Aa.Vv. Dallo Stato di Milano alla Lombardia contemporanea, I, Milano, Cisalpino - La Goliardica, 1980). “Chiamati, forse per la prima volta dopo l’Unità — scrive Rosa — e collaborare fattivamente ad un avvenimento di rilievo nazionale, i ceti intellettuali vi partecipano con impegno. Alla ricerca di una nuova identità professionale, le forze della cultura, sia umanistica che scientifica, colgono in quest’occasione l’opportunità di un inserimento organico nell’odiosamata società borghese” (p. 45); “ogni autore si fa cronista della propria esperienza, riconoscendosi nelle parole d’ordine dei ceti borghesi, precisione concretezza buon senso” (p. 47). Letterati e pubblicisti sembrano inserirsi nei due filoni complementari che definiscono l’ottica della ‘capitale morale’: da un lato la valorizzazione del “presente positivo [che] cancella la contraddizione della storia” (p. 48), dall’altro la “rappresentazione lineare del microcosmo cittadino [che] faceva emergere, in tutto il suo spessore di modernità, il primato della società civile [...]. La metropoli economica si definiva spazio della cultura borghese, in quanto esaltava l’autonomia delle forze produttive nella contrapposizione esplicita alla sfera statuale dell’agire politico” (pp. 48-49). Ma questa vocazione — anticipiamo la conclusione centrale della ricerca — non si traduce in progetto; il mito, appunto, si consolida e ramifica ripiegando su se stesso. La pubblicistica, e soprattutto quella letteraria, coltivano, al di là dell’adesione descrittiva alle immagini della modernità, motivi di persistente rifiuto. La città degli affari e delle industrie che sta nascendo, resta esterna al loro orizzonte di letterati. “Occorrerà aspettare l’inizio del nuovo secolo — osserva Rosa — perché i letterati ambrosiani si impegnino a rappresentare lo scenario metropolitano” (p. 28). Il mondo intellettuale e professionale legato alle nuove forme di produzione ha per sé una spinta che, mentre si manifesta prepotentemente negli svolgimenti economici, si
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arena dinanzi ai problemi che la candidatura alla supremazia nazionale implica. Citiamo ancora: “l’ancoraggio alPempirismo pratico e l’esaltazione ingenua dell’ideologia effi- cientistica, se costituiscono la forza dell’etica del lavoro elaborata dai primi ceti imprenditoriali, ne testimoniano anche i limiti profondi. La riluttanza a prefigurare un progetto di sviluppo economico che rompesse con le lentezze del passato, si intreccia indissolubilmente con l’incapacità di affrontare i nodi drammatici della vita sociale e politica. Sarà proprio l’angustia strategica delle sue élites dirigenti ad impedire alla capitale morale di farsi carico dei problemi della nazione, rinunciando così a svolgere un effettivo ruolo egemone” (p. 118).
Entrambe le valutazioni — la sostanziale se pur non sempre limpida presa di distanza dei letterati da ‘la città delle città’ e l’incapacità della dirigenza economica di proiettare nel cielo della grande politica la propria conclamata autosufficienza — sono ribadite con forza dalle analisi di Giovanni Rosa. Il “pudore moralistico — leggiamo — [...] trattiene Milano dall’individuare i motivi autentici della sua supremazia nella ricchezza accumulata dalle forze produttive” , così che “la proposta di un ethos borghese non attinge la pienezza del laicismo moderno”. A sua volta, questa timidità si riverbera sulle potenzialità propulsive del mito: “l’apprensione timorosa per un dinamismo troppo brusco induce anche gli intellettuali più avvertiti a ricadere in formule di pensiero precapitalistico” (p. 197). Il centro su cui gravita la duplice ‘rinuncia’ è rappresentato dal rilievo pregiudiziale che assume l’esaltazione della dimensione ‘municipale’, del buon governo cittadino come misura realizzata di integrazione tra tessuto sociale e modelli istituzionali. “Milano, contrapponendosi a Roma, rivendica contro il centralismo burocratico del potere statuale l’autosufficienza borghese della società civile” (p. 152): da ciò scaturiscono sia il “rifiuto dei lombardi ad accettare la com
plessa articolazione dello Stato Unitario” (p. 156), sia l’avversione alla politica in quanto tale, vista come un “nucleo pericoloso inserito fra le dimensioni dell’efficienza economica e quella della corretta prassi amministrativa” (p. 157).
Con simmetrico parallelismo, si direbbe, la chiusura verso l’esterno coincide con la chiusura all’interno, l’interpretazione paras- sitaria della capitale combacia con la visione di una società locale che il progresso economico deve consolidare e non lacerare, dimostrando il valore aggregante dell’ideologia interclassista. Di tale ideologia Rosa, sulla scorta del materiale esaminato, pone in luce soprattutto le valenze complementari fornite dal raggio d’azione degli organi del governo locale e del moltiplicarsi delle iniziative in campo assistenziale. Si intende che gli uni e le altre acquistano il loro pieno significato se messe in rapporto con un tessuto cittadino che dà largo spazio alle classi medie, a una stratificazione che, almeno sino alla fine dell’Ottocento, si mostra in grado di neutralizzare le punte più acute del conflitto sociale. Le pagine dedicate a questi aspetti da Guido Baglioni ne L ’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale (Torino, Einaudi, 1974, cap. VI), e particolarmente la ricostruzione della parabola de “Il Sole” dal prudente riformismo iniziale all’involuzione autoritaria nel periodo giolittiano, costituiscono tuttora un sicuro punto di riferimento. Quanto, del resto, questo relativo equilibrio della struttura sociale influisca sull’orientamento della pubblicistica è dimostrato dall’analisi di opere che, com e Milano in ombra di Lodovico Coiro (di cui si veda ora la ristampa, con una ampia introduzione di Elvira Cantarella, nella serie dei Quaderni della “Rivista milanese di economia”), riflettono compiutamente la medietas ideologica di quegli intellettuali che, pur sollecitando una più coraggiosa espansione delle istituzioni cittadine, si muovono in grande sintonia con gli orientamenti dei ceti dominanti. A Coiro,
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come per altro verso al ribellismo populistico di Paolo Valera e alla vena colorita e facile della letteratura sui bassifondi della tarda scapigliatura, Rosa dedica pagine sicure e puntuali. La sostanziale sterilità del mito della ‘capitale morale’ e la riluttanza estrema dei letterati a farsene interpreti acquistano, attraverso la registrazione di queste oscillazioni, un rilievo indiscutibile: “la mancanza di una riflessione progettuale sui modi dello sviluppo industriale si proietta sulla sfera dei processi ideologici, ribadendo la debolezza di una classe che si ritiene già soddisfatta di sé e rifiuta di considerare anche in sede letteraria, le domande inquietanti poste dalla sua stessa ipotesi” (p. 283). Ancora nel 1953 una analogo giudizio sarà ribadito da Gadda (e non inganni la pacatezza tutta apparente della formulazione): “Vorrei che al senso profondo della responsabilità e dell’autonomia economica, si accompagnasse un uguale ardore per ciò che è forma e stile della terrena vicenda” (Carlo Emilio Gadda, Il tempo e le opere, Milano, Adelphi, 1982, pp. 268).
Eppure gli approdi finali del saggio sollevano alcuni quesiti che non investono tanto le conclusioni ampiamente riferite, quanto i modi in cui queste ultime possono essere recepite nell’ambito di un discorso che abbracci la realtà italiana all’avvio del decollo industriale. I percorsi esplicativi proposti da Giovanni Rosa battono strade tutte interne al ‘mito ambrosiano’, muovono da quel presupposto di autosufficienza che è parte costitutiva essenziale del mito stesso e sua prima ragione di legittimazione; impongono, nella sostanza, una lettura largamente ‘autarchica’ delle tematiche affrontate. La ‘capitale morale’ è scrutata nell’ottica della sua proclamata alterità rispetto alla capitale politica e al resto del paese e non anche come centro verso cui la vicenda nazionale trasmette impulsi che, in diversa misura, la realtà milanese assorbe e neutralizza o ai quali soggiace. In altri termini, resta sullo sfondo il fatto che il ‘mito ambrosiano’ gioca sì le proprie sorti
in relazione alle capacità progettuali che sa esprimere dall’interno, ma anche in rapporto alle sollecitazioni che riceve dall’esterno, al suo essere un crocevia di fenomeni e di influenze che lo rimodellano continuamente e che sono ben lontani dall’esaurirsi in quei fattori indigeni che i creatori del mito ritengono — nella logica stessa della loro costruzione — esclusivi. Esaminata sotto questo profilo, l’autoapologia della ‘capitale morale’ accentua quei caratteri di eterogeneità che la storia locale e nazionale dall’ultimo Ottocento al fascismo si incaricherà di portare in piena luce.
La parabola del moderatismo lombardo, principale espressione politica dei ceti dominanti della ‘capitale morale’, offre più di un esempio in proposito. Giustamente Rosa risale alla matrice illuminista (che “non indirizzava la speculazione politica verso le questioni astratte dell’individualismo e dello Stato” , ma “favoriva piuttosto l’analisi dei diritti e dei doveri del cittadino, colto nella concretezza dei suoi rapporti con la società civile”, p. 172 per sottolineare il filo di continuità che lega questa ascendenza all’ideologia borghese postunitaria; ma non meno stretto è l’intreccio del moderatismo con l’opinione cattolica. Dalla relativa simbiosi tra consorteria moderata e cattolici alla Stefano Jacini si passa, alla svolta del secolo, a un confronto complessivo tra ceto liberale e mondo cattolico che già registra un processo in atto di ricambio della classe dirigente o quantomeno della rappresentazione milanese e lombarda nelle sedi nazionali. Ma questo esaurirsi dei vecchi equilibri riflette, insieme con le modificazioni del quadro locale, i rimescolamenti in corso nella leadership nazionale del liberalismo italiano — da Sonni- no a Giolitti a Salandra — in tema di rapporti con il paese ‘reale’ cattolico (su cui cfr. H. Ullrich, Il declino del liberalismo lombardo nell’età giolittiana, in “Archivio storico lombardo”, 1975 e, dello stesso, il più recente e complessivo L ’organizzazione politica dei li-
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berali italiani nel parlam ento e nel paese 1870-1914, in II liberalismo in Italia e in Germania dalla rivoluzione del ’48 alla p rim a guerra m ondiale, a cura di R. Lill e N. Matteucci, Bologna, Il Mulino, 1980). Una analoga osservazione di metodo è suggerita anche dalla questione dello Stato nazionale. Il ‘mito ambrosiano’, sottolinea Rosa, contrappone alla nazione il particolarismo dello ‘Stato di Milano’ e con ciò abdica alla pretesa di egemonia di cui la ‘capitale morale’ si investirebbe. Si tratta certo di un dato innegabile, ma è difficile riunire sotto un unico segno le diverse correnti che confluiscono in quel ‘particolarismo’, a meno di sovrapporre e confondere posizioni che vanno dalla strenua difesa del privatismo imprenditoriale di un leader moderato come Giuseppe Colombo all’autonomismo di origine cattaneana.
Si può osservare che simili notazioni dilatano l’interpretazione del saggio ben oltre i suoi confini specifici; e però sarebbe arduo valutare i contenuti che letterati e pubblicisti trasfondono nei propri scritti prescindendo da riferimenti storici e sociologici quali quelli accennati, riferimenti che si infittiscono alla fine del secolo (come sottolinea, fra gli altri, Raffele Romanelli, L ’Italia liberale (1860- 1900), Bologna, Il Mulino, 1979) per Yeufo- ria ideologica che si accompagna al salire delle tensioni politiche e sociali. Le denunce, ad esempio, del parassitismo e della corruttela del mondo politico romano — parola d’ordine prediletta dalla pubblicistica della ‘capitale morale’ — possono difficilmente essere separate dalla voga del romanzo parlamentare come momento significativo della scoperta ‘negativa’ della politica da parte dell’intellettualità italiana. Altrettanto si dica di romanzieri come De Marchi, nel quale, accanto a tematiche di più spiccata sensibili
tà ‘municipale’ (dal rimpianto della ‘piccola patria’ al particolare pessimistico afflato cattolico, alla idealizzazione della ormai tramontante armonia città-campagna) si inserisce — ed è elemento generalizzabile alle più diverse realtà urbane del regno — la problematica della integrazione della piccola borghesia nelle gerarchie e nelle culture del nuovo regno. V’è poi (e Rosa la illustra lucidamente soprattutto al capitolo 10) la più ampia cerchia dei narratori che, già lo si è ricordato, dal ‘mito ambrosiano’ sostanzialmente rifuggono benché vi rendano omaggio attraverso il loro coinvolgimento nell’industria culturale. La città non accende la fantasia creativa dei Verga e dei Capuana, che partendo dall’esperienza della cultura milanese muovono alla riscoperta del Sud; ma a essi si affiancano e subentrano scrittori i quali, all’analoga scelta di non rappresentare (con l’eccezione dei futuristi) la metropoli nei suoi aspetti più ‘pubblici’ intrecciano analisi il cui nesso critico, dall’interno, con la mitologia ambrosiana è chiaramente percepibile. Al di là dello sperimentalismo linguistico, e anche in forza di esso, la linea che dal Dossi delle N o te azzurre porta a Gadda è assimilabile a una discussione/corrosione del mito della ‘capitale morale’.
Quel che si vuol suggerire, in definitiva (al momento di acquisire la impegnativa sistematizzazione realizzata dal saggio di Giovanni Rosa) è una ulteriore scomposizione del mito della ‘capitale morale’, così da evitare quelle rigide dicotomie tra modernità e ‘arcaismi’ che ci riporterebbero ad una valutazione delle culture dell’industrialismo italiano più per rilevazione di assenze che attraverso le verifiche dei mutamenti che, anche sul terreno delle ideologie, si sono allora prodotti.
Massimo Legnani
La Rive Gauche. Intellettuali e impegno politico
di Marcello Flores
Il mondo della cultura nel periodo tra le due guerre e l’impegno politico degli intellettuali negli anni trenta e quaranta, sembrerebbero argomenti abbondantemente studiati e approfonditi. In realtà le ricerche serie e documentate su questi temi si contano sulle dita di una mano e la pubblicazione del volume di Herbert Lottman La Rive Gauche. Intellettuali e impegno politico (Milano, Comunità, 1983, pp. 485, lire 32.000) appare dunque tempestiva e destinata a colmare lacune e a sollecitare ulteriori indagini.
La Rive Gauche è un libro interessante e piacevole, scritto scorrevolmente e senza un pesante apparato documentario, pur basandosi prevalentemente su fonti assai preziose e significative: la sterminata memorialistica, contemporanea e successiva, che ha accompagnato le vicende culturali e letterarie che vengono ricostruite. Pur avendo ogni tanto utilizzato materiale archivistico, prevalentemente documenti di case editrici e di riviste e carte dell’epoca del Fronte popolare relative all’attività nazionale e internazionale dei letterati, l’opera di Lottman si pone esplicitamente più come un tentativo di ricostruire uomini, ambienti, idee, che come interpretazione storica della ‘cultura’ del periodo esaminato. E infatti i giudizi e le annotazioni critiche sono sì presenti, ma in modo contenuto e per quello che gli avvenimenti e le testimonianze permettono di azzardare.
Questo, che a volte è un limite, appiattendo e sbiadendo in un continuum unico perso
ne e fatti spesso di ben diversa rilevanza, si rivela spesso un pregio, permettendo ai protagonisti di questa ricostruzione di parlare e mostrarsi senza il troppo pesante condizionamento costituito dal punto di vista dell’autore. È evidente, comunque, che la posizione di Lottman non è né agnostica né neutrale. La stessa selezione e accostamento dei racconti, delle citazioni, dei momenti importanti e di quelli apparentemente trascurabili, è in realtà il modo in cui egli opera la sua ricostruzione della Francia letteraria ed artistica di circa un trentennio. Un modo forse troppo ‘interno’, e quindi esclusivamente culturale; ma proprio per questo attento anche a fenomeni ed esperienze minori, ad una ricostruzione globale che ha sì alcuni punti di osservazione privilegiati, ma che tenta anche di non tralasciare il paesaggio circostante, l’ambiente, lo sfondo.
È proprio dall’ambiente e dal paesaggio, il paesaggio di Montparnasse e soprattutto di Saint-Germain-des Prés e l’ambiente del Café des Deux Magots, del Café de Flore e della Brasserie Lipp, che Lottman prende l’avvio per la sua benevola ricostruzione dell’amata e ammirata ‘rive gauche’; una ri- costruzione che, pur con qualche accenno agli anni venti, si sofferma particolarmente sugli anni trenta, sul periodo della guerra e dell’occupazione tedesca, sui primissimi anni del dopoguerra.
Il primo rilevante indizio di differenziazioni tra gli anni trenta e il decennio preceden-
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te, la novità più cospicua dell’atteggiamento ‘pubblico’ degli intellettuali, è individuato da Lottman nella internazionalizzazione dell’impegno politico di scrittori ed artisti. In Francia gli antesignani dell’impegno politico, i Victor Hugo e gli Emile Zola, avevano contestato i propri governi e la propria classe dirigente; e ugualmente verso problemi ‘interni’ — sia pur enormi come la miseria e l’ingiustizia del dopoguerra — erano rivolte le impegnate denunce di molti scrittori degli anni venti. Ma adesso le cose erano mutate e gli intellettuali sembravano trovare fuori del proprio paese il principale interesse per esibire e mettere alla prova il proprio impegno. Nella Francia, che pure conosceva i momenti esaltanti e conflittuali del Fronte popolare, “ciò significava reagire all’ascesa del fascismo, al pericolo di guerra, alla guerra civile in Spagna e al suo scontro di ideologie, e difendere l’Unione Sovietica o contestare la sua posizione di stato-guida” (p. 81).
Probabilmente anche perché l’impegno in patria, come ricorda Lottman, assumeva per la prima volta l’aspetto di un appoggio al proprio governo, l’attrazione verso i temi internazionali trovava una rispondenza più ampia. Lottman ripercorre le diverse tappe di questo collettivo impegno internazionale: il congresso internazionale contro la guerra di Amsterdam del 1932 e il congresso antifascista tenuto a Parigi nella sala Pleyel nel 1933, il congresso degli scrittori sovietici a Mosca del 1934 che vide una cospicua presenza di intellettuali europei fino all’episodio culminante del Congresso degli scrittori antifascisti tenuto nel giugno 1935 a Parigi.
Attorno a queste tappe si affolla la maggior parte degli scrittori, dei poeti, degli intellettuali: dagli ispiratori Rolland a Barbusse ai più prestigiosi Gide e Malraux, ai comunisti Aragon e Vaillant-Couturier, al solitario Benda, ai surrealisti Breton ed Eluard, ai minori Cassou, Chamson, Nizan, Guéhen- no, Giono. Lottman sembra a volte esagerare l’influenza di alcuni organizzatori comu
nisti — primo fra tutti l’inviato del Comintern Willy Mtinzenberg e subito dopo il supposto ispiratore di Thorez, Eugen Fried ‘Clément’ — nel promuovere, raccogliere, indirizzare gli intellettuali verso forme di impegno sempre più gradite a Mosca, verso quel ruolo da ‘compagni di strada’ che rappresentò il loro biglietto da visita, il loro orgoglio e la loro dannazione. Ma è pronto a ridimensionare la reale efficacia di questi ‘interventi esterni’ quando ripercorre le polemiche e le posizioni dei diversi scrittori, troppo genuine ed emotivamente contraddittorie, troppo tipiche dell’ambiente della ‘rive gauche’ per poter essere attribuite a delle eminenze grigie provenienti da fuori.
Certo vi era, da parte di molti intellettuali, un atteggiamento di riverenza accompagnato da un sentimento di colpa e di inferiorità nei confronti dei ‘politici’ e dei ‘rivoluzionari di professione’. Ma era un atteggiamento che da solo non avrebbe prodotto molto: le liti tra comunisti e surrealisti, ad esempio, come fu chiaro nello scontro pubblico tra Breton ed Erenburg alla vigilia del congresso di Parigi, avevano una radice tanto politica che personale, tanto ideologica che culturale.
Il congresso degli scrittori del 1935 fu senza dubbio l’avvenimento più significativo nella storia dell’impegno degli intellettuali, ed esso attende ancora una ricostruzione documentata e definitiva. Le pagine che vi dedica Lottman, sufficienti a ripercorrere gli interventi che si succedettero nelle diverse giornate, sono puntuali nel tratteggiare la cronaca del caso Serge che si insinuò tra le pieghe del congresso e sono assai acute nel presentare la psicologia individuale e collettiva dei partecipanti. Appaiono però carenti in un giudizio sintetico, nel tentativo di costruire attorno a questo evento una analisi un po’ meno impressionistica dei rapporti tra cultura e politica negli anni trenta. E difatti gli unici, riduttivi giudizi, riportati a chiusura del capitolo dedicato al congresso di Parigi, sono quelli di Guéhenno e Lenormand che, a
130 Marcello Flores
distanza di ormai molti anni, descrivono un’assise voluta da Mosca, “un congresso in cui si auspicavano solo le presenze e il nome di un Huxley, di un Mann, di un Forster, di un Benda o di un Gide” che “tradiva l’impotenza di intellettuali che sopravvalutavano le proprie possibilità come se la cultura e la libertà di pensiero potessero bastare da sola sbarrare la strada al fascismo” (p. 156).
Un aspetto notevole dell’opera di Lott- man, un approfondimento originale che reca un contributo interessante alla ricostruzione delle vicende culturali degli anni trenta e quaranta, risiede nell’aver preso in esame anche gli scrittori di destra che frequentavano la ‘rive gauche’. Inferiori come numero, come fama, come capacità letteraria, come abilità critica, questi intellettuali sono in parte i precursori, e in parte gli stessi, di coloro che vivranno con gioia gli anni dell’occupazione nazista; ma tra essi vi è anche chi, qualche anno dopo, modificherà profondamente le proprie opzioni politiche e finirà con De Gaulle o con la Resistenza, quando non addirittura con Stalin. Accanto a Drieu La Rochelle, Brasillach, de Montherlant, de Châ- teaubriant troviamo così Roger Vailland, Claude Roy, Claude Morgan, Emanuel d’A- stier. Un gruppo composito, come lo era quello degli ‘impegnati a sinistra’, il cui denominatore comune sembrava essere “la sensazione che fosse necessario un qualche tipo di cambiamento, che il vecchio mondo corrotto, incapace di porre rimedio alle difficoltà economiche della Francia, esigesse un nuovo patto sociale” (p. 121).
Intellettuali di destra e di sinistra si trovavano a volte fianco a fianco in alcune riviste, in alcune case editrici, nei caffè di Montparnasse e Saint-Germaine. E molti si trovarono fianco a fianco anche più tardi, nella Parigi occupata dai nazisti. Le pagine dedicate agli ‘anni tedeschi’ — quelle della terza parte — sono tra le più interessanti di tutto il libro di Lottman. Compiacendosi ogni tanto sia pure con moderazione, di aneddoti e pettegolezzi
tendenti a mostrare un ambiente intellettuale abilmente in bilico tra l’accettazione dell’occupante nazista, la sopportazione del grigiore di Vichy e una timida e soppesata partecipazione alla resistenza, il rapporto del mondo culturale parigino con la Francia in guerra è sufficientemente articolato e esauriente. Dallo shock del 1939, anno di rottura e chiarificazione scandito dal patto russo-tedesco e dall’aggressione hitleriana alla Polonia che dava inizio alla guerra, fino alla Liberazione di Parigi, la vita della ‘rive gauche’, pur sconvolta, obbedisce ancora a imperativi culturali che paiono immutabili. La “Nouvelle revue française” è ancora, come negli anni trenta, uno dei poli di attrazione per scrittori e poeti di ogni tendenza, anche se adesso sotto La direzione di Drieu La Rochelle, le firme non sono più, in parte almeno, le stesse di prima. L’ambiguità, la disponibilità e il machiavellismo più contorto sembrano i connotati principali degli intellettuali durante gli anni di guerra: e Lottman ricostruisce i loro rapporti reciproci, quelli di amici che si trovano su opposte sponde politiche, quelli di chi si sottrae all’impegno politico e si dedica solo alla letteratura e all’arte, quelli di tutti con l’occupante nazista, con la sua censura benevola e la sua autorità a volte paternalistica e consenziente, a volte tragica e irremovibile.
“Leggendo le memorie dei grandi protagonisti di quegli anni — scrive Lottman — si è portati quasi a concludere che a Parigi tutti resistevano ai tedeschi. Ma si potrebbe anche sostenere che tutti collaboravano” (p. 274). Ma a questo provocatorio giudizio fa però seguito una accurata e circostanziata ricostruzione, che redistribuisce con imparzialità i meriti e i torti alla luce della realtà dei fatti. Considerando come Sartre e Camus fossero diventati famosi negli anni di guerra pubblicando da Gallimard, con l’approvazione della censura e l’entusiasmo di alcuni gerarchi, L ’essere e il nulla il primo, Lo straniero e II mito di Sisifo il secondo, Lottman rammenta
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come questi fossero vissuti come eventi letterari, incapaci, allora, di suscitare passioni politiche; e si domanda poi se “tutti quelli che divennero celebri tra il 1940 e il 1944 sapevano davvero che la loro carriera era stata facilitata dal vuoto creato dai nazisti e che c’erano degli scrittori in prigione o detenuti nei campi di concentramento, impossibilitati a parlare, a scrivere, a pubblicare” (p. 279).
Il periodo postbellico, che Lottman ricostruisce solamente fino al 1951, si presentò dapprima come una fase postresistenziale, tendenzialmente unitaria, segnata da una rinata passione civile (guidata da Camus e Sartre, adesso) e dalla conversione al giornalismo della maggior parte degli scrittori. Ma fu una breve parentesi: la diatriba tra Gide e Aragon che rieccheggiava, immiserita, le polemiche sull’Urss del 1937-38; le accuse dei comunisti all’esistenzialismo e ai suoi due supposti santoni, Sartre e Camus; la polemica tra il primo e il Pcf a proposito di Nizan erano le prime robuste avvisaglie della rottura consumata nel 1947 tra i difensori del- l’Urss e i suoi nemici, alla cui testa figuravano adesso Malraux e Koestler. La guerra fredda si presentava alla cultura francese sotto le spoglie del processo Kravcenko, radica- lizzando le posizioni dei più, insinuando il dubbio in una minoranza e permettendo ad alcuni saputi gruppi di ipotizzare per qualche tempo una terza posizione non asservita né all’Urss né agli Usa.
Terminato il breve periodo eroico dei quotidiani scritti dagli intellettuali, sono adesso i mensili, i bimestrali, talvolta i settimanali, le principali armi della battaglia ideologico-cul- turale che ha luogo nella ‘rive gauche’. “Le Temps modernes” , “Esprit” , “Le Lettres françaises” , “Le figaro littéraire” monopolizzano l’attenzione e la produzione degli intellettuali tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta, anche se è il primo di questo elenco a rappresentare la parte più dinamica della cultura francese. E sarà proprio “Le Temps modernes” nel 1951 a tenere a battesimo la rottura tra Sartre e Camus che seguiva di poco a quella già consumata tra Sartre e Merleau-Ponty. La ‘rive gauche’ iniziava così la sua rapida e irreversibile decadenza.
Nel 1957 Alain Robbe-Grillet poteva riassumere il senso di un’epoca e osservare: “come potremo dimenticare le sottomissioni e le dimissioni successive, i litigi clamorosi, le scomuniche, le incarcerazioni, i suicidi?” (p. 450), rivendicando ormai per lo scrittore un solo impegno, quello verso il linguaggio.
Non è comunque a un cittadino della ‘rive gauche’ che Lottman concede l’onore di chiudere il suo volume, ma alle battute conclusive di Finale di partita di Beckett: “Significare? Noi, significare? Ah, questa è buona!” .
Marcello Flores
Per la storia delle campagne meridionalidi Luigi Faccini
Il convegno di Bari del 1979, i cui atti sono raccolti in questo volume curato da Angelo Massafra (Problem i di storia delle campagne meridionali nell’età m oderna e contem poranea, Bari, Dedalo libri, 1981, pp. VIII-716, lire 25.000), è stato senza dubbio un appuntamento estremamente importante per chi si occupa della vita economica e sociale delle campagne italiane e in particolare di quelle meridionali. Articolato in una fitta serie di interventi, con uno spettro tematico e cronologico molto ampio, il convegno, organizzato da Angelo Massafra, ha raccolto i risultati migliori della ricerca sull’agricoltura del Mezzogiorno. Si è trattato, in un certo qual modo, della sintesi di un ventennio di nuove analisi e nel contempo di una lucida puntualizzazione dei numerosi temi e problemi che ancora rimangono aperti e che ci impediscono, oggi meno di ieri, di comprendere appieno i meccanismi di sviluppo e di emarginazione della realtà economica e sociale del Mezzogiorno continentale.
I risultati di un lavoro d’analisi che ha visto impegnati decine di studiosi per molti anni vengono acutamente e concisamente sottolineati, fin dalle prime pagine del volume, dalla relazione introduttiva di Pasquale Villani che mette in risalto, anche con frequenti riferimenti al proprio sentiero di ricerca, ciò che di nuovo — interessi, analisi, idee — è venuto maturando negli ultimi decenni. Egli tenta, con notevole successo, un bilancio storiografico di più di un ventennio di studi del
la società e delle campagne meridionali che possiamo sintetizzare nell’emergere di una più approfondita conoscenza della realtà economica e demografica, nello sforzo di comprendere fenomeni e situazioni che erano in qualche modo rimasti ingabbiati in schemi interpretativi tradizionali tanto spesso ripetuti quanto raramente verificati. Nuovi contributi e nuovi rischi: superate le impostazioni basate più sull’ideologia che sulla ricerca, inficiate dall’ingombrante presenza di categorie o classi più facili da definire che da trovare nel minuto e contraddittorio tessuto storico, si affacciano i rischi “di una nuova erudizione” , di “compiacimento per tecnicismi statistici fine a se stessi” , di “frantumazione degli studi”. Ma nel frattempo la storiografia ha compiuto passi da gigante nel- l’approfondire e nel comprendere i meccanismi e i tempi di sviluppo della realtà economica e sociale del Regno di Napoli.
Gli atti del convegno barese, utili perché ci fanno capire cosa è cambiato negli ultimi decenni nella storiografia italiana e quali sono le nuove acquisizioni ermeneutiche, lo sono ancor più per l’indicazione che essi forniscono sui nuovi problemi e sui nuovi cammini di ricerca. Dalla lettura di molti saggi relativi all’età moderna emerge con chiarezza un tema dalle grandi implicazioni: quello della pe- riodizzazione, dello sviluppo e della recensione. Si tratta in sostanza della conseguenza dell’abbandono di una periodizzazione di una storia della società tutta incentrata sul
Italia contemporanea”, marzo 1984, fase. 154
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‘politico’ se non addirittura sul ‘dinastico’ a cui tutto veniva subordinato. Aymard, Lepre, Galasso, Zotta, Marino e, in prospettive più limitate, molti altri, prendono in esame i tempi e le dinamiche dello sviluppo e della crisi dell’agricoltura meridionale, sottolineando costruttive e stimolanti discordie. Per comprendere la centralità, tutt’altro che formale, di un tale tema, basta riflettere su come ogni nuova proposta di periodizzazione presupponga l’approfondimento di fenomeni storici prima trascurati e ciò non può avvenire senza un diverso taglio, senza la costruzione o il primo tentativo di costruzione di nuovi modelli interpretativi.
Questo problema delle scansioni temporali, che è in ultima analisi problema di comprensione dei meccanismi dell’alterno divenire di una società, appare fondamentale, molte relazioni lo dimostrano con grande chiarezza, quando si tratta di quel fatidico XVII secolo. Un secolo tradizionalmente e storicamente ‘sventurato’, che è stato vittima, oltre che della peste e di una recessione, delle facili generalizzazioni storiografiche.
Basterebbe a questo proposito leggere le belle pagine di Galasso per comprendere quanto fecondi siano stati e tuttora siano i recenti studi sul Seicento. È in quella “recessione senza riconversione” che possiamo vedere delinearsi o aggravarsi un dualismo produttivo e di conseguenza sociale che diventerà il pesante fardello dei secoli seguenti.
Aurelio Musi analizza questa crisi nel Principato citeriore seguendo l’evolversi delle colture, l’estendersi dell’allevamento, le modificazioni della rendita e riesce così a ricostruire le differenti scelte produttive, facendo del Salernitano, geograficamente e po- dologicamente molto composito, uno specchio utilissimo per comprendere i meccanismi di emarginazione economica, i tentativi di razionalizzazione colturale, la complessiva incapacità alla riconversione produttiva. Tutto ciò naturalmente non vuol dire che nel Mezzogiorno non siano avvenute profonde
modificazioni sociali. L’emergere settecentesco di un ceto di uomini nuovi pronti a sfruttare, attraverso una solidarietà di ‘classe’ che diviene spesso complicità, le debolezze e le contraddizioni del governo centrale e gli ampi spazi di manovra lasciati ai funzionari in provincia, è illuminato da Gennaro Incarnato nella vicenda dei fratelli Delfico. Il saggio, pur necessariamente limitato alla ricostruzione di un singolo caso, è ricco di suggestioni e ci indica i meccanismi economici attraverso cui un nuovo ceto di ‘monopolisti’ e speculatori marciò, sul finire del Settecento, alla conquista del Regno.
Dagli atti del convegno di Bari esce profondamente rinnovata anche la storia aziendale, i cui limiti — credo — siano ormai ben presenti a tutti coloro che si occupano di storia agraria. Studiare una singola azienda è spesso affascinante: in un universo, qual è la vita delle campagne, così spesso approssimativo si hanno finalmente dati certi, inoppugnabili, indicazioni di trends economici chiarificanti. Ma tutto ciò che si riesce di norma a chiarire è come si sia sviluppata quella singola azienda, scelta di solito fra le meglio documentate e quindi fra le più grandi; ogni dato, assai preciso beninteso, che emerge da queste storie aziendali rimane alla fine assolutamente non generalizzabile. Per risolvere questa contraddizione fra la puntualità e certezza di questi microdati e la loro limitata utilità per comprendere una più vasta realtà produttiva e sociale, inficiati come sono dalla casualità localistica, imprenditoriale per non dire archivistica, non restano che poche strade. Per superare questa discrasia si potrebbe forse costruire un ampio campione d’aziende, ma chiunque si sia occupato di questo tipo d’analisi sa quanto ciò sia difficile e da un punto di vista documentario e nella ricerca della rappresentatività stessa del campione, o si può invece studiare un grande patrimonio situato in un’area sufficiente- mente limitata da essere profondamente in-
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fluenzata dalle vicende di quell’immenso insieme aziendale. È questa la strada seguita con esiti assai proficui da Silvio Zotta nella sua interessantissima analisi dello ‘Stato’ di Melfi dei Doria. Lo Zotta non si limita d’altra parte a ricostruire una storia aziendale che sia solo storia di prodotti e di produzioni, ma la amplia e la integra al punto da delineare la storia economica e demografica di una vasta area a cavallo fra Campania, Puglia e Basilicata, dimostrando in tal modo quanto possa essere feconda una storia aziendale che smetta finalmente di chiudersi nella microstoria.
È proprio da questa integrazione di fonti, di dati, di prospettive di ricerca differenti che nascono gli studi più interessanti fra quelli presentati al convegno barese. Ne è chiara dimostrazione il saggio di Angelo Massafra sul Molise tra il XVIII secolo e l’Unità. Prendendo le mosse dalla struttura produttiva agraria molisana e dal diffondersi della coltura del mais prima e della patata poi, Massafra integra ricerche di storia agraria con ricerche di storia sociale, dimostrando i nessi che esistono tra demografia, produzione rurale e alimentazione. La modificazione degli avvicendamenti esce così dall’empireo dell’agronomia per entrare nel mondo delle necessità di sopravvivenza della popolazione. L’economia agraria contadina, spina dorsale della minuta vita economica delle campagne e, per carenza di documentazione, Cenerentola della storia dell’agricoltura emerge illuminata da queste pagine, grazie appunto all’integrazione delle fonti e dei metodi di ricerca.
Per ciò che riguarda la storia contemporanea delle campagne meridionali, assai interessanti sono le pagine introduttive di Franco De Felice che non si limitano a una semplice panoramica degli studi ma che, soprattutto per quanto concerne l’analisi delle classi sociali e delle campagne in periodo fascista, sono ricche di spunti e di suggestioni di ricerca. Di questa sezione di storia agraria contempo
ranea fa parte uno dei saggi più stimolanti dell’intero volume: quello di Aldo Cormio sulla crisi agraria e la svolta del 1887 nel Mezzogiorno. L’autore, in poche, belle e sintetiche pagine, rimette in discussione infatti alcune delle certezze, e forse sarebbe meglio dire dei luoghi comuni, sulle distorsioni di sviluppo del Meridione.
Cormio analizza l’inserimento del Mezzogiorno nel mercato internazionale, il ruolo destabilizzatore dell’errata politica creditizia, i fenomeni di ristrutturazione interna e il sorgere di una moderna corrente protezionista intorno alla scuola di Portici. L’Italia meridionale quale uscirà dalla svolta del 1887 sarà una struttura assai diversificata al suo interno con un’accentuata divaricazione economico-produttiva che non può essere certo ricondotta, l’autore lo dimostra, allo stereotipo schema interpretativo della vittoria, in sede politica ed economica, del latifondo cerealicolo e dei gruppi sociali che da esso traevano la propria forza.
Molto vi sarebe ancora da scrivere sugli atti di questo convegno ma recensire, se pur brevemente, ventinove contributi in buona parte innovativi è impresa disperata. Non resta a questo punto che sottolineare l’importanza di questi studi per la comprensione delle vicende economiche del Mezzogiorno continentale in età moderna e contemporanea. Sfortunatamente, lo sottolinea lo stesso curatore, mancano in questo volume contributi e analisi sull’agricoltura siciliana, se si escludono le belle e ben documentate pagine che Marcello Verga dedica allo studio di un grande feudo dei Ventimiglia, principi di Bei- monte. Forse un numero più cospicuo di ricerche sull’evoluzione storica delle campagne siciliane avrebbe degnamente completato una raccolta di saggi che senza dubbio verrà a lungo citata come uno dei momenti fonda- mentali nella comprensione dell’evoluzione della struttura economica e sociale del Mezzogiorno d’Italia.
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Mezzogiorno
F o r t u n a t a P i s e l l i , Parentela ed emigrazione. Mutamenti e continuità in una comunità calabrese, Torino, Einaudi, 1981, pp. 393, lire 12.000.T e r e s a B o r r e l l o - P œ r G i o r g i o
R a u z i , Il velo bianco. Saggio sulla dote matrimoniale della donna in un paese agricolo del Meridione, Milano, Angeli, 1981, pp. 100, lire 5.000.
L’insoddisfazione derivante dall’uso di categorie troppo generiche per comprendere la complessità del Mezzogiorno contemporaneo ha favorito lo sviluppo di un filone di studi, già ricco di risultati, che tendono a restringere spazialmente il campo d’indagine in modo da evidenziare la reale interconnessione degli elementi costituenti l’insieme. All’interno di questo filone si collocano gli studi su due paesi dell’Italia meridionale; diversa la consistenza e la densità del primo rispetto al secondo, simili i procedimenti e le tecniche di ricerca impiegate, concordanti le conclusioni.
Il lavoro della Piselli è il frutto di tre anni di ricerca condotta in un paese della provincia di Cosenza che sembra riprodurre un forma esasperata, e quindi con maggiore evidenza, aspetti e problemi che altrove appaiono più frammentari e meno riconoscibili. La ricerca, sviluppatasi nell’ambito di cinque ‘vicinati’ scelti in maniera da essere rappresentativi di tutto il paese, tende a mettere in luce come la comunità di Altopiano, investita da processi di destrutturazione del sistema socio-economico tradizionale e quindi di integrazione nell’area capitalistica na
zionale ed internazionale, sostanzialmente attraverso il fenomeno migratorio, mantiene in realtà le tradizionali strutture della parentela che in tal modo continuano ad essere i fattori principali della stabilità sociale.
Non si tratta ovviamente di persistenze, ma di riutilizzo e di adattamento “di norme e di rapporti parentali formalmente tradizionali che consentono alla comunità di resistere alle innovazioni” . Per cogliere la complessità delle risposte di Altopiano ai mutamenti indotti dall’esterno sono sembrati utili all’autrice gli schemi di riferimento teorico e metodologico della ‘scuola di Manchester’, in particolare gli studi di Turner, Van Velsen, Gluckman, oltre che naturalmente quelli di Pola- nyi. E i risultati sono ampiamente positivi, soprattutto rispetto alla capacità della ricercatrice di far emergere dall’insieme degli elementi della società analizzata i fattori riconducibili a tipologie generali e a dati quantitativi (peraltro assai consistenti: si vedano in particolare le appendici statistiche relative alle fasi e alle caratteristiche del fenomeno migratorio nel periodo 1959-76) e quelli legati “al mondo frammentario e dispersivo delle esperienze individuali” . A tale proposito Piselli scrive “Occorreva, dunque, abbandonare il proprio ruolo di ricercatore, di intervistatore occasionale e partecipare direttamente, intensamente alla vita quotidiana del gruppo sociale analizzato” .
Anche in questo caso dunque, come in quei lavori volti a cogliere attraverso le fonti orali le cosiddette storie di vita si ripropone il metodo della ‘osservazione partecipante’, ma, a mio
parere, non sempre l’operazione appare convincente. L’impressione generale che si ricava dalla lettura del libro è che siano state utilizzate esclusivamente le categorie dell’utile e della convenienza senza mai affrontare il mondo dei sentimenti, dei bisogni individuali, degli stati d’animo; una intera comunità viene esaminata nella fase drammatica del passaggio da una situazione di immobilismo che non consente diversità, pena l’espulsione, a una diversa, ma che comunque soffoca l’individuo, senza mai tentare di capire dietro quei comportamenti che mondo si nasconde, che cosa ci si aspetta veramente, quale scommessa ciascuno gioca sulla propria esistenza.
Questo rilievo non rende meno interessante il lavoro, la cui finalità, ampiamente esplicitata, era di dimostrare l’atipicità del ‘caso’ Altopiano e contribuire quindi a modificare una approssimativa concezione del Mezzogiorno. La situazione di Altopiano viene dall’autrice così schematizzata: l’emigrazione, che negli anni cinquanta è stato il fattore principale di riequilibrio e di coesione del sistema sociale, diviene negli anni sessanta “un fenomeno indotto ed auto- riproducentesi, con la combinazione di fattori esogeni ed endogeni, attraverso cui si realizza la partecipazione all’economia monetaria e la rapida dissoluzione delle strutture produttive e sociali più arcaiche” (p. 15). Anche in questo contesto si verifica dunque una rapida assunzione della cultura consumistica dei centri industriali, la diminuzione del lavoro agricolo e in genere l’abbandono del lavoro manuale, la tendenza alla scola
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rizzazione di massa, ma non un aumento della produttività. Ed è proprio lo squilibrio tra tendenze consumistiche e decrescenti capacità produttive che, se da un lato favorisce lo sviluppo del settore terziario, induce nuove forme di clientelismo con la connessa ricerca di protezione e favori. In presenza di questi fattori, secondo Fortunata Piselli, il precedente sistema di relazioni parentali si rompe, per lasciare il posto a un nuovo tipo di famiglia nucleare-coniugale, con al suo interno le caratteristiche delle famiglie dei centri urbani: divisione interna dei ruoli, maggiore possibilità per i coniugi di esprimere le proprie inclinazioni personali, privatizzazione dell’infanzia ecc. Questo tipo di famiglia, ancora una volta è quella a cui viene affidata la sopravvivenza e la riaffermazione del proprio status economico- sociale; non si tratta però in questo caso di una struttura rigida che impone determinate forme di comportamento, ma sarà il calcolo e l’interesse ad imporre di volta in volta l’alleanza con questo o quel gruppo sociale. Ciascuno utilizza i suoi reticoli di parentela in maniera diversa (dalle modalità dei matrimoni fino alle diramazioni familiari nei circuiti politici) ma nessuno può sottrarsi a queste nuove e più sottili forme di coercizioni.
Le varie tesi sulla morte della famiglia, da qualche tempo messe in crisi dagli studi sul neo- familismo delle grandi città, trovano in questa indagine una ulteriore sconfessione. Anche nei piccoli centri del Sud, il reticolo parentale si è rinnovato e insieme ad esso le nuove forme di dipendenza personale, rigide e senza spazi perché legate alla so
pravvivenza; le, possibilità di autodeterminarsi, di scegliere in qualche modo la propria esistenza, per Altopiano sono lontane utopie.
Alle stesse conclusioni pervengono gli autori del secondo saggio; anche esso un’indagine su un piccolo paese del Sud, Ruggiano in provincia di Lecce, condotta sulla base di questionari (circa sessanta interviste a uomini e donne di età e condizioni diverse) con il metodo dell’osservazione partecipante. A suo fondamento la stessa analisi della Piselli: verificare il tipo di risposta, di reazione offerto dalla comunità nel passaggio da un’economia autarchica e chiusa, a una aperta al mercato ma bisognosa dell’intervento pubblico per regolare le spinte contraddittorie indotte dalla trasformazione. I due ricercatori, in particolare, si soffermano su uno degli elementi di persistenza, l’istituto della dote, del corredo nuziale. In uno stile secco, in certi momenti quasi brutale, l’indagine manifesta come il rituale della dote, attraverso una serie di atti scanditi nel tempo, l’acquisto della materia prima, la lavorazione, l’esposizione a lavoro terminato, la stesura di un vero e proprio documento dotale, assolva, ancora oggi, a una serie di funzioni fondamentali. li rituale delia dote finisce infatti con lo scandire la vita della maggior parte delle donne dalla prima infanzia, accompagnandole verso una scelta determinata, il matrimonio, con un cerimoniale che non ammette deroghe: atti che condizionano l’intera esistenza, dalla sessualità ai rapporti di vicinato e di parentela, agli impegni finanziari assai onerosi che la dote stessa
comporta, essendo in gioco il prestigio dell’intera famiglia. Le trasformazioni sociali ed economiche in atto non modificano dunque il ruolo della donna, che rimane tutto interno alla famiglia e quest’ultima, a sua volta, rimane il fulcro di una società storicamente ai margini dei luoghi dove si decide e dove si stabiliscono i valori che dovranno poi essere tali per tutti.
Il familismo che, nel troppo noto saggio di Banfield (Le basi morali di una società arretrata, Bologna, Il Mulino, 1976), era la causa dell’arretratezza del Mezzogiorno, risulta da questa analisi essere l’effetto di perversi processi economici e sociali; non di persistenze, dunque, si tratta, ma di forme di resistenza che le comunità oppongono alla “disgregazione connessa ed indotta dalle distorsioni dello sviluppo capitalistico nelle aree ad esso marginali” .
Su queste conclusioni non si può non consentire: mi sembra tuttavia opportuno evidenziare il fatto che in entrambi i lavori, l’indagine è stata condotta con un taglio marcatamente sociologico e ciò ha forse impedito di cogliere fino in fondo situazioni che sono certamente più complesse e articolate di quanto non appaia. Non è possibile, a mio parere, che modifiche, parziali e momentanee quanto si voglia, dei livelli di coscienza non intacchino questo mondo, pronto di fronte ad ogni modifica dall’esterno o a fuggire o a rinchiudersi in se stesso.
O è solo l’ostinato ottimismo di una donna che può ancora sperare che tra altre donne, sia pur relegate in casa, non possa nascere ad esempio attraverso la ‘chiacchiera’, che è poi un tipico
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comunicare tra donne, una rete di solidarietà che aiuti a spezzare il cerchio e a superare l’immobilismo?
Laura Capobianco
A a .Vv ., La modernizzazione diffìcile. Città e campagne nel Mezzogiorno dall’età giolittiana al fascismo, introduzione di Giuseppe Giarrizzo, Bari, De Donato, 1983, pp. 310, lire 18.000.
Il volume — in cui sono rielaborati i materiali di un convegno di studio su “Potere e società nel Mezzogiorno dall’età giolittiana al fascismo” tenutosi a Catania nell’ottobre 1981 — si colloca in quel vasto ambito di ricerca che tende ad una riconsiderazione critica generale dei problemi della storia del Meridione, superando quell’‘immagine sommersa’ (Giarrizzo) che ha caratterizzato larga parte della storiografia recente e in questo senso costituisce una ricerca esemplare sia per i temi affrontati che per le chiavi interpretative che offre. Anzi, lo studio degli elementi modemizzatori presenti nel periodo giolittiano tende a una riconsiderazione generale sia della storia del Mezzogiorno che della politica liberale.
Ora — proprio al fine di uscire dall’indeterminatezza di una categoria talmente onnicomprensiva da risultare indistinta, quale quella di Mezzogiorno —, appare necessaria la settorializ- zazione della ricerca; e non a caso, tranne un breve saggio di Girolamo Sotgiu sulla Sardegna (Aggregazione e conflitto nelle campagne), il volume prende in
esame due realtà regionali assunte quasi come parametri di due modi diversi ma in qualche modo complementari del ‘difficile’ sviluppo meridionale; la Sicilia e la Puglia. Appare del resto innegabile, oggi, che una ridefinizione della categoria storica di Mezzogiorno possa necessariamente attraversare la disaggregazione dei dati che compongono questo complesso topos.
Giuseppe Barone, nel bel saggio dedicato ai rapporti tra intervento dello Stato e capitale finanziario in Sicilia (Stato capitale finanziario e Mezzogiorno), spezza una lancia contro “l’infruttuosa querelle sullo stato nazionale reo di aver negato al Sud quello sviluppo economico che avrebbe invece elargito al Nord” (p. 28) e si cimenta nella descrizione dei tentativi, perseguiti tanto dal governo giolittiano che da una parte della classe dirigente isolana, di far decollare una moderna industria. Barone attesta, e dimostra, l’esistenza di un progetto governativo, che ebbe anche l’appoggio riformista, “teso a inserire il Mezzogiorno nei circuiti dello sviluppo capitalistico dopo averlo ripulito di residui feudali e rendite parassitane” (p. 78), progetto che ebbe come supporto l’agevolazione per gli investimenti viticoli su base capitalistica e per l’esportazione dei prodotti vinicoli, il potenziamento dei trasporti per mare e per terra e dell’elettrificazione, il sostegno di industriali quali il Fiorio e del capitale finanziario italiano (Banca commerciale) e straniero ecc. Nel primo scorcio del secolo Barone intravede, pertanto la possibilità di una penetrazione/trasformazione capitalistica della Sicilia (ma non è discorso che ri
guardi esclusivamente la Sicilia) attraverso la rottura, almeno parziale, del tradizionale blocco risorgimentale industriali (del Nord)-agrari (del Sud). Fu una opposizione agraria motivata più politicamente che economicamente a far fallire il progetto riformatore: “Non era soltanto la paura di vedersi espropriati a prezzi vili della loro proprietà a spingere gli agrari a coalizzarsi per respingere la penetrazione del capitale finanziario settentrionale nelle campagne, ma la consapevolezza che la rottura del sistema latifondistico estensivo avrebbe comportato una perdita secca di egemonia del blocco agrario” (p. 74).
Di taglio diverso, ma con esiti almeno in parte coincidenti col precedente, l’altro saggio sulla Sicilia di Salvatore Lupo e Rosario Mangiameli (La modernizzazione diffìcile: blocchi corporativi e conflitto di classe in una società arretrata) sui conflitti sociali e l’aggregazione dei blocchi di potere. Il minoritario ma significativo insorgere di atteggiamenti imprenditoriali e capitalistici in alcuni settori agrari (Fiorio, Di Rudinì, Cesarò ecc.), pur non recidendo i rapporti tra questi e la rendita, venne a determinare “una nuova articolazione dei gruppi dominanti” (p. 220) e in età giolittiana questo sembrò sposarsi con la tradizione socialista dei Fasci (“composito blocco di ceti produttivi urbani: artigiani,borghesia, esportatori, burocrati” , p. 232).
Nella mancata modernizzazione gli autori vedono l’origine dell’ideologia consolatoria, e sostanzialmente reazionaria, del sicilianismo moderno. Di qui il saggio si diffonde sulla plausibi
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lità (affermata pur con alcune specificazioni) dell’uso della categoria di blocco agrario.
Sostanzialmente divergente l’andamento dell’economia agraria pugliese su cui di sofferma il saggio si Aldo Cormio {Le campagne pugliesi nella fase di transizione 1880-1914). Qui già negli anni ottanta lo sviluppo del vigneto — ai danni delle colture cerealicole — aveva determinato la crisi della masseria tradizionale e la necessità di una razionalizzazione capitalistica dell’intera economia agricola (cerealicoltura e olivicoltura in particolare). E il ruolo del movimento socialista veniva ad essere complementare alle esigenze di una modernizzazione che stava raggiungendo risultati decisivi, coadiuvata anche da un’azione governativa volta al potenziamento di un nuovo blocco sociale e di importanti infrastrutture anche di carattere amministrativo (la Camera di commercio di Bari, ad esempio). È così che il contrasto esplosivo fra le potenzialità di sviluppo e una classe dirigente “feudale, oppressiva e soffocatrice” (p. 212) veniva a determinare già nel primo decennio del secolo la crisi irreversibile della grande borghesia pa- rassitaria.
Di notevole interesse anche l’altro saggio sulla Puglia di Luigi Masella {“Elites” politiche e potere urbano nel Mezzogiorno dall’età giolittiana all’avvento del fascismo. Il caso pugliese) sulla trasformazione e il ricambio della classe dirigente dalla crisi bellica all’ascesa del fascismo, contenente anche importanti considerazioni metodologiche.
Infine il volume è corredato da un ampio dibattito metodo- logico (ci preme qui segnalare in
particolare gli interventi di Gastone Manacorda e Valerio Castronovo) atto anche a correggere alcune forzature contenute nei saggi stessi.
Francesco M. Biscione
P a s q u a l e V i l l a n i , N u n z l a
M a r r o n e , Riforma agraria e questione meridionale. Antologia critica 1943-1980, Bari, De Donato, 1981, pp. 310, lire 9.500.
La lunga depressione degli anni ottanta stringe l’economia italiana tra la congiuntura internazionale e raggravarsi degli squilibri interni. Una morsa che sembra rendere impensabile ogni politica che distragga risorse dalla ristrutturazione industriale per investirle in un settore — quello agricolo — che non può, anzi non deve, aumentare il numero degli addetti. Un settore le cui strutture produttive proprio nel Meridione hanno subito un degrado irrimediabile e senza possibilità di ritorno.
Svanito il sogno di una rapida industrializzazione, solo qualche volenteroso ha potuto immaginare per il Mezzogiorno un massiccio sviluppo del turismo, come se un’impresa del genere si potesse realizzare senza una vera e propria organizzazione di tipo industriale. L’agroturismo e i parchi naturali sono comunque iniziative marginali o utili solo nel lungo periodo rispetto all’urgenza della disoccupazione, dei cassaintegrati, del calo produttivo.
Anche se indirettamente e senza esaminarli specificata- mente, a questi problemi fa pensare l’antologia di Nunzia Mar
rone e Pasquale Villani, con la differenza che ripropone con decisione proprio la stretta connessione esistente tra questione meridionale e distorto sviluppo nazionale e quindi tra questo e la questione agraria.
Lo stesso periodo che si è voluto coprire vuol mettere in risalto questa connessione attraverso una periodizzazione più articolata che oltre alle lotte contadine del 1943-44 e del 1949-50 prende in considerazione anche le successive trasformazioni economiche e sociali; infatti modalità ed esiti delle lotte di quei periodi hanno profondamente inciso sulle caratteristiche generali che è andata assumendo la storia d’Italia in quest’ultimo trentennio.
Tra l’altro solo quando è svanita la speranza di una rapida industrializzazione del Mezzogiorno è cominciato nell’ultimo decennio un lavoro storiografi- co sistematico sulla questione agraria e la sua peculiarità nella storia d ’Italia nel dopoguerra.
Villani nell’Introduzione, riflettendo sui brani scelti, muove una motivata critica dell’uso, ancora frequente, di introdurre aprioristicamente termini generali (‘sviluppo capitalistico’, ‘prospettiva socialista’ ecc.) come parametri e punti di riferimento per situazioni e fatti particolari così diversi e lontani tra loro, come è il caso delle realtà regionali e locali delle campagne meridionali.
L’ambiguità dell’uso di concetti troppo generali introduce nell’indagine elementi aprioristici che rischiano di distoreere e rendere incomprensibili le situazioni particolari e le linee di tendenza dell’insieme. Questa astrattezza dà per scontato co
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se che non lo sono affatto e rende superflue proprio le monografie regionali e le indagini a tappeto che l’attuale dibattito storiografico ha pure con buoni frutti avviato e che lo stesso Villani auspica possano continuare ritenendole come le più opportune per delineare un quadro della realtà economica e sociale del Meridione così frammentaria e disgregata.
I testi di Rosario Villari, Manlio Rossi-Doria, Renato Zan- gheri costituiscono un importante contributo a sfatare il mito di un Mezzogiorno immobile e refrattario a ogni trasformazione, palla al piede della rinascita nazionale.
Innanzitutto la decisione dei partiti di sinistra di aderire alla richiesta di terre dei contadini meridionali otterrà l’effetto di legare le masse contadine alle nuove istituzioni democratiche e repubblicane. Un esame più attento dei risultati del referendum e delle elezioni dal 1947 al 1953 testimonia nel Meridione la crescente e stabile adesione ai grandi partiti nazionali e in par- ticolar modo a quelli della sinistra.
Inoltre la svolta moderata del 1947-48, dai risultati elettorali, appare più accentuata al Nord e nei grandi centri che al Sud e nelle campagne dove invece i partiti di sinistra (specie il Pei) fino al 1979 saranno in continua ascesa.
Altro segno eloquente di una fase decisiva per la storia del Mezzogiorno fu, intorno agli anni cinquanta, la netta riduzione della rendita fondiaria e lo sfaldamento del blocco degli agrari.
Da un punto di vista stretta- mente economico, nei successivi
anni sessanta e settanta, risaltano gli straordinari progressi dell’agricoltura meridionale per l’indice di meccanizzazione, per prodotto netto, per il rapporto carico di lavoro/produzione.
Senza disconoscere il valore politico, culturale ed educativo che proprio negli anni cinquanta ha avuto la scoperta e il dibattito sulla ‘civiltà contadina meridionale’, e valga per tutti ricordare l’opera di Ernesto De Martino, Villani fornisce un’importante indicazione metodologica. Dai contributi storiografici presi in esame infatti non sempre è chiaro il senso e l’accezione di termini come ‘economia contadina’ e ‘mondo o civiltà contadina’.
In senso stretto essi indicano un mondo precapitalistico, in genere di tipo asiatico, basato sull’autoconsumo. Non è a caso che l’aspirazione sessantottesca a una società postindustriale abbia visto nelle rivolte spontanee del 1943-44 e nel mondo contadino meridionale una realtà proiettata in senso anticapitalistico, disponibile a una democrazia comunitaria di produttori-consumatori.
Ovviamente Villani ribadisce in maniera categorica che, così inteso, questo mondo contadino non esisteva più da secoli; già dall’Ottocento, ma anche da prima, il Meridione era stabilmente inserito nell’area mercantile capitalistica europea e la popolazione meridionale era abituata alle strutture economiche e alle istituzioni politiche tipiche delle moderne società mercantili.
A conferma di tale connessione con le regioni contigue dell’Italia e dell’Europa occidentale nel Mezzogiorno la po
polazione attiva in agricoltura si è ridotta drasticamente, e in meno di vent’anni, analogamente a quanto era già avvenuto nei paesi industrializzati, anche se in epoche e con tempi diversi, ma certo non meno drammatica- mente e con costi sociali non inferiori.
Resta però una differenza non secondaria: che la questione meridionale non è certo risolta e — lo si voglia o meno — è ancora una contraddizione decisiva per lo sviluppo della società italiana.
Contraddizione da attribuire piuttosto che alle leggi di riforma agraria e ai loro sia pure vistosi limiti, all’inserimento della politica meridionale nel quadro generale della politica italiana.
A chi conosce più da vicino le zone interne del Meridione non sfugge che né i testi presentati, né l’introduzione, esaminano a fondo i nessi tra la riforma agraria, le sue successive trasformazioni e le attuali condizioni del Mezzogiorno improduttivo e quasi totalmente ‘assistito’. Soprattutto non c’è nessun nesso che aiuti a spiegare raggravarsi, fino a divenire predominanti, dei fenomeni mafiosi e di malavita organizzata.
Una mancanza nell’antologia o una carenza del dibattito politico e storiografico degli ultimi dieci anni? A noi sembra che si dimentichi facilmente l’origine antica e agraria della mafia e delle altre organizzazioni che ora urbanizzandosi hanno posto una pesante ipoteca alle possibilità di sviluppo di intere regioni meridionali.
Biagio Passaro
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G. A c o c e l l a , P . B a r u c c i , E. N o c i f o r a , F. P i g n a t o r e ; II Mezzogiorno nella Ricostruzione, Roma, Edizioni Lavoro, 1983, pp. 119, lire 6.500.
Il volume II Mezzogiorno nella Ricostruzione presenta considerevoli aspetti di novità rispetto agli studi di recente rifioriti sul tradizionale tema del Sud e del suo sviluppo.
Gli autori tentano, infatti, di comprendere la dinamica dell’intera economia meridionale non disgiunta dall’analisi della stratificazione sociale, dei conflitti tra le classi, dei modelli di comportamento e degli atteggiamenti politico-ideologici che hanno caratterizzato la comunità meridionale nel suo rapporto con la società nazionale.
Il libro raccoglie quattro saggi che costituiscono altrettanti approfondimenti in diverse direttrici.
Piero Barucci si occupa della ricostruzione nel Mezzogiorno durante il ventennio 1943-1963 soffermandosi sull’evoluzione della struttura economica e sottolineando la grande capacità di generare mutamento dei fenomeni sociali. In particolare analizza criticamente alcuni ‘nodi’ storici e storiografici, come la rottura della solidarietà nazionale nel 1947, la cosidetta legislatura ‘zoppa’ che ha la sanzione elettorale del 1953 e i prodromi del centrosinistra tra il 1960 ed il 1963. Allo stesso modo, ripercorre le tappe fondamentali dello sviluppo economico del Mezzogiorno soffermandosi sui grandi temi della ricostruzione postbellica, della riconversione industriale, sui tentativi — spesso falliti — di programmazione economica per rinserire il paese
nel sistema economico mondiale. Sul versante culturale, infine, si sofferma sulla ripresa del dibattito democratico che costituisce la prova tangibile del superamento dell’esperienza fascista.
Il contributo di Enzo Nocifera riguarda le trasformazioni che si sono verificate nella stratificazione sociale della società meridionale durante la crisi del secondo dopoguerra ed egli ne rintraccia le cause nel tipo di equilibrio sociale definito generalmente latifondistico, ereditato dal primo Novecento.
L’autore individua tre fasi ben distinte nello sviluppo dei rapporti sociali negli anni della ricostruzione: 1944-46, in cui la profonda crisi mette in movimento tutti gli equilibri sociali e di cui è difficile definire le linee di tendenza; 1947-1949, in cui si ha un primo assestamento, determinato anche da un quadro politico più stabile, che permette una profonda chiarificazione dei rapporti tra le classi; 1950-1956, in cui si determina una stabilizzazione, in particolare appunto nel Mezzogiorno, che permette il consolidamento degli equilibri sociali complessivamente dominanti fino ai primi anni settanta.
Giuseppe Acocella tratta nel suo saggio del ruolo della Cisl nel Mezzogiorno negli anni cinquanta, sottolineando come esso presenti aspetti e problemi specifici. L’autore afferma che nell’immediato dopoguerra l’azione della Cisl è rivolta da un lato a “dissodare un terreno con accentuate caratteristiche di lotte pre-sindacaii” e dall’altro ad affrontare i problemi di un drammatico passaggio da
un mondo rurale a uno di rapida industrializzazione, in un quadro generale di crescente diffidenza verso le istituzioni. Alla metà degli anni cinquanta, l’attività del sindacato è consistita principalmente nel contrastare i tentativi, portati avanti da alcuni partiti politici e da gruppi di interesse, di privatizzazione dello Stato e delle sue strutture. Secondo Acocella, pur con le sue incertezze ed i suoi limiti di carattere principalmente contrattuale, la Cisl ha costituito la prima vera esperienza di organizzazione della classe lavoratrice meridionale.
Il saggio di Francesco Pignatore è la testimonianza di un protagonista che ha vissuto una vicenda politica di rilievo sul piano regionale e nazionale.
La sua analisi della società siciliana dalla ricostruzione al milazzismo vuole dimostrare come l’esperimento autonomista si consumi tra la fine degli anni quaranta e gli inizi degli anni sessanta. Tutto quello che viene dopo, a parere dell’autore, non è altro che il residuo dell’autonomismo così come è stato concepito, è nato e si è inverato nello Statuto del 1947.
In conclusione, il lavoro II Mezzogiorno nella Ricostruzione è da considerarsi un contributo apprezzabile per le molteplicità e l’importanza dei temi affrontati, per la analisi e i dati inediti che offre talora agli studiosi, e per la capacità di far emergere e valorizzare elementi storici di solito posti in ombra o poco conosciuti.
Maurizio Mandolini
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T e r e s a T o m a s e l l i ; Demografia e società in Campania tra le due guerre, Napoli, Guida, 1982, pp. 123, lire 7.500.
Il libro esce nella Collana dei “Quaderni dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza” ed è un’indagine rigorosa sulla realtà demografica della Campania durante il fascismo. Se ne avvertiva davvero il bisogno, anche perché, come nota l’autrice, le indicazioni suggerite da Anna Treves (Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 1976) sono a lungo rimaste senza ulteriori riscontri.
L’analisi demografica conferma che tra le due guerre nel Mezzogiorno vi furono sensibili mutamenti, tutti riconducibili alla chiusura degli sbocchi migratori, che aggravò e rese drammatica la sovrappopolazione rurale. Vengono indagate l’entità e le caratteristiche di tale trasformazione, superando le non poche difficoltà metodologiche e di fonti che pone la ricerca quantitativa.
Il risultato è che, anche su questo versante, diventa sempre meno convincente l’immagine di un Mezzogiorno che per l’intero ventennio rimane immobile e isolato dai processi economici del paese.
Il libro si muove in un ambito regionale, coprendo l’arco temporale 1921-1936 attraverso le rilevazioni dei Censimenti Istat e i dati fomiti dal “Bollettino statistico” del Comune di Napoli. La dimensione regionale permette di seguire l’andamento demografico nelle diverse aree, urbane e agricole, della Campania, ma avrebbe, forse, richiesto una trattazione più organica, superando un
certo descrittivismo che talora si avverte.
Per Napoli è di indubbio interesse il confronto con i dati nazionali su natalità, nuzialità e mortalità, che può essere letto come spia dei comportamenti sociali. Nel periodo esaminato permaneva alto il tasso di natalità, che seguiva un andamento diverso da quello dei centri industriali del Nord, dove, come ha già osservato anni fa Massimo Livi Bacci, si avvertiva un calo delle nascite a partire dall’inizio del Novecento.
L’autrice tenta un rapporto tra il piano quantitativo e l’ambito emotivo, cercando di interpretare i dati alla luce della più o meno diffusa conoscenza delle pratiche anticoncezionali, in rapporto, cioè, a un elemento culturale oltre che economico: “La problematica relativa al controllo volontario delle nascite, infatti, è un filo rosso che attraversa in tutti i sensi il comportamento sessuale e la mentalità degli italiani, separando non solo il Sud dal Nord, ma anche le zone urbane dalle zone rurali, i quartieri proletari o sottoproletari dai quartieri borghesi” (p. 34).
L’analisi del movimento naturale della popolazione suggerisce quindi un insieme di notazioni sui comportamenti sociali, che restano, però, allo stadio di abbozzo. Il discorso si fa più approfondito, allorché si prendono in esame gli effetti del movimento migratorio. Napoli registrava un sensibile flusso immigratorio soprattutto a partire dal 1927, che era conseguenza del blocco dell’emigrazione transoceanica. Qualcosa di analogo dunque a quanto avveniva nelle città del Nord, ma anche di profondamente diverso.
Gli immigrati a Napoli trovavano soltanto possibilità di lavoro precario e discontinuo, indotte quasi sempre dalla politica di bonifica edilizia del regime. Nei centri industriali era invece possibile l’occupazione in fabbrica, anche in conseguenza di un diffuso processo di dequalificazione operaia.
Il movimento immigratorio si ebbe non soltanto nel capoluogo campano, ma anche a Salerno. Nel ricercarne le cause l’autrice si ricollega alla crisi delle campagne, dove si avvertivano gli effetti della sovrappopolazione rurale. Diminuivano gli addetti nell’agricoltura, si modificava la ripartizione delle diverse figure agricole, calavano i braccianti e aumentavano i fittavoli. Tutto ciò implicava che il bracciante non si trasformasse in piccolo proprietario, ma in disoccupato, e premesse contemporaneamente sul mercato del lavoro urbano e agricolo, essendogli precluso lo sbocco migratorio.
La realtà delle campagne era d’altro canto differenziata, in quanto, come aveva già segnalato Emilio Sereni, vi erano zone, quali la piana del Seie, in cui gli effetti delle bonifiche si avvertivano anche sul piano demografico. Qui infatti la popolazione, tra il 1921 e il 1931, crebbe del 36 per cento, mentre parallela- mente procedeva il continuo spopolamento dei paesi di montagna.
I dati del censimento del 1936 mettono in rilievo l’inizio di una significativa controtendenza: nelle aree interne si registrava una ripresa dell’emigrazione, non più diretta all’estero, ma in mancanza di qualsiasi alternativa allo sbocco migratorio, probabilmente verso i centri del
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triangolo industriale. Il fenomeno aveva comunque un’entità ridotta, che riusciva a incidere sulla condizione di crisi delle campagne.
Durante il fascismo mutò pertanto l’assetto demografico della regione, ma le trasformazioni non ne favorirono il processo di modernizzazione, al contrario si accentuò il distacco con il Nord: “Ormai il divario tra le due zone del paese è incolmabile. L’andamento demografico della popolazione italiana, grazie all’apporto decisivo delle regioni centro settentrionali, si avvicina sempre più a quello dei paesi industrializzati d’Europa, il Meridione, come dimostra il caso della Campania, rimane escluso da questo processo evolutivo”(p. 80).
Questa conclusione appare importante proprio perché mette in crisi un rapporto meccanico tra trasformazione economi- co-sociale e modernizzazione, e permette di definire con chiarezza che il principale esito delle tendenze demografiche fu la ricostituzione nelle campagne meridionali di un ampio serbatoio di manodopera, che avrebbe fatto sentire il proprio peso nelle lotte contadine e nei movimenti migratori del dopoguerra.
Il libro si conclude con alcune osservazioni sulla politica demografica del regime e dei suoi modelli culturali che la ispiravano. Quest’ultima parte andava sicuramente maggiormente ampliata, anche se non mancano intuizioni interessanti, come, ad esempio, la sottolineatura del carattere fortemente repressivo proprio della politica assistenziale fascista che “tendeva a creare una discriminazione [...] tra bisognosi meritevoli e biso
gnosi privi di qualifiche positive in quanto celibi e senza figli, senza tessera del Pnf, offrendo ai primi una possibilità di inserimento morale e materiale in un ambito sociale da cui la mancanza di lavoro tendeva ad escluderli” (p. 121).
Gloria Chianese
M a n l i o R o s s i - D o r i a : Scritti sul Mezzogiorno, Torino, Einaudi, 1982, pp. 297, lire 20.000.
Un confronto fra i diversi scritti redatti da M. Rossi-Doria dal 1960 al 1980 permette di cogliere in pieno l’organicità della sua elaborazione meridionalista.
L’interesse è rivolto quasi esclusivamente alla realtà agricola del Sud, partendo, però, da una precisa premessa che viene più volte ripetuta. L’agricoltura non può costituire il settore trainante del Mezzogiorno, in quanto una moderna realtà economica richiede un equilibrato sviluppo agro-industriale, che a tutt’oggi resta lontano dall’essere conseguito.
In ciò si esplicita il profondo legame con quella che Barucci ha definito “la generazione del nuovo meridionalismo” e in particolare con le opzioni industrialiste di Pasquale Saraceno.
La raccolta permette di seguire la scansione temporale con cui sono stati elaborati gli scritti, che sono di varia natura: articoli di giornali, discorsi parlamentari, relazioni congressuali ecc. Qualche ripetizione è inevitabile, ma c’è anche il vantaggio di leggere la diversità di accenti con cui il medesimo tema può essere affrontato in fasi successive, che riflettono,
magari, il mutato clima politico del paese.
L’emigrazione costituisce un nodo su cui l’autore torna ripetutamente per sottolinearne la positiva influenza esercitata sulla contrazione della sovrappopolazione meridionale. Laddove si è contratto o interrotto il flusso migratorio, le condizioni della agricoltura si sono ulteriormente aggravate perché è peggiorato il rapporto tra risorse produttive e popolazione. È il caso del ventennio fascista, che l’autore ritiene il periodo più drammatico della storia recente del Mezzogiorno, essendosi combinati gli effetti negativi della sovrappopolazione rurale e le ripercussioni della caduta dei prezzi agricoli.
L’importanza del rapporto tra risorse produttive e popolazione ritorna nella valutazione delle ondate migratorie del dopoguerra.
Le centinaia di migliaia di contadini emigrati nel triangolo industriale hanno costituito un male necessario e inevitabile in quanto nessun tipo di sviluppo agricolo, per quanto rapido e intenso, avrebbe potuto garantire un reddito sufficiente.
Il fenomeno ha però assunto dimensioni eccessive, che hanno reso nulli gli effetti positivi del calo di popolazione, facilitando il degrado dei paesi d’origine degli immigrati. In base a un’indagine effettuata nel 1978 dal Centro di ricerche economico-agra- rie di Portici risulta infatti che, tra il 1951 e il 1971, gli emigranti sono stati quattro milioni e duecentomila, di cui il 63 per cento proveninente dal cosiddetto osso.
Il ragionamento è lineare. L’emigrazione può essere un be-
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ne, a condizione, però, che si accompagni alla crescita produttiva, agricola e industriale, delle zone migratorie.
E c’è di più. È opportuno e utile che l’emigrazione continui, soprattutto in quelle aree interne dove lo sviluppo economico locale tende a mantenersi molto contenuto.
All’interno del rapporto tra popolazione e risorse produttive sono collocati i problemi della struttura della proprietà fondiaria e delle prospettive dell’agricoltura meridionale. Pagine molto dense analizzano con minuzia le caratteristiche delle diverse aree agricole, indicando per ciascuna di esse alcune ipotesi di programmazione economica, che, condividibili o meno, hanno il merito di essere esplicitate con chiarezza.
Le aree tradizionali a cultura intensiva e quelle di recente bonifica hanno assicurato nel ventennio 1950-70 un altissimo livello di produttività, che ha contribuito a raddoppiare il valore della produzione agricola del Sud.
Questo forte incremento è, secondo l’autore, un risultato largamente positivo, ma che va letto nel complessivo panorama dell’agricoltura meridionale, in cui gli elementi di modernizzazione convivono con il permanente frazionamento della proprietà fondiaria e con l’assenza di un’efficace politica di programmazione.
Lo sviluppo dell’agricoltura richiede un deciso intervento di razionalizzazione che favorisca l’aggiomamento delle tecniche di conduzione agricola e soprattutto promuova la formazione di ampie fasce di proprietà contadina medio-grande.
La strategia del programmatore tende quindi a incidere su più piani: riduzione della popolazione attraverso un flusso migratorio controllato e assistito, sostegno della proprietà contadina medio-grande, programmazione degli indirizzi produttivi, forte e deciso intervento di sostegno statale.
Traspare una sorta di ‘ottimismo della volontà’, una fiducia costante nella possibilità di incidere sui problemi e le contraddizioni del Sud, che non viene meno neppure di fronte ai critici bilanci della politica governativa di intervento straordinario.
L’autore riprende la distinzione, fatta alcuni anni fa da Oraziani, tra una prima fase dell’intervento della Cassa del Mezzogiorno, tesa a promuovere una politica di infrastrutture e di sostegno all’agricoltura, e una seconda, avviata intorno alla metà degli anni sessanta, in cui l’impegno prioritario fu rivolto all’industrializzazione.
Il giudizio è differenziato: positivo verso i primi anni dell’intervento straordinario, critico verso i tentativi di sviluppo industriale. L’ampia estensione delle zone bonificate e la vastità della rete di irrigazione sono infatti considerati due risultati che hanno profondamente influenzato lo sviluppo produttivo dell’agricoltura.
La politica di preindustrializzazione, però, “giusta all’inizio come la sola possibile con l’andare del tempo ha corrisposto sempre meno anche ai fini per i quali era stata inizialmente proposta” (p. 164).
Ritorna la premessa per cui l’agricoltura non può costituire il settore trainante dell’economia meridionale. D’altro canto,
i tentativi d’industrializzazione del Mezzogiorno non hanno implicato la creazione di un organico e vitale tessuto industriale formato da piccole, medie e grandi unità produttive.
Se il bilancio dell’intervento statale appare' problematico, quello della classe politica locale è senz’altro drastico: “L‘ostaco- lo principale è rappresentato da quelli (i locali, ndr) che essi chiamano i ‘pirucchi’, ossia l’attuale classe dirigente che ha il mestolo in mano nelle zone interne, come in tutto il Mezzogiorno” (p. 106).
Su questo aspetto l’analisi si fa meno stringente perché è poco esplicito il nesso tra il ruolo dello Stato, che si esplica attraverso l’intervento della Cassa, e le persistenti fortune del ceto politico locale connesse alla gestione clientelare del potere.
Qualche perplessità induce anche il giudizio in merito ad alcuni aspetti delle realtà urbane del Mezzogiorno: “La crescita troppo rapida, il persistente prevalere degli impieghi precari e delle attività poco stabili sono all’origine del disordine e del malcontento, ma possono essere considerati inevitabili fenomeni di transizione, tali da potere con il tempo essere superati e dar luogo a una società strutturata simile a quella di altre regioni sviluppate” (p. 23).
Riaffiora l’ottimismo del programmatore, che è contraddetto, però, dalla perdurante crisi, politica ed economica, delle città meridionali al cui interno sono da collocare esiti come la camorra la ’ndrangheta e la mafia.
Gloria Chianese
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C l a u d i a P e t r a c c o n e : Napoli moderna e contemporanea, Napoli, Guida, 1981, pp. 152, lire 4.700.
La trattazione di uno spaccato di storia moderna e contemporanea di tanto spessore e densità tematica qual è quello di una città come Napoli, non è certo impresa facile; nell’affron- tare una periodizzazione di cosi vasti confini (siamo di fronte a uno sviluppo plurisecolare, che va dagli inizi del secolo XVI ai nostri giorni), ci si trova di necessità a operare su di un terreno particolarmente insidioso, esposti da un lato al rischio di una dispersione astratta ed elusiva dei contenuti e dei processi reali, dall’altro alla tentazione di un’analisi sempre più dettagliata, e perciò stesso suscettibile di esiti monumentali (e magari ponderosi), della cui opportunità, allo stato attuale della produzione storiografica, è francamente lecito dubitare.
Di tale pericolo l’autrice appare sufficientemente consapevole e avvertita, e a tale consapevolezza può ricondursi uno dei caratteri di maggior pregio di quest’opera, che si presenta come un agile e utile compendio delle più salienti vicende partenopee e allo stesso tempo come un testo problematico dal taglio accorto e misurato, volto a evitare qualuque concessione all’eclettismo manualistico o, quel che è peggio, a viete forme di localismo e di bozzettismo deteriori.
Un primo dato, questo facilmente riscontrabile, nella scelta bibliografica, ricca e articolata sia sul piano generale sia su quello della scansione cronologica, e che racchiude i contributi
più significativi più o meno recenti, che nell’ambito sono andati costituendosi sull’argomento. Ne consegue altresì un interessante tentativo di ridefinizione della ricerca della storia cittadina, colta attraverso il suo fondamentale connotato di città capitale, ripreso e sviluppato in passaggi specifici lungo l’arco della trattazione, nonché nel particolare rilievo che di volta in volta assumono aspetti tradizionalmente poco esperiti in ambito divulgativo, quali la crescita demografica, la struttura sociale e produttiva, gli assetti urbani e le condizioni ambientali, la topografia sociale ecc.
Sono questi gli elementi caratterizzanti del discorso, che all’apparente scorrevolezza narrativa sottintende un preciso e robusto impianto sistematico, di modo che al dato informativo corrisponda sempre la sua collocazione in un contesto più ampio e definito, il suo raccordo con fatti ed eventi di portata e dimensioni più generali.
Si veda, ad esempio, la situazione della struttura sociale di Napoli nei primi anni del secolo XVII (corredata da una opportuna tabella di agile lettura), la sua incidenza sulle aree di nuovo sviluppo urbanistico, quale la zona di Chiaia e la configurazione delle attività commerciali, assai rilevanti in rapporto all’ampiezza demografica, ma scarsamente omogenee sotto il profilo economico, legate com’erano a forme di commercio prevalentemente precario (carbonai, venditori di ‘neve’ ecc.) e, ancor più indissolubilmente, alle esigenze dell’approvvigionamento cittadino. Ne emerge un quadro abbastanza variegato di occasioni lucrative, in cui le fi
gure del piccolo artigiano indi- pendente e del commerciante al dettaglio appaiono come le più diffuse ed esemplari, in assenza di un’autonoma vitalità dell’economia, carente di elementi realmente produttivi piuttosto che di quelli parassitari e non in grado di garantire un vero e proprio decollo del settore.
Le pagine dedicate alla capitale, nel fitto intreccio di interessi politici, economici, culturali che la caratterizzano, offrono una chiave di lettura più estesa e attendibile del ruolo da essa esercitato nel corso della storia del Mezzogiorno.
L’opera ci sembra stimolante e aggiornata anche dal punto di vista metodologico, che in questo caso non dà spazio a nuove voci e protagonismi, ma piuttosto si giova dell’intelligente riformulazione del dato storiografico mediante l’utilizzo di alcuni tra gli strumenti di indagine e di analisi di più recente acquisizione per lo storico. Ciò è rilevabile ad esempio nei capitoli conclusivi, dove tra l’altro l’autrice fa esplicito riferimento a fattori profondamente incidenti sulla realtà napoletana, dall’economia del vicolo allo schema interpretativo di Gemein- schaft (comunità) e Gesellschaft (società) mutuato da P. Allum (Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Torino, Einaudi, 1979) e da F. Tònnies (Comunità e società, Milano, Comunità, 1979) e dove si avvale degli apporti ormai consolidati di scienze affini quali la sociologia, l’antropologia ecc.
Un ultimo ma non secondario punto di riferimento per la valutazione in positivo di questo lavoro riguarda infine il rilievo tutto particolare attribuito al
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l’evento catastrofico, che tanta parte ha nella storia di Napoli, oggi come ieri: la peste del 1656, la carestia del 1764, il colera del 1836-37 e ancora del 1884 non rispondono alla logica di un attualismo a tutti i costi, bensì costituiscono il neccessario spunto di riflessione su uno degli elementi più emblematici e peculiari del caso Napoli, dove troppo spesso le variabili della storia, nella persistenza di malesseri endemici e di inadeguate risposte, assumono le dimensioni di fenomeni di lunga, lunghissima durata.
Mirella Colpo
R o s a A n n a G e n o v e s e , Archeologia industriale in Campania alla fine del X IX secolo, in “Restauro” luglio-dicembre 1982, n. 61, 62, 63.
Dopo la sociologia, l’antropologia, la statistica, l’urbanistica un’altra scienza — ultima solo per data di nascita ma non certo per il suo valore (intrinseco ed estrinseco) — viene recuperata al patrimonio culturale per comprendere, nei suoi molteplici aspetti, la storia di un popolo, di uno Stato, di una regione, di una città, l’archeologia industriale.
Negli anni sessanta del nostro secolo Inghilterra, Svezia, Francia, Germania si sono preoccupate di individuare gli antichi insediamenti industriali e, dove è stato possibile, destinarli a usi sociali preservandone tuttavia le caratteristiche significative per il loro valore storico. Il discorso è stato obiettivamente più difficile da affrontarsi per l’Italia; infatti, solo nel 1978 è stata fon
data l’Associazione italiana per l’archeologia industriale e allo stesso periodo risale l’interesse per la nuova scienza di riviste come “Restauro” , “Ricerche di storia dell’Arte” mentre un periodico specifico, “Archeologia industriale” , è stato fondato solo nel 1983.
Studi teorici fanno comprendere che una ricerca di archeologia industriale sull’Italia preunitaria deve limitarsi agli ambienti regionali, o comunque ristretti, perché la diversità dei governi, il differente sviluppo socioeconomico, una topografia non omogenea ostacolano quella visione d ’insieme, che è possibile — e anche allora con molte difficoltà — solo dopo l’Unità.
È questo uno dei tanti aspetti evidenziati in questi saggi con l’intento di recuperare “la conoscenza storica e materiale dell’oggetto della conservazione” di un patrimonio industriale di cui è possibile ritrovare le tracce, nonostante le alterazioni che esso ha subito, a partire dalla metà del XIX secolo. Un’alterazione o trasformazione che si è curata poco di conservare agli immobili almeno le loro caratteristiche originarie, cosa pure possibile se pensiamo alla riutilizzazione che, per esempio, in Inghilterra è stata fatta di tutta la zona marittima dei docks, zona che rimane ancora oggi a testimoniare un passato industriale di rilievo nella vita del Regno Unito.
Il discorso sull’Inghilterra non è casuale, non solo perché patria della rivoluzione industriale, ma perché dimostra come un governo possa, se vuole, restituire alla città, alla regione, un patrimonio inalienabile, anche se modificato e destinato a
tutt’altra attività. In Italia questo è avvenuto molto di rado, nel Mezzogiorno mai; ma alla Genovese non interessa, almeno per ora, battere questo tasto, ma una polemica latente sembra sottesa a tutto il suo discorso.
Il problema che invece si pone prioritariamente è l’individuazione delle attività industriali in Campania e la collocazione delle fabbriche sul territorio regionale. Ciò rende indispensabile una riflessione, sia pure rapidissima, ma non superficiale, sulla storia dell’industria in Europa e sui condizionamenti posti al suo sviluppo dell’ambiente rurale, dalla topografia dei luoghi, dalla presenza di vie di comunicazione marittime, fluviali, terrestri.
La stessa linea metodologica è seguita in un rapido excursus sullo sviluppo che l’industria ha avuto in Campania dall’arrivo a Napoli di Carlo di Borbone alla disfatta di Francesco I e poi all’Unità, e alla fine del secolo.
Si pone l’accento sul carattere prettamente agricolo della vita economica del Regno delle Due Sicilie e sulla presenza di un’attività manifatturiera di scarsa entità, volta alla confezione di cordami, cappelli, porcellane, quei manufatti, cioè che l’autrice raggruppa sotto l’etichetta di ‘industria minore’.
Solo con il governo di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat prima e di Ferdinando II di Borbone poi, sembra che il Regno abbia accettato la ‘sfida industriale’ e il governo abbia scelto una politica conseguente, basata sul protezionismo di gruppi monopolistici, finanziati dal capitale straniero, soprattutto inglese e svizzero. Ciò rende comprensibile il perché di tanti
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insediamenti industriali stranieri, che occupavano un considerevole numero di operai, dislocati principalmente nell’Avelli- nese-Beneventano, nel circondario di Salerno e sulla direttrice Napoli-Salerno-Sora, le tre zone in cui più agevoli erano i trasporti, effettuati soprattutto per via marittima o fluviale data la scarsità o la mancanza di vie terrestri praticabili. Sono databili a quel periodo le prime industrie metallurgiche, ferroviarie, lo sfruttamento delle acque termali, la trasformazione dell’industria alimentare, spesso preesistente, l’insediamento di fabbriche d’armi. Vengono individuati quindi dodici tipi di industria: da quella pesante a quelle minori.
L’Unità non ha alterato il quadro industriale campano, ma ha messo in evidenza, il divario fra un Nord già fortemente industrializzato e un Sud che ne costituisce il suo più vicino mercato. Di ciò si rende conto il governo Nitti e il fenomeno viene evidenziato dall’inchiesta Sa- redo, ma il tentativo di risolvere il problema risultò del tutto inadeguato: non bastava infatti un blando protezionismo a far decollare l’industria meridionale; così, nel 1904, la situazione si presenta identica a quella di quarant’anni prima.
Il saggio offre una panoramica sul patrimonio industriale esistente in Campania alla fine del XIX secolo, un patrimonio la cui entità è illustrata in una serie di tabelle di utile e facile consultazione. E proprio in questo va, a mio avviso, ravvisato il primo pregio di questo lavoro — ma pregevole è certamente lo sforzo profuso nel ricavare tutti i dati di cui è ricco il saggio —; il se
condo è costituito dalla considerevole bibliografia che è parte integrante del testo, divisa per argomento, e ognuno di questi per area geografica: Europa, Italia, Mezzogiorno d’Italia, in modo da rendere agevole la consultazione; il terzo — e certamente non ultimo — pregio va individuato nel fatto che il lavoro risponde in modo appropriato alle esigenze di chi voglia affrontare un impegno di ricerca non solo sull’industria campana, ma relativo alla storia urbana o regionale di cui la dimensione industriale non può essere ignorata per l’incidenza che essa ha avuto nel XIX e nel XX secolo sugli aspetti sociali, economici, politici e culturali e che proprio l’archeologia industriale cerca di restituirci.
Gianfranco De Simone
G i u s e p p e C a p o b i a n c o , Le tendenze del primo socialismo in Terra di Lavoro (1900-1925). Antonio Indaco e il sindacalismo rivoluzionario, Giugliano, Cooperativa Editrice Sintesi, 1983, pp. 127, lire 10.000.
Il primo socialismo in Campania si richiamava, prevalentemente, alle posizioni del sindacalismo rivoluzionario e su quest’ultimo è calata una vera e propria congiura del silenzio, quasi una rimozione, di quel complesso di esperienze e di lotte dal generale patrimonio del socialismo.
In realtà, secondo Capobianco, le ragioni di ciò vanno cercate in una sovrapposizione del giudizio politico al giudizio storico; infatti le massicce campagne denigratrici della Seconda e
della Terza Internazionale hanno fatto terra bruciata, riuscendo ancora oggi a frenare la ricerca storiografica.
La biografia di Antonio Indaco ben si presta all’intento dell’autore di smuovere l’indifferenza degli studiosi per questa intensa stagione di fondazione per il movimento socialista del Meridione.
L’autore attraverso un’accorta lettura dei giornali socialisti e sindacali a cui Indaco collabora- va, ma anche delle fonti di archivio, fa intravedere la realtà politica italiana dell’età giolit- tiana e del primo dopoguerra, da un’angolatura ben diversa e significativa. Infatti, da una provincia meridionale appena sotto il Garigliano, l’Italia moderatamente liberale di Giolitti appare ben meno liberale di quanto ci saremmo potuto aspettare.
Viene piuttosto in mente il clima politico di fine secolo, con l’apparato dello Stato tutto schierato a difesa della borghesia, sospettoso e ostile verso le classi subalterne.
Franco Barbagallo, nella prefazione, mette in evidenza la relazione tra questa situazione e l’influenza del sindacalismo rivoluzionario in Campania e in Puglia; non deve quindi meravigliare la scarsa attenzione dei socialisti meridionali per i problemi dello Stato.
Inoltre in Terra di Lavoro alTinizio del secolo, le principali attività industriali (dell’arte bianca, della carta e tessili) apparivano in netto declino tecnologico e di mercato e ciò non restò senza conseguenze sulla mentalità e le strutture del nascente movimento operaio.
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Certe vicende del socialismo e del movimento sindacale campano ben traspaiono dalla biografia di Antonio Indaco. Una rara figura di dirigente politico e sindacale in cui si ritrovano tratti comuni a tanti socialisti dell’epoca: l’estrazione sociale, la professione di avvocato, ma anche l’attività instancabile e disinteressata, una discreta intelligenza politica, un’attenta percezione della lotta di classe in atto, una scelta di vita a favore del proletariato, a dir poco, eroica per le condizioni di isolamento, di incomprensione, di persecuzione cui si andava incontro nello stesso ambiente familiare: è ancora un ragazzo e in prefettura c’è una scheda che lo dà per sovversivo, sfaccendato, figlio ingrato.
Nel suo linguaggio c’è sempre un po’ di quella retorica misticheggiante, massonica-ri- sorgimentale, del socialismo di allora, ma l’influenza del sindacalismo sulla sulla formazione gli farà privilegiare, per la lotta di classe, il terreno dei rapporti di produzione, e ne farà uno dei più convinti e riuscito organizzatore di cooperative e di leghe operaie. Non per questo, però, il suo impegno nel partito socialista fu meno costruttivo ed efficace nel dopoguerra, quando le scissioni si aggravarono — e nella sua provincia risultavano piuttosto frutto di personalismi e manovre elettorali — Indaco si dichiarò di tendenza unitaria.
Tuttavia egli non coglie il ruolo dello Stato e non sa valutare il pericolo del fenomeno fascista, perché è un convinto sostenitore dell’inutilità delle
rivoluzioni violente, esclusiva- mente politiche, opera di una minoranza. La vera rivoluzione poteva essere fatta dalle masse lavoratrici una volta che10 scontro di classe fosse stato sviluppato sul piano economico attraverso l’attività sindacale e lo sciopero generale.
Lucidamente, già nel 1920, criticava il velleitarismo rivoluzionario che su tutte le piazze predicava — senza poi mai praticarla o prepararla — la conquista violenta del potere. Indaco accusa questo socialismo parolaio di avere inutilmente spaventato la borghesia, costringendola alla reazione armata; una borghesia che egli, come tanta parte della sinistra italiana, erroneamente credeva allo stremo e rassegnata, perché uscita indebolita dalla guerra.
Questo grave e diffuso errore di valutazione evidenzia la scarsa conoscenza dei nuovi rapporti che si erano instaurati tra lo Stato e l’economia.
Verrebbe da porsi ulteriori domande: per esempio, qual è11 retroterra culturale di questi socialisti? In che rapporto stanno con le tendenze più vive della cultura del primo Novecento?
Ma il taglio biografico scelto dall’autore elude questi interrogativi.
Biagio Passaro
F u l v i o M a z z a , M a r i a T o l o
n e , Fausto Gullo, Cosenza, Pellegrino Editore, 1982, pp. 236, lire 15.000.
Due giovani studiosi calabresi, vivaci e impegnati, ci hanno dato questa intensa biografia
politica, non agiografica né ‘localistica’ di Fausto Gullo, il ‘ministro dei contadini’ negli anni dell’immediato dopoguerra, figura di spicco in quell’esperienza di governo che vide i comunisti, e la sinistra, dentro ai sommovimenti e alle tensioni della società civile da un lato, e i difficili equilibri del potere politico dall’altro.
Se poco spazio è dedicato nel libro al Gullo uomo, avvocato ed egli stesso proprietario terriero, assai nitida risulta invece la ricostruzione del ‘percorso’ del militante comunista e dell’esponente politico. La provenienza socialista, l’adesione al bordighismo e l’appartenenza all’area della sinistra radicale fino alla ‘messa in riga’ da parte degli ordinovisti, riemergono costantemente e scandiscono il dissenso di Gullo, la sua avversione, nei confronti dei passaggi salienti della evoluzione della linea del Pei dal dopoguerra e fino al compromesso storico. Così le sue prese di posizione in occasione del rapporto Kruscev, dell’invasione dell’Ungheria, o rispetto ai rapporti con i cattolici, all’analisi e all’interpretazione del rapporto Nord-Sud, del centro sinistra, e ancora di fronte alla tentata conquista del Quirinale da parte di Fan- fani, nonché nelle battaglie garantiste e libertarie tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta, costituiscono altrettante circostanze in cui egli si schiera contro le posizioni ufficiali del partito in una denuncia fervida dei cedimenti e degli opportunismi. E se può addirittura apparire ovvio che per questa strada si giunga alfine all’emarginazione e alla li
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quidazione politica dello scomodo personaggio, eppure è proprio questa irriducibilità, questo radicalismo che intende e tende a farsi progetto, la cifra probabilmente più autentica e significativa anche del Gullo investito di responsabilità politiche pubbliche ai più alti livelli. Tra il 1944 ed il 1947 egli lega il suo nome a una serie di provvedimenti — i decreti che da lui prendono appunto nome — destinati a incidere profondamente nella realtà sociale ed economica calabrese: interventi ministeriali dall’alto e lotte per la terra conoscono, con modalità e sequenze destinate a non più ripetersi, un intreccio e una compenetrazione singolari ed efficaci, esempio e prefigurazione di una ‘mediazione’ tra periferia e centro, tra spinta oppositiva e governo, cultura della lotta e ragione politica, che opera nel senso di un rapporto almeno non antagonista, se non facilitante, tra masse e potere.
Bene pertanto hanno fatto Mazza e Tolone a illuminare con particolare evidenza tutto ciò, a ricordare e rievocare l’impegno strenuo di Gullo sul piano pratico, non meno della sua lucidità nelle analisi. E, alla luce di quel che si è visto poi, si può forse dissentire dal suo convincimento ripetutamente espresso, che il Mezzogiorno non di stanziamenti assistenziali avesse bisogno, bensì di “una classe politica intenzionata a rovesciare i rapporti di classe e dunque a modificare i motivi ispiratori su cui informare un programma di ristrutturazione socio-economica e politica generale”? O anche che l’intera società nazionale potesse rinnovarsi solo attraverso una serie di riforme che “si
concretizzano nel quadro di nuove strutture istituzionali orientate al perseguimento degli interessi delle classi popolari e quindi della stragrande maggioranza della collettività”?
Un messaggio del genere resta a nostro avviso del tutto attuale ed emblematica, pertanto, la figura del suo propugnatore, campione di un ceto politico locale su cui è più che mai urgente fare convergere, in maniera sistematica, studi e riflessioni in una prospettiva scientifica e politica di più ampio respiro.
Guido D’Agostino
M i c h e l e M a n c i n o , Lotte contadine in Basilicata, prefazione di Tommaso Pedio, Casalvelino Scalo, Galzerano, 1983, pp. 285, lire 12.000.
Utile contributo alla comprensione delle vicende delle lotte contadine degli anni quaranta e al ruolo del Pei, questo volume di un dirigente dei braccianti della Basilicata, e bracciante egli stesso, a metà strada tra la memorialistica storica e il genere ormai sperimentato dell’autobiografia comunista. Il libro — in cui ogni cenno autobiografico rimanda a un più generale contesto — prende le mosse dal maggio 1928, col trasferimento dell’autore dal carcere di Regina Coeli al carcere di Perugia e si snoda fino al grande sciopero bracciantile del febbraio 1946. Della vicenda carceraria sono ricordate soprattutto la straordinaria Università — diretta, a Viterbo, da Emilio Sereni e Velio Spano — e l’intenso dibattito fra i comunisti sull’espulsione di Trockij dal Pcus.
Ma il nucleo decisivo attorno a cui ruota il libro, sono le vicende dell’organizzazione del partito e delle lotte agrarie a Potenza e in provincia a partire dal settembre 1943. Qui a parlare è il fondatore del Pei in Basilicata e, allo stesso tempo, l’organizzatore del movimento nelle campagne. Un ampio flash-back narra delle prime vicende del Pei con Mancino che, nel 1924, costituisce — d’accordo con Bor- diga — la federazione comunista lucana a Genzano, federazione che nel 1927 avrebbe avuto nove iscritti.
Poi, finalmente, la liberazione del Sud, che apre nuove e straordinarie possibilità di cambiamento. E rincontro con Togliatti — che a Salerno guida la ricostruzione del partito e ne detta la linea — del 2 maggio 1944: rivivono nella descrizione di Mancino secoli di miseria e di oppressione contadina, mentre Togliatti, attento, ascoltava e prendeva appunti. Infine, il 21 maggio, il congresso costitutivo del Pei a Potenza.
E poi ad Acerenza, a Melfi, a Logonegro, a Venosa per costruire le cooperative agricole e organizzare i contadini in attesa che i decreti Gullo (luglio 1944) dessero un indirizzo all’antica fame di terra delle popolazioni del Meridione, e l’attività frenetica e le discussioni con i compagni e i contadini e i tentativi di mediocri quadri intellettuali di estrazione medio borghese di impossessarsi del partito.
E ancora un incontro con Togliatti nel settembre 1944 e con Giuseppe Di Vittorio e Ruggero Grieco (che Mancino conosceva dalla conferenza meridionale del Pei del settembre 1926) e la ricerca della soluzione del com-
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plesso problema di come legare l’iniziativa del partito ai nuovi orientamenti delle masse decise a metter fine con la lotta al regime del latifondo, fra i problemi dell’ammasso del grano e i labirinti giuridici dei decreti sulle terre incolte e dei contratti agrari.
Francesco M. Biscione
P i n o A r l a c c h i , La mafia imprenditrice. L ’etica mafioso e lo spirito del capitalismo, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 247, lire 8.000.
Gli studi di Pino Arlacchi sul sistema di potere della mafia sono da diversi anni fra i contributi più rilevanti per lo studio del fenomeno e costituiscono anche il punto più alto della consapevolezza civile e democratica, tanto da essere stati utilizzati come base analitico-categoriale anche nella formulazione della legge La Torre.
Quest’ultimo volume, brillante e ampiamente documentato e che lascia intravedere un approfondimento per approssimazioni successive sempre più organico, si pone come prima sintesi sia del lavoro del dipartimento di sociologia dell’università di Cosenza che di un più vasto insieme di ricerche recenti e tende a ricostruire — utilizzando le categorie della sociologia classica weberiana e schumpeteriana — il quadro di riferimento della più recente fase dello sviluppo del potere mafioso, quello che viene appunto definito della mafia imprenditrice.
L’idea centrale attorno alla quale ruota il saggio è che ra s setto tradizionale del potere del
la mafia (basato, per intenderci, sul senso dell’onore e sulla funzione di mediazione sociale), dopo un periodo di latenza negli anni Cinquanta e Sessanta, si è ristabilito su basi notevolmente diverse, accentrate attorno a un modello di imprenditorialità che, seppur dotato di caratteristiche peculiari, ricalca sostanzialmente lo schema classico deH’imprenditoria disegnato da Joseph Schumpeter (Capitalismo, socialismo, democrazia, Milano, Comunità, 1973).
Lo sviluppo economico, l’aumento della ricchezza e il declino dei valori sociali tradizionali, nel dopoguerra, vennero a determinare una crisi di legittimità del potere mafioso tradizionale alla quale questo rispose con una “stupefacente mutazione culturale” consistente, in estrema sintesi, nel collegamento di attività illecite (il gigantesco business del traffico dell’eroina, ad esempio) con attività industriali, segnate anch’esse da un particolare ‘stile’ imprenditoriale in cui — secondo Arlacchi — l’uso della violenza viene ad essere un elemento per alcuni versi innovativo (schumpeteriano); lo scoraggiamento della concorrenza, la compressione salariale e la grande disponibilità di risorse finanziarie vengono così ad alimentare una nuova fase del potere mafioso, modificando radicalmente il rapporto tradizionale tra mafia e capitale e tra mafia, poteri locali e Stato. “Il rapporto tra grande impresa e mafia si instaura negli anni settanta su un piano produttivo piuttosto che estorsivo” e “il sovrapprezzo pagato dallo Stato costituisce una rendita di posizione usufruita (...) sia da gruppi mafiosi che da grandi imprese” (p. 127).
L’enorme ricchezza del potere mafioso ha determinato altresì — fatto nuovo rispetto alla tradizione — una sua elevata ‘autonomia politica’ e un’integrazione non subalterna negli apparati dello Stato. Alla base di questa integrazione vi è l’alleanza con la grande impresa legata agli appalti pubblici e quella “tra i gruppi mafiosi finanziariamente più forti e alcuni settori del capitale finanziario nazionale e intemazionale” (p. 196). Ne deriva una nuova e smisurata capacità espansiva del sistema di potere della mafia e una sua integrazione quasi indifferenziata nel meccanismo economico-politico statuale.
Se la ricostruzione che Arlacchi fa del potere mafioso è complessivamente convincente, essa pone alcuni interrogativi ancora inevasi che, oltre ad aprire nuovi ambiti di ricerca sul tema, costituiscono un banco di prova decisivo per lo stesso futuro della Repubblica: quale frazione costituisce ad esempio, il capitale mafioso rispetto all’insieme dell’attività economica nazionale? Fino a che punto è possibile rinvenire, oggi, uno spartiacque tra capitalismo mafioso e capitalismo ‘sano’? Quanto deve la diminuita capacità rappresentativa degli enti locali su tutto il territorio nazionale all’estender- si deH’imprenditoria mafiosa? È ancora corretto considerare le zone tradizionalmente mafiose (Calabria meridionale e Sicilia orientale) come base del consenso di massa al sistema di potere della mafia o non si deve piuttosto ricercare attraverso quali canali e nuove strutture passa l’allargamento di detto potere? E ancora, in che misura il problema del capitale mafioso riguar
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da prevalentemente il Mezzogiorno e non, invece, l’intera nazione e lo Stato? Fino a che punto — se si tratta anche di trasformare e non solo di comprendere — la soluzione del problema della mafia è una questione di polizia e non implica piuttosto una rivoluzione democratica? E infine, quali strategie per battere la mafia?
Francesco M. Biscione
Cultura
Editori a Firenze nel secondo Ottocento, Atti del convegno (13-15 dicembre 1981). Gabinetto scientifico letterario G.P. Vieussieux, a cura di Ilaria Por- ciani, prefazione di Giovanni Spadolini, Firenze, Olschki, 1983, pp. XIV-522, sip.
Conclusa la stagione d’oro dell’editoria ‘politica’, legata alla temperie risorgimentale e all’attrazione esercitata dalla ‘liberale’ Firenze granducale su intellettuali e tipografi anche stranieri, le case editrici fiorentine, nel decennio successivo all’Unità, sembrano appagarsi del godimento di una rendita di posizione considerata inesauribile. Manca il coraggio di lanciare scrittori e generi nuovi, prevale una logica angustamente commerciale che fa perno sui profitti sicuri delle edizioni scolastiche e sovvenzionate. Un radicato sentimento di superiorità, offeso dall’altrui impudente intraprendenza, detta le querimonie sulla spudoratezza degli editori torinesi che, approfittando del vantaggio di operare nella capitale, si accaparrano il mercato scolastico elementare nazionale
con una produzione fabbricata ‘a vapore’ ma anche tempestivamente adeguata alle mutevoli direttive ministeriali.
Il ritiro dell’immigrato francese Le Monnier sembra preludere alla fine di un’epoca, a cui succede il grigiore di un gruppo di notabili esponenti del moderatismo fiorentino, alla cui ‘politica editoriale’ è dedicato un informato e acuto saggio di Cosimo Ceccuti. Non molto dopo scompariva dalla scena anche l’altro grande protagonista dell’editoria risorgimentale, Ga- spero Barbèra (di cui traccia un efficace profilo Cesare Vasoli), malamente sostituito dai figli, scarsamente provvisti delle doti di carattere paterne. Con gli eredi di Barbèra si affacci anche il malevezzo, tipico di una editoria a corto di idee, di imitare i confratelli più intraprendenti e di inserirsi negli spazi proficuamente sfruttati dai centri nazionali più modernamente attrezzati. La collana delle “Opere di amena lettura” , che avrebbe dovuto sostituire la “Collezione Diamante” , in progressivo esaurimento dopo la defezione di Carducci (come c’informa Gino Teliini), si rivela ben presto un esperimento avventuroso e finanziariamente fallimentare.
La vocazione degli editori fiorentini è sempre orientata verso i profitti sicuri dello scolastico (di cui si occupa in particolare Marino Raicich con la consueta competenza ma forse, qui, anche con una punta d ’indulgenza verso la città di adozione) e finalmente il trasferimento della capitale nel 1865 ribalta la situazione di privilegio dei torinesi e consente la rivincita sui disprezzati concorrenti subalpini, che si vedono strappare il primato del
mercato più esteso e redditizio, quello dei testi per le scuole elementari e delle letture educative. Ancora una volta, però, la congiuntura favorevole non viene adeguatamente sfruttata, perché l’editoria scolastica fiorentina non coglie l’occasione per rinnovarsi e attrezzarsi: confida esclusivamente nella collaudata tradizione pedagogica dei Lam- bruschini e dei Thouar e si limita a esorcizzare i problemi del momento opponendo alle nuvole minacciose addensate dalla Comune di Parigi la pervicace fede nelle solide virtù contadine, fra cui primeggia il risparmio, oculatamente, e disinteressatamente amministrato da banchieri filantropi. Così finisce malinconicamente negli anni ottanta per perdere il primato.
Emerge tuttavia nello stesso tempo un editore nuovo, avvertito estimatore dell’importanza di collegarsi con il mondo accademico e intenzionato a rinverdire il tradizionale culto dei classici e la loro funzione formativa. Egli affida la direzione della sua “Biblioteca scolastica dei classici italiani” a Giosuè Carducci, che ne fa il campo di applicazione di un metodo caratterizzato dalla continuità del filone umanistico, in contrapposizione con l’arcigna filologia torinese. La “Carducciana” (a cui è dedicato un appassionato saggio di Sergio Romagnoli) continuerà a lungo a rappresentare un punto di riferimento per la formazione dei docenti e per la scuola in generale, guadagnandosi una fama meritata (tanto da rendere possibile una riproposta abbastanza recente) per la affidabilità dei testi e la ricchezza delle note linguistiche che la inseriscono in un filone vitale della
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cultura fiorentina che conta personalità come Vitelli, Compa- retti, Barbi e Pasquali.
Tuttavia, nonostante la dinamica presenza di Sansoni e l’immutato prestigio culturale di una città che aspira a fregiarsi del titolo di Atene d’Italia, persiste l’incapacità di esprimere un’imprenditorialità editoriale meno diffidente verso il nuovo, soprattutto nel campo scientifico (come dimostra il saggio di Giovanni Landucci) e svincolata dalla tradizione del moderatismo cattolico pressoché imperante nel settore pedagogico e divulgativo.
Perfino un editore ‘popolare’ come Salani, a cui è dedicata la relazione di Emilio Faccioli (che integra una rassegna di Enrico Ghidetti sulla fortuna fiorentina del genere ‘misteri’), esordisce su posizioni apertamente san fediste, per orientarsi in seguito nella direzione di una “profittevole ambiguità ideologica” , volta si direbbe, ad adeguarsi più ai gusti della piccola borghesia e del pubblico femminile, anche nella veste tipografica, che non al mondo popolare. Manca in questo convegno un saggio dedicato all’altro grande editore ‘popolare’, Nerbini, ricordato solo incidentalmente, ed è un’esclusione inesplicabile, dal momento che si è trovato lo spazio per occuparsi ampiamente del versante opposto dell’editoria fiorentina rivolto verso il circuito internazionale dei bibliofili, esemplarmente rappresentato da Olschki (su cui scrive Cristina Tagliaferri), attivo a Firenze a partire dall’ultimo scorcio del secolo scorso, proprio come Nerbini. Lo stupore cresce con la constatazione che i promotori avevano sottomano un esper
to dell’argomento, Gianfranco Tortorelli, uno dei curatori della mostra allestita in concomitanza con il convegno, autore di un articolo sull’editore fiorentino pubblicato nel numero monografico di “Movimento operaio e socialista” (Cultura e editoria socialista, 1980, nn. 2-3).
La crisi degli anni ottanta, lucidamente illustrata soprattutto nei saggi di Cosimo Cec- cuti e di Marino Raicich già citati, si trascina sino alla fine del secolo, collegata verosimilmente con il divorzio fra cultura e industria tipico della società fiorentina. Successivamente i grossi editori cittadini, imitando in questo i loro confratelli settentrionali, rifiutano di farsi portavoce degli irrequieti esponenti fiorentini della cultura del primo Novecento, che si trasformano perciò in operatori a ciclo completo collegando senza intermediar produzione e consumo culturale.
È questo, insieme all’esordio dell’editore Vallecchi, l’ultimo argomento trattato nel convegno. Se ne occupano Giorgio Luti, in forma di introduzione, e, più dettagliatamente, Carlo Simonetti, che ha attinto a quella ricchissima fonte per la storia del Novecento letterario che è costituita dall’Archivio Papini, conservato presso la Fondazione Primo Conti di Fiesole. Ancora una volta, come nel Risorgimento, l’editoria fiorentina trovava uno spazio peculiare in cui imporsi aderendo all’attualità attraverso l’aggiornamento di una nobile tradizione artigiana, esemplarmente incarnata dalla personalità di Attilio Vallecchi, e il rilancio di una funzione della letteratura, che, secondo la classificazione proposta da Gio
vanni Ragone nel secondo volume della Letteratura italiana diretta da Asor Rosa (Torino, Einaudi, 1983, pp. 687, sgg.), potremmo chiamare di ‘riconoscimento’. Infatti la nuova casa editrice inaugurava la sua produzione pubblicando le memorie della grande guerra (di Soffici, Michele Campana, Falchi e Nicastro) e continuava in seguito, finché durò la sua stagione migliore, a fregiarsi del vanto di una ‘italianità’ perseguita attraverso la consacrazione e la scoperta di talenti letterari nostrani.
Con questa stimolante incursione al di là del confine cronologico ottocentesco si concludono gli atti di un convegno che ha offerto una apprezzabile ricchezza di prospettive, lasciando a desiderare solo per quanto concerne l’aspetto economico e organizzativo dell’editoria. Chiudono, invece, il volume tre saggi, preceduti da un’introduzione, firmata collettivamente, dei tre curatori della mostra già ricordata e del relativo catalogo (Luigi Mascilli Migliorini, Ilaria Porciani e Gianfranco Tortorelli).
Agli autori dei contributi che sono stati citati nel corso della recensione, semplicemente seguendo il filo di un discorso, vanno aggiunti per completezza, ultimi ma non minori: Luigi Firpo, che si è assunto il compito di fornire un raccordo con il rinnovamento dell’editoria italiana nella prima metà dell’Ottocento, Rosaria Di Loreto D’Alfonso, che illustra le carte Barbèra conservate presso la Biblioteca nazionale di Firenze, Dario Frezza, con una relazione sul self-helpismo e paternalismo dello stesso Barbèra,
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Ferdinando Tempesti sull’arte della illustrazione e Antonio La Penna sul contributo degli editori fiorentini alla diffusione della cultura classica.
Enzo Ronconi
S i m o n a G i u s t i , Una casa editrice negli anni del fascismo. La Nuova Italia (1926-1943), Firenze, Olschki, 1983, pp. 219, lire 20 . 000 .
Sulle nuove tendenze della storia dell’editoria italiana e sui più recenti contributi che negli ultimi anni sono diventati più cospicui e interessanti, converrà tornare in modo più ampio in altra sede, ma è doveroso segnalare che il volume della Giusti non giunge inatteso e anzi si colloca in un panorama di studi in cui, anche se ancora mancano molti tasselli, si possono intravedere i primi consistenti contorni di questa affascinante storia.
Merito della Giusti è, a nostro avviso, non solo quello di averci dato in cinque densi capitoli la storia di una delle più importanti case editrici italiane, seguendo il percorso accidentato, ma di non aver smarrito il giusto equilibrio tra “una visione puramente ‘tecnica’ del percorso editoriale” , che ancora di recente ha eccessivamente pesato su alcuni studi dedicati all’editoria fiorentina (cfr. ad esempio C. Simo- netti, L ’editoria fiorentina dal 1920 al 1940. Proposte per una ricerca, in “Ricerche storiche” , 1982; e l’introduzione del Simo- netti a Le edizioni della “Voce”, Firenze, La Nuova Italia, 1981), e i contenuti dell’attività editoriale in anni in cui “il fattore
culturale appare ancora prevalente rispetto all’industriale e dove i mezzi e i metodi di produzione sono più limitati e comunque diversi da quelli che caratterizzano il settore nel dopoguerra” (p. 5). Se la Giusti non tralascia di seguire i primi passi della casa editrice e gli aiuti dell’Ente nazionale di cultura di Firenze, analizzati con particolare attenzione nel secondo capitolo, riesce anche a inquadrarli in un movimento più vasto che ha come centro l’analisi delle collane, la forza della personalità di molti collaboratori, l’ampliarsi dal 1940 degli interessi e delle iniziative editoriali. Ne risulta cosi chiarita fin dalle prime battute l’importanza che negli anni trenta ebbe l’idealismo gentilia- no e la presenza costante della lezione del filosofo non solo sulla formazione di alcuni collaboratori più giovani, ma su tutta l’impostazione dell’attività editoriale. Luigi Russo parla, in una lettera inviata a Gentile, “dell’indirizzo di severa cultura” de la Nuova Italia e della volontà della casa editrice fiorentina di caratterizzarsi fin dai suoi esordi attraverso un programma di ampi studi che avrebbero trovato la loro collocazione nelle collane “Storici antichi e moderni” e “Maestri d ’azione” nonché nel proporre, quasi a stabilire già il divario tra le dimensioni artigianali e la consistenza del programma, nel 1928 l’opera completa, poi realizzata da Treves, di Giovanni Gentile.
Del resto l’importanza della cultura idealistica si fece via via più consistente con la pubblicazione degli scritti di Bertrando Spaventa e dell’importante lavoro di Russo su Francesco De
Sanctis e la cultura napoletana dove veniva rivendicato e difeso l’idealismo meridionale, unica matrice culturale per l’Italia unita, e soprattutto veniva messa in luce la funzione di educatore del pensatore napoletano. La lezione gentiliana trovò un appoggio decisivo e originale nella attenzione che Ernesto Codignola dedicherà ad alcune della tematiche preferite da Gentile. Se tuttavia è vero, come sostiene la Giusti, che il 1930 diventa nella biografia di Codignola un momento di svolta che si rifletterà su tutta la casa editrice fiorentina consentendole non solo di cimentarsi con la produzione di una editoria elitaria, ma facendosi distributrice e strumento qualificante dell’opera culturale svolta dall’Ente (p. 53), sarebbe stato anche giusto sottolineare come proprio dal 1930 Codignola ha la possibilità di battersi concretamente per le sue idee e spingere in avanti il rapporto che lo legava alle tematiche gen- tiliane soltanto in parte concretizzate durante la sua lunga collaborazione alla casa editrice Vallecchi (p. 65). La concezione della libertà e della religione, la polemica contro la scuola positivista entreranno nella elaborazione di Codignola allargandosi a una visione globale della cultura, quasi che egli presentisse gli attacchi che sarebbero stati portati da alcuni settori del partito fascista e della cultura cattolica. La difesa della laicità e il richiamo all’idealismo fu d’altra parte sostenuto sia da “Civiltà Moderna” , il cui lavoro proseguiva sulla scia di “Levana” ma in un contesto appesantito dal clima postconcordatario, sia da “La Nuova Italia” , la rivista diretta da Russo che riprendeva
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molti spunti dell’esaurito “Leonardo” . Se la partita contro gli ‘strapaesani’ e i ‘selvaggi’ fu aspra ma relativamente breve con il richiamo all’idealismo come elemento caratterizzante nella storia italiana del Novecento, ben più complessa fu la battaglia combattuta da “Civiltà Moderna” contro le posizioni neotomiste e contro tutte quelle ambiguità “quei cedimenti quelle confusioni concettuali che avevano portato molta acqua al mulino dei cattolici, ed avevano fatto confluire nelle loro schiere nomi noti del mondo filosofico italiano e non pochi tra positivisti e idealisti” (p. 83).
Sono questi tratti, oltre naturalmente alla presenza di nomi come Mondolfo, Petrini, Gaetano De Sanctis, a costituire un filo diretto con “La Nuova Italia” dove la presenza di Russo darà alla rivista un legame più profondo e duraturo con la casa editrice costituendo un’impronta del tutto personale per molte rubriche. Il richiamo al rigore scientifico e alla tradizione umanistica nonché il forte anticlericalismo che accomunava Russo a Omodeo e ad altri collaboratori divenne una nota costante nella rubrica Noterelle e schermaglie dove lo spirito polemico di Russo riprendeva con più insistenza il discorso culturale interrotto da “Leonardo” legando in modo personale, tanto da attirare le dure lamentele di Gentile, la parte scientifica della rivista alle pagine di informazione critica.
A questo proposito pensiamo che “La Nuova Italia” meriterebbe uno studio particolare non solo per documentare, come giustamente sottolinea la Giusti, lo stato d’animo di alcu
ni intellettuali italiani negli anni trenta “sospesi tra il rischio di un isolamento accademico e la difficoltà di svolgere opera di effettiva militanza culturale” (p. 118), ma anche per seguire gli sviluppi nel dopoguerra di alcune idee-forza che si coagularono ed ebbero come punto di riferimento intellettuali unici e irripetibili per carattere e percorso intellettuale.
Gli ultimi due capitoli del volume, dedicati all’analisi della collana “Educatori antichi e moderni” avviata nel 1926 e al decennio 1930-1940 “in cui la casa editrice lega il proprio nome ad una produzione di vasto respiro” , costituiscono quasi una riprova della ricerca della Giusti: il tentativo di verificare come molte delle idee e dei contatti sviluppati negli anni precedenti trovino in questo periodo la forza di caratterizzare la politica editoriale della casa editrice anche nel dopoguerra. Non v’è dubbio che nella collana “Educatori antichi e moderni” si rispecchiarono non solo le scelte di Codignola ma di tutto l’idealismo che affidava alla pedagogia un ruolo “non limitato ad una semplice ricostruzione di quanto a livello speculativo il pensiero moderno aveva elaborato sul piano pedagogico, ma tradotto in una ricerca di precedenti — talvolta di giustificazioni — ideologici e teorici per la pedagogia idealistica” (p. 128). I concetti di libertà, di autorità, il rapporto fra autonomia e legge saranno sempre al centro delle scelte degli autori pubblicati, si pensi a Rousseau, a Lambru- schini, “che appariva agli idealisti artefice di un tentativo di superamento dell’occasione ‘naturalistica’ di libertà in favore di
una sintesi dialettica tra autonomia e legge” (p. 129), ai Pensieri sull’educazione di Gino Capponi, agli scritti di Cuoco e Mazzini, ma soprattutto a figure come Froebel e Pestalozzi le cui dottrine si svilupparono “nel tirocinio didattico, nell’esperienza vissuta di maestro” (p. 132) costituendo un campo particolarmente presente nelle collane del secondo dopoguerra.
La volontà comunque di non rinchiudersi del dibattito culturale italiano e di ricercare nella cultura europea importanti punti di riferimento, costituì una costante de La Nuova Italia.
Nel 1930 iniziano i “Documenti di storia italiana” e dal 1932 vengono pubblicati i lavori di Fueter, Zeller, Rostevzev, Church, Cassire e Jaeger: alcuni autori che dimostrano l’impegno della casa editrice fiorentina nello scuotere il grigio panorama culturale italiano. È in questa ottica, opportunamente sottolineata dalla Giusti, che deve essere letto il dibattito intorno alla fortuna di Hegel in Italia e alla pubblicazione dei due volumi della Fenomenologia, delle Lezioni sulla filosofia dello Spirito e delle Lezioni sulla storia della filosofia che dimostrano ancora una volta come l’hegeli- smo in Italia non sia mai stato una manifestazione puramente accademica, ma si sia saldato a fasi e momenti particolari della nostra storia culturale (pp. 158- 159).
Il 1940 porta il lettore a ridosso di scelte che non saranno soltanto editoriali, ma vedranno tanti collaboratori impegnarsi sempre più attivamente nella lotta di resistenza al fascismo.
Gianfranco Tortorelli
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B r i g i t t e B . F i s c h e r , Ciò che la vita mi ha dato. Memorie di un editore europeo, Milano, Mursia, 1982, pp. 304, lire 20.000.
La pubblicazione di questo libro va accolta con interesse, perché consente di decifrare un tratto della storia dell’editoria e soprattutto di gettare uno sguardo a ciò che avveniva nel corso degli ultimi decenni in Germania.
Figlia del grande editore Samuel Fischer, Brigitte ha trascorso tutta la sua esistenza a stretto contatto con la vita della casa editrice, dapprima all’ombra del padre e della madre e in seguito, dal 1932, prendendo le stessa con il marito Gottfried Bermann le redini delle varie attività editoriali. Nel volume, tuttavia, Brigitte Fischer ha preferito far parlare più i suoi diari pieni di dediche, di poesie, di lettere dei più importanti collaboratori, che tracciare un bilancio puntuale della attività della casa editrice in Germania e della sua grande influenza su tutta la cultura europea. Anche i rapporti della Fischer con quest’ul- tima sono come velati dalla importanza dei protagonisti tanto che il lettore, a nostro avviso, anziché lasciarsi trasportare dal racconto, deve pazientemente cercare tra le righe le difficoltà che accompagnano i primi passi dell’autrice. La madre era il cuore della casa editrice e “la sua influenza, il suo fascino personale possono richiamare alla mente quelli delle donne celebri del periodo romantico, che costituirono per lei un esempio, un modello vivente” , ma allo stesso tempo “dedicava assai poco del suo tempo ai suoi figli” . Che crescessero bene “era per lei
qualcosa di naturale, di ovvio, su cui non era necessario spendere molti pensieri” , tanto non solo da non coltivare nella figlia alcuna particolare inclinazione, ma non prendendo neanche troppo sul serio i tentativi di Brigitte di seguire con più interesse, dopo aver compiuto corsi di grafica, alcuni settori della attività editoriale. Il padre, che aveva fondato la casa editrice alla fine dell’Ottocento fu per la figlia un esempio costante di ‘laboriosità’ non disgiunta da una esatta e realistica visione dei problemi. Nel quarantesimo anniversario della fondazione della casa editrice, Samuel Fischer seppe magistralmente coniugare i vari elementi che a suo avviso erano indispensabili per dare stabilità alla vita editoriale: la consapevolezza che la casa editrice “è un’azienda, un organismo economico come qualsiasi altro” e che dovesse basarsi su una schiera di collaboratori di grande prestigio. Se si scorre il volume di Brigitte Fischer si può constatare come i due elementi rimasero sempre dei punti fermi che consentirono l’allestimento delle opere complete dei più importanti scrittori tedeschi, aprendo allo stesso tempo alla casa editrice la possibilità di mediare con culture e storie diverse. Già nei primi anni di attività la Fischer traduceva opere di Tolstoj, Zola, Dostoevskij e dei fratelli Goncourt assicurandosi la collaborazione di Ibsen, che pubblicò in quasi tutte le sue opere.
Il vero e definitivo salto di qualità lo compì tuttavia a Vienna, dove “un tocco di grazia austriaca” doveva penetrare e conservarsi per sempre: a Bang, Nansen, Bjòrnson, Kejserling,
si affiancarono autori come Bah, Altenberg, Salten e soprattutto Arthur Schnitzler e Hugo von Hofmannsthal. Si può dire che tutta la grande cultura mitteleuropea si raccolse attorno a questa casa editrice formando un punto di riferimento di indiscutibile prestigio per una vasta schiera di scrittori più giovani come Joachim Mass, Joseph Roth. Ernst Toller, Erwin Pi- scator.
Thomas Mann, di cui la Fischer ha poi curato l’opera completa, rimase vicino alla casa editrice anche quando la catastrofe del nazismo di abbatté prima sulla Germania e poi sull’intera Europa costringendo l’editore a emigrare in Svezia, in Inghilterra e infine negli Stati Uniti, dove tuttavia pur tra innumerevoli difficoltà continuerà a tenere le fila tra gli autori perseguitati e a intrecciare nuove collaborazioni tra i più importanti scrittori americani.
Ma la casa, editrice berlinese non ha avuto soltanto questi meriti; nel secondo dopoguerra, una volta ritornata in Germania, ha cercato di ampliare il suo contatto con il pubblico introducendo nelle sue collane i tascabili e offrendo così alla divulgazione quel patrimonio immenso accumulato in tanti anni di solida attività editoriale.
Gianfranco Tortorelli
Cinquantanni di un editore. Le edizioni Einaudi negli anni 1933-1983, Torino, Einaudi, 1983, pp. 845, lire 10.000.
In questi ultimi anni gli studi sull’editoria o sulla storia della stampa hanno avuto un grande
sviluppo, in seguito a una vivace ripresa di interesse verso quella storia delle idee e della cultura tanto contestata un quindicennio fa. In questo filone si inseriscono sia i numerosi convegni sulle vicende dell’editoria in aree e periodi circoscritti, sia iniziative promozionali per presentare collane od opere di particolare prestigio, sia i numerosi cataloghi generali delle grandi case editrici, pubblicati con particolare frequenza negli ultimi due anni.
Il catalogo dell’editore Einaudi documenta un cinquantennio di attività attraverso un indice alfabetico degli autori e dei curatori delle singole opere, un elenco delle collane (con una brevissima anche troppo breve scheda illustrativa), un indice per argomenti e uno per titoli, con le indicazioni bibliografiche essenziali (curatori, prefatori, traduttori, eventuali illustrazioni, numero delle pagine, numero delle edizioni ecc.).
Nella prima parte il volume presenta una iconografia che illustra, attraverso una bella serie di fotografie, i momenti più significativi della casa editrice: dalle sue diverse sedi, ai documenti d’archivio, ai carteggi, alle copertine della varie collane, alle immagini dei collaboratori più noti. Brevi didascalie, non prive di trionfalismo, aiutano a ricostruire la storia delle iniziative editoriali, dai primi prestigiosi periodici, quali “La riforma sociale” , “La rivista di storia economica” o “La cultura” alla scelta innovatrice e stimolante di tradurre, negli anni del fascismo gli scrittori anglosassoni per iniziativa di redattori quali Pavese, Ginzburg o Pintor. Negli anni fervidi del dopoguerra
le iniziative si moltiplicarono aprendo il mondo un po’ provinciale della cultura italiana ai grandi stimoli della esperienza europea: basta ricordare di questo periodo “Il Politecnico” di Vittorini: la scuola delle “Annales” con la traduzione delle opere di Bloch, Febvre, Lefebvre e Braudel, e l’inizio della collana storica in cui sarebbero uscite le opere di Federico Chabod e Franco Venturi per limitarci al campo della storia. Non possiamo tuttavia dimenticare che in quegli anni uscivano per i tipi della casa editrice torinese le opere di Montale, Gadda e Saba, e nel campo delle letture straniere uscivano le traduzioni di Sartre, Brecht o Simone de Beauvoir, espressione di un impegno culturale e politico che proseguiva l’opera iniziata con la pubblicazione della letteratura della Resistenza. Nell’ultimo decennio anche come l’Einaudi si lanciava, con esito economicamente problematico, della iniziativa delle ‘grandi opere’ con la Storia d ’Italia del 1972, VEnciclopedia, la Storia dell’arte e più recentemente la Storia della letteratura italiana.
Tuttavia l’indubbia utilità di questo catalogo non è sufficiente per ricostruire il profilo di una casa editrice che come l’Einaudi è espressione dell’intelligenza vivace ed estrosa, degli interessi multiformi del suo fondatore, ma anche dei molti col- laboratori che nel corso degli anni si sono succeduti e che hanno contribuito a modificare profondamente le scelte e la politica editoriale.
L’assenza di un saggio introduttivo, che avrebbe potuto riprendere le fila di un discorso già ampiamente ricostruito per il
Rassegna bibliografica
primo periodo di attività della casa editrice (Gabriele Turi, / limiti del consenso: le origini della casa editrice Einaudi, in Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 193-378) fa solo intuire al lettore non esperto dei segreti del mondo editoriale l’importanza e la novità di certe scelte di politica editoriale, il ruolo dei vari direttori di collana o dei comitati scientifici, o infine le cause e la gravità della crisi che la casa editrice sta attraversando.
Nanda Torcellan
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M a r i a D e l S a p i o , M a r i n a V i
t a l e , Stampa e cultura popolare in Inghilterra nel primo Ottocento, Roma, Officina, 1982, pp. 317, lire 15.000.
Ancora pochi anni fa in Italia gli studi sulla stampa e sull’editoria erano rivolti prevalentemente al panorama del nostro paese o, se prendevano in considerazione la situazione delle altre nazioni europee, si soffermavano maggiormente sulle più recenti innovazioni tecnologiche tralasciando di affrontare il periodo in cui in Inghilterra, Germania, Francia la stampa aveva contribuito ad evidenziare le lotte politiche e sociali ed era entrata potentemente nella strategia di quei ceti borghesi che erano passati a poco a poco “dall’affermazione della loro autonomia di giudizio culturale e morale all’esigenza di autodeterminazione e infine all’esercizio del potere politico, secondo una gradualità che aveva proceduto dal possesso di qualità umane nella sfera privata a
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quella delle qualità civili nella sfera pubblica” (p. 12).
Le cause di questo ritardo o, per meglio dire, di questa scarsa attenzione a ciò che, in particolare nell’Ottocento, era avvenuto in altri paesi non possono essere soltanto imputate alla mancanza di curiosità dei ricercatori, quanto piuttosto alla mancanza in Italia di centri propulsivi in questo settore e alla impossibilità di coordinare le ricerche sul piano nazionale. Studi di questo genere infatti presuppongono la conoscenza della letteratura straniera e soprattutto lunghi soggiorni per le ricerche. Proprio per questi motivi è da segnalare il volume della Del Sapio e della Vitale inserito nella collana “Cultura e Società” diretta da Fernando Ferrara e Richard Hoggart in cui sono già apparsi stimolanti lavori dello stesso Floggart e di Raymond Williams. Le due autrici mettono a frutto le indicazioni metodologiche di Williams e si confrontano con la migliore ricerca anglosassone, ottenendo un risultato che può benissimo essere preso come punto di riferimento anche per gli studi nel nostro paese: soltanto il titolo, posto probabilmente dall’editore, svia un poco il lettore poiché non di stampa e di cultura popolare in generale si tratta, ma più precisamente della stampa politica, della battaglia di libelli politici che infuriò in Inghilterra prima e dopo il massacro di Peterloo (pp. 8 e 23).
La suddivisione del volume in due parti consente alle autrici di legare con originalità l’analisi del testo, dove la Del Sapio fornisce un’approfondita ricerca delle forme del linguaggio e delle sue variazioni, al panorama
politico e sociale del primo Ottocento in Inghilterra sottraendo così la ricerca alla sola analisi interna dei libelli e legandola non soltanto alla stampa radicale, sulla quale tuttavia sono scritte le pagine più stimolanti, ma anche al contraltare conservatore e a quelle forme di associazionismo come l’Association for Preserving Liberty and Property, against Republicans and Levellers la cui influenza non si fermò alla ‘maggioranza silenziosa’, che nel primo Ottocento inglese vide schierare al proprio fianco agguerrite organizzazioni militanti, ma finì per coinvolgere la stessa strategia della stampa radicale costretta, nella mancanza di un’ampia base culturale, a doversi misurare e sfruttare anche con queste iniziative modeste e tendenziose (p. 206).
Dalle pagine della Vitale la frattura fra Sette e Ottocento risulta più netta e precisa investendo il passaggio da una società ancora rurale a una società in larga misura urbana e industriale che imponeva alle forze politiche “una ridefinizione del ruolo delle masse popolari nella formazione degli equilibri egemonici” (p. 12). Lo stesso concetto di popolo subisce una trasformazione collegandosi da una parte aH’influenza del pensiero radicale, dall’altra subendo i tempi e i modi della cultura dominante. Non è un caso, e le autrici lo stottolineano in modo molto marcato auspicando giustamente studi più approfonditi, che “la classe lavoratrice più di una volta, e in specie quando il comportamento pubblico sconfinava nella sfera dei convincimenti morali e nelle regole indiscusse della convivenza civile, fosse catturata all’interno di
questa area di comportamento finendo per accreditare l’immagine positiva di se stessa” (p. 118). Le discriminanti fra popolo degno, perché decoroso, e popolo indegno diventavano, secondo le autrici, “i termini di una rappresentazione moralistica” che andava ben al di là della “infrazione delle regole del ‘buon vivere’” (p. 118). In altri termini, anche se non vi fu appiattimento del pensiero popolare sulle regole della nascente borghesia, esse furono tenute costantemente presenti per contrapporsi e dare una immagine positiva della propria quotidianità. Gli esempi portati dalla Del Sapio sulla inclinazione al bere e all’ubriacarsi, sull’importanza dell’unità della classe, sulla irreprensibilità dell’organizzazione (pp. 118, 176, 177, 180) dimostrano, a questo proposito, quanto ancora ci sia da scavare in questa direzione.
L’intersecazione di vari livelli di lettura porta Del Sapio e Vitale ad analizzare con grande accuratezza alcuni dei libelli politici più conosciuti in quegli anni, riservando una attenzione particolare à The politicai house that Jack built scritto e illustrato da Hone e Gruikshank. L’abilità di Gruikshank (sul quale è stato pubblicato nel 1977 l’importante studio di Wardraper, The caricatures o f George Gruikshank) fu di non appiattirsi semplicemente sul testo, ma di evidenziare in modo autonomo temi e problemi della critica radicale battendo tuttavia, come del resto fece Hone, più sulla denuncia che sulle questioni propositive. Questa vaghezza permise non soltanto di rivolgersi a un pubblico assai più vasto di quello appartenente alle orga
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nizzazioni radicali, “ma fu anche la condizione essenziale dell’impegno degli stessi elaboratori in una operazione di sostegno delle rivendicazioni dei diritti conculcati del popolo” (p. 169).
Gianfranco Tortorelli
C a m i l l e P i s s a r r o , Grafica anarchica, a cura di Benito Rec- ch ilongo , R om a, Is titu to dell’Enciclopedia italiana, 1981, pp. IX-152, lire 4.000.
Il saggio di Benito Recchilon- go sull’opera grafica di uno dei più noti esponenti dell’impressionismo, può senza dubbio aiutare gli storici a decifrare il nesso tra i lavori di Pissarro e la sua formazione ideologica. Un nesso non preso in considerazione, o facilmente accantonato dagli studi precedenti, che Recchilongo mette al centro della sua analisi inserita, nei due capitoli finali, in un rapido affresco sulle vicende degli impressionisti, sulla influenza dei grandi maestri come Corot e Courbet e sulla concezione estetica pissarriana.
Recchilongo ha il merito di aver rintracciato, senza mai forzare i risultati della sua indagine, quel robusto filone anarchico della ideologia pissarriana che la critica aveva sottaciuto considerandolo piuttosto come la manifestazione di un’indole generosamente umanitaria. Le qualità specifiche della pittura pissarriana; l’osservazione attenta della vita circostante, la sobria poesia del paesaggio, la delicata sensibilità coloristica, davano l’impressione di trovarsi di fronte a un pittore “che aderisce totalmente al mondo entro il
quale si è calato, e in forma così trasparente da non giustificare neppure l’ipotesi che possa esistere nella sua psicologia e nella sua cultura una tensione politica” .
Alcuni degli episodi minori dell’opera pissarriana diventano così indirizzi rivelatori di una componente intellettuale che agisce in forma mediata anche nelle opere maggiori permettendo di sviluppare e risolvere due questioni ritenute fondamentali da Recchilongo: 1. accertare se l’ideologia anarchica diventa una componente attiva nella concezione estetica pissarriana “per capire fino a qual punto, almeno sul piano teorico, essere anarchico significasse per lui anche concepire in modo diverso il proprio lavoro” ; 2. chiedersi “se non esistono canali più indiretti e sottili attraverso i quali si possa attuare una osmosi tra l’ideologia politica e l’opera pittorica, senza che ciò comporti una determinazione esplicita dei temi” . Bisogna subito aggiungere che per Recchilongo si può parlare di temi anarchici solo per i disegni delle Turpitudes Sociales, un album destinato non al pubblico, ma alle due nipoti Alice ed Esther Isaacson e ora posseduto dalla collezione Skira di Ginevra. Questa serie omogenea di disegni accompagnata da brevi e incisive didascalie del pittore proprio per la particolare destinazione (illustrare alle due bambine le ‘turpitudini’ della società capitalistica lungo il filo di alcuni temi fondamentali) mette meglio in evidenza l’ideologia di Pissarro.
L’intento del pittore risulta subito chiaro nel concentrare l’attenzione delle due nipoti non tanto sugli aspetti marginali del
la vita cittadina (e già la focaliz- zazione della città risulta importante da parte di un pittore come Pissarro che abitualmente preferiva ritrarre la vita dei campi), quanto su luoghi e istituzioni deputati al traffico di denaro e allo strozzinaggio.
Le tempie du veau d ’or, con la folla dei neri cilindri brulicante lungo la scalinata, Les Bour- sicotières, dove la matita di Pissarro sembra aver voluto concentrare tutta la sua ironia e il disprezzo sul viso delle comari a colloquio, Le suicide du boursier e soprattutto Enterrement du cardinal qui avait fait voeu de pauvreté, dove la sepoltura del rappresentante di Cristo è raffigurata attraverso il lusso della parata e la folla delle grandi occasioni sono sicuramente i disegni più riusciti in cui viene messa in pratica la lezione di Corot e soprattutto di Courbet.
Un’ironia amara e composta appare anche nella tavola Sophie Grande chez le Commissaire, dove la piccola bambina sfruttata e vilipesa trova nelle istituzioni non un’amorevole protezione, ma l’arresto per vagabondaggio. Pissarro aggiunge, nella didascalia che accompagna il disegno, che tra i due mondi separati semplicemente da una scrivania, non vi è possibilità di comunicazione tanto le istituzioni sono impregnate di brutale o paternalistica repressione.
Il disegno pissarriano diventa meno felice solo nelle tavole in cui l’ideologia vi appare allo stato grezzo “senza trovare soluzioni grafiche capaci di tradurla in un proprio linguaggio” . In Le Capital e in Le veau d ’or i due soggetti diventano simboli codificati attenenti a tutta la tradi
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zione socialista e anarchica di quegli anni. La mano del pittore, attenta sempre a seguire la propria visione delle cose, sembra quasi aver dimenticato questa sua caratteristica per fare spazio a un messaggio più immediatamente politico. Il contrasto tra i capitalisti e i proletari è qui posto in primo piano attraverso la semplificazione dei due mondi che venendo in contatto esaltano le loro differenze.
Non bisogna dimenticare comunque che spesso Pissarro mentre per rappresentare il ceto dominante definisce assai bene la nozione e la tipologia del borghese capitalista, per rappresentare i ceti a esso antagonisti si riferisce alla categoria del proletariato più che a quella dell’operaio, derivando da questa visione un’attenzione agli aspetti più diversi dell’ingiustizia sociale.
Nella collaborazione al numero speciale dedicato nel 1893 dal giornale “La Piume” all’anarchia, Recchilongo nota come il tratto di Pissarro si distingua rispetto ai disegni di altri collaboratori “per la sobrietà realistica e l’assenza d’ogni richiamo esplicito all’ideologia anarchica” . Pissarro si va convincendo che egli come pittore può offrire un contributo alla causa anarchica “senza abbandonare i temi e il linguaggio a lui più congeniali”, come in parte aveva fatto nelle Turpitudes Sociales. Il segno polemico e caricaturale o drammatico e patetico, a volte presente nei disegni precedenti, diventa un tratto pacato e riflessivo “attento a cogliere il gesto nella sua naturalezza, e non ad esasperarlo” . Pissarro è forse giunto a capire la forza e la grandezza della sua pittura che ha in sé la capacità, ritraendo la
semplice realtà circostante, di accogliere la forza del messaggio ideologico. Debardeus, il disegno in prima pagina del giornale “La Piume” , ma anche Semeur copertina del volume di Kropotkin Les temple nouveaux come le litografie Les trimardeus e Le labour segnano un ritorno ai terni più congeniali di Pissarro: la tranquilla vita di campagna e il lavoro duro e onesto degli scaricatori dove i gesti dei soggetti ritratti sembrano possedere una forza irriducibile.
Gianfranco Tortorelli
“Brescia Nuova” 1898. Ristampa anastatica del settimanale del Partito socialista di Brescia, a cura di Gianni Quaresimini, Umberto Gatti, Gianfranco Porta, Brescia, Sintesi Editrice, s.d., sip.
È istintivo guardare alla produzione editoriale stampata in occasione degli anniversari con un moto di legittimo sospetto. La moda dei centenari ci ha infatti abituati a manipolazioni, autogratificazioni e autocelebrazioni che, spesso, inquinano un corretto criterio di lettura del passato.
Del resto, se si pensa al recente centenario garibaldino, non sembra fuori luogo parlare di una sorta di ‘lottizzazione’ della memoria storica che ha contagiato enti, partiti e associazioni di vario genere.
In questa sorta di sagra del cattivo gusto esce valorizzata una iniziativa come quella promossa dall’Assessorato alla cultura del Comune di Brescia che ha patrocinato la ristampa anastatica di ventinove numeri di
“Brescia Nuova” , settimanale della Federazione bresciana del partito socialista, che uscì dal 1896 al 1922. Certo, la quantità dei numeri ristampati è esigua rispetto al periodo di vita del giornale.
Tuttavia la scelta del periodo, il 1898, appare assai felice. Giacché furono proprio gli avvenimenti accaduti in quello scorcio di tempo che avrebbero finito per accelerare i tempi di una chiarificazione che avrebbe condotto, all’inizio del secolo, alla partecipazione socialista nella amministrazione cittadina al fianco degli zanardelliani.
A conferma di una scelta opportuna resta poi la scrupolosa nota filologica di Gianfranco Porta che di “Brescia Nuova” fornisce gli elementi tipografici e biografici per l’intero arco della sua durata.
Si tratta dunque non solo di un contributo che precede, come sottolineano i curatori, una organica ricostruzione del socialismo bresciano. Ma anche di un esempio di come, ad onta di retoriche manie celebrative, la ricorrenza degli anniversari possa talvolta essere produttiva per la ricerca storica.
Stefano Pivato
“Storia contemporanea”, ottobre 1983, n. 4 /5 , pp. 390, lire 15.000.
Sotto il titolo Intellettuali e politica tra le due guerre, questo fascicolo della rivista diretta da Renzo De Felice delinea alcuni percorsi di lettura del rapporto tra intellettuali e fascismo, attraverso l’esame di figure a diverso titolo rappresentative: da
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Sergio Panunzio — la cui elaborazione giuridica, analizzata da Susanna De Angelis (pp. 695- 732), risulta svolgersi, segnata- mente per quanto concerne la tematica corporativa, in sintonia con le scelte operate dal regime, del quale anticipa anzi significativamente le tendenze — a Vittorio Cian, che nella lettura propostane da Giuseppe Parlato (pp. 603-628) appare tipico esponente di un’adesione al fascismo in chiave di nazionalismo filosabaudo nettamente conservatore — ad Aldo Moro, la cui vicenda di formazione giovanile, ricostruita in un ampio saggio di Renato Moro (pp. 803- 968), offre elementi per una più precisa considerazione dell’atteggiamento politico e culturale della generazione di intellettuali cattolici formatasi negli ‘anni del consenso’ (p. 853 passim). Lo studio di Giovanni Belardelli L ’adesione di Gioacchino Volpe al fascismo (pp. 649-694) sotto- linea, di tale iter, la peculiare matrice nazionalista, rilevando, nel suo successivo svolgimento, elementi d’attrito nei rapporti, tra il fascismo, man mano ch’es- so si costituisce in regime, e lo storico prestigioso che ne era stato, segnatamente nel 1920- 21, tramite di consenso in determinate aree di borghesia intellettuale (pp. 622 e 687-688). Sono, questi della posizione politica di Volpe, aspetti da tenere presenti nell’ambito di quella globale ricognizione della ‘scuola storica italiana’ nel periodo fascista che è da più parti auspicata, e alla quale il fascicolo in esame fornisce un rilevante apporto, su cui va richiamata l’attenzione.
Di tale tematica, delinea lo sfondo il saggio di Maurizio Ser
ra Sui miti fascisti e la crisi storica dell’umanesimo borghese negli anni trenta (pp. 577-601), tracciando un ampio panorama del dibattito della cultura europea dell’epoca, attraversato dalla contrapposizione — con la quale variamente si misurano le molteplici posizioni qui richiamate (da Huizinga e Horkheimer, da Ortega y Gasset a Mir- cea Eliade, a Thomas Mann, a Hermann Broch) — tra l’idea di ‘storia’ e quella di ‘mito’ e ‘destino’, termini nei quali si compendia il confronto tra umanesimo borghese al tramonto — che conosce in questa fase un estremo sussulto unitario — ed espandersi dell’irrazionalismo fascista. In tale generale contesto, nel cui ambito è fenomeno significativo il rilievo assunto dalle concezioni cicliche delle civiltà e dalla nozione di decadenza (pp. 582-583), si inscrive anche l’Italia, il cui dibattito intorno a questa tematica registra la presenza della grande sistemazione storiografica crociana, e assume caratteri del tutto peculiari, riconducibili, in primo luogo, alTavvenuta trasformazione del fascismo in realtà istituzionale (pp. 577-580).
All’esame dei rapporti tra storiografia e regime è dedicato il saggio di Renzo De Felice Gli storici italiani nel periodo fascista (pp. 741-802) che pone in risalto la svolta rappresentata dai primi anni trenta tanto sull’uno che sull’altro versante. Da un lato, in un mutato clima culturale che determina l’insoddisfazione per i vecchi indirizzi, si profilano nuove tendenze, connotate da un maggior interesse per le vicende più recenti (e stimolate in tal senso dalla pubblicazione dell ’Italia in cammino di Volpe
e Storia d ’Italia e poi della della Storia d ’Europa di Croce), e si costituisce — attorno alla ‘scuola romana’ di Volpe — il gruppo di giovani storici, quali Chabod, Maturi, Morandi, Rosselli, Se- stan, Cantimori, la cui successiva influenza è superfluo sottolineare. D’altro canto, si definisce una politica del fascismo verso la storiografia, che dà luogo, fra l’altro, a una globale riorganizzazione — tra il 1934 e il 1935 — delle istituzioni extrauniversitarie (p. 749), nel quadro di un’azione di più stretto controllo nei confronti dell’alta cultura (significativamente annunciata, nel 1931, dall’imposizione del giuramento ai docenti universitari); nel decennio precedente, invece, l’intervento in tali ambiti s’era limitato all’epurazione degli oppositori più in vista, con una sostanziale delega dell’iniziativa più propriamente culturale a singole personalità, e avvalendosi, in termini di ‘immagine’, del loro prestigio (in questa chiave si presenta l’istituzione, nel 1923, della Scuola storica nazionale e, nel 1925, della Scuola di storia moderna e contemporanea, come pure la nomina di Volpe alla direzione di quest’ultima, p. 744).
Esponente di spicco di tale nuovo corso è Carlo Maria De Vecchi, fautore di una radicale ‘bonifica fascista’ della cultura, che persegue, attraverso l’accentramento degli istituti per gli studi storici, l’obiettivo di potenziare — di contro alle tendenze storiografiche emergenti — un’interpretazione sabaudi- stica, statalistica e ‘autarchica’ del Risorgimento. In quest’ambito egli riesce, a garantirsi una effettiva posizione di controllo
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(pp. 750-758); e tuttavia siffatta linea autoritaria incontra, per tutto l’arco del decennio, una tenace resistenza, che riesce a circoscriverla. In tale azione di contenimento, ha un ruolo di primo piano Volpe, il cui rifiuto di una concezione rozzamente strumentale dell’attività storiografica emerge sia nel conflitto di competenze che lo oppone a De Vecchi, sia nell’apertura politica e culturale che caratterizza la sua scuola. È tale atteggiamento — oltre che il potere nelle istituzioni culturali — a fare di Volpe un importante punto di riferimento, organizzativo e scientifico, per gli studiosi della giovane generazione (p. 762- 763), e a consentirgli di esercitare sui suoi allievi (Chabod, Mo- randi, Maturi, Rosselli) un’influenza paragonabile a quella — indubbiamente rilevante, ma più indiretta e mediata — di Croce (pp. 760-761 e 784-785). A queste considerazioni, importanti per tracciare una più puntuale analisi di una tanto notevole ‘scuola storica’, si affiancano le osservazioni, di pari interesse, sulla collocazione politica degli allievi di Volpe nel corso degli anni trenta. Se nessuno, fra quelli sopra citati, è fascista all’inizio del decennio, nessuno peraltro, eccettuato Rosselli, risulta nettamente e dichiarata- mente antifascista (e lo stesso liberalismo di Chabod non si configura come milizia politica, quanto piuttosto come habitus etico-culturale di fondo, pp. 763-765). L’iter successivo presenta svolgimenti differenziati: se Chabod e Maturi mantengono un atteggiamento di distacco dalla politica, nella rigorosa au- tolimitazione alla loro professione di storici (e in tale com
portamento mi pare sia rilevabile la suggestione crociana), Mo- randi approda invece ad un esplicito e diretto impegno, su posizioni bottaiane, in una linea di integrazione di politica e cultura che s’esprimerà, tra l’altro, dal 1940 con la sua collaborazione a “Primato” (pp. 775-780).
Le pagine dedicate a Delio Cantimori, alla sua atipicità di formazione e di interessi storiografici e alla particolarità del suo itinerario politico (pp. 788- 793), concludono questa articolata lettura dei rapporti fra storici e fascismo, dalla quale mi pare esca, in sostanza, confermata l’immagine del regime come ‘totalitarismo imperfetto’ in cui permane — anche negli anni di massimo consenso e di massimo controllo sociale — una dialettica culturale di tipo liberale.
Amina Crisma
A l b i n o C a l e g a r i , Il “Corriere della Sera”, e la letteratura francese, Bergamo, Istituto Universitario di Bergamo, 1981, pp. LII-443, sip.
L’influenza della letteratura francese in Italia sta ricevendo una rinnovata attenzione da parte di studiosi di varie discipline. Fino a qualche anno fa, se pure con qualche importante eccezione, era stata messa in luce con maggiore insistenza la fortuna dei più importanti romanzieri, gli studi più recenti hanno cercato di allargare il campo di ricerca approfondendo in modo originale le suggestive pagine di Federico Chabod e di Antonio Gramsci. Il frutto più maturo di questo lavoro di ricerca è stato senza dubbio, a nostro avviso, il
bel volume di Guido Verucci (L ’Italia laica prima e dopo l ’Unità. 1848-1876, Bari, Laterza, 1981) che con sapienza e rigore ha ripercorso le strade della formazione del pensiero laico in Italia in cui l’influenza della Francia pur con vicende alterne era stata sempre presente. Seguendo e interpretando le osservazioni gramsciane contenute nei Quaderni, Verucci mette in evidenza come la letteratura francese non avesse un solo consolidato filone attraverso cui penetrare, ma si avvalesse di istituzioni culturali, giornali, collane editoriali, biblioteche di cultura popolare e università popolari che hanno trovato attenti studiosi oltre che nel Verucci in Maria Grazia Rosada e Gabriele Turi.
Gli avvenimenti politici dello stato transalpino non influenzarono del resto solo la nostra politica estera, ma divennero un punto di riferimento anche per la nostra politica interna: pensiamo alle ripercussioni in Italia delle battaglie anticlericali, seguite con attenzione da Enrico Deeleva, o dell’affare Dreyfus, di cui manca ancora uno studio esauriente, pensiamo alle figure di Hugo e Zola guardate a lungo come simbolo dell’impegno politico degli intellettuali, pensiamo infine aU’enorme fortuna della letteratura popolare prima e dopo Sue e alla lettura diversificata a cui si prestava.
Se per tracciare un bilancio definitivo e rispondere agli interrogativi gramsciani che collegavano l’influenza della Francia e della sua cultura alla faticosa formazione del pensiero laico e alla difficile crescita in Italia di una letteratura autenticamente nazional popolare
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mancano ancora molti tasselli, sono senz’altro da mettere in rilievo i passi in avanti a cui contribuisce ora questo catalogo curato da Albino Calegari e dedicato alla presenza della letteratura francese nelle pagine del “Corriere” . Lo stesso Gramsci, peraltro mai citato dal Calegari nella sua breve introduzione, aveva individuato nel quotidiano milanese “il centro di maggiore diffusione dei romanzi popolari” , anche francesi, e la necessità di affiancare lo studio del “Corriere” a quello delle edizioni Sonzogno.
Il catalogo è diviso in due parti: le opere di autori francesi pubblicate dal “Corriere della Sera” e gli articoli riguardanti autori e opere francesi apparsi sul quotidiano dal 1876 al 1925. L’arco cronologico è dunque assai ampio e permette al lettore di valutare con una certa precisione gli orientamenti del giornale, le tematiche maggiormente seguite, gli autori più conosciuti. Colpisce ad esempio il numero degli autori francesi, molti dei quali peraltro presenti fin dal 1876 con più opere, pubblicate a dispense sulle pagine del quotidiano milanese, così come colpisce il numero degli articoli riguardanti autori e opere francesi. In questa seconda parte del catalogo si nota come gli articolisti del “Corriere” non soffermassero la loro attenzione solo sugli autori più prestigiosi, ma esprimessero i loro giudizi anche su quelli meno noti e importanti.
Al termine di questo prezioso lavoro di Calegari restano comunque da fare alcune osservazioni: innanzitutto pensiamoche il catalogo sarebbe stato più completo se fosse stato aggiunto
un indice dei nomi, che in lavori come questo aiuta molto il lettore a orizzontarsi nella ricerca degli autori, e un indice cronologico, indispensabile per verificare con precisione i periodi in cui il quotidiano intervenne con insistenza nelle battaglie culturali di quegli anni legate non di rado anche ad avvenimenti politici di primo piano. Non è un caso, ad esempio, che il “Corriere” segua con grande interesse l’affare Dreyfus e che proprio fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento la figura e l’opera di Zola trovino una diversa e rinnovata attenzione. Rintracciando numerosi articoli non contenuti nella Bibliographie de Zola en Italie, pubblicata da Meni- chelli nel 1960, Calegari mette in evidenza come l’impegno politico di Zola suscitasse anche in Italia un dibattito stringente sul ruolo che gli intellettuali dovevano avere davanti ad avvenimenti così sorprendenti. Ma in che modo i giornalisti del “Corriere” trattarono l’impegno di Zola in questa battaglia e soprattutto come si legava l’interesse sempre vivo per la letteratura francese con la linea più generale del giornale? Purtroppo nell’introduzione Calegari lascia irrisolte queste e altre domande preferendo passare rapidamente da un argomento all’altro senza scandire con precisione le varie fasi del dibattito. Si accenna soltanto agli articoli di Faldella e Bersezio e alla loro polemica nei confronti della letteratura francese accusata di influenzare eccessivamente il panorama letterario italiano, e non si nascondono le vivaci critiche di Giovanni Pozza per la predominante offerta di opere di autori teatrali francesi, ma si tralascia, e
l’osservazione vale anche per i collaboratori del periodo successivo, di illuminare il lettore sulla personalità e la formazione culturale di questi giornalisti, molti dei quali svolsero un ruolo di primo piano nel dibattito culturale tra Ottocento e Novecento.
Pensiamo, ad esempio, a Vittorio Pica, a Ugo Ojetti e ad alcuni romanzieri, da Federico De Roberto a Luigi Capuana, i cui interventi avrebbero dovuto essere recuperati all’interno di un più ampio discorso teso a mettere in rilievo anche la diversità delle posizioni. Se De Roberto non fu certo tenero nei confronti di chi dando “troppa attenzione alle cose altrui, e troppo poca alle nostre” , accordava un’importanza sproporzionata alla pubblicazione di ogni inedito francese, diversa continuerà ad essere la posizione di Capuana i cui scritti anche giornalistici, raccolti poi in volume, dimostrano un’attenzione continua a tutto il dibattito interno alla cultura francese.
Calegari richiama anche rapidamente alcuni avvenimenti di politica intemazionale che segnarono i rapporti tra Francia e Italia ma senza individuare i possibili intrecci con la penetrazione in quegli stessi anni, della letteratura francese sulle colonne del quotidiano milanese. Non che l’autore dell’introduzione dovesse appiattire i due piani di ricerca, ma al contrario forse avrebbe potuto mostrare al lettore in che modo temi e autori della letteratura francese venivano presentati al pubblico di quegli anni. La nostra speranza è di vedere trattati questi problemi più attentamente nel secondo volume in preparazione e dedi
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cato dall’autore alle relazioni culturali italo-francesi messe in luce dal catalogo.
Gianfranco Tortorelli
M a r i o P e c o r a r o , II socialismo carpigiano nelle pagine di “Luce”. Mezzo secolo di storia di una gloriosa testata, Mantova, Arcari, 1983, pp. VII-238, lire12. 000.
Il periodico “Luce” , nato a Carpi di Modena il 28 luglio 1889 come “Gazzetta democratica di Carpi” e divenuto dal 1895 (sia pur variando in seguito numerose volte il sottotitolo) praticamente l’organo dei socialisti locali, vanta oggi novanta- cinque anni di vita, che vogliono però ignorare lunghe assenze dalle edicole (oltre a quella ovvia dal 1920 al 1945, altri quindici anni dal 1947 al 1962 e ancora dal 1914 al 1919; del tutto casuale l’uscita nel secolo scorso, se non nel corso delle battaglie elettorali; cfr. la “scheda” di p. 225). Una sua raccolta completa si può ottenere solo unificando i numeri conservati presso le biblioteche Nazionale di Firenze, Comunale di Carpi ed Estense di Modena. Mario Pecoraro fa una lettura attenta del periodico da cui risulta un’immagine di particolare interesse del socialismo riformista della bassa modenese e del suo leader Alfredo Bertesi, con particolare attenzione alla sua ideologia e alla sua attività di organizzatore del movimento operaio e di amministratore locale.
Anche se a volte l’autore si fa prendere la mano da eccessi di simpatia per la ‘gloriosa testata’, il volume va segnalato
in quanto costituisce un utile strumento per la conoscenza di quella stampa locale e periferica legata alle origini organizzative del movimento operaio che troppo raramente ha trovato buoni studiosi.
Luciano Casali
E u g e n i o G a r i n , Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l ’Unità, Bari, De Donato, 1983, pp. 380, lire 22.000.
Il volume raccoglie una serie di scritti pubblicati tra il 1870 e il 1981, in parte saggi e in parte relazioni a convegni; lo scritto II positivo, il positivismo e i positivismi (appartenente alla sezione dedicata ad Antonio Labriola) riproduce la relazione introduttiva al convegno organizzato dall’Istituto Gramsci di Firenze nell’ottobre 1981 ed è inedito; la Postilla rielabora, fondendole, una serie di note pubblicate sulla “Rivista critica di storia della filosofia” nel 1978. I saggi, anche se scritti e pubblicati in occasioni e con finalità diverse, hanno un filo conduttore, come suggerisce lo stesso Garin nell’Avvertenza iniziale, che si dirama essenzialmente in due tematiche: il vario configurarsi nella coscienza dei contemporanei e a livello storiografico, del rapporto tra Ottocento e Novecento sul piano della cultura e degli ideali politici, e il senso e le conseguenze del declino dell’he- gelismo e del positivismo nelle costruzioni ideologiche di questo periodo.
Garin prende le mosse dal dibattito storiografico sulla interpretazione della crisi di fine secolo, divenuta ben presto, per
alcuni (Croce) fonte di rinnovamento e di rinascita spirituale e per altri (Labriola) annuncio di regresso e di dominio dell’irrazionale. D’altra parte dopo la tragedia dell’Italia fascista e la fine della seconda guerra mondiale prevalse la tendenza a vedere tutta la storia successiva all’Unità ‘tinta di nero’ e attribuirne la responsabilità all’idealismo riproponendo i valori del già disprezzato positivismo. Mentre dall’esaltazione dell’idealismo si passava a un suo netto rifiuto rovesciando semplicemente i termini del contrasto, alle correnti ideologiche venivano attribuite responsabilità sul piano degli eventi reali: al prevalere dell’idealismo venivano attribuiti non solo i limiti delle istituzioni scolastiche italiane, ma le carenze di uno sviluppo tecnico scientifico non paragonabile a quello degli altri paesi. Di fronte a queste interpretazioni storiografiche parallele anche se contrapposte, l’autore si propone di superare le posizioni puramente nominalistiche e politiche e seguire una via sinora poco battuta, la via dell’analisi puntuale, percorrendo le tappe della penetrazione di Hegel e del positivismo in Italia, studiando “i molti Hegel nei tempi e nei luoghi e i molti positivismi, così contrastanti tra loro e il vario gioco delle posizioni nella lotta politico-culturale dell’Italia unita” (p. 13). Soprattutto fecondo e vivo risulta l’interesse per gli uomini concreti, portatori delle diverse idealità, i quali non disgiunsero la loro attività politica dall’impegno teorico-filosofico, poiché, come afferma Labriola, che campeggia in queste pagine gariniane, “le idee non cascano dal cielo”,
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ma sono espressione di uomini determinati che le elaborano e le difendono, di uomini che parteciparono politicamente alla travagliata vita dell’Italia dall’Unità in poi. Nel saggio Hegeliani dell’Ottocento: politica e filosofia la connessione tra hegelismo coltivato a Napoli tra il 1840 e il 1860 e la ripresa, nel momento del rinnovamento rivoluzionario (1848), di una grande tradizione filosofica è espressa con una conoscenza profondissima degli autori e dei testi non disgiunta da una vivacità di esposizione che avvince il lettore. Nel saggio II positivismo come metodo e come concezione del mondo, che è una continuazione ideale del precedente saggio, appare centrale la consapevolezza critica di Pasquale Villari che nel 1866 (L ’Istruzione secondaria in Germania e in Italia, in Nuovi scritti pedagogici, Firenze, 1891) vede nell’hegelismo del Quarantotto la filosofia della rivoluzione e nel positivismo non solo una filosofia, ma un nuovo strumento culturale nella fase di formazione e consolidamento dello Stato unitario prima e dopo il Sessanta. Oltre all’accuratezza e alla profondità degli studi gariniani, troppo note e riconosciute per essere ancora ricordate, colpisce in questo volume l’attenzione, che coinvolge in un interesse simpatetico, per alcuni personaggi come Labriola, il professore di filosofia che introdusse Marx in Italia senza ombre di dogmatismo e nel contempo seppe svolgere dalla sua cattedra lezioni di socialismo facendone emergere “nella consapevolezza del modo della sua genesi” (p. 172) la necessità storica (Labriola nella storia della cultura e del movimento operaio)-,
per Angelo Fortunato Formiggi- ni, editore di varie collane e dei testi dei convegni della Società filosofica italiana, cultore della “filosofia del ridere” come lui stesso amava definirsi, suicidatosi nel 1938 per protestare contro “l’assurdità malvagia dei provvedimenti razziali” (A.F. Formiggini editore di positivismi vecchi e nuovi, pp. 255 e sgg-)-
Paola Pirzio
G i u s e p p e B e d e s c h i , La parabola del marxismo in Italia 1945- 1955, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 181, lire 10.000.
Il 1945 per Bedeschi, autore di studi su Marx ed Hegel, segna l’inizio del marxismo italiano che negli anni precedenti non aveva conosciuto uno sviluppo organico consistente. L’analisi si muove prevalentemente in una dimensione teorica, anche se nell’itrodurre le svolte interpretative più rilevanti si rivolge, in modo sintetico, anche alle trasformazioni dell’economia e della società italiana per metterne in rilievo il rapporto di causalità tra struttura-sovrastruttura.
L’opera risulta suddivisa in sezioni riguardanti i diversi momenti della cultura marxista italiana. Ogni periodo è caratterizzato dal prevalere di alcune tematiche descritte mediante un accenno alle posizioni intellettuali che le hanno elaborate, spesso valutati in modo sommario.
Il decennio 1945-1955, indicato come “gli anni delle certezze assolute” , vede la diffusione del marxismo attraverso l’interpretazione gramsciana della storia d’Italia e del fascismo in parti
colare, largamente recepita dagli studiosi che ruotavano intorno alla rivista “Società” . Stretta- mente connesso con la riproposizione del pensiero di Gramsci, è il dibattito su Benedetto Croce ove la cultura marxista, fortemente dipendente dallo storicismo crociano, mette in discussione le proprie origini. Bedeschi presenta questo decennio come dominato dalla personalità di Togliatti, che da una parte propone agli intellettuali i temi di maggiore rilevanza teoricopolitica (Croce, lo Stato) e dall’altra si pone come mediatore tra la cultura del tempo e la filosofia dell’autore dei Quaderni. Gli anni 1955-1967 segnano l’apogeo e la crisi del gramsci- smo e l’affermarsi del pensiero di Galvano Della Volpe: il convegno su “Studi gramsciani” del 1958 organizzato dal Pei può considerarsi il trionfo di Gramsci e nel contempo l’inizio del suo declino soprattutto in seguito agli interventi fortemente critici di Ludovico Geymonat e di Mario Tronti. La filosofia di Della Volpe rappresenta per Bedeschi l’alternativa teorica alla tradizione marxista italiana sin’allora prevalente sia nella dimensione gramsciana che in quella materialistica dialettica, in quanto si propone di elaborare un metodo scientifico, una scienza dell’economia e delle scienze morali in genere.
La terza sezione, rivolta all’analisi di anni cruciali per la storia della cultura teorico-politica (1968-1980) appare molto rapida se commisurata alla problematica studiata e ai giudizi critici proposti. Il sorgere di nuove interpretazioni del marxismo connesse alle analisi del capitalismo elaborate da “Quader
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ni rossi” di Raniero Panzieri e da “Sinistra” di Lucio Colletti è visto in connessione alla discussione sulle posizioni assunte dal Pei dopo il 1956. Se l’interpretazione del Sessantotto come esaltazione del mito ‘assembleare’ e rifiuto di ogni cultura riformistica appare discutibile, l’esposizione della filosofia della Scuola di Francoforte e della sua influenza ne limita il significato mettendo in luce gli aspetti più obsoleti del pensiero di Herbert Marcuse. A giudizio di Bedeschi la crisi del marxismo ha inizio
negli anni immediatamente successivi al 1968 e ha le sue origini nelle difficoltà sia della teoria politica (crisi del socialismo reale e fallimento della rivoluzione cinese) sia nella limitatezza dell’analisi economico sociale, messa in evidenza dall’opera di Paul A. Baran e Paul M. Swee- zy, II capitale monopolistico (Torino, Einaudi, 1978). L’evoluzione del pensiero di Colletti da sostenitore a critico del marxismo (definito un “tragico sincretismo metodologico” , in accordo con Hans Kelsen) è per
l’autore emblematico del distacco degli intellettuali italiani dal pensiero di Marx.
La riproposizione nel centenario della sua nascita in saggi e convegni, ricostruita sulla base degli interventi di Claudio Napoleoni e Francesco Galgano tendenti a separare il marxismo dalle sue interpretazioni, è considerata da Bedeschi destinata al fallimento in quanto si propone una ricerca e una ricostruzione di “un Marx introvabile, perché immaginario” (p. 174).
Paola Pirzio
Q U A D ER N I D I STO RIARivista semestrale diretta da Luciano Canfora
Anno X, n. 19, gennaio-giugno 1984SaggiD. Lanza, Il filologo immaginato-, O. Longo, Le ciurme della spedizione ateniese in Sicilia; J. Svenbro, La stratégie de i ’amour dans la poésie de Sappho-, F. Grelle, Stato e province nell’analisi mommseniana-, A. Aloni, L’intelligenza di Ipparco.
Miscellanea0. Neurath, Premessa a "The Modern Man in the Making" (a cura di G. Di Sacco); B. Flemmerdinger, Le régime des eupatrides dans Athènes-, L. Piccirilli, Il filolaconismo l ’incesto e l ’ostracismo di Cimone\ Ph. Haviland, Aléatoire temps responsabilité dans la comédie grecque nouvelle-, M. Cagnetta, Platea ultimo atto-, G.F. Nieddu, La metafora della memoria-, M. Fantuzzi, Gli Alexiloga grammata di Crizia.
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