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Emiliano Biaggio Il (mio) cammino da Santiago EMILIANO BIAGGIO Il (mio) cammino da Santiago Finito di stampare il 20 settembre 2010 1

Il (Mio) Cammino Da Santiago

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Il Cammino di Santiago di Compostela è il lungo percorso che i pellegrini fin dal Medioevointraprendono, attraverso la Francia e la Spagna, per giungere al santuario di Santiago diCompostela, in Galizia. Queste pagine racchiudono però un altro cammino, quello compiuto dachi scrive (non a caso, quindi, “mio” specificato in parentesi) partendo proprio da Santiago. Da lì in giro per la Galizia e anche per le Asturie, per un viaggio carico di esperienze e significati. Diario di viaggio, quindi, ma non solo. Il (mio) cammino da Santiago è infatti un contenitore di temi: il viaggio, l’amicizia, la politica, la geo-politica, l’ipocrisia, la solidarietà,tanto per citarne alcuni. C’è anche il calcio in queste pagine, ebbene sì. Ma del resto andare inSpagna e non fare nemmeno un accenno al futbol non è pensabile. Ma questo solo chi si reca sulposto può constatarlo toccando con mano. Il viaggio è anche questo, un’esperienza unica mamai isolata, una storia di storie. Come quella qui proposta.

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

EMILIANO BIAGGIO

Il (mio) cammino da Santiago

Finito di stampare il 20 settembre 2010

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A Paola e Sergio

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Presentazione

Il Cammino di Santiago di Compostela è il lungo percorso che i pellegrini fin dal Medioevo

intraprendono, attraverso la Francia e la Spagna, per giungere al santuario di Santiago di

Compostela, in Galizia. Queste pagine racchiudono però un altro cammino, quello compiuto da

chi scrive (non a caso, quindi, “mio” specificato in parentesi) partendo proprio da Santiago.

Perché in questo caso la città in questione non è il punto di arrivo, quanto un punto di partenza.

L’inizio di un piccolo viaggio attraverso città e luoghi – non molti per la verità – dell’angolo

nord-occidentale della Spagna, attraverso impressioni e spiegazioni di quanto visto e vissuto. Il

tutto arricchito da dialoghi avuti con i compagni di viaggio. Perché, va detto, lo scritto

contenuto in queste pagine ripercorre un viaggio compiuto per andare a trovare persone care

lontane, con le quali si sono condivisi momenti e soprattutto percorsi. Santiago-La Coruña-

Pravia-Ribadeo-Santiago il particolare tragitto compiuto in pochi giorni da chi ha saputo e

voluto fare di questo luogo culla della cristianità il trampolino di lancio per un altro cammino,

quello appunto qui descritto e ricordato. Ricordato, soprattutto. Perché Il (mio) cammino da

Santiago è stato realizzato in due anni, passati a scrivere poche righe per volta e in ordine

sparso, mettendo insieme appunti di viaggio recuperati da fogli volanti in momenti diversi

(questo perché ognuno è ordinato nel proprio disordine), ricordi che riaffioravano man mano

che si scriveva o anche – ammettiamolo – per pura casualità. Ancora, il tempo per mettersi

davanti a un computer per dedicarsi esclusivamente a questo lavoro è stato poco. Per cui Il

(mio) cammino da Santiago ha visto la luce sin da subito, per avere però una forma compiuta

solo alla fine. Un lavoro che alla fine è consistito nel ridare ordine a quei pensieri accumulati e

accatastati nel corso di questi due anni, per un’opera che – per usare una figura retorica –

risultava un puzzle da ricomporre. Si è trattato quindi di rimettere in ordine cronologico i vari

paragrafi e scrivere poche righe di raccordo, così da dare organicità e fluidità al tutto. Già, il

tutto. Perché Il (mio) cammino da Santiago non è un semplice diario di viaggio, quanto un

contenitore di temi: il viaggio, l’amicizia, la politica, la geo-politica, l’ipocrisia, la solidarietà,

tanto per citarne alcuni. C’è anche il calcio in queste pagine, ebbene sì. Ma del resto andare in

Spagna e non fare nemmeno un accenno al futbol non è pensabile. Ma questo solo chi si reca sul

posto può constatarlo toccando con mano. Il viaggio è anche questo, un’esperienza unica ma

mai isolata, una storia di storie. Come quella qui proposta. E allora, buona lettura.

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Santiago

Santiago de Compostela è un punto d’arrivo: qui da sempre convergono persone provenienti

da ogni angolo del mondo. Prima ancora che città universitaria meta di studenti provenienti da

tutta la Spagna e da tutta Europa, Santiago è culla della cristianità, destinazione finale di quel

cammino che per secoli, dal Medioevo, ha richiamato e tutt’oggi richiama fedeli da ogni parte

del continente e non solo. Situata sulla costa nord-occidentale della Spagna, Santiago è oggi più

che mai una frontiera: appoggiata sul bordo dell’Europa, in quella che in antichità era

considerata la fine della terra conosciuta, si affaccia a guardare il freddo nord del globo

sporgendosi sull’Atlantico a scrutare l’altra sponda del mondo.

L’aereo che vibra prima nel vuoto e che poi sobbalza sulla pista mi ricorda che quello che mi

ha portato nel capoluogo galiziano è il peggior viaggio aereo che abbia mai fatto, e non è

neanche imputabile al maltempo: ero stato avvisato del fatto che la città da qualche giorno era

oggetto di perturbazioni, ma scendendo dalla scaletta scopro che di inaccogliente c’è solo la

temperatura. Ormai è buio, del sole nessuna traccia nemmeno all’orizzonte, ma il cielo sopra la

città è limpido. La giacca a vento assolve il suo compito proteggendo a dovere dal freddo, che si

avverte dall’aria che spira sul viso. Ad aspettarmi c’è Sergio, Paola è ancora al lavoro e la vedrò

direttamente per cena, l'orario in cui la gente da queste parti esce di casa per il momento della

giornata in cui si accende la reale vita di Santiago, e della Spagna. Per essere il maggior

terminal della regione, quello di Lavacolla è un aeroporto piccolo, e arrivare all’uscita è

questione di un attimo. All’esterno, come in ogni aeroporto, nugoli di persone attendono

passeggeri appena atterrati: cerco Sergio tra individui di ogni età assiepati alla rinfusa di fronte

all’uscita passeggeri. Ci impiego un po’ a scorgerlo: mi aspettavo di trovarlo da solo, ma lo

scopro in compagnia di altre persone con le quali è preso conversare. E’ talmente impegnato nel

suo discorso che non guarda più nella direzione del gate e non mi vede arrivare.

«¡Hola hombre!»

«Hey…Ben arrivato. Fatto buon viaggio?»

Ci salutiamo. Con lui è dall’estate che non ci vediamo, da quando cioè Paola è andata via per

rimanere in Galizia a pianta stabile. Con Sergio ci sono un uomo, una donna e una ragazza,

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figlia della coppia. Scopro con sorpresa che sono gli zii di Paola, venuti a trovare sia la nipote

sia, soprattutto, la figlia, che come Paola ha deciso di spendere il proprio Erasmus in questa

città. La strada riserva sempre incontri e sorprese, e qui per un momento cinque destini diversi si

sono incontrati nello stesso istante, per poi tornare a riprendere i rispettivi corsi. Questo

contesto, per certi versi fortuito, di amici e parenti che si ritrovano all’estero mi insegna una

volta di più che ovunque ci si può sentire a casa. E’ una sensazione strana, ma indubbiamente

piacevole.

Sergio ci aiuta con i bagagli: si mette uno zaino in spalla e un trolley nella mano e ci conduce

verso la sua automobile. Carichiamo le nostre valigie e saliamo sulla vettura, quindi Sergio

mette in moto e nel giro di un paio di minuti l’aeroporto è già lontano, alle nostre spalle. La

strada scorre tutto intorno a noi, come sempre guardo fuori dal finestrino per studiare il

paesaggio circostante, ma l’oscurità non aiuta a percepire con chiarezza cosa ci scivola via

tutt’intorno. Chiedo a Sergio cosa ci aspetta per i giorni a seguire.

«Insomma, mi ha detto Paola che qui negli ultimi due giorni ha piovuto sempre. Sarà così

anche per questi giorni?»

«Mah, oggi ha piovuto la mattina poi ha smesso. Forse dovrebbe non piovere per un paio di

giorni, ma sai, qui a Santiago piove quasi sempre. La pioggia è una delle caratteristiche della

città: certo, non quella forte che ha fatto ieri, ma comunque qui piove quasi sempre».

«Si, me l’ha detto Paola. Come vedi ho la giacca impermeabile, e comunque nello zaino c’è il

k-way».

«Fai bene. Se devi girare fai bene ad avercelo».

«Personalmente spero non ce ne sia bisogno, è fastidioso girare per le città sotto la pioggia».

«E’ vero, ma se non hai visto Santiago con la pioggia, non puoi dire di averla vista veramente.

E poi a Santiago non ci sono temporali: di solito c’è un sottile strato di foschia che la mattina

avvolge la città e una pioggerellina fina fina che cade silenziosa, quella pioggia che ti bagna

tutto senza che te ne rendi conto».

Le premesse non sembrano promettere granché, ma qualunque cosa riserverà l’avvenire ci si

penserà a tempo debito. La macchina prosegue nel suo viaggio: senza che me ne sia reso conto

siamo entrati in città: sulla mia sinistra le luci mettono in risalto l’imponenza di un edificio di

architettura contemporanea.

«E’ la sede del parlamento della regione», ci spiega Sergio. Qui da queste parti c’è che

considera la Galizia qualcosa di più una regione, ma del resto in Spagna le suddivisioni

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amministrative più o meno speciali servono a celare, neanche senza troppo successo, le divisioni

socio-culturali. Ed economiche. Guardo la città che nel frattempo “è sorta” intorno a noi, e che

sempre più, col procedere dell’automobile, ci accoglie e ci circonda. Su strade non troppo larghe

si affacciano edifici graziosi e negozi di ogni tipo: le proporzioni sono quelle di un centro a

metà strada tra una città e un paese: un cittadina a “dimensione umana” che ben sposa la voglia

di vivibilità con l’assenza di frenesia e caos tipici delle grandi città. Ci addentriamo sempre più

per le vie di Santiago: Sergio ci dice di buttare un occhio sulla sinistra, dove tra due edifici si

apre un arco in pietra . «Quello- ci spiega- è l’arco de Mazarelos, l’unica porta rimasta

dell’antica cinta muraria medievale». Siamo appena arrivati, e già abbiamo potuto osservare

piccoli elementi dell’unicità di Santiago. Ci fermiamo ad un semaforo: con il rosso i parenti di

Paola scendono, il loro albergo è da qualche parte, lì nei paraggi. Li aiutiamo a scaricare i

bagagli, quindi ci salutiamo: sicuramente ci vedremo o più tardi o comunque nei prossimi

giorni. Risaliamo in macchina appena in tempo, il semaforo mostra il verde e ripartiamo.

Ci dirigiamo verso casa, dove Paola e Sergio mi daranno ospitalità per questi giorni. Usciamo

dal centro, adesso si rincorrono edifici moderni di dubbio gusto: non so se la si può definire la

zona periferica della città, anche perché rimane comunque vicina al centro, e la loro casa è poco

distante dalla stazione ferroviaria centrale, dove tra pochi istanti tornerà Paola. Di certo è una

zona più nuova, più residenziale, con meno locali.

«Qui gli appartamenti vengono per lo più affittati», mi spiega Sergio. «A studenti, lavoratori…

Gli affitti sono abbastanza accessibili, anche perché la condizione della casa è quella che è. Ai

proprietari non interessa la cura della casa, interessa solo affittarla e quindi molte sono rovinate

all’interno».

L’auto sterza per una traversa sulla sinistra, Sergio la parcheggia: siamo arrivati. Scarichiamo

il trolley e ci dirigiamo verso un portoncino a vetri che si apre su un normale palazzo. Saliamo

per le scale e arriviamo sul pianerottolo su cui si affaccia l’appartamento: entriamo, posiamo i

bagagli e ci riposiamo. Sergio mi indica quella che sarà la mia camera per questi giorni e mi

mostra la casa: di fronte all’ingresso si apre il saloncino, piccolo ma molto luminoso, con

graziosi mobili in legno; sulla sinistra c’è invece la cucina, stretta e poco vivibile. Nonostante ci

sia un tavolo questo finisce per essere un piano su cui posare oggetti di ogni tipo, perché la

concentrazione di macchina del gas, frigorifero, lavello e pensili in un vano così ristretto non

concede molto spazio per muoversi. Così in cucina si prepara e in salone si mangia. Sulla destra

si va verso le camere da letto: la prima, quelle degli ospiti, si apre sulla destra del piccolo

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corridoio, che termina nella stanza di Paola e Sergio; di fronte alla stanza degli ospiti si trova il

bagno, munito, con grande sorpresa, di bidè.

Sergio mi accoglie in casa offrendomi da bere. Mi porge una Estrella Galicia, la birra che va

per la maggiore da queste parti. Non solo a Santiago, ma in tutta la Galizia. E non solo.

«Questa è la birra di Galizia», sottolinea Sergio. «Puoi trovare altre birre, certo. Ma qui in

Galizia si beve principalmente l’Estrella. Poi puoi trovare la San Miguel, che pure è buona…»

«E la Mahou?»

«Pfff. Lascia stare. Come la conosci?»

«C’era un ragazzo che ho conosciuto in Erasmus che è un grande fan della Mahou. Aveva pure

la maglietta…»

«Di dov’era questo ragazzo? »

«Oviedo»

«Asturias! Ah ah, giusto asturiano. Devi sapere che gli asturiani non hanno birra, hanno il

sidro. A dir la verità in Asturias non hanno niente, e quindi devono sempre trovare qualcosa per

cui fare il tifo»

«Ma veramente?»

«Si. Ah ah, Asturias…»

Ci spostiamo in salone. Prima di sedermi mi guardo meglio attorno. Sulla destra, appena

entrati, c’è una libreria con in bella vista un foto di Paola. E’ bella, colorata. Forse ritoccata al

computer. Ma soprattutto nella foto incorniciata Paola ha un’espressione felice. Oltre la cornice

libri e dvd, in italiano e in spagnolo. Le cose di Paola e Sergio si sono incontrate e fuse insieme

anche tra i ripiani di questa libreria. Sulla sinistra, sulla parete che comunica con la cucina, un

divano dall’aria comoda. E’ posto di fronte al televisore collocato all’angolo destro della stanza,

quello di fronte alla porta d’ingresso, subito dopo la libreria. Sempre sulla sinistra, sulla parete

di fondo – quella con le finestre – un tavolo con al centro un vaso di fiori. E’ li che io e Sergio ci

sediamo.

«Allora, che succede in Italia?», mi chiede. «Che fa Berlusconi?»

«Le solite leggi ad personam. Piuttosto, ho letto di Garzón»

Baltasar Garzón è un giudice spagnolo della Corte suprema divenuto famoso in tutto il mondo

per aver incriminato – pur non avendone alcuna facoltà – il dittatore e generale cileno Augusto

Pinochet per crimini contro l’umanità. Un gesto simbolico, il suo. Che però è servito a tenere

alta l’attenzione delle opionioni pubbliche su determinate tematiche. In Spagna Garzón ha fatto

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scalpore quando ha chiesto liste di desaparecidos e fosse comuni delle vittime del franchismo a

ministeri, piccoli comuni e grandi città, amministrazioni di ogni tipo, fino alle parrocchie, che

ancora conservano i registri anagrafici del passato. Una mossa, quella del giudice spagnolo, che

ha riaperto ferite mai rimarginate e riproposto lo scomodo passato con cui il paese deve ancora

fare i conti: la guerra civil e il franchismo. Da questione spagnola che era, la determinazione di

Garzón nel suo voler indagare sulle vittime del regime che fu ha acquistato risonanza

internazionale, tanto che ormai tutti i quotidiani d‘Europa ne parlano. Persino le versioni on-line

dei principali quotidiani statunitensi dedicano post a Garzón e alla guerra civile spagnola. Inutile

dire che la cosa in Spagna ha riproposto il dibattito: la destra e la Chiesa cattolica di Spagna

hanno condannato l’azione di Garzón, la sinistra ha invece applaudito alle intenzioni del

giudice. Anche il primo ministro spagnolo, il socialista Luis Zapatero, ha accolto con favore la

richiesta di Garzón. Anche se questa richiesta delle liste delle persone scomparse ha generato

imbarazzi nello stesso governo socialista, che poco prima aveva approvato la Ley de la memoria

historica, con la quale si pensava di aver posto fine a un dibattito interno scomodo per tutti. La

legge in questione tra le altre cose riconosce infatti le vittime di entrambi gli schieramenti nella

guerra civile, e quelle della dittatura franchista.

So bene come la pensa Sergio. Che infatti approva. «Adesso c’è un gran dibattito in Spagna su

questo. Ma io penso che sia giusto sapere che fine hanno fatto quelle persone»

Guardo i fiori che con tutta probabilità ha messo Paola nel vaso che sta sul tavolo. «Almeno

per sapere dove portare i fiori…» rispondo io a Sergio.

«Già. Però, la destra e la chiesa criticano Garzón»

«Immagino. E dal loro punto di vista è comprensibile. Perché tornare a parlare della guerra

civile e del franchismo adesso?»

«E perché invece non parlarne?»

«Perché credo che in molti preferiscano non pensarci. Non dico dimenticare, perché non penso

sia possibile. Certe cosa non si cancellano. E fanno male a entrambe le parti. Ma forse anche il

semplice chiedere “voglio portare un fiore sulla tomba di un mio parente” basta per riaccendere

odi mai sopiti. E non so quanto questo possa fare a un paese già disunito dalla spinte

indipendentiste. A proposito: a quando l’indipendenza?»

«Ah ah ah. Ci stiamo lavorando»

Il tono della conversazione si era fatto troppo serio. Oltretutto al centro di una storia che non

mi appartiene e che non conosco come possono conoscerla gli spagnoli. Forse solo loro hanno il

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diritto di esprimere giudizi sul proprio passato, sulla guerra civile e sul franchismo. E’ per

questo che decido di cambiare decisamente tono della conservazione, scherzando sulla voglia di

indipendenza della Galizia e di tutte le altre comunità che in Spagna vorrebbero dichiararsi stati

sovrani. Ma Sergio lo tronca subito. «Ne vuoi un’altra?», mi chiede guardando la mia bottiglia

vuota.

«Beh, la seconda potremmo andare a prendere fuori una volta che torna Paola. Sempre che

non si debba attendere troppo…»

«Mmm, no. Paola dovrebbe essere qui a minuti. Anzi, sai che ti dico? Andiamole incontro»

Ci mettiamo le giacche e usciamo per le strade di una Santiago buia e fredda, silenziosa come

se già dormiente. Ma la vita è altrove, non distante da qui. Non facciamo molta strada, perché

Paola è già arrivata ed è sulla via di casa. Cappotto, borsa e una busta come della spesa nella

mano destra: la rivedo così dopo l’ultima volta che ci siamo visti, mesi fa. Nessuno di noi si

saluta: è un sorriso e un abbraccio a sancire l’incontro.

«Che bello! Vederti qui è bellissimo. Quasi non ci credo. Ce l’hai fatta a venire»

«Hai visto? E’ bello anche per me. Non vedevo l’ora»

Saluta Sergio e tutti insieme torniamo a casa. Paola deve posare le sue cose e prepararsi per la

serata. Il programma già c’è: me l’aveva anticipato lei stessa due giorni prima quando ci

eravamo sentiti al telefono. E’ cena fuori a base di tapas.

Le tapas sono assaggini di vario genere: ogni locale ha un proprio stuzzichino tipico, che

viene servito per accompagnare il consumo della bevanda. Di fatto potremmo definirlo

‘aperitivo’, anche se servito ad orari più inoltrati e con prodotti tipici. Paola e Sergio mi portano

a fare un “tour gastronomico” della città. Le prime tapas le andiamo a prendere nel centro

storico, in un locale che si affaccia su una delle tante stradine piene di vita di Santiago. Ovunque

è un via vai di giovani e tutto intorno è un unico brusio umano. La nostra prima portata è

all’interno di un locale con i muri in pietra viva: tra un’escrescenza e l’altra della parete sono

incastonati “i nichelini”, le monetine di piccolissimo taglio dell’euro. Paola mi spiega che la

caratteristica del locale è proprio questa: ognuno che viene lascia uno o due centesimi sulla

parete. Gli assaggini della casa sono delle patate fritte, non si sa se più fritte o intrise d’olio.

Ovviamente la fame si fa sentire e non si discute. E poi è proprio la consistenza e il “carico”

dell’assaggino il segno distintivo di questo posto. All’interno del locale ci imbattiamo negli zii

di Paola, che evidentemente per la serata hanno elaborato lo stesso programma. Paola va a

salutare i parenti, poi torna da me e Sergio per gustarsi la sua mini-porzione di patate fritte.

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«Mi hanno invitata a cena per domani sera», ci informa Paola.

«Quindi siamo solo io e lui domani?» chiede Sergio.

«Si, potete cenare soli soletti dove volete», ci sfotte. Poi però si fa dare una birra e propone un

brindisi. «Alla tua!»

«Alla tua!», ripete Sergio.

Beviamo.

«Sei proprio il migliore», mi fa Paola. «Tu sei riuscito a venirmi a trovare, mica come gli

altri…»

«O venivo adesso o non venivo mai più Paola»

«Ah sì?! E come mai?»

«Ho trovato lavoro. Mi hanno fatto il contratto da praticante, inizio il 3. Questi sono i miei

ultimi giorni di libertà. Quindi o venivo adesso o non lo avrei più potuto fare»

«Ma è fantastico. Allora bisogna festeggiare»

«Non credo che stasera mancherà occasione»

«Certo che no», interviene Sergio. «E neanche le altre sere»

«Immagino», gli faccio io. «¡Fiesta y siesta!»

«Ah ah ah ah»

Consumiamo la nostra razione di tapas. Il programma prevede di andare a deguastarne diversi

tipi in altrettanti posti. Per cui la seconda portata della nostra cena la andiamo a prendere al

Sant-Yago, una salumeria che sta sulla Rua Raiña, stradina in direzione opposta rispetto alla

piazza principale con la cattedrale. Il locale sembra essere di quelli tipici: subito entrati un

bancone accoglie la clientela, che si trova davanti a salumi e formaggi stagionati appesi al

soffitto a spiovere sul banco, che corre a ‘elle’ sulla destra di fronte alla parete – quella di

sinistra - dove sono sistemati quattro-cinque tavolini. Qui, per la natura stessa del posto, le tapas

sono rappresentate da jamon serrano (prosciutto crudo tagliato a mano) e cubetti di diverso tipo

di queso (il formaggio), prodotti che accompagnano il vino rosso della casa. Nei piattini che

contengono gli assaggini ci sono anche le empanadillas, sorta di calzoni– ma dalle dimensioni

di un’oliva ascolana- fatti di pastella fritta ripiena. Il ripieno varia: può essere di carne, ma

anche di zucca. Una variazione di contenuti che non cambia tuttavia la gustosità delle

empanadillas. Dopo primo e secondo segue il contorno: per noi questo è rappresentato da

piccoli peperoncini, simili ai nostrani friggitelli, che andiamo a prendere in un ristorante che si

trova sotto la piazza delle cattedrale. Sergio e Paola mi spiegano che sono tapas “a sorpresa”,

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nel senso che tra i piccoli peperoni verdi se ne nascondono alcuni piccanti.

«Però non è detto che ti capitino per forza», mi dice Sergio. «Magari te ne possono capitare

due o tre nello stesso piattino, ma possono anche non capitarti affatto. Ecco perchè è a

sorpresa».

Insomma, qui le tapas si trasformano in una roulette russa dove ognuno potrebbe ritrovarsi

con la lingua in fiamme. Ma per nostra fortuna non è il nostro caso. Consumiamo il nostro

bicchiere di rosso e torniamo per strada: risaliamo le scale e ci ritroviamo davanti alla cattedrale

di San Giacomo, imponente sulla piazza deserta e illuminata dai colori della notte. La Praza do

Obradoiro, con la sua cattedrale e il Palacio de Rajoy, sede della giunta della comunità

autonoma di Galizia, lascia senza fiato. Uno spazio racchiuso tra imponenti strutture di diversi

stili: gotico, barocco e neoclassico.

«Sai da dove prende il nome la piazza?», mi chiede Sergio.

«No»

«Dall’operaio che lavorava alla costruzione della cattedrale. Per costruirla c’erano i cantieri in

mezzo alla piazza, e ci sono stati per tanto tempo. Quindi la gente di Santiago ha cominciato a

chiamare la piazza la piazza del lavoratore, la Praza do Obradoiro in galego».

Il vasto spiazzo è dunque intitolato a chi lì si adoperava per la realizzazione della cattedrale, e

la Praza diviene così un punto di estrema sintesi tra architettura e urbanistica, tra autorità e

stratificazione sociale: il potere temporale e spirituale a fronteggiarsi uno davanti all'altro, con il

popolo a guardare nel mezzo. Costeggiamo la cattedrale, e lasciata la piazza alle nostre spalle

svoltiamo sulla sinistra, in una piccola piazzetta con aiuole e siepi che si apre subito dopo il

principale luogo di culto della città.

«Adesso dove lo portiamo?», chiede Paola a Sergio.

«Adesso? Beh, adesso andiamo al Dakar»

Andiamo a prendere un'altra birra a questo Dakar, un piccolo bar con un bancone e due

tavolini di legno e nulla di più sulla Rua Franco. Mentre consumiamo il nostro nuovo pasto e la

ci adoperiamo per svuotare anche il nuovo bicchiere, Paola e Sergio discutono sul da farsi: a

Paola è stato dato il turno pomeridiano e quindi non abbiamo l’assillo della sveglia, ma Sergio

deve andare a lavorare presto. Ci lascia alla nostra serata, lui va a concedersi doverose ore di

sonno.

Raggiungiamo la cugina di Paola in un pub ritrovo di studenti universitari, luogo di incontro

di ragazzi e ragazze provenienti da ogni angolo dell’Europa. Non ci fermiamo: preleviamo la

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cugina e andiamo via. Ci dirigiamo verso quello che il principale punto verde della città: il

parco de La Alameda.

«E’ il luogo di ritrovo degli studenti universitari, Erasmus e spagnoli. Tutti i venerdì escono a

fare il botellon e si ritrovano qui», mi spiega Paola. «E’ bellissimo. Intanto perché c’è un casino

di gente, e poi perché senti il vociare umano a distanza. E’ un po’ come il rumore

dell’oceano…»

«Il rumore dell’oceano?»

«Domani andiamo a La Coruña. Capirai»

Camminiamo per questo posto sconfinato. Ad “accoglierci” due statue raffiguranti altrettanti

signore, una vestita in rosso e l’altra in azzurro a indicare il posto quasi a voler dire “Guardate

in che posto siete”. E ha ragione la signora: per quanto buio, si capisce lo stesso quanto il posto

sia sconfinato e ricco di attrazioni. Non a caso è il principale parco cittadino. Situato vicino alla

cattedrale è quasi uno spartiacque tra il centro storico e la parte più nuova di Santiago. Viali

alberati, laghetti, aiuole fiorite, fontane: La Alameda è tutto questo e non solo. Non di rado si

aprono spettacolari vedute della città e dei suoi monumenti dalle diverse terrazze all’interno del

parco, che offre più di uno scorcio panoramico di Santiago. Arriviamo davanti a una panchina

semicircolare in pietra, con schienale sempre in pietra. Di fatto un muro ricavato nella parete di

uno dei tanti dislivelli in terra che costituiscono il parco.

«Glielo facciamo provare?» chiede Paola con complicità alla cugina.

«Si», fa lei

«Siediti qui», mi dice Paola indicando un’estremità della panchina.

La cugina si siede all’altra estremità.

«Ora digli qualcosa», dice Paola alla cugina. «E tu poggia l’orecchio al muro», dice a me.

Il suono corre sul muro, e con sorpresa apprendo di essere seduto sulla panca acustica, una

delle attrazioni di questo luogo dall'atmosfera magica.

Scendiamo una rampa di scale per arrivare a un grande spiazzo panoramico: è il punto di

ritrovo della città che vive di notte, anche se questa sera si vede che si sta vivendo altrove. Il

parco è solo per noi e per il freddo corre via per le strade e le piazze della città. Noi questa città

la guardiamo da una panchina che si affaccia sulle cattedrale e sulle vie di Santiago colorate

dalle luci dei lampioni. Ci fumiamo la nostra sigaretta dal gusto tutto speciale noncuranti della

temperatura.

«Non puoi capire che strano che è stare qui adesso», mi dice Paola.

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«Perché sei abituata a incontrarmi per Albano o Genzano e non all’estero?»

«Per tutto»

Non capisco a cosa alluda. «Sì, fa uno strano effetto. Strano e bello»

Restiamo ancora un po’ a resistere al clima poco benevolo, poi torniamo nelle vie della città.

La cugina di Paola ci lascia, ha altri posti dove andare e altre persone da abbracciare. Noi ci

dirigiamo per le stradine porticate e lastricate del centro.

«Ci sono ancora dei posti che devi vedere», mi confida Paola.

Percorriamo ancora altre strade lastricate e porticate fino ad arrivare a Cantón de San Bieito.

Qui, sotto uno dei portici in pietra che si affacciano sull’esterno, si “nasconde” l’Avante. Subito

oltre la porta musica ad alto volume e una coltre di fumo di sigaretta. E gente che balla e che

beve. Ma soprattutto simboli della rivoluzione portoghese degli anni Settanta, e bandiere

indipendentiste dei Paesi Baschi e della Galizia. E ancora effigi di Mao e immagini di Ho Chi

Min, e addirittura la bandiera del movimento di resistenza vietnamita dei vietcong. E poi

cartelloni di manifestazioni già tenute in nome di maggiori autonomie e riconoscimento

dell’indipendenza. Di fatto è uno dei luoghi di riferimento dei giovani di sinistra. Ed essendo un

luogo frequentato da studenti Erasmus, potremmo dire che è un luogo per la giovane

internazionale socialista.

«Non potevo non portarti qui», mi dice Paola sorridendo.

Ci fermiamo poco, il tempo di ascoltare le casse che sputano note e parole di Bella Ciao. Ci

rituffiamo nel freddo pulsare di questa notte galiziana, alla ricerca della nostra prossima meta. E

questa è una panineria dove mangiare quando le lancette iniziano a segnare orari notturni

sempre più inoltrati. Un locale quasi nascosto in una delle mille vie che si dipanano per il

centro, dove si possono “costruire” panini con tutto ciò che si vuole. Basta chiedere cosa c’è e

ciò che si vuole per fare lo spuntino di mezzanotte e oltre dei propri desideri.

«Non puoi capire quante volte ci sono venuta qui durante l’Erasmus», mi dice Paola

«E quante volte? Tutti i giorni, immagino»

«Praticamente sì», ammette ridendo.

Ci facciamo “costruire” i nostri spuntini di mezzanotte e oltre, quindi via di nuovo, per il

nostro cammino di Santiago. C’è ancora un’altra tappa nel nostro itinerario: un’altra discoteca.

E’ fuori il centro storico, ed è di quelle frequentate. Lo si capisce dalle persone assiepate fuori,

davanti all’ingresso.

«Che facciamo, andiamo?», mi chiede Paola, ben sapendo che non sono proprio tipo per posti

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

come questo.

«Andiamo»

La discoteca è sottoterra, al termine di una rampa di scale. Corpi in movimento, musica,

sudore e luci stroboscopiche sono lo scenario che ci ingloba in questa notte iberica. Balliamo un

paio di pezzi, poi andiamo via: anche per noi è giunta l’ora di rincasare

«Se domani mattina vogliamo visitare La Coruña dobbiamo alzarci a un orario che ce lo

consenta», mi ricorda Paola.

«Tanto mi svegli tu, vero?»

«Mmm… Mettila pure tu la sveglia, non si sa mai»

«Ho capito, ti chiamo io».

«Ah ah»

Camminiamo nella notte, per strade che già so che non riuscirò a memorizzare né a ricordare.

Nel mentre Paola mi chiede dei nostri amici, quelli che lei ha lasciato un po’ in Italia e un po’

altrove. E il discorso cade proprio su questi ultimi.

«Ho sentito Francesco», le faccio sapere. «E’ andato a Indianapolis a trovare Gabriele e

Andrea»

«Davvero? Grande Francesco. Che dice? Come sta Gabriele?»

«Bene. Con la moglie si sta comprando casa. Ovviamente li aiutano i genitori di lei, ma lui

lavora e mi dice che guadagna abbastanza bene. Insomma, non se la passa male»

«E Francesco?»

«Sta ancora qualche mese negli Stati Uniti, poi gli finisce la borsa e torna. Però mi è sembrato

un po’ giù»

«Come fai a dirlo?»

«Mah, nella mail che mi ha spedito ha scritto che è stato una notte intera a parlare con

Gabriele di quello che siamo, di ciò che eravamo e di ciò che non saremo mai più…»

«Madonna mia»

Il clima di spensierata allegria improvvisamente svanisce, sotto l’effetto del freddo, della

stanchezza e per via di certe idee che iniziano a popolare la mente. «Meno male che si sei tu»,

dice quindi Paola rompendo solo per un attimo il silenzio creatosi. Ma è appunto una rottura,

perchè in silenzio torniamo a casa, ognuno pensando ai fatti propri. Paola apre il portone,

saliamo le scale ed entriamo nell’appartamento. Qui le nostre strade si dividono: dopo essere

andati a turno nel bagno, ognuno va nelle rispettive camere.

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

La Coruña

Ci alziamo di buon mattino, nonostante le ore piccole della sera prima. Ma effettivamente il

tempo a disposizione è limitato. Quando io e Paola ci ritroviamo in cucina Sergio già non c’è

più. E’ andato a lavorare, ma ci ha lasciato pronta la macchinetta del caffè. I nostri visi dicono

tutto, e infatti non ci diciamo nulla. Ci muoviamo come automi per la casa, svolgendo

meccanicamente tutte le nostre azioni. Facciamo colazione, andiamo in bagno, mettiamo le

nostre cose nei rispettivi zaini e via, per strada, a prendere il treno che ci porterà a La Coruña.

La stazione del treno non è lontana da casa, ma tanto anche oggi il tempo ci ha riservato una

bella giornata di sole, e risulta davvero piacevole camminare.

«Che bella giornata. Siamo fortunati, c’è il sole. Pensa a girare per la città col brutto tempo»,

dico a Paola.

«Infatti. Invece guarda qua. Meno male, fino a due giorni faceva freddo e pioveva…»

«Te l’ho detto che avrei portato il sole…»

«Mamma mia!»

Prendiamo il treno, e la prima cosa che Paola fa è prepararsi per dormire.

«Io adesso dormo. Scusami ma devo dormire. Se vuoi ti posso dare qualcosa da leggere, però

è in spagnolo». E mi porge un albo di Mafalda.

Il treno si muove e inizia il proprio viaggio, Paola si immerge nel suo sonno e io mi alterno tra

la lettura di Mafalda e la visione del paesaggio che scorre fuori dai finestrini. Poi però, anch’io

mi abbandono sul sedile. Ci svegliamo che manca poco. Almeno così mi dice Paola.

«Siamo quasi arrivati. Alla fine anche tu hai dormito»

«Eh»

«Non c’hai più il fisico»

«Neanche tu. E’ inutile che fai la splendida»

«Mamma mia»

Il treno arriva alla stazione e ci ritroviamo così a La Coruña, A Coruña secondo

denominazione galega. Con Paola andiamo all’ufficio informazioni per prendere quello che poi

sarà il mio lasciapassare per la città: la mappa di La Coruña.

«Tieni, così dopo ti puoi orientare»

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

Lasciamo la stazione, attraversiamo la strada e andiamo in un piccolo supermercato per andare

a comprare il nostro pranzo: pane e affettati. Paola mi chiede se voglio andare al quartiere

Riazor, dove sorge lo stadio che ospita le partite del Deportivo. Una sorta di leggenda, dato che

il Real Madrid sono diciassette anni che non ci vince. E quindi tutti vogliono vedere questo

strano tempio del calcio. Ma non io. Quindi prendiamo un autobus e ci dirigiamo verso la Torre

di Ercole, all’altra estremità della città. Fuori dal finestrino si alternano palazzi, piazze, edifici e

mare. La Coruña si trova infatti su una penisola, e non a caso qui la definiscono balcón do

Atlántico, il balcone dell’Atlantico. L’autobus ci lascia davanti alla Torre di Ercole, simbolo

della città. Si tratta di un antico faro romano, ancora oggi funzionante e sembra che il nome

della città - La Coruña – derivi dal “columna”, che in latino vuol dire “colonna”. E il faro

ricorda per l’appunto una colonna. La struttura, di almeno 1.900 anni fa, è stata interamente

restaurata alla fine del XIII secolo ed il più antico faro romano. Si erge in mezzo al parco della

Torre, area verde ricca di sculture, panchine e punti da dove potersi affacciare per guardare

l’oceano e la scogliera sottostante. La Torre di Ercole e il parco della Torre si trovano infatti su

un promontorio, con pareti rocciose a picco sull’acqua che ricordano le scogliere irlandesi.

Tutt’intorno il brusio dell’oceano, un rumore come di motore, persistente e costante, ma

estremamente rilassante. Talmente forte da coprire i suoni della città, così da far sentire chi si

trova in quel luogo come su di un'isola deserta, lontano da tutto e tutti, a tutto e a tutti estraneo.

Paola e io passeggiamo per il parco della Torre, conosciuto come Parque Celta o Jardín de

Hércules, area di 47 ettari che con le sue sculture forma un autentico museo d’arte

contemporanea a cielo aperto. Ma una delle più piacevoli caratteristiche del parco sono le

panchine, che Paola tiene a farmi provare a tutti i costi. Si tratta di sedili modellati sulle piccole

collinette che si trovano tutt’intorno. Schienale e base seguono infatti il profilo naturale della

terra, e il cemento con cui sono costituite non fa altro che da involucro alla natura. Il risultato è

un posto davvero comodo dove abbandonarsi, come facciamo Paola ed io. Ci godiamo il sole, il

caldo, la bella giornata, il nostro momento di relax, la nostra libertà. Rimaniamo lì praticamente

tutto il tempo, rilassati come non capitava da tempo immemore. Per me almeno è così, ma a

vedere Paola è chiaro che è lo stesso anche per lei.

Restiamo lì anche a mangiare: mai posto oggi è migliore e più ideale di questo. Il pranzo non è

niente di che, direbbe qualcuno. Ma si dà il caso che il panino trasforma in pic-nic il nostro

essere in mezzo a tanto verde, a tanto sole, all’aria aperta. E’ un clima perfetto, e non solo per le

condizioni meteorologiche e atmosferiche. Mangiano e ci riabbandoniamo su questa panchine

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

che così comodamente e caldamente ci cullano. Ma dopo tanto adagiarsi Paola ha come una

premonizione.

«Che ore sono?»

«Le due e mezza»

«E’ tardi. Devo andare, sennò faccio tardi. Peccato, stavo così bene»

«Ma tu esattamente dov'è che stai?»

«A questa agenzia che offre assistenza agli stranieri che arrivano qui. Si chiama Ecos do Sur,

centro di accoglienza e orientamento. Arrivano soprattutto dal Sudamerica. I peggiori sono i

brasiliani: parlano solo brasilenho, non capiscono e non si sforzano di capire. Però mi trovo

bene»

Ce ne andiamo. Accompagno Paola a prendere il suo autobus. Lei mi spiega quale sarà invece

l’autobus che dovrò prendere io per tornare verso il centro della città. Arriva il mezzo e Paola va

al lavoro: le nostre strade si ricongiungeranno solo in serata. Cammino ancora per il parco della

Torre, cerco di memorizzare il più possibile di un simile paesaggio, perché non si ha mai la

certezza di poter tornare nei luoghi dove si va. Potrei entrare all’interno del faro, ma preferisco

investire il mio tempo per conoscere la città per quel poco che posso. Per cui vado alla fermata

dell’autobus e mi metto ad aspettare laddove mi ha detto Paola. Apro lo zaino e tiro fuori la

mappa della città che mi ha lasciato. Da adesso in poi sono solo: questo è il mio viaggio.

Attendo al caldo di questo sole sorprendentemente estivo l’autobus con cui rituffarmi nella

città, nascosta chissà dove, oltre tutto quanto mi circonda. Tutt’intorno è calma e calore: solo

una strada assolata percorsa da qualche passante in vena di passeggiate e vetture decise a

infrangere quel suono fatto di brezza spirante, gabbiani echeggianti nel cielo terso e acqua

rimbombante in lontananza. Rimango seduto a godermi questa giornata, questo angolo

magnifico e irreale dove tutto sembra essersi sospeso; chiudo gli occhi e mi lascio cullare dal

soffio del vento e dall’abbraccio del sole. D’improvviso un rumore sempre più insistente,

sempre più vicino: è la vettura che sto aspettando. Riapro gli occhi, mi alzo e sollevo la mano: il

conducente rallenta, l’autobus si ferma e mi spalanca le sue porte. Il mezzo mi riporta verso la

città nascosta chissà dove; procede dritto, lungo il tracciato immaginario per questo disegnato,

affacciandosi sempre sull’azzurro dell’oceano. Qualche macchina sulla sinistra, un autobus che

sopraggiunge in direzione opposta. Sulla destra né case né negozi, né edifici di alcun tipo. Poi a

un certo punto, quando sembra che stia puntando il blu profondo dell’oceano, nel seguire la

strada che scorre sotto di esso, l’autobus vira a sinistra. Dopo la curva, eccola di nuovo alla vista

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

del visitatore. La città con le sue case, i suoi abitanti, le sue macchine, e le sue caratteristiche

insegne di ogni tipo e colore. Ma nel blu che continuiamo a costeggiare, spicca il bianco di

quella lingua di sabbia che è la spiaggia che corre lungo tutta la Enseada do Orzan. L’insenatura

di Orzan è una delle due rientranze della costa che caratterizza La Coruña, stretta tra questa e

quella, dalla parte opposta della città, dove sorge il porto. La sabbia risplendente della luce del

sole rapisce il cuore, e viene voglia di calpestarne il suolo. Scendo proprio al centro

dell’Enseada. Qui il lungomare è popolato da persone di ogni età: chi porta a passeggio il cane,

chi spinge carrozzine, chi cammina mano nella mano con la persona che ama, chi affacciato al

parapetto contempla l’oceano e il suo infrangersi sulla costa, chi parla al telefono guardando ora

le onde ora volgendo lo sguardo alle auto e ai bus che sfrecciano per il lungomare. Ogni tanto la

balaustra in pietra si apre per permettere l’accesso alla spiaggia: due rampe di scale, una sulla

destra e l’altra sulla sinistra, congiungono la strada all’arenile. Scendo le scale e mi ritrovo a

calpestare questo ennesimo tesoro cittadino. Mi tolgo le scarpe e lascio che i miei piedi sentano

la sabbia, quella scaldata dal sole e quella umida nascosta sotto la superficie. Mi siedo al centro

della lingua sabbiosa, godendomi l’inattesa gita al mare. Il sole continua nel suo piacevole

lavoro, mentre l’agitarsi dell’oceano all’interno dell’insenatura sovrasta i rumori cittadini

coprendoli all’udito. Ancora una volta mi ritrovo rapito dallo scenario unico del luogo e dalla

giornata da favola che il tempo benevolo ha fatto il piacere di regalarmi. Resto seduto là, tra

l’oceano e la città, in quella sottile striscia che divide la fine del vecchio mondo dall’inizio delle

nuove frontiere di mare e d’oltre mare. Mi lascio irradiare della calda luce solare che illumina e

riscalda La Coruña, mentre la sabbia umida sotto i miei piedi dona un senso di piacevole

mitigante freschezza. Sulla riva bimbi vestiti di tutto punto giocano con l’acqua che si infrange

imponente sulla battigia, mentre in lontananza, tra i rigonfiamenti di un mare ingrossato e

roboante, alcuni surfisti giocano con quello spicchio d’oceano a rincorrere e cavalcare le onde

che la natura ha contribuito a generare: un paio di loro riescono a librarsi eleganti sulla

superficie acquatica increspata, gli altri invece vengono inghiottiti dal mare. Dagli abissi un

insegnamento agli umani: la natura non si governa e non si fa governare, al massimo, talvolta,

asseconda i desideri umani. Un grosso cane corre liberamente sulla sabbia, mentre più indietro i

proprietari camminano abbracciati: l’Enseada do Orzan è forse un’oasi dove ricercare il tempo

perduto? O uno spazio dove il tempo di ferma? Mi perdo nei miei pensieri, cullato da questa

sospensione di tempo e spazio: il mondo continua nel suo roteare, la città in sottofondo a vivere

e pulsare. Ma qui, adesso, tutto questo non conta. Lo sguardo va al bianco della sabbia,

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

all’intensità del mare: chiudo gli occhi. Paesaggi e volti, e tra questi ultimi il suo: biondi capelli

a cornice dorata di un radioso viso. Poi dissolvenze e nuovi scenari. Immagini che si susseguono

e si sovrappongono: sogni e ricordi di un giorno d’ottobre. Una madre che richiama il proprio

piccolo mi riporta alla realtà: è tempo di andare.

Rimetto calzini e scarpe, rivolgo un ultimo sguardo a questa incantevole spiaggia e torno sulla

strada, pronto per vivere la città. Do un’occhiata alla cartina, non per capire dove mi trovi, ma

per stabilire dove dirigermi. Nonostante la città a me estranea, non mi ci vuole molto per trovare

il mio percorso: percorro per un attimo la via principale, la Avenida Pedro Barriè de la maza che

corre lungo il profilo della Enseada do Orzan e che cinge la spiaggia come in un abbraccio;

quindi imbocco Rua do Sol, via stretta – a dispetto del nome – completamente all’ombra. A

illuminare la via le luci provenienti dai negozi e la policromia della varietà di oggetti e merci

esposti nelle vetrine, che decorano con mille colori la piccola stradina, che confluisce sulla più

larga e frequentata Rua San Andres. Qui ancor più negozi e “movida”, nonostante l’ora e le

temperature. Rispetto alla strada appena lasciata, qui il sole splende in tutta la propria

magnificenza, riverberando sul lastricato cittadino. La percorro per pochi metri, perché svolto

subito per Rua do Torreiro, altra stradina secondaria – anche questa all’ombra – quasi a giocare

a rimpiattino: non so se con il sole o con il suo oscuro opposto. Taglio perpendicolarmente Rua

da galera os olmos e tiro dritto, quindi mi ritrovo su un’altra strada: alla mia sinistra prende il

nome di Rua Riego de Auga, a destra Rua Real. E’ a sinistra che vado, per giungere alla Praza

de Maria Pita. Sulla piazza si staglia imponente il palazzo del comune, edificio neoclassico di

fine Ottocento. Tre piani per altrettante cupole rosse – due alle estremità e la terza, poco più alta

rispetto alle altre due, al centro- in una struttura di portici, colonne, decorazioni e fregi. Di

fronte all’Ayuntamiento – come si chiama “Comune” in spagnolo – un monumento dedicato a

Maria Pita e celebrativo della libertà. Non capisco a cosa si riferisca il monumento: questi

luoghi narrano una storia che non mi appartiene. Attraverso la vasta e assolata piazza, e

imboccando la Avenida Angeles – all’altra estremità della praza – mi avventuro per il “cuore” di

La Coruña: la città vecchia o, come dicono da queste parti, la cidade vella. Stradine piccole e

strette con pavimentazione irregolare e a tratti sconnessa si aprono tutt’intorno: abitazioni

dall’aria antica, che ben mostrano il lungo passato del luogo.

Le vie parlano e raccontano la propria storia: qui l’amministrazione comunale ha infatti voluto

porre delle targhe con cui, sinteticamente, ricordare a chiunque si trovi a camminare per questi

luoghi il passato che li contraddistingue. Ogni piazza, ogni palazzo, ogni angolo della cidade

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vella è corredato da un cartello che in doppia lingua- castigliano e inglese- ne spiega l’origine e

le principali funzioni acquisite nel tempo. In questo modo, nel ritrovarsi in un ombreggiato e

verde spiazzo che si apre improvvisamente nel mezzo della salita, si può scoprire che lo spiazzo

in questione è la praze do xeneral Azcárraga (piazza del generale Azcárraga), la piazza

principale dell’antica città e uno dei posti pubblici e cittadini più importanti: qui infatti avveniva

la vendita del grano, e sempre qui si celebravano tutte le feste popolari più sentite. La piazza è

stata intitolata all’ufficiale che nel 1896 restituì la capitaneria generale a La Coruña, portando a

termine l’unione della città con il resto della provincia. Il centro storico è raccolto su sé stesso,

quasi a voler stringere tra le proprie braccia la persona che lì vive o semplicemente passa: le

stradine sono piccole e strette, e le piazze mai dispersive. Strade acciottolate ed edifici in pietra

si alternano a vicoletti ombrosi e a giardinetti nascosti. In questa parte di città così minuta e

raccolta anche i luoghi di culto, tradizionalmente imponenti, si adeguano all’urbanistica

esistente. Così la chiesa che si apre sulla sinistra, si affaccia sulla piazzetta come un qualunque

edificio. Solo il rosone tipico dei luoghi di preghiera cristiani e l’immancabile campanile

manifestano la natura dell’edificio. A spiegarne la storia la targa posta all’esterno, sul piazzale

su cui poggiamo i gradini della chiesa. E’ la colegiata de Santa María del Campo, una delle

chiese più antiche della città. Risalente all’XII secolo, fu terminata nel 1302. In origine si

trovava fuori le mura dell’antico nucleo cittadino, e solo successivamente venne inglobata nella

città. E’ una struttura piccola ed essenziale. Di stile romanico, solo un secolo dopo la sua

costruzione acquistò importanza diventando la collegiata che è ancora oggi. La Chiesa cattolica,

infatti, con il titolo di “collegiata” indica una chiesa di una certa importanza, nella quale è

istituito un Collegio o Capitolo di canonici, vale a dire di sacerdoti. Mi spingo fino ai giardini di

San Carlo, ciò che resta del castello a difesa della città vecchia posto fuori le vecchie mura. Il

castello risale al XIV secolo, e restò unito alla città fino al XVI secolo. Col tempo perse via via

il proprio ruolo di baluardo difensivo e così la fortezza vecchia finì con l’essere abbandonata.

Nel corso del 1700 Carlos Francisco de Croix, marchese di Croix ma soprattutto viceré della

Nuova Spagna tra il 25 agosto 1766 ed il 22 settembre 1771, recuperò la struttura facendone dei

giardini, che donò alla città e che ancora oggi sono visibili a tutti. Torno verso piazza Maria

Pita, non prima di aver visto la piazza della Costituzione. La Plaza de La Constitución è infatti

un altro luogo che racconta, nel suo piccolo, un pezzo di storia di Spagna. Sulla piazza si

affaccia ancora quella che potremmo definire la “città militare”, costituita dalla Capitaneria

generale e dai suoi uffici. Le capitanerie erano divisioni amministrative e militari che l’impero

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

spagnolo creò per le colonie d’oltremare, in particolare in America e nelle Filippine. Nate per

difendere i possedimenti della corona spagnola in quelle zone considerate a rischio di attacchi di

popolazioni indigene, vennero istituite per la prima volta in Spagna agli inizi del XVIII secolo

durante la guerra di successione spagnola, quando l’Europa era ancora lontana dall’Europa che

conosciamo oggi. Torno a piazza Maria Pita, per poi immettermi sul lungomare del porto. Qui

non so dove rivolgere lo sguardo: i palazzi che si affacciano sulla Avenida da Marina sfoggiano

le caratteristiche galerias, i balconi a vetri che donano alla città un aspetto unico. Per tutti La

Coruña è the glass city, la città di vetro. Questo proprio per i tipici balconi, racchiusi e

incastonati in strutture a vetri. La galeria era molto di moda quando buona parte della città

venne realizzata, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento; e poi le case

originarie dei pescatori erano costruite così, con le galerias, per cui si pensò di mantenerle per

dare continuità architettonica – e quindi anche artistica – alla città. Ma questi tipi di balconi non

sono pensati per l’estetica, almeno non secondo lo spirito del tempo: originariamente si ritenne

fossero la soluzione architettonica migliore contro le intemperie del posto. E da allora Coruña

ha continuato ad essere la “città di vetro”. O “città di cristallo”, come la chiama qualcun altro.

A fare da contraltare al fascino unico delle case della città galiziana, le barche di tutti i tipi e

dimensioni ancorate tra il porto e il club nautico della città. E’ un’unica continua fila di yatch e

panfili, e tutt’intorno l’odore della salsedine e gli echi dei richiami dei gabbiani in volo.

Immagini, odori e suoni di mare. Cammino per il lungomare, il Paseo maritimo Alcalde

Francisco, larga fetta di strada pedonale lastricata di rosso, che corre lungo l’insenatura

orientale della penisola su cui si estende la città, lambendo il porto e giungendo fino

all’estremità settentrionale, all’isolotto su cui sorge il castello di San Antón. E’ li che mi dirigo,

camminando affacciato sul mare e seguendo il perimetro della città medievale che si trova

dall’altra parte della strada. E io la percorro tra il sole che riverbera sull’acqua e si riflette sul

selciato, il sale e la salsedine, il rombo dei motori delle barche e il garrito dei gabbiani. Il sole

che già si è fatto più lontano irradia coppie di giovani amanti, ciclisti, semplici passanti e anche

qualche atleta che corre: in questa area pedonale, la gente vive la propria vita e la propria città, e

si riappropria del proprio tempo. Giungo al castello di San Antón: anche qui la città si racconta.

Appesa all’ingresso una targa che ripercorre, sinteticamente, la storia del costruzione: realizzata

nel XVI secolo appena fuori la città vecchia e sul mare, la fortezza servì come bastione di difesa

della città fino al XIX secolo, quando cominciò a essere usata come carcere. Il castello rimase

una prigione fino al 1963, anno in cui venne trasformato nel museo di storia cittadina.

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L’ingresso è dunque a pagamento. Sono curioso di vedere come la fortezza di San Antón sia

all’interno, ma mi chiedo quanto tempo occorre per visitarla. E soprattutto mi chiedo che ora si

è fatta. Guardo l’orologio: il tempo sa scorrere rapido. E’ ora di tornare. Guardo ancora per un

istante l’esterno del castello, quindi torno per dove sono venuto, tra il sole che riverbera

sull’acqua e si riflette sul selciato, il sale e la salsedine, il rombo dei motori delle barche e il

garrito dei gabbiani. Anche in questo mi muovo a piedi: voglio giungere alla piazza che ospita il

palazzo di Giustizia, prima di tornare verso la stazione del treno. Si trova a Praza de Galicia: qui

si staglia imponente il grande edificio bianco neo-classico sede del Tribunal Superior. Si

affaccia su di una piazza in mattonelle bianche e cornici nere, perimetrata da panchine e alberi.

Uno scorcio monumentale e verde, frequentato da una moltitudine di persone, anche per via

delle fermate degli autobus poste al ciglio della strada. Con il mio spagnolo esitante e

imbarazzato chiedo dove devo prendere il mio bus per la stazione: mi dicono che non è qui.

Capisco che devo attraversare la strada e poi è «la secunda a la derecha». Ho capito bene. Trovo

la mia fermata, e dopo pochi minuti arriva il mio autobus. Una volta salito inizio a guardare la

città che sfreccia fuori dai finestrini: palazzi e case che si alternano in velocità, piazze e persone

che passano e scivolano via nel giorno che lentamente muore. Alzo la testa: i palazzi che mi

circondano li riconosco. Devo scendere. Purtroppo il mio senso dell’orientamento si è destato

troppo tardi, e quindi l’autobus riparte prima che faccia in tempo ad avvicinarmi alle porte. Poco

male, scendo alla fermata successiva. Cerco qualcuno a cui chiedere, qualcuno che possa fare al

caso mio. Arriva un’anziana signora con un trolley al seguito: ho trovato la persona che stavo

cercando. Le chiedo informazioni per la stazione, mi risponde di seguire il tracciato della pista

ciclabile e che così facendo arrivo proprio allo scalo ferroviario. La ringrazio, le chiedo se le

serve una mano per il bagaglio. Ma lei mi fa notare che non lo deve trasportare, ma solo tirare.

Non ha bisogno di aiuto, al contrario di me. Ringrazio ancora, e affretto il passo: sono le quasi

le otto. In pochi minuti sono alla stazione, chiamo Paola.

«Ohi, ciao»

«Ciao»

«Beh? Com’è andata?»

«Bene. Ho fatto un bel giro. Ho girato a piedi per la città tutto il tempo, e adesso sono alla

stazione».

«Ah, sei già lì? Sei riuscito pure a tornare al treno? Mamma mia. Senti, io ancora qualcosa da

fare, roba di dieci minuti. Se non ti secca aspettare…»

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

«Nessun problema. Tanto ho il giornale. Ti aspetto qui»

«Dai, a tra poco allora»

Mi siedo su uno dei seggiolini della sala d’attesa della stazione, a leggere El Pais. E’ strano: mi

riesce più facile leggerlo che parlarlo, lo spagnolo. E capirlo, soprattutto. Forse è perché avendo

il testo, ho il controllo della lingua… Mah, misteri della lingua e dell’individuo. La crisi politica

in Israele, le critiche a Garzon in Spagna per la questione della guerra civil: leggo quello che

succede, per una volta da un altro punto di vista. Quello di un altro popolo.

Squilla il telefono: è Paola.

«Ohi, senti: qui le cose vanno un po’ per le lunghe. Raggiungimi qui. Dalla stazione è vicino.

Ora ti spiego come arrivarci, intanto segnati l’indirizzo».

Rua Ángel Senra 25, primo piano. Fortunatamente la piccola cartina contiene anche questo

indirizzo, nell’estremità in basso a destra. Ancora mezzo centimetro e avrei dovuto chiedere a

un passante. Arrivo a destinazione, ma non me la sento di citofonare: cosa risponderei? “Sono

l’amico di Paola”? Telefono a Paola.

«Ohi…».

«Sono qui sotto».

«Ti apro. Vieni su».

Mi accoglie una ragazza mora, collega di Paola, che mi presenta gli altri colleghi ancora in

turno. Il suo capo, tanta accoglienza e simpatia. Simpatia che non riesco a cogliere a pieno

perché non capisco quando mi parla, e il mio spagnolo imbarazzato è ancora più imbarazzato.

Mi sento come quei brasiliani di cui mi ha detto Paola, che non capiscono. Solo che io a

differenza loro non parlo neanche il brasilenho. Alla collega Paola spiega che anch’io ho fatto

l’Erasmus.

«¿Donde?», mi chiede la ragazza mora.

«Olanda», le faccio io.

«¿Y cuanto tiempo estuviste?»

«Siete meses»

«¡Carramba!»

Non so perché, ma agli occhi dei presenti sono una sorta di supereroe, solo perché in grado di

resistere a sette mesi di vita nei Paesi Bassi. Il clima, comunque, è gioviale. L’impressione che

colgo è che Paola lavori con persone simpatiche, allegre e molto alla mano. Ma è

un’impressione, e le impressioni, si sa, possono essere anche errate. Restiamo una decina di

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minuti, Paola deve finire di parlare con il responsabile. Io faccio un giro per la sede di Ecos do

Sur, composta di piccole stanze arredate con lo stretto necessario: tavoli e scrivanie, sedie,

armadi e scaffali. Il classico arredamento da ufficio, insomma. Ne approfitto per usufruire del

bagno, poi io e Paola salutiamo e andiamo via.

Arriviamo alla stazione, dove dobbiamo attendere per il nostro treno. Inganniamo l’attesa nel

negozio all’interno, che vende giornali ma anche roba da mangiare. Caramelle e stuzzichini, per

lo più. Cose come pistacchi, bruscolini e noccioline. Decidiamo di prendere un paio di manciate

di questi cibi, per sgranocchiarli in treno durante il viaggio. E questo avviene, come da

programma. Prendiamo il treno, e seduti sulle nostre poltroncine, ci rilassiamo.

«Insomma, che giro hai fatto? Che hai visto di La Coruña?»

«Ho visto un sacco di roba. Ho fatto un bel giro. Poco dopo che te ne sei andata ho preso

l’autobus e sono arrivato a Orzan e lì sono sceso. Sono andato in spiaggia»

«Hai visto che bella?»

«Favolosa. Bellissima, così bianca… E poi oggi, con questo sole…»

«Mamma mia! Io dal parco della torre di Ercole non sarei mai venuta mai via. Si stava di un

bene…»

«Anche in spiaggia, fidati. Non puoi capire quanto mi sono sforzato per andarmene. A un

certo punto mi è quasi venuto voglia di mettermi a dormire in spiaggia…»

«Ti capisco. Anch’io avrei tanto dormito su quella panchina… E poi dove sei andato?»

«Dunque: da lì ho preso per Rua do Sol…»

«Ammazza! Già ti sei imparato i nomi delle vie?»

«Beh, sì. Ho studiato il percorso sulla mappa…»

«Complimenti»

«Poi sono andato a piazza Pita…»

«Hai visto che bella?»

«Sì. Il palazzo dell’Ayuntamiento è qualcosa di fantastico»

«E’ bello, sì. Ma anche la piazza…»

«Poi da lì sono andato alla città vecchia, ho visto i giardini, sono tornato indietro e sono

andato al porto. E dal porto sono andato al castello di San Antón»

«Sei arrivato fino lì?»

«Sì, ma non sono entrato. Sono arrivato all’ingresso ma sono rimasto fuori, si era già fatto

tardi e dovevo tornare indietro»

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

«Ma sei andato in autobus?»

«A piedi. Mi piace girarle a piedi le città. Poi con questo bel tempo»

«Quindi hai camminato tutto il giorno?»

«Si»

«Mamma mia. Ti invidio. Io non so se ce l’avrei fatta»

«Poi dal castello sono tornato al palazzo di giustizia, e da lì ho preso l’autobus per la stazione»

«Però, hai fatto un bel giro»

«Sì, infatti confesso di essere un po’ stanco»

«Ci credo. Mangia.»

Consumiamo il nostro pasto fatto di cibarie da stuzzicare. Per certi aspetti, è come se stessimo

anche stasera mangiando le tapas, anche se in realtà si tratta di un semplice antipasto, un

assaggino il cui unico scopo è bloccare la fame in attesa della cena vera e propria. Che Paola

farà al ristorante con gli zii e io a casa con Sergio.

Il treno arriva puntuale a Santiago. Ci avviamo verso casa, in un clima meno amichevole di

oggi. Il cielo ormai buio ci ricorda che l’estate è finita da un pezzo. Ci avvolgiamo nei nostri

cappotti e continuiamo ad andare. Non ci vuole molto, e infatti in pochi minuti siamo già sotto il

portone. Saliamo le scale e apriamo. Ci accoglie Sergio. Ha già preparato la cena. Io e Sergio ci

sistemiamo a tavola, Paola va a farsi una doccia e cambiarsi. Prima di uscire si affaccia in

salone per sfotterci. «Oh, divertitevi. E godetevi la vostra serata romantica…». Quindi esce

chiudendosi la porta dietro di sé.

«Allora, ti è piaciuta La Coruña?», mi chiede Sergio.

Gli racconto ciò che ho fatto e tutto quello che ho visto. Dove sono stato, che percorso mi

sono costruito su quella piccola mappa presa all’ufficio informazioni. Gli parlo di quanto sono

rimasto felicemente stupito di poter leggere la storia della città vecchia. «Peccato che non

abbiano messo spiegazioni sul monumento a Maria Pita. C’è solo una lapide che esalta la

libertà, ma non ho capito a cosa fa riferimento»

«Alla lotta contro gli inglesi»

«Alla lotta contro gli inglesi?»

«Nel 1589 le armate di Francis Drake avevano circondato La Coruña e aperto una breccia

nelle mura di difesa. Iniziarono l’assalto alla città vecchia guidati da un militare che sventolava

la bandiera britannica. Questa Maria Pita, pare dopo che gli invasori le uccisero il marito, si

scagliò contro il portabandiera britannico e lo uccise. Sembra che una volta che fu successo

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

questo disse “chi ha onore mi segua”. Insomma, guidò la resistenza cittadina contro l’invasore

straniero. I britannici non riuscirono a prendere la città, e oggi ci sono i monumenti a Pita e alla

libertà che hai visto»

Adesso un altro mistero di La Coruña mi è stato svelato. Continuiamo la nostra cena, e alla

fine, inevitabilmente, il discorso cade sulla politica. Ancora una volta si parla di Spagna, anche

se per qualcuno Spagna non è. Ragioniamo infatti sulla questione basca e sull’indipendentismo

spagnolo. Perché non ci sono solo i Paesi Baschi a volere la secessione, ci sono anche Catalogna

e Galizia.

«Ma noi non siamo per la violenza», ci tiene a sottolineare Sergio. «Non siamo come l’Eta»

«Sai? Io una soluzione al problema basco l’avrei»

«E quale sarebbe?»

«Sei mesi indipendenti e sei mesi Spagna. Così sono tutti contenti»

«Ah ah ah. E’ vero. Non ci avevo mai pensato. Secondo me è geniale»

«Che fai, mi prendi in giro?»

«No, davvero. Penso che sia una soluzione magnifica»

Sergio l’ha davvero trovata una buona idea, non scherza. Dice che la proporrà in giro. Chissà,

semmai dovessero adottarla i baschi, potrebbero farlo anche i galiziani. Finiamo di cenare, io

vado a farmi la doccia, e una volta rimesso a nuovo siamo pronti per uscire.

Paola è ancora al ristorante con i suoi parenti, quindi io e Sergio dobbiamo ingannare l’attesa.

Si va a bere. Sergio ci tiene a mostrarmi un’enoteca, la vinoteca O’beiro, in Rua Raiña. Il posto

è ben diverso dagli altri che abbiamo frequentato ieri. Tavolini ben apparecchiati, mobili in

legno con bottiglie di vino ben sistemate a far bella mostra di sé. Travi in legno sul soffitto e,

oltre una scala che si apre in fondo sulla destra, un soppalco ad ospitare il ristorante. Sì: ai piani

alti si mangia, a quelli bassi si degusta vino. Si può prendere a bicchiere o a bottiglia, al tavolo o

al banco. Noi lo prendiamo al banco.

«Che vino vuoi?», mi chiede Sergio

«Tu quale mi consigli? Non conosco i vostri vini»

Alla fine prendiamo un bianco. Svuotiamo lentamente i nostri bicchieri parlando del più e del

meno, di cosa fare domani. Perché per domani, mi anticipa Sergio, si prospetta una trasferta in

terra asturiana.

«Ah ah ah. Proprio tu in Asturias! Tu che così tanto li apprezzi»

«Si, lo so»

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

Il telefono di Sergio squilla: è Paola che ci dice che la cena è finita. Finiamo ciò che resta del

nostro bianco, saldiamo il conto e ci dirigiamo verso il ristorante indicatoci da Paola. Arriviamo

che sono ancora tutti a tavola, ma pronti a muoversi. Così in cinque minuti siamo tutti per

strada, e tutti ci dirigiamo al Sant-Yago per un bicchiere di vino. La compagnia è piacevole, così

come piacevole è il clima creatosi. Ancora una volta persone che si trovano per strada, in

viaggio, lontano da casa propria ma comunque sempre in grado di fartici sentire, a casa. Così ci

ritroviamo tutti quanti in piedi al bancone a bere e parlare come se ci fossimo sempre

conosciuti, come se fossimo amici di vecchia data. Con Paola è sicuramente così, ma questo

vale solo per lei. Eppure è come se valesse anche per tutti gli altri, e ciò è sorprendentemente

bello. Ma non è forse tempo di abbandonarsi a simili considerazioni, è tempo di godersi la sera

che muta in notte. Come ci ricorda la cugina di Paola.

«Vabbè, io vado. Ci vediamo, buona serata a tutti»

Di punto in bianco se ne va, lasciandoci alla nostra serata. Ha altri impegni, ha tutta una notte

da vivere e un’intera città da scoprire. Ha tutto il suo Erasmus davanti a lei. Per questo nessuno

di noi, per quanto sorpreso dal modo fulmineo con cui si congeda, se la prende. Anzi, capiamo

perfettamente. Noi passiamo dal Sant-Yago alla salumeria accanto, per assaggiare i vari tipi di

chorizo locali e nazionali, sempre accompagnati da un buon bicchiere di vino. Io e lo zio di

Paola discorriamo di tutto: dall’incontro di tennis appena vinto da Seppi al viaggiare, dai posti

visti a quelli che si vorrebbero vedere. Ma i temi variano e spaziano: si parla di tutto. Mi dà

diversi consigli, ma uno su tutti è forse quello che finisce col cambiarmi la vita.

«Quando hai mal di gola sai che devi fare? Gargarismi con la Coca Cola»

Non ci avevo mai pensato. Eppure capisco che non è un consiglio campato per aria. Adesso

che me lo dice mi ricordo improvvisamente di mio padre che usava la stessa bibita per ripulire

dalla ruggine i chiodi ossidati. E per me che ho la gola perennemente infiammata questa

rivelazione può essere davvero una svolta.

Usciamo anche da questa salumeria, e qui le nostre strade si separano: noi ci dirigiamo verso

La Alameda per il botellon (il bere bevande alcoliche in gruppo per le vie e le piazze della città),

mentre gli zii di Paola tornano verso l’albergo. Anche se lo zio di Paola prova ad unirsi a noi.

«Quasi quasi vengo pure io a fa sto bottojo’», esclama in dialetto.

Ma in realtà scherza. Non ci accompagna alla nostra prossima meta, se ne torna con la moglie

nella sua camera. Noi salutiamo e ci dirigiamo alla terrazza panoramica dove siamo stati la sera

prima, quella che si apre dopo aver oltrepassato la panchina acustica e disceso una rampa di

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

scale. Ma stavolta l’effetto è del tutto diverso. Il brusio umano si sente eccome. Ed è un oceano

di persone. Ovunque, tante, di tutte le lingue e di tutte le età. Studenti di ogni dove in ogni dove,

a bere, parlare, conoscere, offrire, divertirsi. Uno spettacolo. Riusciamo a individuare e

raggiungere la cugina di Paola, e con lei stiamo a goderci una parte di serata. Si ride, si scherza,

qualcuno ci fotografa e ci chiede di essere fotografato. Si conoscono persone mai viste prima e

vai a capire se mai rivedremo, ma è tutto un clima di festa e di gioia di vivere. E di stare

insieme. Questa è un’altra faccia di Santiago: capoluogo della Galizia, città di pellegrini e di

studenti, e soprattutto di persone che si incontrano e si ritrovano, proprio come noi. Ma per noi

adesso è il momento di andar via: domani c’è un viaggio che ci aspetta.

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

In Asturias e ritorno: Santiago, Pravia e Ribadeo

Anche oggi c’è sole e fa caldo. Questa ottobrata galiziana è sorprendentemente e

inaspettatamente piacevole. Paola e Sergio sono impegnati, li lascio alle loro cose e da solo mi

avventuro per le strade di Santiago. Paola mi porge una guida turistica contenente informazioni

e mappe di Santiago. La ripongo nel mio zaino, quindi esco per la mia visita in solitaria della

città, alla ricerca di nuovi posti e di altri scorci da poter scoprire. Ma senza troppa fretta, perché

in fin dei conti questo viaggio è anche vacanza e quindi è anche giusto cercare di viverla come

tale. Per questo una delle prime cose che faccio è andare in un bar per un caffè. Attraverso la

Praza do Obradoiro immersa nel sole e pullulante di gente. Fedeli, per lo più. E’ giorno e ora di

funzione, e molte persone sono in attesa che la messa finisca per poter entrare. Ci sono credenti

che si sono attardati, turisti che vorrebbero visitare la basilica di San Giacomo, curiosi. Ecco

l’altra faccia di Santiago: città cattolica e di credenti, meta di pellegrini e viandanti, comune di

Galizia e Spagna ma centro cosmopolita. Mi fermo a contemplare la maestosità della piazza,

quindi procedo oltre e mi avvio per la Rua de San Francisco, lungo la quale si estende la facoltà

di medicina. Qui trovo ciò che stavo cercando: un piccolo bar dove prendere il caffè.

«¿Solo?» mi chiede la proprietaria dopo che le ho ordinato il caffè.

«Solo, gracias»

«¿Seguro?»

«Seguro»

«¿No quieres otra cosa?»

«No, gracias»

Questa sua insistenza mi coglie di sorpresa e mi indispettisce, non mi aspettavo una reazione

simile. Prendo il caffè e me ne vado. Mi dirigo verso l’arco de Mazarelos, l’unica porta

medievale rimasta di cui Sergio mi ha parlato il giorno in cui sono arrivato. Ci arrivo a piedi,

attraversando stradine e vicoli. Una volta giunto alla porta la oltrepasso e mi siedo su una delle

panchine che si trovano nella Praza de Mazarelos, piccola e ombreggiata per via degli alberi che

la circondano. Ma è solo una sosta, che mi serve per studiare la guida che ho nello zaino e

tracciare la rotta del mio cammino. La mia prossima meta è poco più avanti: è il mercado de

Abastos, antico mercato cittadino tutt’oggi aperto e operante. Ci arrivo per vicoli interni e

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

stradine nascoste: una di queste è strettissima, vi può passare solo una persona. Gli edifici quasi

si toccano, ricorda quasi un carrugio genovese. Svicolo a destra per una stradina più larga per

ritrovarmi in un piccolo slargo dove campeggia un brullo albero dal fusto cinereo, per un quadro

dai toni surrealisti in chiave reale. Oltrepasso questo singolare scorcio di natura morta e mi

immetto su una strada che scopro essere Rua das Ameas: è quella che sto cercando, e infatti

poco dopo ecco aprirsi sulla mia destra lo spazio dove sorge il mercado de Abastos. Il mercato è

attivo da tre secoli, e dalla seconda metà del 1800 rifornisce di prodotti freschi non solo la città

ma tutta l’area circostante. Va detto che il mercato è da sempre un punto fondamentale di

Santiago, poiché l’antico mercato cittadino, il Mercado de la Ciudad (il mercato della Città,

appunto), era concentrato in un’unica grande area: non è un fatto di poco conto, dato che era la

prima volta che veniva dato un tetto ai diversi mercati esistenti nella Compostela di allora.

L’attuale struttura risale al 1937, quando il vecchio mercato venne abbattuto per costruire

l’attuale Plaza de Abastos. Successivamente, nel 1941, venne completato il riassetto del nuovo

Abastos. Si sviluppa su un’area di oltre 5.600 metri quadrati, e vanta ben otto strutture in

muratura dove si collocano i vari banchi. Si vende di tutto: dalla carne al pesce, dai legumi ai

gioielli. Di fatto si hanno otto diversi mercati concentrati in uno stesso spazio. E’ grande e

labirintico, e l’imbarazzo della scelta non manca davvero. Ci sono 36 banchi di macelleria, 30 di

pesce e frutti di mare, 26 di frutta e verdura, 7 di vestiti e profumi. Ancora, ci sono 4 banchi del

pane, 3 di salumi e formaggi, 4 di prodotti surgelati, 5 di prodotti avicoli, 6 di prodotti

artigianali e 3 che vendono gioielli. Il mercado de Abastos non lascia indifferenti, anzi cattura e

impressiona. E questo, per chi vende, non è dettaglio di poco conto. Il mercato è grande e

monumentale, con i diversi edifici che richiamano la struttura di una chiesa romanica: un

corridoio centrale più ampio e spazioso e due laterali più ristretti e più bassi. In questi due sono

sistemati i banchi, al centro si fermano, camminano, scelgono e acquistano i visitatori.

All’ingresso del mercato si trova anche una piccola edicola rigonfia di riviste e giornali.

Prendo El Pais e lo chiudo nello zaino: sto andando a leggermelo altrove. Non ho bisogno di

consultare la guida, so già dove andrò: sul retro della cattedrale. Sulla facciata opposta a quella

dell’Obradoiro si apre infatti la Praza da Quintana, che si estende per altitudine e risulta divisa

in due diversi spazi creati dalla scalinata che la contraddistingue: in alto si trova A Quintana de

Vivos, in basso, dope le scale, A Quintana de Mortos. Io mi siedo su quel limbo rappresentato

dalle scalinate che separano - o collegano, a seconda del punto di vista - vivos e mortos, a

leggere il mio quotidiano al caldo di un sole amico. Resto sospeso in questo spazio quel tanto

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Page 31: Il (Mio) Cammino Da Santiago

Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

che basta per leggere le prime dieci pagine del quotidiano, quindi il mio cellulare mi riporta alla

realtà.

«Pronto?»

«Ciao, come stai?», mi chiede una voce di un amico lontano.

«Benissimo. Al sole a leggere il giornale su una scalinata di Santiago»

«Fai bene. Quindi lì è bel tempo?»

«E’ perfetto. Fino ad oggi sono stato davvero fortunato»

«Quando torni?»

«Lunedì in serata sono a casa»

«Ci vediamo quando torni, allora. Stammi bene, divertiti e riposati»

«Lo farò. A lunedì»

La telefonata mi ricorda che il tempo è passato. E’ ora di raggiungere gli altri per il pranzo,

che poi si deve partire. Ripiego il giornale e lo metto via, mi rimetto lo zaino in spalla e torno

verso casa. Sotto il portone citofono, Sergio mi dice di aspettare in strada. Poco dopo scende

con i bagagli in mano, li mette in macchina e mi dice di seguirlo: si va a mangiare in una tavola

calda poco distante. Paola non c’è. Ho scoperto che era in turno anche stamattina.

Probabilmente me lo aveva detto, e io l’ho dimenticato. Poco male, l’aspettiamo seduti al tavolo

dietro una Estrella Galicia. Racconto a Sergio dove sono stato e cosa ho visto, e soprattutto

come ho finito il mio tour per la città. Con tempismo perfetto, proprio alla fine del mio

resoconto entra Paola e si siede con noi. Anche lei mi chiede cosa ho fatto a Santiago, e ripeto a

lei quello che ho appena finito di raccontare a Sergio. Quindi a entrambi rivelo il mio

disappunto per quella strana conversazione avuta con la proprietaria del bar.

«Qui non si usa prende il caffè da solo», mi spiega Sergio.

«Ah no?»

«No. Da noi il caffè in genere accompagna qualcosa da mangiare. Per questo lei ti ha chiesto

se volevi qualcos’altro e ha trovato strano che prendessi soltanto il caffè»

«Ah. Ho capito: paese che vai…Usanze che trovi»

Ordiniamo e mangiamo, facendo tutto senza troppa calma, perché prima si parte e meglio è.

Almeno questo è ciò che ci dice Sergio.

«Questa sera ha uno spettacolo teatrale e teme di non farcela ad arrivare in tempo», mi rivela

Paola. «Ti avevo detto che sta in una compagnia teatrale, no?»

Ora so finalmente dove si va: a vedere recitare Sergio, per quella che sarà la mia prima

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Page 32: Il (Mio) Cammino Da Santiago

Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

assoluta con il teatro spagnolo e con una rappresentazione in lingua. Paghiamo e andiamo via.

Raggiungiamo l’auto e via, verso le Asturie.

«Beh, dov’è che andiamo esattamente?», domando al conducente Sergio.

«Pravia»

«Pravia?»

«Pravia»

L’auto è in marcia: siamo in viaggio. Usciamo da Santiago e ci immettiamo sull’autostrada:

intorno a noi è solo paesaggio in movimento. Alberi e case, paesini e stazioni di servizio. Tutto

scorre fuori dal finestrno. Sergio chiede a Paola un cd: lei glielo cerca, lo trova e glielo porge.

Lui lo prende e lo inserisce nell’autoradio. Continuiamo a parlare, mentre io con le orecchie

presto attenzione a quello che dicono i miei compagni di viaggio e con gli occhi al paesaggio

che scivola via.

«Ti piace questa musica?», mi chiede improvvisamente Sergio.

«Si, non mi dispiace».

«E’ musica gallega».

E’ una musica folk puramente strumentale, dalle tonalità simili a quelle della musica irlandese.

E glielo dico. «Davvero? Avrei detto che era musica irlandese…»

Paola scoppia a ridere. «Come può essere irlandese?! E’ musica tipica gallega».

«Sì, è molto simile a quella irlandese», interviene Sergio. «E’ simile perché i galiziani sono

una popolazione celtica, e quindi hanno in comune una cultura e delle tradizioni. Per questo ti

sembra che la nostra musica sia irlandese. Per certi aspetti lo è».

Quello che ci dice Sergio ci coglie di sorpresa: non credevo che il nord della Spagna potesse

avere influenze celtiche, e anche Paola apprende con stupore quanto il nostro autista ci ha

appenda detto. Ma a ripensarci bene gli antichi celti erano nomadi, e come tali nel corso della

storia hanno viaggiato e attraversato stati e nazioni. Ma certo, dal basso della mia non

conoscenza, non avrei mai detto che avrebbero potuto mantenere un’eredità storica in questa

parte d’Europa.

La strada scorre sotto l’auto lanciata a forte velocità, mentre tutt’intorno tutto è già più

mistero: ormai è buio pesto. Il sole ce lo siamo lasciati alle spalle, chilometri e chilometri fa.

Sergio spinge sull’acceleratore per vincere la sua gara contro il tempo, con Paola infastidita per

la forte andatura e che chiede di rallentare.

«Sergio, non c’è bisogno di correre così. Perché vuoi correre il rischio di fare qualche

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

incidente? Anche se arrivi dieci minuti dopo non succede niente», gli dice in spagnolo. O

almeno così mi pare di capire.

«Se arrivo dieci minuti dopo, non dopo mezz’ora. O un’ora», risponde lui in tono polemico.

Capisco che la situazione sta prendendo una brutta piega, così spezzo sul nascere il loro litigio.

La butto sul ridere

«¡Vamos, Alonsito!», dico a Sergio riferendomi a Fernando Alonso, pilota spagnolo di

Formula1 fresco di titolo di campione del mondo. Sia Paola che Sergio ridono.

«Ma vi pagano?», domando a Sergio.

«Come?»

«Si, insomma: vi danno un rimborso spese, fate pagare un biglietto per lo spettacolo vi paga il

teatro?»

Sergio mi spiega che in Spagna la cultura, a differenza del nostro Paese, viene finanziata

pubblicamente. La regione autonoma decide quanto destinare alle manifestazioni culturali, e

così pure i singoli comuni. In questo modo, a livello locale, è un fiorire di associazioni e di

iniziative: concerti, spettacoli teatrali e laboratori che animano le cittadine, piccole e grandi che

siano. Il sistema di queste parti garantisce quindi piena espressione dell’individuo, e

circolazione di cultura. E di memoria. Ma soprattutto di creatività e originalità.

Siamo arrivati: Pravia è un insieme di strade illuminate e negozi prossimi alla chiusura. Per

me è una rotonda attorno alla quale l’auto gira su sé stessa per infilarsi in strade urbane alla

ricerca di un parcheggio. Troviamo lo spazio libero che stavamo cercando, scendiamo dall’auto

e ci avviamo verso il teatro comunale. E’ un piccolo edificio al centro di una graziosa piazzetta.

Se non ho capito male si tratta di un piccolo polo culturale, dove organizzano più eventi in

contemporanea. Stasera c’è lo spettacolo teatrale. Sergio ci lascia, va nei camerini. Noi ci

accomodiamo in platea, oltre una porta a due ante che divide la sala del teatro dall’androne. La

sala può sembrare piccola ma non lo è: una decina di file corrono da destra a sinistra con il

corridoio centrale, per un vano che approssimativamente potrà contenere un paio di centinaia di

persone. Non c’è il pubblico delle grandi occasioni, va detto. Ma il teatro, del resto, è così: è

sempre più per pochi, in Spagna come altrove.

Lo spettacolo ovviamente è in spagnolo: ne colgo meno della metà delle parole, ma riesco lo

stesso a seguire il filone narrativo. La storia è quella di una giovane donna innamorata del

proprio fidanzato ma promessa in sposa da suo padre a un uomo più vecchio di lei. Quando la

donzella viene a sapere delle decisione del padre decide con l’aiuto del suo fidanzato di

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Page 34: Il (Mio) Cammino Da Santiago

Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

mandare a monte il piano: sfruttando il fatto che lo sposo promesso dal padre non ha mai visto

la donna promessole, la ragazza si trucca e si concia in modo da apparire orribile. Il giorno in

cui il maturo signore fa visita alla giovane donna resta inorridito e fugge via. Nel frattempo il

fidanzato contatta il promesso sposo a nome di un presunto pretendente della giovane donna,

annunciandogli di essere stato convocato per un duello d’onore con cui giocarsi il cuore della

bella. Alla fine il signore rinuncia alla giovane donna, che può coronare il suo sogno d’amore

con il suo fidanzato.

«Di chi è lo spettacolo?», chiedo a Paola alla fine della rappresentazione.

«Oddio, Sergio me l’avrà detto cento volte, ma io non mi ricordo»

«Tranquilla, glielo richiedo io»

«Grazie»

Sergio scende dal palco e viene ad abbracciare Paola.

«Ti è piaciuto lo spettacolo?», mi chiede.

«Si, davvero carino. E voi non siete male. Di chi è?»

«E’ una commedia del Viejo Pancho. El Viejo Pancho è uno scrittore e regista teatrale

originario di Ribadeo, ma che si è trasferito in Uruguay ed è stato quasi lì per tutta la sua vita.

Infatti è molto noto in sud America, ma qui in Spagna non lo conosce praticamente nessuno.

Cioè, non nessuno ma pochi. E noi lo facciamo conoscere al pubblico». In questo, mi spiega

sempre Sergio, la sua compagnia è agevolata dal fatto che non deve pagare i diritti d’autore:

José María Alonso y Trelles Jarén, conosciuto come “el viejo pancho” è un autore

dell’ottocento. E’ morto nel 1924 e quindi, dato che sono passati più di ottant’anni dalla sua

scomparsa, le sue opere sono rappresentabili liberamente e senza vincoli. E Sergio e compagnia

lo portano in scena tra la Galizia e le Asturie.

Sergio deve andare a cambiarsi e ad aiutare la compagnia a smontare. Quindi io e Paola ce

andiamo a prendere un sidro, specialità asturiana. Nelle Asturie si produce infatti la bevanda

alcoolica ottenuta dalle mele. Anche se non piace, va provata. Almeno se si capita da queste

parti. Andiamo a una sidreria poco lontano dal teatro comunale, dove Sergio ha promesso di

raggiungerci. E’ un locale che è anche ristorante: entrando, sulla sinistra, ci sono infatti i tavoli

per chi viene a mangiare, mentre sulla destra c’è il bancone. E’ lì che ci dirigiamo.

«Adesso vedrai», mi dice enigmaticamente Paola.

«Vedrò cosa?»

«Come servono il sidro. Mettono la bottiglia in alto, e tengono invece il bicchiere in basso.

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

Ma lo fanno con movenze tutte loro. Vedrai»

Non devo attendere molto, perché come chiediamo il sidro la ragazza dietro al bancone con

una performance da acrobata e artista: bottiglia roteata velocemente in alto sopra la testa, e

bevanda che finisce esattamente là dove la ragazza tiene il bicchiere, in basso ad altezza

ginocchio. Spettacolo circense, o solo degno da bar di questi luoghi.

«Beh, ti piace?», mi chiede Paola

«Lo sai che sull’alcool non ci si tira mai indietro. Certo, preferisco la birra»

«Eh, ma qui la specialità è il sidro»

«Asturiani…»

«Ah ah, se ti sentisse Sergio»

Oltre al sidro sul bancone non mancano le tapas, di ogni tipo. Noi le mandiamo giù senza

pensarci due volte, e di fatto ceniamo qui, al bancone di una sidreria asturiana. Come impone il

vivere locale. Il sidro Sergio se lo verrà a prendere un’altra volta: si è fatto tardi. Per lui,che ha

impiegato più del dovuto a smontare, e per noi che di conseguenza siamo stati più del

preventivato al bancone. Raggiungiamo Sergio al teatro e insieme torniamo alla macchina: è

tempo di lasciare questa cittadina asturiana sconosciuta ai più, anche agli stessi spagnoli.

Bisogna capire se tornare a Santiago oppure fermarsi a Ribadeo, centro al confine tra Galizia e

Asturie residenza dei genitori di Sergio, che hanno invitato il figlio- e quindi anche me e Paola-

a fermarsi da loro. All’inizio il nostro autista-artista è piuttosto indeciso sul da farsi: da una

parte non vuole arrecare disturbo alla famiglia e presentarsi a orari “scomodi”, dato che le

lancette dell’orologio sono sempre più vicine a completare il loro giro delle ventiquattro ore

(anche se in Spagna gli orari sono più dilatati che da noi); dall’altra però è stanco e si vede che

non è in condizione di farsi altre tre ore di macchina. Alla fine si decide: prende il telefono e

annuncia il suo arrivo a casa con i due ospiti. Risolto il problema logistico, torniamo a discutere

del teatro.

«Ma la tua compagnia ha un profilo su MySpace?», chiedo a Sergio.

«No»

«Fate male. In questo modo vi fate conoscere, avete una vetrina in più a disposizione. E

magari rimediate qualche data. Ho amici che sono andati in tourneè attraverso MySpace, con

date proposte da altri internauti»

«E’ una bella idea. La proporrò. Il fatto è che della promozione della compagnia se ne occupa

il signore che hai visto sul palco, che è il presidente. Però si può fare».

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

Arriviamo a Ribadeo, piccolo comune galiziano tappa di questo mio piccolo viaggio. E questo

mio cammino da Santiago mi porta qui, sulla frontiera galiziano-asturiana, nel nord-ovest della

penisola iberica. Scarichiamo i bagagli e saliamo per la scale del palazzo dove abitano i genitori

di Sergio. Paola mi prende un attimo da parte per educarmi: «Quando saluterai i genitori di

Sergio devi dire “encantado”, mi raccomando».

Ci aprono i padroni di casa, salutiamo – io come mi è stato detto di fare – e ci sistemiamo in

cucina, dove ci hanno fatto trovare da mangiare. Con il mio spagnolo stentato e con il sostegno

del mio interprete – Paola – partecipo alla discussione che si apre. A un certo punto Sergio dice

al padre della mia soluzione per la questione basca.

«Lui ha proposto sei mesi indipendenti e sei mesi Spagna»

Il padre spegne subito ogni entusiasmo. «Non funziona. Inizierebbe subito la discussione: “i

primi sei mesi o i secondi sei mesi? Siamo indipendenti d’estate o in inverno?”. No, non va»

Quando diciamo che arriviamo da Pravia la madre di Sergio tiene a dirmi che da queste parti

c’ è un detto che esprime il rapporto cordiale e amichevole tra le due diverse comunità.

«”Galicianos y asturianos primeros hermanos”», mi dice la padrona di casa. Il detto, in italiano,

suona più o meno come “galiziani e asturiani sono innanzitutto fratelli”, per un’espressione che

ben riassume legame e reciproco convivere tra i due popoli. Il che, in una Spagna dove in molti

vorrebbero l’indipendenza e dove in molti non si riconoscono tra loro, è una piacevole voce

fuori dal coro. Che Sergio non condivide

«Madre, che dici? Ma quali hermanos?»

«Sergio, per favore»

I genitori di Sergio sono molto diversi: lui, Jesus, sempre allegro e scherzoso, lei, Maria,

seriosa e pacata. Entrambi però sanno ben fare uso dell’ironia e del sarcasmo. In sostanza, una

piacevole famiglia. Almeno per me che la conosco adesso. Chiedono di me, cosa faccio, dove

vivo, come conosco Paola. Sono stupiti quando spiego loro come si studiano le lingue in Italia,

attraverso scrittura e lettura ma mai con la conversazione. Il risultato è quello che possono

toccare loro stessi con mano sentendo me parlare stentatamente in spagnolo: si studia per non

saper parlare la lingua.

«C’è la crisi in Italia?», mi chiede Maria.

«No»

«Davvero? Qui da noi inizia a farsi sentire»

«Da noi no. Lo dice tutti i giorni Berlusconi. E se lo dice lui…»

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

Tutti ridono. I genitori di Sergio capiscono come la penso, e la penso come loro. Da questo

momento divento un ospite ancor più gradito. Ci lasciano alla nostra sera, anche perché loro due

stanno uscendo. Proprio come noi. Il tempo di sistemare il tavolo della cucina, darci una

sciacquata e via, siamo per strada per godere della movida di Ribadeo.

Per strada non c’è nessuno: l’aria gelida e la temperatura rigida rendono le vie del paese

orfane dei propri cittadini. Molti sono a casa, altri nei locali. Noi ci dirigiamo a un pub, per

vivere questa nuova serata e scoprire, almeno per quanto mi riguarda, altri angoli di mondo

prima d’ora sconosciuti e inaccessibili. Il locale dove arriviamo si mostra al passante solo per

l’immancabile insegna della marca di birra che sovrasta la porta d’ingresso di ogni pub; per il

resto è mascherato nell’edificio, che non mette in risalto il luogo di ritrovo. Spesse tende scure

alle finestre impediscono ai curiosi di sbirciare cosa avviene oltre quei vetri. All’interno luci

soffuse, legno scuro alle pareti e l’inconfondibile odore di aria viziata e sigaretta. Il locale è

piccolo ma pieno in ogni ordine di posti: gente sui tavoli a destra e su quelli a sinistra, altri

seduti al bancone e altri ancora in piedi, ma tutti intenti a consumare la propria serata. Sul

soffitto bandiere della Galizia e delle Asturie, insieme a quelle della Scozia, del Galles e

dell’Irlanda. Poi ce ne sono altre mai viste prima: non sono di stati, ma di regioni. Sono le

bandiere della Britannia, della Cornovaglia e dell’isola di Man. Tutte queste entità territoriali

rappresentano l’area dei ‘moderni celti’, coloro che conservano appartenenze, radici e cultura

dell’antica stirpe progenitrice. Sergio mi dice che questo è uno dei punti di ritrovo più gettonati

di Ribadeo: sarà l’atmosfera- intima e accogliente- o forse la birra, di quelle speciali. Qui

servono infatti la Estrella Galicia 1906, la versione doppio malto della principale birra

regionale. La potremmo definire la “gran riserva” della birra tipo, molto più corposa

dell’Estrella Galicia ma più gustosa. La prendiamo in piedi, perché non si riesce davvero a

trovare spazio. Per questo appena terminato il nostro giro di birra ce ne andiamo. Usciamo nel

freddo del nord, per andare in un altro locale, dove questa volta andiamo però sul superalcolico,

tanto che Paola preferisce non unirsi a noi. Sergio incontra la madre di un suo amico, se non ho

capito male un vecchio compagno di scuola. Qui il posto è davvero piccolo ed è facile

incontrare persone che si conoscono. Meno di 10.000 abitanti, per una comunità dove

praticamente ognuno conosce tutti gli altri. Non stiamo molto, perché comunque la stanchezza

inizia a farsi sentire. Usciamo e torniamo verso casa, non prima di aver fatto tappa in un posto

dove si mangia. Scatta lo spuntino di mezzanotte e oltre, in un posto male illuminato con un

lungo bancone dietro il quale sta una ragazza grosso modo della nostra età. Evidentemente

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

conosce Sergio e Paola, perché parla con loro con una certa confidenza. Capisco solo qualcosa

della loro conversazione, ma quando Sergio racconta di arrivare da Pravia, la ragazza resta a

bocca aperta.

«¿Pravia? ¡En el culo del mundo! ¿Que hiciste allì?»

Iniziano ognuno a raccontarsi le proprie storie, con Sergio che riassume quanto fatto oggi e

negli ultimi giorni, e la ragazza che racconta di come con il suo ragazzo – ormai ex – tutto sia

andato in malora. E come lui se ne sia andato con l’auto che avevano acquistato insieme e che

se non ho capito male ha l’assicurazione pagata da lei. Una storia triste, o comunque non certo

di quelle a lieto fine. Anche se per la vicenda di questa ragazza mi pare di capire che la parola

fine sia ancora ben lontana dal venire scritta. Finiamo il nostro spuntino e terminiamo di

ascoltare una storia di sogni infranti e amori perduti, una delle tante storie di vita vissuta che si

possono sentire. Paghiamo, salutiamo e torniamo a casa. Un altro giorno è andato.

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

Ancora a Ribadeo

E’ domenica mattina e si avverte fin da subito. Intanto perché non ci sono sveglie, e ci si alza

con comodo. E poi perché c'è quel clima di generale rilassatezza tipico dei giorni privi di motivo

di ansie o preoccupazioni. E’ una calda e assolata giornata di fine ottobre, in una terra straniera

ma per nulla inospitale. Tutto è lontano: impegni, preoccupazioni, lavoro. La sensazione di

completa spensieratezza è forse il risveglio più dolce che potevo attendermi. Ma ad attendermi

c’è soprattutto il mondo che si apre là fuori, oltre il perimetro di questa casa. Mi alzo e

raggiungo gli altri in cucina per la colazione. La cucina è di fronte alla camera dove ho trovato

alloggio, poco più avanti sulla destra. L’appartamento dei genitori di Sergio è costituito da un

corridoio sul quale si aprono vani sulla destra e sulla sinistra: entrando, sulla sinistra si hanno –

nell’ordine – il bagno, la camera da letto dei padroni di casa e la cucina; sulla destra due camere

da letto (la prima dove sono sistemati Paola e Sergio, la secondo dove sono sistemato io) e un

piccolo studio. Alla fine del corridoio un porta a vetri scorrevole, oltre la quale si apre un largo

soggiorno con sala da pranzo e, sulla destra, un balcone. E’ lì che usciamo per un attimo una

volta terminata la colazione e fatte le docce. Si esce per prendere il primo sole di questa

giornata, e per godere di una visita di Ribadeo dall’alto. Il garrito dei gabbiani ci ricorda che

l’oceano è lì a due passi, e il loro verso è come una sorta di richiamo per noi, che nel giro di

pochi minuti usciamo per strada. Subito sotto il portone di casa ci imbattiamo nella sorella di

Sergio con il marito e insieme passeggiamo per le vie del paese. Il corso principale è assolato e

affollato di gente che come noi si gode questa piacevole domenica mattina. Arriviamo a Praza

de España, e passiamo davanti alla Torre dos Moreno, una delle costruzioni più caratteristiche

del paese. E’ una casa di stile moderno dei primi del Novecento, con una torre sul fianco destro.

Una costruzione tutta vetri e maioliche, con inferriate in ferro battuto e con i più diversi motivi

decorativi. L’edificio è forse tra i più caratteristici del paese, ma visibilmente necessita di

manutenzione.

«Come potrai vedere qui molti edifici sono in stato di abbandono», mi dice Paola. «Per questo

il comune di Ribadeo ha deciso di concedere incentivi e tassi agevolati per le giovani coppie che

intendono stabilirsi a vivere qui. In questo modo recuperano le abitazioni, le ristrutturano, e

soprattutto invertono quella tendenza che vede la gente andarsene»

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

Lo stato sociale – o welfare, come si usa chiamarlo oggi – qui funziona eccome. O

semplicemente c’è. Sovvenzioni e finanziamenti alla cultura e agli spettacoli, agevolazioni per i

giovani, possibilità di acquisto delle abitazioni: tante piccole cose che, messe insieme, danno

una dimensione d’insieme invidiabile. Non so quanto potrà durare, perché dopo anni di boom

adesso la Spagna inizia a soffrire una fase di recessione e di ristagno economico, ma certo

l’esistenza e la messa in pratica di determinate politiche sociali sono un dato degno di nota.

«Funziona proprio come da noi», faccio a Paola. «Tale e quale»

«Si, uguale identico»

Continuiamo la nostra passeggiata tra vicoli e stradine fino ad arrivare su uno slargo che si

affaccia sul mare. Sotto di noi c’è il porto sportivo di Ribadeo, che raggiungiamo scendendo le

scale che si aprono sulla destra di questo belvedere. Mentre scendiamo a un certo punto Sergio

mi fa vedere meglio il porto del paese. Di fatto sorge all’interno di un fiordo, una lingua di mare

che entra in verticale dentro la terra. Guardano all’orizzonte, dove c’è il faro, si può vedere

benissimo che ci sono due lingue di terra una di fronte all’altra congiunte da un ponte in

cemento armato, acciaio e parti in legno.

«La parte di terra a sinistra è Galizia, quella a destra Asturias. Questo ponte che vedi, che è il

ponte dos Santos, unisce la Galizia con le Asturie»

Adesso capisco. Se prendete una qualsiasi guida troverete scritto che Ribadeo viene chiamato

la “Porta del nord”: questo per via dei simboli contenuti nello stemma cittadino, vale a dire onde

che raffigurano il mare e una chiave. Se effettivamente la lingua di terra di Ribadeo segna la

fine della Galizia perché al di là del ponte iniziano le Asturie, è facile comprendere come la città

possa essere vista come una porta. D’ingresso come d’uscita.

Sergio mi indica un punto in lontananza. «Vedi laggiu? Quella è la ria»

«La ria?»

«La ria. La ria è il punto d’incontro tra un fiume e l’oceano. Laggiù il fiume Eo sfocia in mare

e dà origine a quella valle fluviale che vedi. E il porto è per l’appunto sulla ria».

Ecco allora Ribadeo: da un punto di vista di toponomastica sta a significare Riva dell'Eo. L'Eo

è il fiume che si getta nell'Atlantico formando la ria de Eibadeo (detta anche ria dell'Eo), confine

naturale fra Asturie e Galizia, meta di pellegrini e surfisti.

«Sai che qui ci vengono a fare surf?», mi rivela ancora Sergio.

«Veramente?»

«Sì, c’è un punto dove si formano onde alte e ci vengono apposta per cavalcarle in piedi sulla

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

tavola. Ci vengono dalla Galizia, dalla Asturie e qualcuno anche dalla Cantabria»

Il porto sportivo è una zona moderna, con imbarcazioni di ogni tipo attraccate a un molo poco

frequentato. Costeggiamo il molo dirigendoci verso l’esterno, in direzione dell’oceano, per poi

risalire per una scalinata che riconduce al paese. E’ fine ottobre, eppure siamo in maniche corte.

E’ incredibile. Ci fermiamo su un belvedere che si apre a metà scalinata, per fare alcune foto e

per riposarci un attimo. La sorella di Sergio è incinta, non possiamo farla affaticare troppo.

Dopo la breve sosta andiamo a prendere un aperitivo in un bar che si apre sul corso di Ribadeo.

Una Estrella galicia per tutti e poi via, a casa per il pranzo domenicale, non prima di aver

comprato ElPais per sapere cosa succede nel mondo, Italia compresa.

A casa troviamo Jesus e Maria in cucina alla prese con la carne, quindi noi ci accomodiamo in

salone, a parlare del più e del meno, a guardare i Simpson’s in spagnolo e a bere vino. Si attende

insomma il pranzo, che prevede carne a la piedra: su un piccolo fornello si trova una lastra di

pietra che, rovente, permette la cottura al momento di piccole striscioline di carne. Ognuno, a

seconda di come la preferisce, stabilisce per sé quanto far cuocere la carne. La carne sangrada

(al sangue) è quella che quasi tutti mangiamo in questa occasione. A tavola si parla di tutto, ed

essendo in Spagna non può mancare la parentesi calcistica.

«Qual è la tua squadra preferita spagnola?», mi chiede il cognato di Sergio.

«Rayo Vallecano»

Non credono alle loro orecchie. E per due motivi: innanzitutto perché si tratta di una squadra

attualmente in seconda divisione, e oltretutto è una di quelle formazioni che nella Liga,

complessivamente, ci sono state poche stagioni; e poi perché anche loro, come famiglia,

simpatizzano per il Rayo.

«Come la conosci questa squadra?», mi chiede tra lo stupito e l’incuriosito.

«Praticamente per caso. Non mi ricordo bene se fosse il 2000 o il 2001, ma ricordo che il

Rayo era nella Liga e fu primo in classifica per due-tre giornate. Siccome era una squadra che

non avevo mai sentito prima, andai a fare una ricerca. Quando scoprì che era la squadra della

zona operaia di Madrid e che non aveva mai vinto nulla mi sono detto: “ok, questa è la mia

squadra”»

«E tra Madrid e Barça?»

«Barça»

La domanda del cognato di Sergio non è casuale, perché la rivalità tra le due grandi del calcio

spagnolo non è solo sportiva. Il Real Madrid era infatti la squadra del regime, mentre il

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

Barcellona quella dell'opposizione, e “el clasico” finiva quindi per riproporre ogni volta lo

scontro tra franchisti e repubblicani. La mia risposta politica data con la mia scelta calcistica

soddisfa i presenti, con i quali si apre la parentesi teologica.

«Credi in Dio?», mi chiede Jesus.

«No»

«Io mi ricordo sempre di quando da ragazzo mi dicevano che Dio era un triangolo con un

occhio al centro che ti guarda… Che ansia»

«Capisco. Consideri che per le elezioni del 1948 la Democrazia cristiana coniò questo slogan:

“Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no”»

«Ah ah ah ah»

Il pranzo scivola via in modo molto piacevole. Alla fine Jesus mi chiede se voglio ancora

qualcos’altro.

«Se è possibile un po’ di frutta, cortesemente»

Paola mi fulmina con lo sguardo. Forse avrei dovuto dire “no grazie, va bene così”, ma ormai

il danno è fatto. Costringo i padroni di casa a servire frutta per tutti, quindi ci si alza tutti per

sgranchire le gambe ma soprattutto per vedere i filmati di Jesus e Maria a Tindouf, città algerina

che ospita i rifugiati della Rasd, la Repubblica araba saharawi democratica, per quella che

ancora oggi è la questione irrisolta del Sahara occidentale.

Fino al 1976 il Sahara occidentale è stato colonia spagnola, il Sahara spagnolo. Come gli

spagnoli se ne andarono, iniziò una guerra tra il regno del Marocco e il Fronte Polisario,

movimento politico e militare del popolo Saharawi, che raccoglie l’eredità del Movimento di

liberazione del Sahara - represso militarmente dal regime franchista – e che dai primi anni

Settanta combatte per l’indipendenza del Sahara occidentale e il riconoscimento della Rasd.

Attualmente è occupato militarmente dal Marocco, che ha eretto un lungo muro di cemento che

impedisce l’accesso e il transito al popolo saharawi. Nel 1991 le Nazioni Unite con l’operazione

Minurso decisero di creare le condizioni per tenere un refendum che decidesse il futuro status

del Sahara occidentale, ma ad oggi quel referendum non è ancora stato tenuto. Ed è chiaro il

perché. I Saharawi voterebbero per l’indipendenza, e le autorità marocchine stanno lavorando

per fare in modo di avere una maggioranza che consenta di annettere definitivamente il territorio

al regno. Nel frattempo il Marocco prende accordi con Francia e Spagna: in cambio del

riconoscimento di un Sahara occidentale quale regione autonoma del regno marocchino il

governo di Rabat ha concesso a Total e Repsol-Ypf – compagnie petrolifere di Francia e Spagna

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

– lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi marini al largo delle coste del Sahara occidentale.

Quindi i governi di Parigi e Madrid, pur simpatizzando per i Saharawi, hanno forti interessi a

fare affari con i marocchini. Jesus e Maria sono andati a Tindouf, e ci hanno mostrato come si

vive nelle tendopoli, raccontandoci ciò che hanno visto e confermandoci la complessità della

situazione e le difficoltà di un popolo comunque non rassegnato. Sono stati lì perché hanno

adottato un bambino a distanza, e sono andati a trovarlo. Una piccola storia di umana bontà in

un mondo di irrazionale non senso. I genitori di Sergio sono stupiti nel vedere che conosco la

questione di cui si parla, perché – va detto – non ne parla mai nessuno. In Italia, per certo, sono

in pochi a sapere della questione saharawi. Jesus mi porta nel piccolo studio, dove mi regala una

pietra tutta levigata e scavata dal vento che arriva dal deserto algerino, quindi mi porge un

braccialetto. Dice che lo devo regalare a una persona, una qualsiasi, che abbia a cuore la

questione saharawi. Mi è stato affidato un compito, segno che forse ho guadagnato le loro stima

e fiducia. Se è così, è davvero un bel gesto.

Salutiamo padroni di casa e parenti, andiamo a goderci le ultime ore di sole prima che arrivi il

tramonto. Con Sergio e Paola ci dirigiamo a la Praia das Catedrais, una nota spiaggia situata a

ovest di Ribadeo. Il posto si chiama così per via delle numerose e particolari formazioni

rocciose situate sulla spiaggia che formano una serie molto suggestiva di archi naturali

attraversabili a piedi durante la bassa marea e che ricordano molto gli archi rampanti delle

cattedrali gotiche. Sono molto interessanti anche le formazioni rocciose in mare antistanti la

spiaggia, con ponti naturali di roccia, scogli scavati dal vento ed altri archi naturali. Noi

andiamo proprio per sfruttare gli ultimi istanti di bassa marea, per camminare sotto queste

cattedrali naturali che fanno del sito un monumento naturale, come dichiarato dalla giunta

regionale della Galizia.

Arriviamo ad uno slargo che si affaccia sul mare, che si trova in basso, alla fine di una rampa

di scale. Ormai è già il tramonto, ma le luci del crepuscolo rendono forse ancor più suggestivo

un posto di per sé unico. Arriviamo alla fine della scale, ci togliamo scarpe e calzini, ci

arrotoliamo i pantaloni e camminiamo sulla battigia. La sabbia è fredda sotto i piedi, ma ci si

abitua subito. Entriamo in una grotta, passiamo sotto un arco, camminiamo per uno stretto

passaggio che si apre tra due formazioni rocciose che si stagliano imponenti come a

fronteggiarsi. Usciti dallo stretto passaggio si apre una piccola caletta dove l’acqua dell’oceano

arriva gelida a bagnarci fino alla caviglia.

«La marea sale», ci avverte Sergio.

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

L’acqua arriva con più insistenza e con maggior frequenza verso di noi, il mare avanza a

reclamare i propri spazi. Io e Sergio ci arrampichiamo su una formazione rocciosa in mezzo alla

spiaggia, un sorta di grosso scoglio lavorato dall'acqua e dal vento. Ci arrampichiamo e

camminiamo lungo la roccia, quando all’improvviso ci giriamo di soprassalto: è la voce di Paola

che ringrazia qualcuno. E’ rimasta indietro, e nell’arrampicarsi è scivolata cadendo

rovinosamente sulla roccia. La aiutano a rialzarsi altre tre persone, turisti che non hanno perso

l’occasione per visitare questa spiaggia. Raggiungiamo Paola.

«Tutto bene?»

«Non certo grazie a voi. Sono cascata e neanche ve ne siete accorti. Mamma che volo…»

Proseguiamo con Paola il nostro tour, che però sta già per finire.

«La marea sta salendo», avverte ancora Sergio. «Sarà meglio sbrigarsi»

Scendiamo dallo scoglio, e laddove prima c’era la sabbia adesso c’è già un sottile strato

d’acqua. Ci dirigiamo verso le scale da dove siamo scesi, quando all’improvviso un’ondata mi

travolge, con l’acqua che arriva da dietro a lambire le ginocchia per infrangersi più in là, sulla

spiaggia, e poi ritirarsi.

«Mai dare le spalle al mare», mi dice severo Sergio.

Mi volto, e scopro che ha ragione. L’oceano si è improvvisamente ingrossato, ma essendo

stato di spalle non ho potuto vedere quale minaccia stesse incombendo su di me. Camminando

in diagonale arriviamo a ridosso della scalinata, in quella sottile lingua di sabbia ancora immune

dalla marea che sale e continua a salire. Qualcuno ha disegnato un cuore con un bastone, e

sempre con un bastone quel cuore lo tramuto in un picche aggiungendo nella concavità del

cuore un triangolino, quindi proseguo tracciando un “2” in alto a sinistra e in basso a destra.

Paola e Sergio se la ridono di gusto. Terminato il mio capolavoro torniamo sulle scale, ci

rinfiliamo scarpe e calzini dopo aver ripulito i piedi dalla sabbia, e torniamo alla macchina.

Ormai è buio, ed è quasi ora di cena. E la nostra cena, mi fanno sapere Paola e Sergio, la

andremo a consumare al ristorante, a Ribadeo.

Torniamo in paese, parcheggiamo e ci avviamo a piedi verso il nostro ristorante. C’è da

aspettare, perché è pieno, quindi attendiamo all’ingresso che un tavolo si liberi. Nel frattempo

sostiamo al bar del ristorante, dove trasmettono la partita del giorno, un Barcellona-Almeria che

i blau-grana stanno vincendo 5-0. Ne approfittiamo per fare il nostro aperitivo, ovviamente a

base di birra e stuzzichini. Quindi si libera il tavolo e ci accomodiamo per la cena. La cucina

galiziana è molto varia: si va dalla carne al pesce. Nell’entroterra vanno per la maggiore

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

sicuramente la carne di vitello galiziano e il maiale, ma essendo la Galizia terra di mare

merluzzi, rombi, cernie, branzini, sogliole, pagelli e rane pescatrici sono portate che comunque

non mancano mai nei menù dei ristoranti della regione. Noi, essendo a Ribadeo, ci buttiamo sul

pesce. La specialità tipica della regione è il polipo alla gallega, ma noi prendiamo un’altra

specialità della casa: i navajas. Altro non sono che cannelli o cannolicchi, molluschi dotati di

conchiglia allungata, liscia, e cilindrica con due aperture alle due estremità. Lunghi intorno ai

quindici centimetri, vivono infossati nella sabbia, e infatti il retrogusto di fondale marino si

sente tutto. Nel complesso sono gustosi, ma inutile dire che finiscono troppo presto.

Dopo cena usciamo, andiamo a salutare degli amici di Sergio che Sergio tiene ad incontrare.

Ma non ci ritroviamo in un locale, l’appuntamento è a casa di uno di loro, un appartamento in

uno dei tanti edifici che si possono trovare in un qualunque centro abitato. Saliamo le scale dopo

aver citofonato, e ci troviamo nella casa dell’amico di Sergio. Non c’è nessuno a riceverci, ma

Sergio conosce la strada e ci conduce dove si trovano le persone che sta cercando. Apre una

porta e troviamo quattro persone rinchiuse in una stanza stracolma di fumo, intente a bere,

fumare e giocare alla Playstation per quello che ha tutta l’aria di essere un super-torneo di Pro

Evolution Soccer. Così è, infatti. Ci invitano a restare, ma noi andiamo subito via. Il tempo di

presentarci e salutarci, capire che loro non hanno alcuna intenzione di abbandonare i loro divani

e il loro torneo di Pes, e siamo nuovamente per strada. Andiamo a prenderci una birra in un pub

vicono alla Chiesa di S. Roque, a poca distanza dai Os Cocos, i personaggi giganti caratteristici

di Ribadeo. Si tratta di due statue di metallo alte tre metri e mezzo raffiguranti un uomo e una

donna. Vennero donati alla chiesa nel lontano 1857 per dare più lustro alla festa della Vergine

del Carmen. Le due statue, in occasione di festa, ancora oggi vengono portate in giro per la città,

per una tradizione che si fa risalire al 1868. Svuotiamo le nostre bottiglie e andiamo a casa.

Domani ci aspetta il rientro a Santiago.

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

Al punto di partenza e partenza

E’ l’inizio di una nuova settimana, e come quella appena conclusa anche questa inizia

all’insegna del sole e del bel tempo. Facciamo una rapida colazione e salutiamo e ringraziamo i

genitori di Sergio, che consegnano al figlio una pentola contenente una zuppa preparata se non

capisco male da una qualche zia. Ci congediamo e andiamo velocemente a comprare dei panini,

per quello che sarà la mia cena in aereo. Strano: per la prima volta da quando sono qui si pensa

al mio rientro, e si avverte un po’ di nostalgia.

«Mannaggia, già te ne vai», commenta Paola.

«Eh, sono sempre i migliori quelli che se vanno…», le faccio io.

«Tiè raggiò», esclama in dialetto.

Sergio deve andare a prelevare dei soldi, cosicché al supermercato andiamo io e Paola. Lei va

a cercare qualcosa per sé, ma prima mi istruisce.

«Allora, prosciutto sai come si dice. La “loncha” è la fetta, la “bocadilla” è il panino»

«Quindi devo dire “tres lonchas de jamon serrano por una bocadilla”?»

«Bravo. Digli così»

Paola sparisce tra gli scaffali del supermercato, mentre io me la sbrigo seguendo le indicazioni

di Paola. Ci ritroviamo alla cassa, paghiamo e siamo fuori, dove troviamo Sergio ad attenderci.

«Che hai comprato?», mi chiede. «Cosa mangerai stasera?»

«Banale panino prosciutto e formaggio. La commessa mi aveva proposto un formaggio

asturiano, ma io le detto di no e me ne sono fatto dare uno vostro galiziano»

«Ah ah ah. Hai fatto bene»

Torniamo alla macchina e partiamo. Per Santiago ci aspetta un bel viaggio. La strada scorre

veloce fuori dal finestrino, mi lascio alle spalle paesaggi e luoghi che probabilmente non

rivedrò. O forse sì, perché nella vita non si può mai sapere. Prima di tornare a casa ci fermiamo

in un supermercato per comprare qualcosa di tipico, cosicché possa portare ai miei un angolo di

Galizia. Sergio e Paola mi consigliano un chorrizo e un torrone, entrambi caratteristici di qui.

Prendo le specialità culinarie iberiche e andiamo via, spediti verso la città. Arriviamo che è ora

di pranzo. Paola e Sergio vorrebbero preparare qualcosa al volo a casa, poi optano per riscaldare

la zuppa della zia di Sergio. Nel mentre io scendo per andare a un piccolo alimentari proprio

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

sotto casa, per comprare una cassa d’acqua e una lattina di Coca Cola.

«Dove sei andato?», mi chiede Paola una volta rientrato.

«Ho visto che l’acqua era finita, e così sono sceso a prenderla. Insieme a questa»

«Da quando bevi Coca Cola?»

«Non la bevo. Ho un po’ di fastidio alla gola, e dopo metterò in pratica i consigli di tuo zio»

«I gargarismi? Ah ah ah»

Mangiamo questa gustosa zuppa di carne e verdure, frutto di una ricetta segreta. Sergio mi rivela

infatti che la zia non spiega mai come prepara questa portata. Di fatto la zuppa è piatto unico,

perché molto sostanziosa. C’è quindi spazio per un caffè e la raccolta dei bagagli. Quindi

usciamo, perché tra non molto dovrò essere all’aeroporto. Ma prima, c’è ancora una cosa che i

miei amici vogliono mostrarmi: il parco di San Domingos de Bonaval.

Il parco di San Domingos de Bonaval, sul lato a ponente della collina della Almáciga, offre

delle viste uniche sui tetti del centro storico, che si va ingrandendo man mano che si sale la

collina. Da qui il centro storico sembra un qualcosa di lontano ed estraneo, visto con distacco

nella sua intimità domestica e nella sua quotidianità. Ma il posto di per sé è degno di nota. Tanto

prato dove ognuno ritrova per un attimo il proprio tempo privato e riscopre il piacere della

natura e della tranquillità. Chi legge, chi dorme, chi corre e chi passeggia; e poi gruppi di amici

che chiacchierano seduti sull’erba, giovani coppie che contemplano il paesaggio e altre che si

ritagliano un momento di intimità sul soffice manto erboso. Il miglior momento per visitare

questo parco è nel tardo pomeriggio, quando i colori offerti dal sole che tramonta lentamente

irradiano il parco di una luce magica, resa ancor più affascinante dalla policromia dell’autunno.

Intorno, infatti, variopinte foglie cadute ornano il parco con arazzi naturali di indubbio

splendore. Siamo qui, sospesi nel tempo, nella calma quasi irreale di questo scorcio bucolico.

Un messaggino dall’Italia ci ridesta da questo nostro paradisiaco universo: è una nostra amica

che con toni neanche troppo cortesi critica per non aver potuto organizzare la trasferta in terra

galiziana. Una piccola nota stonata di una sinfonia eseguita praticamente alla perfezione, ma si

sa, la perfezione non è cosa di questo mondo. Il messaggio ci ricorda comunque che è ora di

andare. Con l’ultimo sole del giorno ci mettiamo in marcia verso l’aeroporto, dove giungiamo

nel giro di pochi minuti. Paola e Sergio mi accompagnano fin dove possono, poi le nostre strade

si dividono.

«Grazie di essere venuto», mi dice Paola.

«Grazie a voi di avermi ospitato»

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

«Mi spiace che te ne vai»

«Anche a me. Ma sai come recita il detto: “l’ospite è come il pesce…”. E poi tanto ci

rivediamo»

«Si ci rivediamo. Fai buon viaggio»

Li saluto, entro nella zona d’imbarco e attendo che apra il mio gate. C’è fila, ma scopro che

inavvertitamente ho prenotato il biglietto con priorità, e quindi evito la lunga coda. Prendo

subito posto sull’aereo, ovviamente vicino all’oblò. Mi siedo, allaccio le cinture e aspetto che

finisca la fase d’imbarco. Nel mentre ripenso a questi giorni e mi tornano alla mente le parole

che Sergio mi ha detto appena arrivato: «Se non hai visto Santiago con la pioggia, non puoi dire

di averla vista veramente». E’ vero, non posso dire di aver visto la vera Santiago, ne ho visto

solo una delle sue tante, possibili e affascinanti facce. Mi prende un senso di nostalgia, è sempre

così quando si finisce un viaggio e si lascia qualcuno. Poi subentra la consapevolezza di essere

stati bene, e la felicità mitiga quel senso di malessere.

L’aereo è completo, le hostess procedono con le loro illustrazioni sulla sicurezza che

precedono il decollo e il velivolo si muove. I motori aumentano di giri, il rombo aumenta, e

l'aereo inizia la sua corsa contro la legge di gravità: rulla sulla pista, si inclina e infine si stacca

del tutto dal suolo. Mi affaccio dal finestrino: la terra scivola sotto i

nostri piedi, mentre case e automobili si fanno sempre più lontani e indistinti. Resto per un

attimo a guardare il paesaggio sempre più indistinto, poi mi appoggio allo schienale del sedile.

Quindi, chiudo gli occhi.

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Emiliano Biaggio – Il (mio) cammino da Santiago

Indice

Presentazione.............................................................................................................. 3

Santiago...................................................................................................................... 4

La Coruña................................................................................................................... 15

In Asturias e ritorno: Santiago, Pravia e Ribadeo...................................................... 29

Ancora a Ribadeo...................................................................................................... 39

Al punto di partenza e partenza................................................................................. 46

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