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Il Matematico che sfidò Roma. Il romanzo di Archimede

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Francesco Grasso, giallo storico. Narrando della sfida che oppose Roma a Cartagine, la Storia tende a trascurare il ruolo di una terza città, prospera almeno quanto l’Urbe, forse persino superiore per retaggio e cultura. Si tratta di Siracusa, perla della Magna Grecia, faro di civiltà e potenza militare che si ritrovò – purtroppo per lei – alleata di Annibale nel momento sbagliato. Una scelta che Roma non perdonò. Soverchiata in uomini e armamenti, Siracusa resistette all'assedio delle legioni e della flotta romana per due anni, dal 214 al 212 a.C., soprattutto grazie alle rutilanti invenzioni di Archimede, uno dei più geniali scienziati di ogni tempo. Un’epopea narrata in questo romanzo.

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In uscita il 25/6/2014 (15,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2014 Collana "A Piccole Dosi"

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FRANCESCO GRASSO

IL MATEMATICO CHE SFIDÒ ROMA

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IL MATEMATICO CHE SFIDÒ ROMA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-729-2 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Giugno 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Siracusa, Porte Agrigentine, 679 ab urbe condita (74 a.C.) L’uomo brandì il bastone di frassino e si fece largo tra i rovi che, aggro-vigliati in una cortina spinosa, celavano i tumuli. Il vento caldo soffiava una polvere sottile nei suoi occhi corvini, ed egli si nettava di tanto in tanto le ciglia e la fronte spaziosa con una pezzuola di lino candido. «Cosa stai cercando, Marco?» L’uomo mosse appena la bocca dalle labbra nervose. «Un sepolcro.» La donna fissò perplessa il consorte. Fece per raggiungerlo, poi si rese conto che, oltre il riparo d’ombra proiettato dalle mura di Dionisio, il ca-lore mozzava il respiro. Esitò. Fece cenno a un servo. Questi, un giovane di colore, alto e ossuto, accorse con un parasole. «Marco Tullio!» esclamò risentita «stai dicendo che mi hai portata a pas-seggiare in una necropoli?» L’uomo additò le tombe a fosso, le lastre di pietra che affioravano dagli sterpi punteggiati da bacche violacee. «Una necropoli in rovina» precisò. «I Siracusani non sono prodighi di attenzioni per i loro morti.» «Mia madre diceva che dalle lapidi i defunti fissano i sopravvissuti come a chiedergliene conto…» considerò la donna. L’uomo rise. Era basso, tarchiato, il collo e le braccia robuste, le dita cal-lose. «Non è dei morti che è bene provar timore, Terenzia, ma dei vivi.» La donna scosse la testa. Era minuta, di forme morbide, una chioma ri-belle a stento trattenuta da un tripudio di lacci e forcine. «Be’, ma che trovi di notevole in questa pietraia? A parte il caldo, voglio dire…» L’uomo allargò le braccia. «Terenzia, i tuoi lamenti sono un’offesa ai numi. Guardati intorno; non è una visione magnifica, questa?» La donna seguì lo sguardo del marito. A ponente il paesaggio era un sus-seguirsi di spighe pronte alla mietitura, ulivi, frutteti, filari di viti abbar-bicati ai fianchi delle colline. A nord, le torri del castello di Eurialo svet-tavano contro il cielo terso. Lontano, sbiaditi per la distanza, si levavano

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i contrafforti di roccia lavica dell’Etna. A levante, oltre le mura della cit-tà, l’occhio incontrava il mare e il profilo gentile del promontorio Plem-mirion. A sud si scorgevano le paludi del Ciane, lussureggianti di felci e papiri. I grilli frinivano. L’aria era calda, sazia di fragranze estive. «Gradevole, certo» ribatté Terenzia, la voce segnata da una traccia di pe-tulanza «ma io preferisco l’Urbe.» L’uomo non le diede retta. «Seguimi, moglie mia. Non resterai delusa…» Abbatté altri sterpi col bastone, si addentrò tra le lapidi. La donna, pur controvoglia, ordinò al servo di farle ombra e gli tenne dietro. «Cos’è questa, Marco? Una delle tue indagini? Stai cercando prove con-tro quel… come si chiama? Verre?» L’uomo incurvò le labbra, attento a schivare le spine che il bastone strappava ai rovi. «Oggi non indosso la toga di questore, Terenzia. Il drappo dell’erudito, semmai. Dello storico.» «Storico?» «Tra queste pietre riposa uno dei più grandi avversari di Roma. Un greco che ai tempi delle guerre puniche difese questa città dalle legioni. Da quando siamo giunti a Siracusa, ho chiesto mille volte di poter visitare la sua tomba. Nessuno, purtroppo, ricorda precisamente ove sia sepolto.» La donna inarcò un sopracciglio. «Non doveva essere l’eroe che dici, se i suoi stessi concittadini l’hanno dimenticato.» Il questore scrollò le spalle. «A volte, Terenzia, per accedere all’immortalità non basta compiere grandi imprese; occorre che qualcuno le narri ai posteri. È un’ingiustizia che, almeno in questo caso, io voglio emendare.» «Cerchi il sepolcro di questo “nemico di Roma”? E come lo riconoscerai, tra tante lapidi?» «I senarii dicono che egli dispose affinché sulla sua pietra tombale fosse inciso il successo per il quale desiderava essere ricordato.» «Un trofeo?» azzardò la donna, d’improvviso intrigata «una corona? Una spada d’oro?» «Spada?» l’uomo rise «non credo abbia mai impugnato nulla di più letale di un raschietto per la cera.» «Ma… hai detto che ha difeso Siracusa dalle legioni.» «Proprio così. Però non riteneva fosse quella, la sua grande impresa. Al contrario, il traguardo più insigne che si attribuiva era… eccolo!» La donna seguì di nuovo, condiscendente, il dito puntato del marito. Una macchia di pruni contornava, a mo’ di siepe, una piccola stele. Ella di-stinse, scolpite alla sua sommità, le figure di un cilindro e di una sfera.

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«Che significa?» borbottò, disorientata. Il questore ordinò al giovane nero di forzare un passaggio tra i rovi. Poi si rivolse di nuovo alla moglie. «L’uomo di cui cerco il sepolcro è Archimede. Ne hai mai sentito parla-re?» La donna aggrottò la fronte. Una piccola ruga apparve tra le sue soprac-ciglia dipinte. «Credo di sì. Datemi una leva e solleverò il mondo… o quello era Atlan-te? Non sono mai sicura, coi miti greci.» L’uomo rise ancora. Non un verso canzonatorio, ma il gesto di chi gode una soddisfazione a lungo attesa. «Archimede è stato un matematico di grande talento, Terenzia. Più im-portante di Pitagora, di Euclide, di Eratostene. Uno scienziato e un filo-sofo; non volle essere ricordato per aver battuto le legioni, ma per aver scoperto il rapporto tra il volume del cilindro e della sfera in esso inscrit-ta.» Poi, quasi non riuscisse a trattenersi, spinse da parte il servo che ancora mulinava il falcetto, si accostò alla lapide, percorse con le dita le venatu-re della pietra, socchiuse gli occhi per meglio assaporare la solennità del momento. «Marco?» «Che vuoi, Terenzia?» ribatté seccamente, piccato dall’interruzione. «Devo darti una brutta notizia.» «Cosa?» «Non è la sepoltura che stai cercando, questa. C’è un nome, inciso quag-giù. Ma non è “Archimede”…» la donna scandì le lettere «Dinostrato, se leggo bene.» Il questore sussultò. «Sei sicura?» L’altra sbuffò. «Non parlo il greco bene come te, marito mio, ma il loro alfabeto, con-sentimi, lo conosco.» L’uomo si inginocchiò accanto alla moglie. Strappò una manciata d’erba. Mise a nudo il basamento del sepolcro. Fece ombra con le mani. Strinse gli occhi sino a farne due fessure. «È un epigramma.» «Un cosa?» «Un’ode funebre.» «Vuoi dire quei versi che chi allestisce una tomba dedica al defunto?» «Esatto.» «Non sapevo che anche i greci avessero quest’uso.»

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«Siamo stati noi ad apprenderlo da loro, temo. I greci dicono: “In Ellade abbiamo già portato a perfezione tutto ciò che gli dèi hanno concesso all’uomo di inventare”.» «Modesti» commentò sarcastica Terenzia. Il questore osservò con contrarietà le crepe che l’umidità aveva inflitto alla pietra. «Siamo stati fortunati» osservò. «Ancora qualche anno e queste lettere sarebbero state erose. Credo che siamo gli ultimi a poterle leggere.» La donna picchiettò l’indice sui segni scolpiti sulla pietra. «Allora sbrigati a tradurre.» Indulgente, l’uomo assunse il tono retorico che nell’Urbe già cominciava a rendere celebri i suoi discorsi pubblici. «Che la terra ti avvolga lieve, maestro/così come il cilindro avvolge la sfera/nell’abbraccio di cui tu misurasti la perfezione./Questo ti augura Dinostrato/il più umile dei tuoi discepoli/il più fedele dei tuoi servi.» «Parole sobrie» commentò la donna. «Ma devote» aggiunse il questore. «Questo “Dinostrato” doveva essere davvero legato al suo padrone.» «Che ne sai?» «Be’, la stele lo dimostra. Archimede è morto in circostanze drammati-che; non dev’essere stato facile curarne la sepoltura…» l’uomo assunse un’espressione pensosa. «Devo ammetterlo, sono invidioso.» «Invidioso?» ripeté la donna. Il questore accennò al giovane nero che ciondolava con aria indolente, lo sguardo vacuo e il falcetto penzolante dalla cintura di canapa. «Se perissi all’improvviso, i miei domestici arrafferebbero ciò che pos-sono e se la squaglierebbero. Nessuno di loro si sognerebbe di provvede-re alle mie esequie.» La donna carezzò teneramente la spalla del marito. «Non angustiarti, mio dolce signore. Non sarà certo un servo, a onorarti; quel giorno lontano, vergherò in tuo ricordo la più struggente ode fune-bre che mai l’Urbe abbia udito dai tempi di Romolo.» Il questore, commosso, si lasciò cingere dalle braccia della consorte. Ma negli anni che seguirono, tra le mille guerre, i complotti e gli odiosi tra-dimenti che contrassegnarono la sua carriera politica, più volte si chiese se ciò che Terenzia gli aveva giurato, quel torrido giorno alle porte di Si-racusa, fosse stata una promessa, o non piuttosto una minaccia. “La scoperta della tomba di Archimede da parte di Cicerone è stato il maggior contributo dato dal mondo romano alla matematica. Forse l’unico.” Carl Benjamin Boyer

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Campo d’assedio romano, 541 ab urbe condita (212 a.C.) Marco Claudio Marcello osservò con distacco l’uomo che il centurione Agrippa aveva trascinato in catene nella tenda consolare. Terminò senza fretta di controllare i dispacci militari in partenza per la Penisola, poi si rivolse al prigioniero in un tono benevolo, sorprendentemente in contra-sto con la ferocia che, da giorni, i vincitori del lungo assedio stavano di-mostrando ai vinti. «Tu sei l’aiutante di Archimede, mi dicono. Come ti chiami?» «Dinostrato» replicò tristemente l’altro «ma ero solo il suo servo.» Il centurione strattonò con brutalità la catena, costringendo il prigioniero a cadere in ginocchio. Poi si chinò su di lui e gli ringhiò nell’orecchio: «Osi contraddire il console, cane? Vuoi assaggiare il flagello? Se il con-sole dice che tu sei l’aiutante di Archimede, tu dici “sì, signore, lo sono”. Se dice che sei un cavallo, tu nitrisci e batti gli zoccoli. Se dice che sei un pesce, tu mangi vermi e puzzi al sole. È chiaro?» Il duce dell’esercito romano levò con degnazione il braccio destro. Il centurione allentò la presa sulla catena del prigioniero. «Hai detto “ero”» commentò Marcello, conciliante «dunque sai già che il tuo maestro è morto.» «Lo avete ucciso» azzardò Dinostrato, aspettandosi in reazione un nuovo intervento del centurione. Ma il romano parve onorato della precisazio-ne. Dinostrato lesse soddisfazione sul suo viso affilato, quasi gli avesse riconosciuto un merito. «Non desideravo la sua morte, Ercole mi è testimone» dichiarò asciutto il console. «No?» Marcello scrollò le spalle imponenti. «Avevo ordinato che fosse condotto al mio cospetto. Ma si è rifiutato di obbedire. Un atto di superbia; avrebbe fatto meglio a riconoscere la scon-fitta e a piegarsi finalmente all’autorità di Roma.» «Autorità di Roma?» il prigioniero scosse la testa «il mio padrone era a stento consapevole del vostro assedio. Non credo distinguesse un miles romano da un oplite siracusano. O che gli interessasse capire la differen-za.» Marco Claudio Marcello corrugò la fronte spaziosa. «Stai dicendo che il tuo maestro era folle?»

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Dinostrato si levò faticosamente in piedi. Era scalzo, arruffato, le vesti lacere, una brutta ferita alla spalla malamente ricoperta da sangue rag-grumato. I suoi occhi neri erano velati dalla sofferenza. Non aveva nep-pure trent’anni, ma il peso che gli gravava sull’animo lo ingobbiva come fosse un vecchio. «Il mio padrone era un genio» ribatté piano, in un tono che non nasceva dall’orgoglio, bensì dalla prostrazione di chi ha già perso tutto «viveva in un mondo che non è quello di noi esseri imperfetti. La sua mente volava alta, oltre le vette dell’Olimpo.» «Perché ha insultato i legionari, allora?» Il prigioniero scosse la testa. «Non intendeva farlo. Quando i tuoi uomini sono venuti a prenderlo, egli ha risposto come avrebbe fatto con chiunque, generale o re, l’avesse di-stolto dai suoi pensieri. La sua non è stata superbia, console, ma l’usuale agire di un intelletto più vicino agli dèi che ai mortali.» Il centurione storse la bocca, colpì di nuovo il prigioniero. «Te lo ripeto per l’ultima volta, cane. Non contraddire il console!» Marco Claudio Marcello sospirò. «Lasciaci soli, Agrippa.» Il centurione esitò un solo istante, un lampo di perplessità negli occhi co-lor Tevere. Poi la disciplina romana ebbe il sopravvento. Batté il pugno contro il pettorale e uscì dalla tenda. Il console porse una brocca al prigioniero. Dinostrato bevve avidamente, mentre il sangue che sgorgava dalle labbra tumefatte trascolorava nell’acqua della caraffa. «Ercole mi è testimone, io non amo la violenza» sancì il romano «sebbe-ne sia talvolta mio dovere infliggerla.» «E quella che state riservando a noi è dovuta?» L’altro assentì con gravità. «Roma non può permettersi debolezze, greco. Non in questo momento, con Annibale ancora alle sue porte.» Dinostrato si toccò penosamente la caviglia, ridotta a piaga viva dal ferro della catena. «Capisco. Avete bisogno di sfoggiare la vittoria.» Già mentre pronunciava quelle sillabe, intuì di aver passato il segno. Se il centurione fosse stato ancora presente, pensò, avrebbe certo messo mano alla frusta. Ma il console, sorprendentemente, stirò le labbra a sco-prire gli incisivi. «Sei insolente, greco. Eppure… hai ragione. Sì, spoglierò Siracusa dei suoi tesori e li condurrò nell’Urbe come bottino. Trarrò i vostri stessi dèi, coi loro simulacri, in schiavitù nel Foro. Celebrerò il più grande trionfo

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dai tempi di Curio Dentato. Il popolo romano ne sarà sollevato, dopo tante disfatte. Per questo mi sei necessario.» «Io?» ripeté Dinostrato, perplesso. «Il più grande tesoro di questa città è l’ingegno di Archimede, lo sanno tutti. Intendevo aggiogare il tuo maestro al mio carro ed esibirlo come schiavo. Ma gli dèi hanno disposto altrimenti. Dovrò contentarmi di por-tare a Roma le sue opere.» Dinostrato aggrottò le sopracciglia. «Volete dire i suoi trattati? In questo caso, dovreste fermare le razzie dei vostri legionari. Li ho visti: si divertivano, sul cadavere ancora caldo del mio padrone, a gettare nelle fiamme i papiri.» «Papiri? Pensi che come bottino io voglia ostentare rotoli di foglie sec-che?» Marcello rise. «Per Ercole, solo un greco potrebbe concepire una simile sciocchezza! No, io intendo portare a Roma meraviglie che lasci-no il Senato a bocca aperta, oggetti magici che impressionino il popolo, qualcosa di…» «…di grandioso che metta in ombra i vostri rivali» fece eco il prigionie-ro. «H o capito.» Il console stirò di nuovo le labbra, questa volta più una minaccia che un sorriso. «Hai di nuovo ragione, greco impudente. Ebbene, perché non dirlo? Vo-glio umiliare Quinto Fabio Massimo, che nelle sue decantate campagne militari non ha mai espugnato più di un villaggio, e quel borioso di Pu-blio Cornelio Scipione, il cui unico successo è essere sopravvissuto a Canne.» «Per questo avete fatto a pezzi lo sferisterio?» chiese a mezza voce Di-nostrato. «Il cosa?» «Il meccanismo che simula il moto della Luna e dei pianeti» spiegò il prigioniero. «Ah, i globi di vetro e d’argento» confermò Marcello compiaciuto. «È proprio di attrezzi come quello, che sto parlando. Prezioso e raffinato, evocativo e misterioso. Lo rimonterò sul Palatino e farò girare la testa a tutti i patrizi di Roma.» «I vostri uomini l’hanno disarticolato» obiettò Dinostrato «l’hanno sven-trato come barbari. Non so se è possibile ricostruirlo.» «Tu lo ricostruirai» puntualizzò il console, in un tono che non ammetteva repliche «e poi mi insegnerai a usarlo. Come farai coi litoboli di preci-sione, la manus ferrea e le altre macchine da guerra che porteremo a Roma.» Pur conscio che l’altro era sordo alle proteste, Dinostrato scosse ancora la testa.

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«Mi chiedete l’impossibile, signore. Io sono solo un servo, ve l’ho già detto.» Marcello tagliò corto con fare sprezzante. «Capisco che tu intenda proteggerti, ma è inutile. So per certo che sei stato assistente di Archimede per anni, che lo conoscevi meglio di chiun-que altro. Farai ciò che ti ho ordinato, se vuoi vivere.» Dinostrato chinò la testa tentando di riordinare i pensieri, ancora scossi dal puzzo degli incendi, dalle grida dei saccheggi, dalla visione dei gladi legionari che, nell’eccitazione della mischia e nel fulgore delle fiamme, affondavano nel corpo dei suoi concittadini. Chiuse gli occhi, tirò un gran respiro, pervenne a una risoluzione. «Io posso raccontarvi del mio padrone, console» disse rialzando il capo «tutto ciò che ricordo. Ogni suo insegnamento, ogni aneddoto. Quel mi-sero frammento della mente di Archimede che sono riuscito a compren-dere. E a serbare.» «Mi sta bene» convenne Marcello soddisfatto. «Ma voglio qualcosa in cambio.» Il romano sussultò, sorpreso. «Avrai la vita, greco. Come osi pretendere di più?» Dinostrato scrollò le spalle. «La mia vita non ha valore. Voi lo sapete bene. Reclamo qualcos’altro.» Marcello sbuffò. «Non sei in condizione di negoziare, vinto. Eppure la tua sfrontatezza mi diverte. Dimmi dunque: qual è il tuo prezzo?» «Voglio il nome di chi ha tradito.» Il romano arricciò le labbra. «Di che vaneggi? Non c’è stato tradimento. Vi siete arresi.» «Non parlo degli ultimi difensori di Ortigia, console. Erano un pugno di scampati senza cibo né armi. Mi riferisco a quando avete preso l’Epipoli. Si dice che un siracusano vi abbia aperto i cancelli della torre di Eurialo. È così?» Marcello rise. «Sei pazzo quanto il tuo padrone, greco.» «È stato un aristocratico» insistette il prigioniero «un nobile guercio chiamato Peristione, vero?» La risata del console si spense. Il suo viso si fece pensieroso. Si accomo-dò su un tripode, invitò Dinostrato a fare altrettanto. «Dimmi di Archimede, greco. Di come si è battuto in questo assedio. Se mi riterrò soddisfatto delle tue parole, ti concederò la ricompensa che chiedi.»

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«Sono due racconti diversi» specificò Dinostrato. «Il mio padrone in pa-ce, il mio maestro in guerra. Posso narrarteli entrambi. Ma non sarò bre-ve.» Marcello empì il boccale di vino. «Abbiamo tutta la notte.» “Avete spesso sentito dire che Siracusa è la più grande città greca, e la più bella di tutte. Signori giudici, è proprio come dicono.” Marco Tullio Cicerone, In Verrem, II,4,117

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Ortigia, 227 a.C. «Troppo gracile! Cosa sei, malato? Perché dovremmo prenderti, ranoc-chio? Abbiamo bisogno di schiavi robusti, qui!» Il “benvenuto” che ricevetti in casa di Archimede non fu esattamente uno sfoggio di ospitalità siracusana. Nei miei ricordi mi vedo ritto in piedi, nudo e a testa china, a subire l’esame critico di Teonia, la sorella minore del padrone. Sapevo già che costei, dalla morte del marito, si era dedica-ta a governare la vita privata e le faccende domestiche dell’illustre fratel-lo. Ma ignoravo che, tra quelle mura fregiate da ninfe e delfini dipinti, lei fosse un tiranno di cui lo stesso Dionisio avrebbe provato timore. Devo ammettere, peraltro, che a quell’epoca il mio aspetto rendeva ra-gione allo scetticismo di Teonia. Avevo appena compiuto tredici anni, ma dimostravo meno della mia età; ero solo un mucchio d’ossa sporgenti sotto un enorme cespuglio di capelli incolti. Ricordo che fissavo le ma-gnificenze di quella villa quasi con sbalordimento, abituato com’ero all’umido tugurio ricavato in una delle Latomie della Neapoli, affollata da famiglie del mio stesso ceto, che dividevo con mia madre, due fratelli, sei sorelle, le pulci, i topi, il freddo e la fame. Teonia, dicevo, mi controllò accuratamente i denti, le ginocchia, le un-ghie. Poi mi accostò una fiaccola accesa al viso e fece schioccare le dita accanto alle mie orecchie. «Ci vede e ci sente benissimo» assicurò mio padre, o meglio il ceffo che il giorno prima si era presentato alle grotte come tale - Zeus mi fulmini se l’avevo mai visto! - e mi aveva condotto con sé promettendomi che mi avrebbe “sistemato per la vita”. Teonia lo ignorò sovranamente. Soppesò metà delle monete che mio pa-dre aveva chiesto e le lasciò cadere, senza celare il biasimo, sul pavimen-to a mosaici. Il ceffo si affrettò a raccoglierle, mugugnò qualcosa di in-comprensibile e scomparve. «Potente Atena, mi hai forse tolto il senno?» brontolò Teonia «che razza d’idea, prendere in casa questo essere inutile! Ora dovrò anche trovargli una tunica pulita!» Mi sarei gettato in ginocchio per ringraziarla, ma in quel momento mi sentivo troppo intimidito. La mia nuova padrona era una donna di mezza

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età alta poco più di tre cubiti, volto arcigno e carni flaccide che le pende-vano in rotoli dal collo e dagli omeri. Aveva capelli color Etna e labbra irsute, dita d’arpia e sguardo da Medusa. «Che lavoro potrò mai affidarti?» meditò con fare accusatorio. «Giardi-niere? No, sei troppo basso. Acquaio? No, troppo magro.» Alla fine sembrò considerare un’idea divertente, perché si lasciò sfuggire un ghigno tutt’altro che aristocratico. «Sei veloce, ranocchio?» «Più di Hermes, padrona» assicurai. Un’esagerazione forse blasfema, ma di certo ero il più lesto tra i miei fratelli, specie nelle rare occasioni in cui c’era da arraffare un po’ di cibo. «Bene. Ti occuperai di Triangolo e di Ellissi, allora. Per il momento. Finché non imparerai a svolgere incarichi più importanti.» Nella spaventosa ignoranza in cui mi crogiolavo allora, quei nomi non mi parvero neppure strani. Ricordo solo di essermi chiesto perché la mia padrona stesse ridacchiando. Lo scoprii presto, quella sera stessa, quando guadagnai la prima delle unghiate che da allora in poi divennero il mar-chio del mio nuovo lavoro. All’epoca, devo precisare, bestie di quell’infida razza costituivano una novità, a Siracusa; allevarli come animali da compagnia era un uso esoti-co appena importato dall’Egitto. Oggi, nei vicoli del Lakkion e sui moli del Porto Grande, ne girano molti di più. A dirla tutta, sono convinto che buona parte della colonia felina di Ortigia sia discendenza diretta di Tri-angolo ed Ellissi, i due sfrontatissimi gatti del Nilo che il mio padrone Archimede aveva portato con sé dal suo viaggio ad Alessandria. Le bestiacce in questione trascorrevano le giornate a tormentare le oche del tempio di Hera o ad azzuffarsi coi cani delle ville vicine. In casa, il loro passatempo preferito consisteva nell’appendersi con le unghie alle tende o agli arazzi. Erano capaci di passare ore, immobili, a fissare il vuoto o a dormire sulle pelli conciate del mègaron, finché - senza preav-viso - saltavano su e schizzavano a nascondersi, autentiche saette di A-pollo, tra le anfore della cucina o dentro a qualche credenza. Triangolo, il maschio, esibiva una forza sorprendente per la sua taglia. Era un gatto vile e aggressivo al tempo stesso. Si considerava padrone della casa e ne dimostrava il possesso spruzzando su stipiti e colonne una sostanza fetida il cui odore non andava via, per quanto io strofinassi e strofinassi con cenere e lisciva. La femmina, Ellissi, aveva la singolare abilità di incunearsi tra le mie ca-viglie ogni qualvolta io andavo di fretta, col risultato che solo nel primo mese di lavoro mi mandò gambe all’aria una dozzina di volte. Meno bat-tagliera del compagno, ovviava con una ragguardevole produzione cano-ra. Emetteva, ricordo, una singolare eufonia tra un ululato e un vagito da

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lattante. Si produceva in concerti soprattutto nelle ore che precedono l’alba. A causa di questo molesto dono di Melpomene, i vicini di Archi-mede, a intervalli regolari, tentavano sistematicamente di avvelenarla. Il mio compito era, per l’appunto, evitare che Triangolo ed Ellissi si fa-cessero ammazzare, e che fossero sempre nutriti e in buone condizioni per quando il mio padrone richiedeva la loro compagnia. Il che non av-veniva spesso, in effetti, ma certo più frequentemente di quanto Archi-mede cercasse la vicinanza dei suoi simili. Il mio nuovo padrone era un uomo… be’, singolare. La prima volta che lo incrociai, rammento, temetti che Hermes - forse insolentito dal mio paragone blasfemo - mi avesse reso color dell’aria. Archimede, ricordo, mi travolse nel suo incedere, addirittura mi calpestò per proseguire il cammino. Ero consapevole di essere solo un moccioso di nessun valore, ugualmen-te ricordo che me la presi. Poi però vidi Archimede comportarsi allo stesso modo col resto della servitù, persino con sua sorella. E capii che non si trattava di altezzosità, men che mai di disprezzo. A guidare il mio padrone era qualcosa di molto più misterioso, un’indole indecifrabile che lo rendeva tremendamente distratto, indifferente alle più elementari con-venzioni umane. Il cibo, ad esempio. Il mio padrone era incredibilmente ghiotto di dolci al miele, per il resto non si curava affatto di ciò che metteva sotto i denti. Se non fosse stato per Teonia, che badava alla sua dieta, sono certo che nel giro di pochi giorni si sarebbe intossicato, o avrebbe finito per morire di fame. Coi due gatti, viceversa, egli appariva a suo agio. Lo scorgevo spesso, prono dinanzi al focolare, con Ellissi acciambellata sulla sua schiena e Triangolo che gli leccava il tallone. Altre volte lo sorprendevo intento a grattare collo e orecchie dei due felini, i quali ricambiavano ronzando fusa soddisfatte. Oppure li intravedevo immobili, padrone e animali, aria assente e sguardo - gli dèi mi perdonino, straordinariamente simile! - perso contro il muro imbiancato. I primi tempi - ricordo - le stranezze del mio padrone, il suo agire più af-fine agli usi felini che alle costumanze degli uomini, mi spaventavano. Anche perché nulla sapevo di lui, delle sue doti di scienziato e filosofo. Nelle Latomie ove ero cresciuto il suo nome era noto, naturalmente, ma di lui si vociferava solo che fosse grande amico di re Gerone, forse addi-rittura suo mezzo parente. Nulla di più. Né avevo ricevuto spiegazioni in merito da mio padre. Quando mi aveva condotto in Ortigia come fossi un capretto da vendere nell’agorà, le sue uniche raccomandazioni erano sta-

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te: “Ruba più che puoi, Dinostrato; se Zeus ha donato tanti tesori a un uomo che non se ne cura, è chiaro che l’ha fatto per arricchirne i servi”. L’incidente grazie al quale cominciai a capire di cosa Archimede si oc-cupava giunse, come sempre dispone il Fato, inatteso. Quella mattina stavo, secondo le mie consegne, rincorrendo Triangolo ed Ellissi, tentando di limitare in qualche modo i danni che le due furie pro-vocavano al loro passaggio. Ero riuscito ad afferrare Ellissi per la collot-tola un istante prima che mandasse in pezzi un prezioso vaso frigio, ma nel farlo avevo perso di vista Triangolo, che aveva infilato il passaggio che conduceva al giardino (voi romani direste atrium) della villa. Mi ero innamorato di quell’angolo verde sin dal primo momento. Teonia vi aveva fatto scavare un vasto impluvio e piantare tutt’intorno papiri, ninfee, fiori profumati i cui semi il padrone aveva portato dall’Egitto. Tra le piante e il bordo della vasca si stendevano tratti cosparsi di sabbia fine e conchiglie, particolare che rendeva il giardino simile a una minu-scola spiaggia. Il mio padrone amava riflettere in quell’angolo ombroso, e tracciare col bastoncino ogni sorta di figure sulla rena. Quel giorno, mentre mi affannavo sulle tracce di Triangolo, mi accorsi con orrore che l’ingrato gatto aveva profanato la sacralità del luogo, sca-vando una buca nella sabbia per poi vuotarvi l’intestino. Imprecai contro le stolte divinità egizie che avevano partorito la sua razza e tentai di af-fibbiargli una pedata, ma lo sfrontato felino balzò al sicuro e si permise persino di soffiarmi contro in tono di sfida. Fissai terrorizzato lo scempio; era colpa mia. Per una mancanza del ge-nere, realizzai, Teonia mi avrebbe certo cacciato di casa. L’unica speran-za era rimettere tutto in ordine prima che i miei padroni si destassero. Il carro del sole era ancora sul filo dell’orizzonte; potevo farcela. Mi affrettai perciò a ripulire le nauseabonde deiezioni di Triangolo, ri-muovendo la sabbia sporca, sostituendola con ghiaia pulita, compattando poi la superficie con un rastrello. Il risultato finale mi parve soddisfacente. Finché, d’improvviso, mi resi conto che il mio intervento aveva in parte cancellato le figure che Ar-chimede aveva abbozzato la sera prima. Sussultai. Forse Teonia non se ne sarebbe accorta, ma il padrone certamente sì. Dovevo rimettere ogni cosa com’era. Purtroppo non rammentavo esattamente il disegno. Avevo la vaga visio-ne di due curve, una rivolta verso l’impluvio, l’altra verso i papiri, e di alcune linee - lunghe una spanna - che le congiungevano. Non avevo tempo di riflettere; dal gineceo sentivo già la voce di Teonia che rampo-gnava la sua ancella Psiche. Da un momento all’altro sarebbe giunto qualcuno. Pregai la Fortuna di assistermi e tracciai i solchi confidando nell’intuito.

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Poi corsi via. Ma rimasi tutto il giorno con l’apprensione di essere sco-perto. Pur attendendo ai miei compiti in cucina e nell’androceo, di tanto in tanto gettavo un’occhiata al giardino, in cerca di possibili reazioni da parte di Archimede. Che si concretizzarono a sera, quando quasi speravo di averla fatta fran-ca. «Teonia!» proruppe la voce del padrone di casa «Teonia! Vieni qui subi-to! Chi ha toccato questa dimostrazione?» Mi nascosi all’ombra di una colonna e sbirciai quanto accadeva, terroriz-zato. Vidi Teonia sopraggiungere trafelata e fronteggiare il fratello con aria perplessa. «Chi ha toccato cosa?» Archimede puntò il bastone sulla rena. «Ti ho detto mille volte di stare attenta ai miei diagrammi!» accusò. «Guarda!» La padrona reagì alzando le braccia con aria esasperata. «Per Atena, di che parli? Nessuno tocca i tuoi disegnini, lo sai bene! In-somma, mi fai correre qui a perdifiato, con tutte le cose che ho da fare in casa, e…» Archimede s’inalberò. «Mi dai dello stupido?» Lei tentò di ammansirlo, indicando pacatamente con la punta del sandalo la superficie levigata. «Io non vedo segni. Sei sicuro che sia stato calpestato? Forse tu stesso, ieri sera, hai cancellato…» Lungi da chetarsi, Archimede s’imporporò. «Convoca tutti i domestici e interrogali, sorella! Voglio sapere chi è sta-to! Adesso!» A quel punto cedetti. Abbandonai l’immeritata sicurezza del mio na-scondiglio e mi gettai ai piedi dei padroni. «In nome di Zeus, perdonatemi» balbettai. «Il gatto… il disegno, la sab-bia… sono stato io.» Archimede mi fissò sorpreso. «Tu? E tu chi sei?» «Dinostrato» dissi in fretta, incespicando nelle parole. «Non volevo far nulla di male, padrone, solo pulire e mettere in ordine. Non succederà più. Vi prego, perdonatemi.» Teonia non doveva ancora aver realizzato l’accaduto. Tuttavia ritenne, a ogni buon conto, di intervenire. Così mi afferrò per i capelli e cominciò coscienziosamente a picchiarmi. Archimede le fermò il braccio con aria scandalizzata.

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«Che stai facendo?» Lei annuì. «Hai ragione, per Atena. Questo inutile ranocchio non merita che io mi spelli le mani. Ordinerò a Tirteo di frustarlo.» «Non intendo punirlo.» Teonia rimase interdetta. «Ma… avevi detto di chiamare i servi, che volevi interrogare…» Archimede la zittì con un gesto ozioso. «Non protestavi di avere da fare, Teonia? Va’ pure, dunque.» La padrona scrollò le spalle con disappunto, ma obbedì. Archimede si rivolse a me. «Come hai detto di chiamarti, ragazzo?» «Dinostrato, padrone.» Per la prima volta osai alzare lo sguardo e puntarglielo addosso. Archi-mede aveva l’aspetto grave, posato, di chi si attarda sulla soglia che se-para maturità e vecchiaia. Portava i capelli lunghi alle spalle, bianchi, e una barba fluente dello stesso colore, sorprendentemente trasandata per un uomo del suo rango. I suoi lineamenti ricordavano quelli della sorella, forse appena più gentili. A colpire, ricordo, era lo sguardo pacato e la fis-sità della sua espressione, che gli rendeva il viso simile a quelle masche-re da teatro su cui avevo visto lavorare mio fratello Ipsicle quando era apprendista alla bottega di ceramica. «Perché hai toccato il mio disegno?» chiese. Non sembrava adirato, solo curioso. Io gli spiegai umilmente quanto era accaduto. All’accenno agli intestini di Triangolo rise, pur senza piegare gli angoli della bocca. «Così, volevi rimediare» commentò tornando serio. «Ma perché hai trac-ciato le bisettrici in questo modo, partendo non dal fuoco ma dal vertice della parabola?» Le sue misteriose parole mi inquietarono. «Perdonatemi, padrone, non vi capisco. Di che “fuoco” parlate? Sentite freddo? Volete che accenda il focolare?» Lui rimase in silenzio a fissare il disegno. Sembrava deluso. Quando alla fine tornò a rivolgersi a me, lo fece scandendo le sillabe con grande at-tenzione. «Tu non hai idea del significato di questi segni, vero?» Confermai giurando la mia buona fede sul nome di tutte le divinità che conoscevo. Lui interruppe seccamente le mie lamentazioni porgendomi il bastone. «Ascoltami… questo diagramma non è completo. Se ti dicessi che occor-re aggiungere un’ultima retta, tu dove la porresti?»

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Quella strana richiesta, e ancor più il tono in cui era stata avanzata, mi spaventò. Ripetei che non capivo. Lui insistette, ma io non osavo toccare il bastone. «Te lo renderò più semplice» accondiscese Archimede. Tracciò tre linee sulla rena, poi me le indicò. «Quale di questi tre segmenti, secondo te, completa meglio il disegno?» Poiché esitavo ancora, lui precisò che si trattava di un ordine. Io sussul-tai; non sapevo cosa avesse in mente, ma era chiaro che mi stava metten-do alla prova. E che io non potevo tirarmi indietro. Deglutendo, indicai la linea più vicina all’impluvio. Il viso di Archimede non mostrò reazioni, ma mi resi conto che stava trattenendo il respiro. «Scegli questo?» «Sì, padrone.» «Puoi dirmi perché?» «Non lo so, padrone. Mi sembra…» indugiai, sentendomi uno stupido. «Ti sembra cosa?» insistette Archimede «avanti, non aver paura.» Tirai fuori il fiato prima che la soggezione mi vincesse ancora. «Perdonatemi, padrone; mi sembra che il disegno, così, sia più bello.» Parole che suonarono sciocche alle mie stesse orecchie. Mi aspettavo che Archimede mi deridesse, che mi comandasse di tornare a spalare merda di gatto senza fargli perdere altro tempo, o addirittura che richiamasse Teonia perché mi affibbiasse le frustate che meritavo. Invece lui annuì con la massima serietà. «Inconfutabilmente. La tua è un’ottima osservazione, ragazzo. E perché, dimmi, così il diagramma ti sembra più “bello”?» Io titubai ancora qualche istante, più incerto che spaventato, ma capii che Archimede non mi avrebbe lasciato andare senza una risposta. «Be’, credo… credo che…» «Che cosa?» mi spronò. «Parla liberamente.» Presi un respiro. «Credo, padrone, che sia bello perché le forme che lo compongono, così, hanno più equilibrio.» Lui si produsse in un fremito. Allungò un braccio, e per un momento pensai che volesse battermi una pacca sulla spalla. Ma non mi toccò. Ri-trasse la mano, la portò alla barba, affondò nervosamente le dita tra i ric-cioli color giacinto. E tacque. «Come ti chiami, ragazzo?» s’informò alla fine. «Dinostrato» risposi, sbigottito di averlo dovuto ripetere per ben tre vol-te. Lui sembrò rendersi conto del mio sconcerto. Sospirò platealmente. «Mi spiace, tendo a dimenticare il nome delle persone» asserì.

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Poi sorrise. «Però ti prometto, giovane Dinostrato, che il tuo, da oggi in poi, farò in modo di ricordarlo.» “Coloro i quali sono in grado di comprendere Archimede ammirano as-sai meno le scoperte dei maggiori uomini moderni.” Gottfried Wilhelm von Leibniz

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Guerra, estate 214 a.C. «Mi dicono, maestro, che voi riuscite a leggere il codice segreto delle le‐gioni romane.»  Tossicchiai per richiamare l’attenzione del mio padrone sulla presenza degli ospiti. Archimede sollevò il capo e osservò svogliatamente il drap‐pello che si era presentato alla villa. Le vesti candide, di raffinata fattura, dei magistrati  cittadini  spiccavano  contro  le  corazze di  cuoio degli  at‐tendenti del tiranno Epicide.  «Inconfutabilmente» confermò il mio padrone «è una semplice applica‐zione del metodo per la quadratura della spirale.» Il  tiranno  scambiò un’occhiata  costernata  col  fratello  Ippocrate.  Era  la prima  volta  che  li  vedevo  così  da  vicino.  Si  somigliavano,  dalla  barba corta ai capelli castani raccolti sulla nuca. Epicide però era più dinocco‐lato e guardingo, Ippocrate più fiero e robusto. Quest’ultimo, che indossava un’uniforme da polemarca di taglio punico, si fece avanti con risolutezza. «Ieri abbiamo catturato un vascello romano a largo di Capo Bruzio» in‐formò. «Purtroppo non abbiamo superstiti da interrogare. A bordo, tut‐tavia, abbiamo trovato questo…» Estrasse dalla cinta un minuscolo rotolo di papiro e lo srotolò di fronte ad Archimede. Aguzzai  la vista; era  lungo e sottile,  ricoperto di  lettere che sembravano vergate alla rinfusa. Il padrone assestò una pacca sul dorso di Triangolo Secondo, che son‐necchiava acciambellato sulle sue ginocchia. Il gatto miagolò infastidito, dimenò  la  coda  dalla  punta mozzata  e  schizzò  via.  Archimede  si  levò stancamente  in piedi puntellandosi sul bastone di quercia. Solo in quel momento, mi avvidi, il tiranno e gli altri ospiti si resero conto di quanto il mio padrone fosse vecchio. «È  senz’altro possibile decifrarlo» mormorò  tranquillamente Archime‐de, senza muovere un muscolo in direzione del papiro che Ippocrate gli porgeva. «Ora, però, sono stanco. Più tardi, poi, dovrò lavorare al tratta‐to sui conoidi. Mi spiace.» Epicide, allibito, si pose imperiosamente dinanzi al mio padrone.  «Voi… voi non potete rifiutare, maestro! Siamo in guerra,  lo sapete be‐ne! Ogni cittadino di Siracusa deve fare la sua parte!» 

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Archimede abbozzò un sorriso. «Il mio allievo Dinostrato sarà lieto di aiutarvi.» «Questo schiavo?» replicò con disprezzo il tiranno. «Maestro, vi rendete conto della gravità del momento?» «Dinostrato è perfettamente in grado di risolvere l’esercizio, per la veri‐tà piuttosto banale» assicurò Archimede. E senza aggiungere altro si de‐filò verso le sue stanze. Gli attendenti di Epicide rumoreggiarono. Per un istante temetti che ri‐portassero indietro il padrone con la forza. Mi affrettai a intervenire. «Posso esaminare quel papiro, mio signore?» Il tiranno rifiutò sdegnosamente di prestare attenzione alle mie parole. Fu Ippocrate, con mia sorpresa, ad avanzare e affidarmi il messaggio da decifrare. «Sei sicuro di saperlo fare, uomo?» mi apostrofò. Io annuii. «Il mio  padrone  ha  risolto  il  problema matematico  e  ha  progettato  lo strumento. Ma sono stato io a costruirlo.» «Lo strumento?» ripeté Ippocrate. Frugai nella cassapanca. Sapevo dove cercare; lo rintracciai nel volgere d’un respiro. «Il padrone l’ha battezzato “scitala universale”» dichiarai. Fissai l’estremità del rotolo al primo perno, bloccai il secondo e comin‐ciai a ruotare l’ingranaggio finché la striscia di papiro non cominciò ad avvolgersi intorno al cilindro di legno.  Il  principio,  come Archimede mi  aveva  spiegato,  era pura  geometria.  I romani usavano scrivere  i dispacci militari su fogli arrotolati  intorno a tronchi di cono (un’evoluzione della scitala spartana) identici a quelli di cui  disponeva  il  destinatario.  Chiunque  ignorasse  sezione  e  lunghezza della scitala utilizzata non riusciva a leggerli.  Il padrone, già da anni, aveva scoperto come, citando le sue stesse paro‐le, “quadrare la spirale del codice romano”. Io non avevo afferrato gran‐ché della sua spiegazione, ma l’avevo impiegata per ricavarne uno stru‐mento  semplice  da  utilizzare;  bastava  girare  la manopola  fino  a  rico‐struire la prima parola, il resto veniva da sé. «Brundisium» scandii, interpretando i segni che si andavano allineando sul cilindro «ha senso per voi, mio signore?» «La nave romana che abbiamo fermato era sicuramente diretta in Apu‐lia» commentò  Ippocrate. Si voltò verso  il  tiranno. «Che ne dici,  fratel‐lo?» L’altro, che si era chiuso in un contegnoso silenzio, si affrettò a sbirciare. Io bloccai  la terza camma e ruotai la manopola affinché il messaggio si mostrasse nella sua interezza.  «Marco  Claudio Marcello…»  lesse  il  tiranno.  «È  un  dispaccio  del  duce dell’esercito romano.» 

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Provai anch’io a seguire  il  testo, ma Epicide doveva conoscere  il  latino molto meglio di me; non ero ancora alla seconda riga quando lui impal‐lidì e si artigliò la tunica all’altezza del cuore. «Signore?» intervennero inquieti i suoi attendenti «vi sentite bene?» «Marcello informa che si è liberato del nemico che l’osteggiava» balbet‐tò «invita la flotta di Brundisium a radunarsi e bloccare il nostro porto in vista dell’assedio.» I presenti rumoreggiarono.  Ippocrate prese a confabulare vivacemente coi magistrati cittadini. Colsi sprazzi del loro diverbio. «Liberato del nemico? Sta parlando delle nostre truppe?» «E di chi, altrimenti? Questo spiega perché non abbiamo notizie da Le‐ontini.» «Per Ares, erano i nostri uomini migliori!»  «Devono essersi fatti attirare in una battaglia campale. È l’unica spiega‐zione.» «Non è possibile!»  «Un momento!  Il  dispaccio  non  è  giunto  a  destinazione.  Forse  la  loro flotta non…» «Sciocchezze. I romani inviano sempre due o più corrieri. Uno sarà certo riuscito a forzare la nostra sorveglianza.» «Possiamo affrontarli in mare?» «A Siracusa abbiamo solo ventisette triere. Ci schiaccerebbero.»  «Artemide ci protegga! Siamo perduti, dunque?» I più spaventati erano i magistrati dell’Assemblea. Il vecchio Gorgia mi ordinò del vino,  lo mandò giù  fino all’ultima goccia, poi si rivolse al  ti‐ranno con voce chioccia. «Voi! Dovete chiamare Annibale! Che venga in Sicilia! A difenderci come ha giurato!» Epicide scosse risolutamente il capo. «Nessuno può ordinare al Barcide cosa fare. Non Cartagine, e certo non Siracusa. Se deciderà di passare lo Stretto e battersi per questa città, sa‐rà una sua decisione. Ma dubito che si muoverà da Capua.» «Che faremo, allora?» Il tiranno scambiò un’occhiata d’intesa col fratello. «Le triere lasceranno il Lakkion al più presto. Con la marea di stanotte, se possibile.» «State scherzando?» «Al contrario. Nulla è più  inutile di un vascello bloccato da un assedio. Una flotta da guerra,  in mare, può sempre sorprendere  il nemico, o al‐meno disturbare le sue linee di comunicazione.» Gorgia strinse gli occhi sino a farne due fessure. «Suppongo che voi intendiate lasciare la città con le navi.» 

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Epicide si erse in tutta la sua statura. Era stato acclamato tiranno da po‐co tempo, e si diceva che non tutta l’aristocrazia si fidasse di lui. «Mio  fratello  partirà  come  navarca  della  flotta,  nobile  Gorgia»  sancì sprezzante «ma io resterò. Sino alla fine.» Il vecchio Gorgia non parve appagato. Anzi, a giudicare dal tremore del‐le sue membra, era  lungi dall’aver ripreso controllo di  sé. Afferrò bru‐scamente  il messaggio,  ancora  legato  intorno  alla  scitala  universale,  e strillò quasi in falsetto. «Chiedo che i maggiorenti dell’Assemblea siano informati di questo! Su‐bito!» Epicide annuì con fare severo. Gorgia e gli altri si avviarono alla porta. Il tiranno  e  suo  fratello  li  seguirono  senza  degnarmi  di  un  saluto.  Solo all’ultimo istante, sulla soglia, Ippocrate si fermò. Mi lanciò uno sguardo meditabondo, poi chiamò a sé la sua guardia del corpo personale.  «Uccidilo» ordinò indicandomi. E sparì. Il  guerriero,  un enorme cartaginese dall’elmo conico e  le braccia mas‐sicce coperte da tatuaggi, sguainò la spada e me la puntò alla gola. «Che… che  succede?»  chiesi,  più  stupito  che  spaventato  «perché  il  tuo padrone mi vuole morto?» Il guerriero scosse la grande testa dalla pelle scura.  «Ippocrate  non  è  mio  padrone»  precisò  con  alterigia.  «Non  sono  un mercenario,  bensì  un  libero  cittadino  di  Qart  Hadasht.  Se  mai  servo qualcuno, questi è il dio Melqart, non altri.» Capii  che era disgustato dall’ordine  ricevuto. Decisi di  appigliarmi alla sua palese contrarietà.  «Non è onorevole, per un guerriero, uccidere un uomo disarmato» bal‐bettai «che vi ha appena reso un grande servigio, oltretutto.» Lui scosse le spalle. «Suppongo che Ippocrate non voglia si sappia di questa minaccia; il pa‐nico ci danneggerebbe più dell’assedio. E giacché tu sai scrivere, Dino‐strato servo di Archimede, tagliarti la lingua non servirebbe a nulla.» «Che assurdità!» esclamai, arretrando sotto  la pressione della  lama sul collo. «Non hai  sentito Gorgia? Stanno per  leggere  il dispaccio romano all’Assemblea. Cosa potrei rivelare io, più di quanto si dirà nel Pritane‐o?» «Forse che Gorgia ha  implicitamente accusato Epicide di  fellonia» con‐siderò il cartaginese. «Credo sia questo, che Ippocrate non vuole esca da questa sala.» Dal  fatto  che  continuava  a  discorrere  con me  invece  che  affondare  la spada, capii che mi avrebbe risparmiato. Stava solo cercando un prete‐sto per non obbedire all’ordine di Ippocrate. Lo accontentai. «Giuro su Artemide che, su questo, non pronuncerò una sillaba con uo‐mini viventi o ombre degli Inferi» recitai solennemente. Il cartaginese ripose l’arma, soddisfatto. 

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«Molto  bene,  Dinostrato  servo  di  Archimede.  Detesto  sporcare  la mia spada col sangue di alleati. Mi fiderò della tua discrezione.» Osai tastarmi il collo. Era integro. Deglutii. «Grazie.» «Mi chiamo Malcone» asserì «e tu ora hai un debito con me. Te lo ram‐menterò.» Il cartaginese lasciò la sala. Rimasi solo.  Avvertii,  violento,  il  bisogno di  bere.  Vuotai  il  cratere  del  vino,  poi mi versai una brocca d’acqua sulla testa e respirai forte finché non smisi di tremare. Sedetti sullo scanno di Archimede. E presi a riflettere. Gli eventi si ad‐densavano sul mio piccolo mondo come nubi in una tempesta. Non era semplice decidere come agire, ma ero discepolo del più grande sapiente del mondo; dovevo dimostrarmene degno. Alla fine pervenni a una risoluzione. Mi alzai, raggiunsi la pesante tenda che velava l’ingresso del gineceo, la scostai. Il viso di Ipsicle, che era ri‐masto nascosto tutto il tempo, era color della cera. «Credo di essermela fatta sotto, fratello» si lamentò. «Minacciano di sgozzare me e sei tu a perderti d’animo?» lo rimbrottai. «Hermes protegge  i  ladri, non  li  rende coraggiosi» ribatté  lui. «Guerra, assedio, messaggi  segreti…  è  troppo per me,  fratello.  Voglio  solo  inta‐scare le mie monete e tornarmene alle Latomie.» «Mi  spiace,  Ipsicle, non  le hai ancora guadagnate. Ho un altro  incarico per te.» «Zeus ti fulmini, Dinostrato. Chi ti ha nominato mio padrone?» Ignorai  le  sue  proteste  e  gli  spiegai  precisamente  cosa  doveva  fare.  E mentre  gli  illustravo  il  mio  piano,  ascoltando  le mie  stesse  parole mi sorpresi a chiedermi cosa ne avrebbe pensato Archimede. Non  avevo  dubbi;  il  mio  padrone  avrebbe  detto  che  era  un  disegno troppo elegante, troppo bello perché potesse fallire.  Ipsicle e i suoi compari fecero un buon lavoro; al giungere del tramonto la voce si era sparsa dagli anfratti delle Latomie ai vicoli della Neapoli, dalle pendici dell’Epipoli sino agli scogli del Trogilo, dalla bassa Acradi‐na al santuario di Apollo sul colle Temenite.  I romani arrivano, sussur‐rava a sera l’intera città. I romani arrivano. Domandai perdono ad Artemide. Anche se, a rigor di termini, non avevo infranto il voto, giacché non avevo parlato di Gorgia. Semmai il delatore era stato Ipsicle, non io.  La città reagì con l’inevitabile trepidazione di chi da più di cinquant’anni non conosce guerre e sa di aver molto da perdere. L’imbarco della flotta, poi, contribuì ad accrescere il senso di catastrofe. I templi si gremirono 

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di fedeli invocanti protezione, i mercanti disertarono l’agorà per timore di saccheggi. Una folla si radunò davanti a Palazzo per esigere risposte da Epicide, rimasto solo dopo la partenza di Ippocrate sulle triere. Non  era  ancora  panico.  Quello  scoppiò  la  sera  successiva,  quando all’orizzonte comparvero i superstiti di quella che era stata la nostra po‐tente armata. Il primo a giungere fu un mercenario della cavalleria nu‐mida. Lui e il suo animale erano coperti di sangue, le frecce romane an‐cora conficcate sul  corsetto di pelle e  sul dorso del cavallo. Si  trascinò agonizzando sino alle mura, tirò le redini, smontò, crollò al suolo morto. Seguito pochi istanti dopo dalla sua cavalcatura.  Altri  scampati  sopraggiunsero  alla  spicciolata.  Laceri,  feriti,  resistendo in vita solo quanto bastava a riportare l’esito della battaglia. E fu terrore. A  notte  lasciai  aperti  gli  scuri  delle  stanze  del  padrone,  affinché  l’eco delle grida e dei tumulti potesse giungere alle sue orecchie. La mattina dopo, accennandogli  che  le vie di Ortigia non erano sicure,  gli proposi l’Epipoli come meta alternativa per l’uscita quotidiana. Lo feci montare su una portantina (la salita sino alla città alta era una prova troppo ar‐dua per le sue ginocchia senili) e lo accompagnai sino al castello di Eu‐rialo. Sulla vetta delle torri l’aria era pura. Eolo soffiava una brezza gentile sui nostri volti. L’azzurro del cielo, assoluto, stordiva i sensi.  Dalle mura sino all’orizzonte potevamo scorgere la lunga teoria dei con‐tadini  in fuga dai campi e dai frutteti.  I pastori, coi  loro armenti, erano trattenuti a stento dagli opliti. Uomini, donne e animali premevano, on‐deggiando come messi mature, per passare le porte di Dionisio e cerca‐re scampo dalla tempesta di ferro che incombeva. Ancora non dissi  nulla;  i  tredici  anni  che  avevo  speso  a  servire  il mio padrone mi avevano ben insegnato. Procrastinai il ritorno alla villa fin‐ché non fui certo che ci saremmo imbattuti in uno di quegli orribili riti propiziatori che ‐ ne ero certo ‐ il panico e la superstizione stavano fa‐cendo proliferare. Così  fu.  La  portantina dovette  fermarsi  e mettersi  da  parte mentre  gli invasati ci oltrepassavano gridando. Conoscevo la vittima, e sperai che così fosse anche per il padrone. Credo si chiamasse Demodoco; un povero infelice, un giovane inoffensivo con l’intelligenza di un mulo, che viveva di elemosine, a volte prendendosi la libertà  di  mendicare  nelle  dimore  degli  aristocratici.  Ce  lo  trovammo davanti, nudo e con  le braccia  legate dietro alla schiena. La  folla  lo so‐spingeva  innanzi  percuotendolo  con bastoni  e  rami  d’albero  selvatico. Se tentava di voltarsi o fuggire, i colpi si concentravano sui suoi genitali. Lui piangeva atterrito, senza peraltro riuscire a impietosire i suoi perse‐cutori, che erano soprattutto donne. Ne strattonai una. 

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«Dove lo portate?» Sapevo bene cosa mi avrebbe risposto; avevo già visto atrocità del gene‐re tre anni prima, durante la grande epidemia di cui ancora piangevo i morti. Ma volevo che il padrone udisse chiaramente. «Alzeremo una pira in riva al mare e lo bruceremo» schiamazzò la don‐na, forse ebbra, schizzando saliva tutto intorno. «Poi offriremo le ceneri a Poseidone» aggiunse un uomo, probabilmente il marito, liberando con ostilità la moglie dalla mia stretta «come sacrifi‐cio perché ci salvi dai romani.» «Che barbarie» commentò Archimede, finalmente turbato. «È  la  paura,  padrone»  azzardai.  «Quando  la  ragione non  concede  spe‐ranze, la gente si aggrappa agli istinti.» Tacqui, sperando di non aver già detto troppo. Quella notte Archimede non mi ordinò di spegnere la fiaccola e di chiu‐dere gli scuri. Capii che intendeva lavorare fino a tardi. Provai a vegliare anch’io,  ma  presto  la  stanchezza  mi  vinse.  Fu  lui  stesso  a  svegliarmi all’alba. «Mi hai convinto, Dinostrato» esordì. «Cosa?» replicai d’istinto, insonnolito. «Ciò  che mi  hai mostrato  ieri  è  inconfutabilmente  più  importante  dei conoidi» chiosò. «Devo dedicarvi tutta la mia attenzione. Ti ringrazio di avermene  persuaso…  e  di  avermi manipolato,  anche  questa  volta,  con grande rispetto.» Arrossii. «Padrone, davvero non so di cosa state…» «Guarda questi disegni» tagliò corto lui «cosa ne pensi?» Io misi a fuoco i segni che Archimede aveva tracciato sui fogli di papiro. Prima con perplessità, poi con meraviglia, infine con incontenibile ecci‐tazione. «Cosa…  cos’è  questo,  padrone?» balbettai, mentre  il  cuore prendeva  a martellarmi nel petto. «La  speranza,  Dinostrato» mormorò Archimede  «la  speranza  della  ra‐gione.»  Le pattuglie inviate in esplorazione confermarono che le colonne roma‐ne marciavano su Siracusa. Avevamo due,  tre giorni al massimo prima che c’investissero. All’orizzonte, viceversa, nessun segno di vascelli romani.  Poseidone ha gradito  l’olocausto degli storpi e ha affondato  la  flotta ne­mica,  vaneggiavano  in  molti.  Io  supponevo  invece  che  la  cattura  del messaggero avesse ritardato i piani avversari, oppure che le triere car‐

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taginesi, al largo, costituissero una minaccia di cui i romani volevano li‐berarsi prima di disporre il blocco del nostro porto. L’araldo  di  Epicide  batté  le  campagne  ordinando  a  tutti  di  rifugiarsi, portando  con  sé  ogni  provvista  possibile,  entro  le  mura.  Anche l’Olympieion, fu deciso nonostante che i sacerdoti schiamazzassero “Sa‐crilegio!”, andava vuotato dei suoi tesori e lasciato alla mercé del nemi‐co, giacché per la sua posizione era impossibile difenderlo. Archimede attese che l’ultimo officiante lasciasse, portato via a forza, il tempio.  Poi  decretò  che  la  grande  spianata  antistante  il  santuario  era l’ideale per la “dimostrazione” che intendeva offrire all’Assemblea. Io e Ipsicle, seguendo le sue disposizioni, lavorammo tutta la notte per piaz‐zare  i paletti misuratori  (esattamente ogni  sessanta passi,  s’era  racco‐mandato il maestro) e raccogliere le pietre, simili in peso e dimensioni, che sarebbero servite come proiettili. Il padrone giunse all’alba, scortato da due schiavi robusti che avevo scelto personalmente, su un carro trai‐nato da asini e carico del materiale necessario. Ci mettemmo tutti al la‐voro,  e  prima  che  il  sole  fosse  alto  completammo  il  montaggio dell’intera struttura. «È una catapulta» commentò al suo arrivo Epicide, deluso «minuscola, ma pur sempre una catapulta. Ci avete fatto venire qui per questo, mae‐stro?» «Vi prego, nobile…» Archimede esitò (solo io compresi che non ricorda‐va il nome del tiranno) «…nobile signore, di notare la piattaforma gire‐vole,  l’ingranaggio  per  regolare  l’alzo  e  la  corsa  del  battente, l’automatismo per la ricarica.» Poi sorrise conciliante. «Ma avete ragione, tecnicamente si tratta di una catapulta. La progettai anni fa, per verificare il mio teorema del volo balistico. Sapete, la legge secondo  cui  un  corpo  scagliato  obliquamente  in  aria  ricade  seguendo una parabola.» I magistrati cittadini, o meglio quei pochi che avevano accettato l’invito del padrone ed erano giunti al seguito del tiranno, manifestarono rumo‐reggiando la loro insoddisfazione. Solo il gigantesco Malcone, un po’ de‐filato, osservava assorto. La voce di Epicide si fece gelida. «Tutto ciò è molto interessante, maestro, ma non c’è tempo, ora, per…»  Interruppe la frase e restò a bocca aperta scorgendo il bersaglio che io e Ipsicle stavamo affidando a un capannello di popolani. Era uno steccato di  legno  lungo  due  dozzine  di  cubiti,  sorretto  da  cavalletti,  intagliato rozzamente a rappresentare la sagoma di un drappello di legionari. Co‐me  tocco personale  avevo  fissato  cinque  elmi  romani  sulla  cima di  al‐trettante assi. Ma il contributo più utile l’aveva fornito Ipsicle, spargen‐do la voce che Archimede avrebbe pagato un pegno in argento per ogni colpo andato a vuoto. I popolani, allettati dalla prospettiva di intascare 

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qualche moneta, si disputavano a gomitate il diritto di piazzare il bersa‐glio sul piazzale del tempio. «Avrete tutti un’occasione» gridai per calmarli. «Ricordate; non meno di sessanta passi, non più di trecento. Voi laggiù! Cominciate!» Gli uomini cui mi ero rivolto trascinarono il bersaglio in mezzo al cam‐po. Archimede osservò l’operazione impiegando le bacchette e gli spec‐chietti di bronzo con cui ‐ lo sapevo ‐ era capace di misurare con preci‐sione angoli e distanze. Poi appuntò qualcosa sulla sua tavoletta di cera. «Sei punti a destra, due  in alto» comandò quando  i popolani  si  furono allontanati dal bersaglio. Ruotai gli ingranaggi di regolazione, poi mossi il piccolo argano che da‐va tensione alle funi. Issai la pietra sul supporto e attesi l’ordine del ma‐estro.  Lui  socchiuse un occhio,  accostò  l’altro  ai  suoi  strumenti,  lanciò un pugno d’erba in aria e lo osservò ricadere. Infine annuì.  «Lanciate!» Abbassai la leva che liberava il peso. Il braccio della catapulta descrisse un arco di cerchio e colpì il battente. Il proiettile s’innalzò nell’azzurro, ricadde, abbatté il bersaglio. I popolani che l’avevano piazzato, vedendo andare in fumo i loro guada‐gni, inveirono. I successivi della fila si precipitarono a rimetterlo in pie‐di, ansiosi di sfidare a loro volta la fortuna. Assestarono col palmo delle mani gli assi che il colpo aveva schiodato, raccolsero uno degli elmi che era volato lontano, poi spostarono il tutto in un altro punto del campo. Archimede dispose una nuova regolazione della catapulta. Poi ordinò il lancio. Il bersaglio fu nuovamente centrato. «È  un  prodigio!»  esclamò  il  tiranno,  fattosi  d’improvviso  interessato. «Maestro, la vostra macchina ha il favore dagli dèi!» Archimede scosse la testa. «Avete detto bene prima, nobile signore; è una semplice catapulta, copia in scala dei litoboli che i vostri guerrieri stanno piazzando lungo le mu‐ra.  La differenza  sta nel modo di utilizzarla;  i  vostri uomini  sanno per esperienza che una catapulta più grande colpisce più lontano di una pic‐cola, ma non vanno oltre questo concetto. Di  conseguenza pretendono di  colpire  il  bersaglio  a  forza  di  tentativi  e  correzioni.  Fanno  centro, quando  ci  riescono,  dopo  un  numero  inaccettabile  di  lanci  a  vuoto.  Il calcolo permette un’efficienza molto più alta.» Lo steccato cadde di nuovo,  facendo rotolare gli elmi tra  l’erba e solle‐vando  ancora  le  imprecazioni  dei  popolani.  Cui  fecero  eco  i  parlottii smarriti dei magistrati di Siracusa. Archimede ammiccò a questi ultimi ostentando sicurezza. Io non ero altrettanto  tranquillo.  I  calcoli del maestro erano senz’altro corretti, ma  le regolazioni della nostra catapulta non riuscivano a ren‐

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derne la precisione. Nell’ultimo tiro il bersaglio era stato appena sfiora‐to; era caduto solo perché, malridotto com’era, ormai bastava uno spo‐stamento d’aria ad abbatterlo.  Decisi di interrompere i lanci prima che qualcuno se ne rendesse conto. I popolani protestarono. Io li ignorai. Loro si allontanarono mugugnan‐do. Epicide roteò gli occhi, più confuso che persuaso. «Non ho capito molto di quanto avete detto, maestro» confessò. «Cos’è una “copia in scala”? E che intendete per “efficienza”?» Intervenne Malcone, rimasto fino a quel momento silenzioso. Dal giorno in cui mi aveva puntato la spada alla gola mi ero informato, e avevo ca‐pito di  essermi  sbagliato. Non era,  come avevo  creduto,  la  guardia del corpo di Ippocrate, ma uno dei capi del contingente cartaginese in città.  «Perdonatemi, nobile Archimede» disse «devo farvi una domanda. Pote‐te rendere così precise tutte le macchine da guerra di Siracusa?» Archimede meditò carezzandosi la barba. Vidi che Epicide si torceva le mani dall’ansia, e che tutti i magistrati trattenevano il respiro. «Inconfutabilmente» sancì alla fine il padrone.  I membri dell’Assemblea esultarono.  «Per gli dèi!»  «Possiamo difenderci, dunque!» Epicide si prostrò con fare raggiante verso il pronaos dell’Olympieion.  «Possente Zeus» declamò in tono stentoreo «io Ti ringrazio in nome di tutti coloro, uomini e donne, che nelle cinque città Ti temono e Ti sono devoti. Ero certo che Tu non ci avresti abbandonato.» «Dobbiamo subito officiare un sacrificio!» propose un magistrato. «E celebrazioni!» echeggiò un altro «in ogni tempio di Siracusa!» «Chiamate  i  sacerdoti! Che  interroghino gli oracoli, gli oinoscopei! Che chiedano quale offerta è adeguata per questo miracolo!» Le voci degli aristocratici si accavallarono, si fusero in un chiacchiericcio indistinto. Lasciato in disparte, Archimede osservava la discussione con serena  indifferenza.  D’un  tratto  mimò  una  smorfia  di  dolore.  Mi  fece cenno di portargli il bastone. Io lo raggiunsi, gli porsi la spalla affinché vi si reggesse. «Andiamo, Dinostrato» mormorò  in  tono sofferente «carichiamo  la  ca‐tapulta sul carro e torniamo a casa; abbiamo molto lavoro da fare.» Disposi gli ordini per i due schiavi. Poi esitai. «Che c’è, Dinostrato?» Tesi le orecchie. Nel vento echeggiò di nuovo il suono che avevo udito. Era flebile, lontano. Ma lo riconobbi. Ebbi un tremito. Cacciai due dita in bocca e fischiai all’indirizzo di Ipsicle. Mio fratello si trovava sul limite della radura, impegnato a cercare tra l’erba i pezzi del bersaglio che l’ultimo proiettile aveva definitivamente distrutto. 

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«Non c’è tempo, Ipsicle» l’apostrofai. «Vieni subito qui; dobbiamo rien‐trare.» «Stavo cercando…» iniziò a protestare. «Taci e ascolta» tagliai corto. Lui obbedì. E sgranò gli occhi. «Inutile raccogliere gli elmi romani» decretai, mentre il soffio di Eolo ci portava alle orecchie il rullo dei tamburi delle legioni in marcia «presto ne avremo in abbondanza.» 

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Ortigia, 226-225 a.C. Farò in modo di ricordare il tuo nome. Nei giorni che seguirono ebbi modo di interrogarmi più volte sul signifi-cato di quel bizzarro giuramento. Il mio padrone non disse né fece nulla per chiarire. Al contrario, scomparve per molto tempo, al punto che nei quartieri della servitù cominciarono a circolare le voci più assurde sui motivi della sua lunga assenza. Alcuni ipotizzavano che fosse stato convocato a Palazzo da re Gerone, altri che l’Assemblea l’avesse inviato a Roma in un’importante missione diplomatica. Melissa, la vecchia cuoca, bofonchiava a bassa voce che in realtà Archimede fosse un seguace di strani culti oscuri, e che di tanto in tanto dovesse isolarsi per compiere negromanzie e sacrifici umani. «L’ho visto io stessa, Artemide mi cavi gli occhi se mento!» spergiurava «nelle notti senza Luna il padrone pratica incantesimi! Evoca arpie, ci-clopi, le più abominevoli creature degli Inferi!» Sua figlia Psiche - una ragazzina appena più giovane di me, ancella per-sonale di Teonia - udendo queste illazioni, puntualmente rabbrividiva e intrecciava le dita in segno di scongiuro. Tutte favole, ovviamente. Al ritorno della bella stagione, il padrone - senza troppi misteri - ricomparve. Doveva in effetti essere stato in viag-gio, a giudicare dal voluminoso e pesante bagaglio che ci toccò trascina-re in casa. Sbirciai in una delle ceste; era colma di rotoli e rotoli di papi-ro. Il mattino dopo, il tintinnio del campanello di bronzo mi informò che Teonia aveva ordini per me. Mi affrettai a raggiungerla. Lei mi squadrò con aria più arcigna del solito. «Mio fratello ti reclama come suo valletto personale» esordì. Non sapevo se quell’annuncio costituisse un premio o una punizione, perciò mi limitai ad annuire. «Finalmente avrai un lavoro degno di questo nome» aggiunse con una punta di sarcasmo. «Comincerai a guadagnarti il cibo che sprechiamo a ingozzarti.» Aveva ragione, dovevo dargliene atto; le dispense dei miei padroni non conoscevano carestie, e in quei primi mesi di servizio avevo liberamente saziato - o, meglio, avevo tentato di farlo - una fame che potevo ben de-finire atavica.

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Il contrasto tra il mio appetito titanico e l’aspetto scheletrico con cui ero arrivato in casa di Archimede aveva colpito tutti. Sotto lo sguardo diver-tito e un po’ scandalizzato degli altri domestici, in primo luogo del tutto-fare Tirteo, spazzolavo con avidità gli avanzi del pasto dei padroni, libe-ravo il forno dal pane che Melissa scartava perché bruciato, mi servivo a piacimento degli ortaggi troppo maturi che Teonia elargiva ai fattori di ritorno in campagna affinché ci nutrissero i maiali. Il mio corpo, reagen-do a quell’inaspettata prosperità, si era come svegliato, prendendo a cre-scere e a irrobustirsi. In breve il mio soprannome era passato da “ranoc-chio” a “Dinostrato la rana pronta a scoppiare”. «Che dovrò fare come valletto, padrona?» osai chiedere. Teonia socchiuse gli occhi e abbassò la voce. «Per iniziare, scorterai mio fratello nelle sue passeggiate quotidiane. Ba-derai a che esca in strada vestito e ti assicurerai che torni a casa senza perdersi. Ti assegnerò altri incarichi più avanti, quando riterrò che tu sia pronto.» «Vestito? Perdersi?» replicai, perplesso «non capisco.» «Potente Atena, chi ti ha mai detto che devi capire?» mi bacchettò Teo-nia «a te spetta solo obbedire, servo! Comincerai domani stesso!» Mi affrettai a inginocchiarmi e a chiedere perdono dell’impertinenza. Lei fece cenno che ero libero di andare. Mi accomiatai. Rientrato nei quartie-ri della servitù, chiesi lumi a Tirteo. Costui rise sguaiatamente. Lo trovai inappropriato, ma non spettava a me redarguirlo. «Inseguire un vecchio che sgambetta a chiappe nude non sarà più diffici-le che rincorrere i tuoi gatti, Dinostrato» ghignò «però dovrai smetterla di gonfiarti la pancia, o non ce la farai a tener dietro al padrone!» A maggiore chiarimento, mi narrò quanto era successo il giorno in cui Archimede aveva risolto l’enigma della falsa corona di re Gerone. Dove-vo essere il solo a ignorarlo, credo; in Ortigia l’aneddoto era celebre quanto l’Odissea. Quella volta - mi disse senza lesinare col turpiloquio - l’entusiasmo del padrone l’aveva fatto balzare fuori dalla vasca e correre in strada prima che i domestici potessero drappeggiargli addosso una tunica, e tutta Sira-cusa l’aveva visto trottare verso l’agorà gridando “Eureka, eureka!” con solo gli oli profumati del bagno a coprirlo. Ma non s’era trattato di un’eccezione. Il padrone - mi spiegò Tirteo - si curava delle stoffe che indossava meno ancora dei cibi che inghiottiva. Accettava a malincuore che i servi gli ricucissero strappi evidenti sul chi-tone o sull’himation, ma per convincerlo a togliersi di dosso una clamide macchiata occorreva una pazienza infinita e una volontà implacabile.

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Anzi, il più delle volte era lui stesso a sporcarsi, intingendo il dito nella cenere e usando le vesti come tavoletta per appunti. «Lo fa anche quando è nudo» sussurrò Melissa atteggiandosi a cospira-trice «l’ho visto io stessa, Artemide m’accechi. Si unge il petto e vi trac-cia sopra segni da negromante. Ma gli dèi puniranno le sue empietà, po-tete starne certi!» Se lo scopo di quelle chiacchiere era intimorirmi… be’, furono efficaci. Ricordo che i primi tempi in cui servivo Archimede come domestico personale non riuscivo a chiudere occhio. Ogni bisbiglio notturno mi fa-ceva sobbalzare - ne udivo molti, e misteriosi, in quella grande casa pie-na d’ombre - ogni stranezza che scoprivo nel mio padrone mi accappo-nava la pelle. Ma non intendevo rinunciare all’incarico, perciò serravo i denti e mi costringevo a lavorare con solerzia. Mi presentavo prima dell’alba al thàlamos del padrone, attendevo che si svegliasse, lo pettina-vo, lo vestivo, poi lo scortavo nelle sue passeggiate quotidiane. Archimede amava molto, col bello e col cattivo tempo, percorrere la città in lungo e in largo. Ogni mattina si recava al Porto Grande a godere dello spettacolo dei pescatori che issavano a riva le reti colme dei doni di Po-seidone. Poi costeggiava gli arsenali e i granai eretti da Gerone, sostava sul ponte che conduceva al Lakkion, percorreva - dalla reggia fino al santuario di Demetra - la via che re Agatocle aveva fatto lastricare con pietra dura dell’Etna. Avanti e indietro, finché il carro del sole non vol-geva al ritorno. Nel pomeriggio faceva tappa alla fonte Aretusa, e infine giungeva sulla spiaggia prospiciente l’Acradina, ove ammirava i delfini che balzavano tra le onde e l’eleganza delle stelle marine sulla sabbia. Io gli stavo dietro, badando soprattutto che non finisse sotto a un carro o dentro a un fosso mentre passeggiava con la testa canuta gettata all’indietro e lo sguardo perso sulle forme delle nuvole. Lui sembrava scarsamente consapevole della mia presenza. Solo al tra-monto, quando osavo sfiorargli la clamide e suggerirgli di riprendere la via di casa, il mio padrone sussultava, si guardava intorno come chi si sveglia da un sonno profondo, poi mi sorrideva e prendeva a rivolgermi domande bizzarre. «Secondo te perché il cielo è azzurro, Dinostrato?» «Come mai, Dinostrato, la pioggia cade sempre verso il basso?» «Hai notato che il sole sembra più grande al tramonto, Dinostrato?» «Sapresti contare, Dinostrato, i granelli di sabbia di questa spiaggia?» Inutile obiettare che ero solo uno schiavo ignorante, che i suoi quesiti per me erano misteri; Archimede insisteva e insisteva finché io non accon-sentivo a escogitare una risposta. Su ciascuna di queste lui meditava a lungo, a volte addirittura ricompensandomi con un “Bravo Dinostrato!” che giudicavo del tutto immeritato.

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Altre volte mi usava come portatore. Nel suo percorso quotidiano racco-glieva foglie, ciottoli, lische di pesce, persino gabbiani morti, e me li af-fidava come fossero piccoli tesori. I primi tempi questa singolare abitu-dine mi mise in difficoltà. Poi intrecciai una gerla che mi affardellavo sulle spalle la mattina prima di uscire di casa, in modo da depositarvi il carico, comprese le tavolette di legno e cera d’api ove a volte Archimede vergava appunti, e conservare comunque le mani libere. Se gli usi del mio padrone mi sconcertavano, a sorprendermi fu soprat-tutto scoprire quanto egli fosse debole fisicamente. All’inizio credevo che delegasse a me ogni incombenza giacché - come ogni siracusano fie-ro del suo ceto - disprezzava le attività manuali. Ma presto mi resi conto che il problema era un altro; Archimede aveva fiato e gambe sufficienti a salire le torri che dominavano il Lakkion, ma le sue braccia non riusci-vano a reggere nulla di più pesante di una pergamena. Questa, capii, era la ragione principale per cui Teonia insisteva che andasse in giro scorta-to; da solo, ne convenivo, qualunque ladruncolo di Ortigia avrebbe potu-to facilmente sopraffarlo. Anzi, probabilmente il mio padrone si sarebbe fatto sfilare anche i sandali dai piedi senza accorgersene. L’ultima mia affermazione - lo ammetto - suona come un paradosso. Giuro però che l’ultimo giorno d’estate avvenne effettivamente qualcosa del genere. Ricordo che avevamo trascorso un assolato pomeriggio a raccogliere conchiglie sulla spiaggia (seppi in seguito che Archimede stava studian-do la particolare curva del loro guscio). Il padrone aveva affibbiato quasi tutto il carico a me, tranne un paio di esemplari che aveva invece infilato in una minuscola bisaccia appesa alla cintura, e stavamo lentamente risa-lendo il sentiero che portava alla villa. Una teppa di ragazzini seminudi ci adocchiò da lontano. Di certo equivo-carono sul contenuto della bisaccia. In realtà Archimede non usava por-tare valori con sé; nei lunghi anni in cui rimasi al suo servizio, mai lo vi-di sfiorare una moneta. Date le mie frequentazioni nelle Latomie, non faticai a interpretare gli ammiccamenti con cui quelle piccole carogne si disposero al nostro pas-saggio. Il padrone, ovviamente, proseguì con olimpica noncuranza nel cammino, senza badare a quanto avveniva, neppure quando uno dei fur-fanti balzò in avanti, gli strappò la bisaccia e schizzò via. Io però ero pronto. Mi gettai alle calcagna del ragazzino e lo raggiunsi prima che facesse in tempo a dileguarsi nei vicoli. Lo afferrai per i capel-li e lo scrollai vigorosamente. «Caccia fuori quel che hai rubato, ladro!» «Lasciami, che l’Idra ti divori!» ringhiò lui tentando di divincolarsi.

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Come dicevo, in quei mesi mi ero molto irrobustito. Il mio avversario era pelle e ossa, mi sembrava indegno approfittarne. Così lo frugai finché non ritrovai il sacchetto del padrone, poi lo spinsi a terra, gli assestai un’innocua pedata a mo’ di commiato e gli voltai le spalle. Ritrovandomi circondato dall’intera banda. Erano in cinque. Sporchi come maiali e magri come la fame. Non aveva-no pugnali, solo bastoni e lunghe unghie color del fango. Raccolsi un grosso sasso e li minacciai. «Vi arrendete?» Loro avanzarono. Io soffiai come avevo visto fare Triangolo e mi gettai nella mischia. Non so dopo quanto tempo raggiunsi Archimede e gli riconsegnai, ansi-mando dolorosamente, le sue conchiglie. Avevo il naso gonfio e il dorso delle mani completamente spellato. Certo, avevo recuperato il bottino, ma sinceramente non potevo definirmi trionfatore; era stata piuttosto, come dite voi romani quando dileggiate il nostro antico alleato, una vit-toria di Pirro. Il padrone stava scrutando le iscrizioni sul muro esterno della villa, e si accorse a stento del mio arrivo. Io però avevo lottato come suo campione e ne ero, credo giustamente, orgoglioso; non avrei lasciato che mi igno-rasse, non quella volta. Così mi piazzai dinanzi a lui affinché scorgesse, alla luce fioca del sole calante, le mie “ferite d’eroe”. Archimede non poté fare a meno di notar-le. Sussultò, mi sollevò il viso, trattenne il respiro. Io mi sentii fiero e compiaciuto. Almeno finché lui non pronunciò la sua chiosa. «Ti sei mai chiesto, Dinostrato» considerò corrugando appena la fronte «perché le gocce di sangue, come quelle d’acqua, tendono ad assumere la forma sferica?» «Cosa?» balbettai. «Dovrò rifletterci» concluse lui. E rientrò placidamente in casa, lasciandomi lì, inebetito, a interrogarmi su che importanza potesse mai avere, in nome di Zeus, se il sangue che mi sgorgava dal naso fosse tondo o quadrato. «Cosa ti aspettavi?» mi beffeggiò Melissa, mentre con l’aiuto di sua fi-glia lavava e bendava le mie ferite «che ti ringraziasse? Per Artemide, il padrone è uno degli uomini più importanti di Siracusa, e tu sei solo un servo! È già strano che ti rivolga la parola!» «Smettila, vecchia matta!» intervenne Tirteo «il padrone sarà anche svampito, ma non è certo uno di quegli aristocratici gonfi di boria che trattano i domestici come sterco!»

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Il tuttofare della villa mulinò nell’aria le braccia nodose, come usava quando intendeva dar vigore alle sue paternali. «Del resto anche lui è figlio di serva, no?» La cuoca lo guardò storto, ma lui non si lascio tacitare. «È diventato un segreto, adesso? Ma se in città ne sparlano cani e porci! E poi lo stesso vale per Gerone, no? Quel puttaniere di re Ierocle lo ebbe da una schiava, non far finta di non saperlo! È per questo che lui e Ar-chimede sono come Castore e Polluce!» Melissa sbuffò con aria cocciuta. «Preferirei che il padrone fosse meno amico del re e più devoto agli dèi. L’hai mai visto celebrare sacrifici o recarsi a un tempio? L’ara in cortile è coperta d’edera, al tholos funebre di suo padre Fidia sta crollando il tet-to. Sono mancanze che gli Immortali non perdonano, Tirteo. E sappiate-lo; l’empietà di un uomo porta alla rovina tutti quelli che lo circondano.» Vidi che Psiche sussultava. La giovane figlia della cuoca aveva un carat-tere timido, era introversa e tendeva a farsi sottomettere tanto dalla ma-dre quanto dalla padrona Teonia. Non era la prima volta che notavo Me-lissa compiacersi nello spaventarla, ma quella volta mi diede fastidio, forse perché Psiche stava medicandomi le mani con grande dedizione. Perciò intervenni. «Secondo me le tue sono sciocchezze, Melissa» l’apostrofai. «Se davve-ro Archimede è inviso agli dèi, allora perché gli concedono una vita tan-to prospera?» «Ah, ma allora le sai tirar fuori, le palle!» rise Tirteo, deliziato nello sco-prire in me un alleato «Comunque non stare a preoccuparti, ragazzo; so-no sicuro che il padrone l’ha visto, che ti sei battuto per lui. Apollo mi trasformi in verro se non ti compenserà! Vedrai che da qui a qualche an-no diverrai coppiere, o addirittura araldo. Farai una bella carriera tra que-ste mura, sta’ sicuro!» I titoli ipotizzati da Tirteo non erano precisamente il massimo cui aspira-vo per il mio futuro, comunque lo ringraziai per quegli auspici. Prima di tornare al mio lavoro provai a flettere le dita; la fasciatura era perfetta. Per un istante incrociai gli occhi di Psiche, e mi resi conto con sorpresa - lei li teneva sempre bassi - di quanto fossero grandi e luminosi. Feci per dirle qualcosa, ma Teonia suonò il campanello e lei si alzò per raggiun-gerla. All’epoca non compresi perché, anzi me ne stupii, ma restai a lungo a pensare alla sua figura sottile che scompariva con passo aggraziato verso il gineceo. Fine anteprimaContinua...