IL LIMITE Cominciamo col dare una definizione della parola limite: 1 Linea di demarcazione, confine...
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IL LIMITE Cominciamo col dare una definizione della parola limite: 1 Linea di demarcazione, confine 2 Grado, livello o punto estremo a cui può giungere qualcosa o qualcuno. 3 Punto di passaggio a una condizione diversa da quella normale 4 Termine, confine, ambito (concreto o ideale) che non può o non deve essere superato
IL LIMITE Cominciamo col dare una definizione della parola limite: 1 Linea di demarcazione, confine 2 Grado, livello o punto estremo a cui può giungere
IL LIMITE Cominciamo col dare una definizione della parola
limite: 1 Linea di demarcazione, confine 2 Grado, livello o punto
estremo a cui pu giungere qualcosa o qualcuno. 3 Punto di passaggio
a una condizione diversa da quella normale 4 Termine, confine,
ambito (concreto o ideale) che non pu o non deve essere superato 5
Manchevolezza, insufficienza
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Vediamo subito l'etimologia della parola limite: Limes, limitis
una parola latina della III declinazione (imparisillabo con tema in
dentale) e indicava proprio la frontiera, il confine del territorio
romano.
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Fin dalle origini gli uomini hanno cercato di dare una
spiegazione ai loro limiti e hanno tentato di superarli, sia nei
confronti della natura, sia nei confronti degli dei. Il concetto
del limite umano tutt'altro che superato e ancora oggi riguarda
l'uomo in ogni aspetto della sua vita: si parla di limiti fisici,
intellettuali, medici, filosofici....ma come hanno affrontato
questo tema i grandi autori della letteratura antica?
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IL CONCETTO DI Hybris) Il termine indica propriamente in greco
la tracotanza, la dismisura, la superbia e il superamento del
limite. In Omero la parola si riferiva soprattutto alla
disobbedienza e alla ribellione contro il principe; nelle epoche
successive pass invece a indicare la sfida dell'uomo nei confronti
degli dei.
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OMERO Partiamo da quello che stato il primo autore e padre
della letteratura greca: OMERO. Di lui conosciamo soprattutto i due
grandi poemi epici dell'antichit: l'ILIADE e l'ODISSEA. In che modo
la si manifesta negli eroi omerici? Ricordate qualche episodio?
Proviamo a pensarci insieme
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Il primo episodio che mi viene in mente l'arroganza, l'
appunto, con cui il re Agamennone, nel I libro dell'Iliade, caccia
via malamente il sacerdote di Apollo Crise, giunto con infinito
riscatto a chiedere la liberazione della figlia Criseide, bottino
di guerra.
' ' , , 2525 , , , , 30 , . 30 E ora rileggiamo insieme la
traduzione di Rosa Calzecchi Onesti:
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ILIADE, LIBRO I, vv. 11-32 Crise l'Atride tratt malamente, il
sacerdote; costui venne alle navi rapide degli Achei per liberare
la figlia, con riscatto infinito, avendo tra mano le bende d'Apollo
che lungi saetta, l' intorno allo scettro d'oro, e pregava tutti
gli Achei ma soprattutto i due Atridi, ordinatori d'eserciti:
Atridi, e voi tutti, Achei schinieri robusti, a voi diano gli di,
che hanno le case d'Olimpo, d'abbattere la citt di Priamo, di ben
tornare in patria; e voi liberate la mia creatura, accettate il
riscatto, venerando il figlio di Zeus, Apollo che lungi saetta
.
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Allora gli altri Achei tutti acclamarono, fosse onorato quel
sacerdote, accolto quel ricco riscatto. Ma non piaceva in cuore al
figlio d'Atreo, Agamennone, e lo cacci malamente, aggiunse comando
brutale: Mai te colga, vecchio, presso le navi concave, non adesso
a indugiare, non in futuro a tornare, che non dovesse servirti pi
nulla lo scettro, la benda del dio! lo non la liberer: prima la
coglier vecchiaia nella mia casa, in Argo, lontano dalla patria,
mentre va e viene al telaio e accorre al mio letto. Ma vattene, non
m'irritare, perch sano e salvo tu parta .
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AGAMENNONE CACCIA VIA CRISE
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Sempre nell'Iliade un altro episodio significativo per quanto
riguarda il limite che un soldato non deve mai superare,
soprattutto nei confronti di chi, gerarchicamente, sta pi in alto
di lui. Ricordate l'episodio? Leggiamo insieme i versi del libro II
dell'Iliade (vv.212 -219)
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, , , , : : , : : ,
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Solo Tersite parlava ad alta voce senza misura, perch molte
parole le aveva in cuore, ma venivano dette a caso, vane,
disordinate, utilizzate per parlar male dei re: quello che a lui
sembrava per i Greci sarebbe stato buffo. Era l'uomo pi brutto che
era mai venuto sotto il dominio di Ilio. Aveva un naso largo e
schiacciato ed era zoppo da un piede, le sue spalle erano torte,
curve e rientranti sul petto; il cranio era aguzzo sulla sua cima,
ed i capelli erano radi.
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Odisseo colpisce Tersite
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ODISSEA La (hybris) caratterizza nell'Odissea il comportamento
dei Proci. Nel libro XXII dell'Odissea si attua la strage dei
pretendenti che da anni dilapidano i bene di Odisseo e pretendono
le nozze con Penelope. A capo dei proci, il pi arrogante di tutti,
c' Antinoo, che viola le leggi dell'ospitalit e il rispetto per un
re amato e benvoluto. Ecco che si macchia di superando il limite
della sua posizione.
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Antinoo figlio di Eupite, era il pi bello ed arrogante dei
Proci aspiranti alla mano di Penelope. Egli attenta vanamente alla
vita di Telemaco; insulta Eumeo, il vecchio guardiano di porci,
allorch guida Odisseo travestito da mendicante nella sala dei
banchetti, dove Telemaco, fingendo di non sapere chi sia quel
mendicante, gli offre ospitalit.
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Quando arriva il giorno del riconoscimento di Odisseo, i servi
chiudono le porte del palazzo, Telemaco afferra le armi e Odisseo,
tentendo l'arco che Ifito gli ha donato venticinque anni prima,
scocca la prima freccia che va a conficcarsi nella gola di Antinoo,
nel momento in cui questi porta una coppa alle labbra. Antinoo il
primo a cadere sotto le frecce dell'eroe e il massacro dei
Pretendenti ha inizio.
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ORAZIO C' un autore latino, risalente al I secolo A.C., che tra
le altre opere, ha scritto una raccolta diSermones (in italiano
Satire), 18 componimenti che presentano delle vicende reali o
verosimili cui il narratore ha partecipato e in ognuna di queste
vicende contemplato un precetto morale.
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Nella satira I ai vv. 106-107, troviamo questa massima: est
modus in rebus, sunt certi denique fines, quos ultra citraque
nequit consistere rectum. C' una misura per tutte le cose, ci sono
insomma confini precisi al di l dei quali non pu esistere il
giusto.
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I MITI Fino ad ora abbiamo parlato di epica con l'Iliade e
l'Odissea e di poesia con Orazio, ma anche altri generi letterari
presentano il tema del limite umano. In particolare il mito
affronta questo tema e numerosi sono gli autori che ci hanno dato
differenti versioni anche dello stesso mito. Uno di questi il mito
di Icaro.Ecco la verdsione presentataci da Ovidio, poeta latino,
nelle Metamorfosi, VIII vv 183 e ssg.
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Dedalo, insofferente d'essere confinato a Creta da troppo tempo
e punto dalla nostalgia della terra natale, era bloccato dal mare.
"Che Minosse mi sbarri terra ed acqua," rimugin, "ma il cielo pur
sempre aperto: passeremo di l. Sar padrone di tutto, ma non
dell'aria!". E subito dedica il suo ingegno a un campo ancora
inesplorato, sovvertendo la natura (naturamque novat).. Dispone
delle penne in fila, partendo dalle pi piccole via via seguite
dalle pi grandi, in modo che sembrano sorte su un pendio: cos per
gradi si allarga una rustica zampogna fatta di canne diseguali. Poi
al centro le fissa con fili di lino, alla base con cera, e dopo
averle saldate insieme, le curva leggermente per imitare ali vere.
E mentre l'istruiva al volo, alle braccia gli applicava quelle ali
mai viste. Ma tra lavoro e ammonimenti, al vecchio genitore si
bagnarono le guance, tremarono le mani. Baci il figlio (e furono
gli ultimi baci), poi con un battito d'ali si lev in volo e,
tremando per chi lo seguiva, come un uccello che per la prima volta
porta in alto fuori del nido i suoi piccoli, l'esorta a imitarlo,
l'addestra a quell'arte rischiosa, spiegando le sue ali e
volgendosi a guardare quelle del figlio.
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Icaro, il suo figliolo, gli stava accanto e, non sapendo di
scherzare col proprio destino, raggiante in volto, acchiappava le
piume che un soffio di vento sollevava, o ammorbidiva col pollice
la cera color dell'oro, e cos trastullandosi disturbava il lavoro
prodigioso del padre. Quando all'opera fu data l'ultima mano,
l'artefice prov lui stesso a librarsi con due di queste ali e
battendole rimase sospeso in aria. Le diede allora anche al figlio,
dicendogli: "Vola a mezza altezza,(natum 'medio' que 'ut limite
curras), mi raccomando, in modo che abbassandoti troppo l'umidit
non appesantisca le penne o troppo in alto non le bruci il
sole..... vienimi dietro, ti far da guida".
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E mentre l'istruiva al volo, alle braccia gli applicava quelle
ali mai viste. Ma tra lavoro e ammonimenti, al vecchio genitore si
bagnarono le guance, tremarono le mani. Baci il figlio (e furono
gli ultimi baci), poi con un battito d'ali si lev in volo e,
tremando per chi lo seguiva, come un uccello che per la prima volta
porta in alto fuori del nido i suoi piccoli, l'esorta a imitarlo,
l'addestra a quell'arte rischiosa, spiegando le sue ali e
volgendosi a guardare quelle del figlio.
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il ragazzo cominci a gustare l'azzardo del volo,(coepit gaudere
volatu deseruitque ducem ) si stacc dalla sua guida e, affascinato
dal cielo, si diresse verso l'alto. La vicinanza cocente del sole
ammorbid la cera odorosa, che saldava le penne, e infine la
sciolse: lui agit le braccia spoglie, ma privo d'ali com'era, non
fece pi presa sull'aria e, mentre a gran voce invocava il padre, la
sua bocca fu inghiottita dalle acque azzurre, che da lui presero il
nome. Ormai non pi tale, il padre sconvolto: "Icaro!" gridava,
"Icaro, dove sei?" gridava, "dove sei finito? Icaro, Icaro!"
gridava, quando scorse le penne sui flutti, e allora maledisse
l'arte sua; poi ricompose il corpo in un sepolcro e quella terra
prese il nome dal sepolto.
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ANALISI DEL MITO DI ICARO La narrazione mette a fuoco prima di
tutto lo stato danimo dei due prigionieri, un padre e un figlio,
sottoposti al divieto di un crudele tiranno, Minosse, che venuto
meno alla parola data. In questo modo il mito sottolinea come
linvenzione umana spesso determinata da una situazione di disagio e
che solo la difficolt pu acutizzare lingegno. Di seguito il
racconto mette in evidenza il grande spirito dosservazione che
caratterizza Dedalo, leroe nonch artefice dellimpresa:
apparentemente non vi alcuna via duscita, visto che Dedalo e Icaro
si trovano rinchiusi in un labirinto, costruzione dalla pianta
assai complicata e tortuosa (un labirinto che proprio Dedalo ha
disegnato e fatto costruire), ma alzando gli occhi al cielo Dedalo
capisce che non vi sono limiti per un uomo dotato dingegno
straordinario e che la ragione non pu soccombere
allingiustizia.
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il cielo la via della fuga. Immediatamente i pensieri si
traducono in fatti, in una sequenza di azioni concrete (disporre,
allacciare, piegare), portate a termine da mani sicure, precise
nellesecuzione, accurate nei dettagli. Dedalo non solo lartefice
coraggioso, ma soprattutto un padre attento, affettuoso,
preoccupato per il giovane figlio, ancora inesperto e imprudente.
Sono forse i momenti pi intimi e delicati della narrazione:
consapevole della giovane et di Icaro, leroe diviene premuroso, in
ansia per la sorte del ragazzo cui ha destinato unavventura forse
troppo rischiosa.
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Non pone limiti alle raccomandazioni, cerca di trasferire in
lui tutte le nozioni che ha accumulato in una vita intera e i suoi
consigli risultano sempre motivati con un perch che spiega i
singoli divieti. Il tentativo, tuttavia, risulter vano: Icaro,
nonostante le ammonizioni paterne, non resiste alla tentazione di
superare i limiti imposti dalla prudenza e si avvicina
pericolosamente al sole, che scioglie la cera con cui le ali sono
fissate, condannandolo alla caduta.
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Il mito risulta contrassegnato, dunque, dalla presenza di due
modelli di comportamento, in antitesi tra loro. Il padre incarna
saggezza e razionalit in quanto, pur non accettando passivamente un
destino di morte, consapevole dei limiti umani: sa di non poter
fare nulla contro il rischio rappresentato dallumidit del mare e
dal calore del sole; il figlio rappresenta, invece, latteggiamento
opposto: la sventatezza, la mancanza di prudenza, che lo porta a
superare i limiti imposti, sfidando le leggi della natura.
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La punizione che gliene verr sottolinea il limite che la
potenza divina ha imposto agli uomini e linvito a valutare con
consapevolezza ogniscelta. La morale che se ne pu trarre , dunque,
chiara e di sicura efficacia: tentare di andare contro le leggi
della natura causa di sventura per luomo, che deve sottostare ai
propri limiti e mai deve aspirare a competere con gli dei. Un altro
fine del mito: spiegare lorigine di un nome Ma il mito si pone
anche un altro scopo: quello di spiegare il nome del Mar Icario,
quel tratto di Mar Egeo che si estende tra le isole di Patmo, Lero,
Chio, Coo e le coste dellAsia Minore.
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Ecco quindi che il mito risponde a una duplice esigenza: quella
di fornire un insegnamento, attraverso il monito ad agire sempre
con prudenza e moderazione, e quella di spiegare un toponimo (nome
di un luogo, dal greco tpos, luogo) la cui origine persa nel tempo.
Il mito di Icaro si pu, dunque, classificare tra i miti eziologici,
ovvero tra quei miti che hanno lo scopo di spiegare le cause di un
determinato fenomeno, in questo caso lattribuzione di un nome.
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IL MITO DI PROMETEO Un altro mito di cui molti autori latini e
greci parlano quello di Prometeo, figura mitologica di Titano,
essere gigantesco e mostruoso, dotato di straordinaria forza
fisica. Il mito racconta che Prometeo sottrasse il fuoco (in pieno
possesso degli dei) per donarlo agli uomini. Leggiamone insieme la
versione tratta dall'autore latino Igino (I sec. A.C.)
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Homines antea ab immortalibus ignem petebant neque in perpetuum
servare sciebant;postea Prometheus in ferula ignem detulit in
terras.Quam ob rem Mercurius, Iovi iussu, deligavit Prometheum in
monte Caucaso ad saxum clavis ferreis etaquilam apposuit,quae cor
Promethei exedebat; quantum die ederat, tantum nocte
crescebat.Aquilam post triginta milia annorum Hercules interfecit
Prometheumque liberavit. E ora provate a tradurre voi!!!!
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Nella mitologia greca Prometeo, che significa Colui che pensa
prima ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini, del tutto
indifesi e in balia delle fiere e delle forze naturali. Il fuoco
apparteneva agli dei che ne erano assai gelosi ed era ben protetto
nelle viscere della Terra nell'officina di Vulcano, il dio del
fuoco, che fabbricava i fulmini di Giove. Zeus, per punire il suo
gesto, fece incatenare il titano ad una rupe del Caucaso, dove ogni
giorno unaquila.gli mangiava il fegato, che ricresceva durante la
notte rendendo il supplizio eterno. Questo mito presente presso
molti popoli, dove Prometeo assume le sembianze di altri esseri o
divinit: il coyote presso gli indiani Navayo dAmerica Osiride e
Thot per antichi Egizi il Serpente Piumato delle civilt
precolombiane dAmerica
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Prometeo era il pi intelligente di tutti i Titani. Aveva
assistito alla nascita di Minerva, dea della sapienza, dalla testa
di Giove, e la dea stessa gli aveva insegnato l'architettura,
l'astronomia, la matematica, la medicina, l'arte di lavorare i
metalli, l'arte della navigazione. Prometeo, che amava molto il
genere umano, aveva a sua volta generosamente insegnato tutte
queste arti ai mortali. Aveva un grosso cruccio, per, che gli
uomini non conoscessero ancora il fuoco e conducessero una vita
graffia e meschina, molto simile a quella delle bestie. Poich non
poteva accettare che soccombessero alla forza della Natura o alla
ferocia delle belve, pens di dar loro questo prezioso dono che li
avrebbe resi i padroni indiscussi della Terra. Col fuoco gli uomini
avrebbero potuto scaldarsi d'inverno, cuocere la carne che, come
animali e con gran fatica, mangiavano cruda; tenere lontane le
fiere, illuminare le caverne e la notte; avrebbero potuto fondere i
metalli e darsi cos attrezzi per lavorare la terra ed armi per
difendersi e cacciare.
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Ma esso apparteneva agli Dei che ne erano assai gelosi ed era
ben protetto nelle viscere della Terra nell'officina di Vulcano, il
dio del fuoco, che fabbricava, con l'aiuto dei Ciclopi, i fulmini
di Giove. Prometeo pens di rubarlo e una notte, dopo aver
addormentato Vulcano con una tazza di vino drogato, rub qualche
scintilla che nascose in un bastone di ferro cavo; poi corse dagli
uomini ed annunci che recava loro il dono pi grande. Ben presto
tutta la Terra brill di fuochi attorno ai quali gli uomini
cantavano felici! Le fiamme, il fumo e le grida di gioia destarono
Giove che guard in basso. Vide e comprese. Avvampando d'ira esclam
che colui che aveva rubato il fuoco doveva essere terribilmente
punito, e vedendo Prometeo tra gli uomini cap di chi fosse stata la
colpa. Incaric Vulcano, reo di non aver saputo custodire a dovere
il fuoco, di eseguire la condanna.
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Vulcano, obbedendo a malincuore agli ordini impartiti da Giove,
incaten Prometeo su un'alta rupe; ribattendo col martello le
infrangibili catene che aveva preparato, Vulcano disse a Prometeo
di farsi coraggio perch avrebbe dovuto soffrire la fame, la sete e
il freddo, e di consolarsi pensando che senza di lui gli uomini
sarebbero stati presto sterminati. Vulcano se ne and e Prometeo
rimase lass, legato sulle rocce e su vertiginosi precipizi. Ma non
dovette soffrire solo fame, freddo e sete! Ogni giorno, infatti,
una grande aquila veniva svolazzando da lui e con gli artigli gli
squarciava il ventre, divorandogli il fegato col becco adunco;
durante la notte il fegato ricresceva, le ferite si rimarginavano e
il mattino dopo Prometeo doveva subire nuovamente il martirio.
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Un giorno Ercole vide l'aquila straziare Prometeo incatenato;
col permesso di Giove, suo padre, abbatt allora il rapace e spezz
le catene: Giove dall'Olimpo, volgendo gli occhi al cielo, annunci
a Prometeo che lo rendeva libero. A quel punto Prometeo gli
espresse il desiderio di restare per sempre su quel monte, cos,
guardandolo, gli uomini si sarebbero rammentati che era stato lui a
dar loro il fuoco. Fu trasformato, subito, in una grande e maestosa
roccia.
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GIOVE PUNISCE PROMETEO
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FEDRO: LA VOLPE E L'UVA Terminiamo con una favoletta molto
conosciuta e semplice del poeta latino Fedro,(ma anche presente
nell'autore considerato l'inventore del genere favolistico, Esopo,
autore greco del VI sec. A.C.) in cui il limite si applica agli
animali, invece che agli uomini, anche se gli animali protagonisti
delle favole incarnano e rappresentano spesso vizi e virt umane. La
favola quella della volpe e l'uva.
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DE VULPE ET UVA Fame coacta vulpes alta in vinea uvam
adpetebat. summis saliens viribus. quam tangere ut non potuit,
discedens ait "Nondum matura est; nolo acerbam sumere ". Qui,
facere quae non possunt. verbis elevant, adscribere hoc debebunt
exemplum sibi.
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LA VOLPE E LUVA Una volpe costretta dalla fame alto balzava
nella pergola alta mirando all'uva e non riusc a toccarla.
Andandosene via disse al suo cuore : "Non matura, acerba non la
voglio ". Chi minimizza ci che non sa fare ripensi a questo
apologo, per lui.