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(...) visto un condannato a mor- te». Il topo rosicchia le esche avve- lenate. «Sono obbligato a farlo. I ratti combinano disastri, mi buca- no le coperte». Si gira di nuovo. «Però adesso mi dispiace, poveri- no. Non dovevo mettere il topici- da». A 56 anni il biondino che diede corpo sullo schermo alle fantasie oniriche di Federico Fellini è schiacciato dai sensi di colpa. Per la violenza sessuale che subì in se- minario a opera di un sacerdote. Per l’omosessualità borderline che ne derivò. Per i tre cicli di psi- coanalisi junghiana affrontati nel- la speranza di uscirne. Per aver tentato il suicidio quando scoprì che la ragazza di cui s’era invaghi- to lo dileggiava offrendo in pasto agli amici le poesie d’amore scrit- te per lei. Per il ricovero in manico- mio che ne seguì. Per Monique, la moglie da cui s’è separato «mai e sempre», una fotografa conosciu- ta al Théâtre de la Ville di Parigi dove lui recitava Ionesco, sposata nel ’78 spinto dal bisogno di dimo- strare a se stesso che sapeva fare il suo dovere di uomo. Per i due figli di 28 e 23 anni, uno insegnan- te in Lussemburgo, l’altro operaio in Normandia, messi al mondo al solo scopo d’inondarli dell’affetto e della tenerezza che non ha avu- to da bambino. Ora Zanin è tormentato anche dal rimorso per aver svelato tutto questo nel romanzo autobiografi- co Nessuno dovrà saperlo (Tullio Pironti editore), «un libro di espia- zione e di redenzione, il libro di un’anima ferita e di una coscienza incapace di perdonarsi», come ha scritto Raffaele La Capria, soprat- tutto per aver dedicato questo vo- lume alla memoria della madre Adele, del padre Anselmo e di Ed- ward Melcarth, riser- vando però la ripro- vazione al sangue del suo sangue e il rimpianto all’artista che considera il suo vero genitore, «mor- to povero in un ospe- dale pubblico di Ve- nezia, il primo adulto che mi ha rispettato, che non mi ha mai messo le mani addos- so, che mi ha presen- tato alla sua amica Peggy Guggenheim, sfamato, consigliato, portato in giro per l’Italia senza preten- dere nulla in cam- bio». Ero salito fino a Vanzone, alle pendi- ci del monte Rosa, per un amarcord e in- vece mi tocca racco- gliere una confessio- ne. «Questa baita è la mia prigione. Mi ci so- no recluso da solo. Dieci anni fa ho venduto anche l’auto, così non posso più scende- re a valle. Altrimenti, appena cala- no le tenebre, il demone che ho dentro mi porterebbe a cercare emozioni proibite giù in città». Per scappare da se stesso ha ab- bandonato il cinema (dopo Amar- cord aveva girato Il buon soldato, Il caso Moro, L’Agnese va a mori- re, una dozzina di film, «ma non mi chieda qual è stato l’ultimo, non me lo ricordo», rovista nel baule alla ricerca di una foto con Fellini, «per me è come scavare in una tomba»), ha abbandonato la televisione (Marco Polo, Il Mercan- te di Venezia), ha abbandonato il palcoscenico («quando Giorgio Strehler mi prese al Piccolo di Mi- lano, nel ’75, non avevo mai mes- so piede in un teatro in vita mia, neanche come spettatore») ed è andato per conto dell’Abbé Pierre a portare aiuti umanitari durante la guerra in Bosnia, da dove man- dava corrispondenze alla Radio Vaticana. Zanin dimostra ancora la pre- stanza fisica che in Amarcord gli consentiva di caricarsi sulle spalle Antonietta Belluzzi, la tabaccaia di Amarcord con due aerostati al posto delle tette. Ma non potrebbe più infilare le mani sotto la gonna bianca di Magali Noël, la Gradi- sca, nemmeno nel buio di un cine- matografo, tanto sono oggi irruvi- dite e scorticate («faccio il murato- re e il manovale, taglio la legna dei boschi, le bollette a volte van- no in mora, ma chissenefrega»). Del Titta Biondi che fu gli sono ri- masti solo gli occhi, di un azzurro polinesiano, e il sorriso malandri- no. Sarà pur vero che diversi si na- sce, ma Zanin ha provato nelle proprie carni che lo si può anche diventare per quello che lui chia- ma, rifacendosi a Konrad Lorenz, «l’imprinting». Le oche selvati- che, private della madre in tenera età, scambiavano l’etologo au- striaco per il loro genitore e, una volta adulte, per il loro partner. Il piccolo Bruno, un selvàdego cre- sciuto libero a Vigonovo nell’entro- terra veneziano, confinato dai ge- nitori a 400 chilometri da casa ha finito per scambiare per amore le attenzioni di un pedofilo e, passati più di 40 anni, è ancora qui a farci i conti tutti i giorni. Mi parli della sua infanzia. «Splendida e solitaria. Il paradiso in terra. Un bambino all’inizio vi- ve lo stato edenico primordiale, crede a ciò che gli raccontano i ge- nitori, gli insegnanti, i preti. Nei campi mi sentivo re, mago, parón de tuto. Ero molto pio, pregavo, portavo i fiori davanti ai capitelli della Madonna. Mi accadevano fe- nomeni paranormali». Per esempio? «Ripetevo fino all’estenuazione “Gesù e Maria ve vogio tanto ben”, una giaculatoria che mi ave- va insegnato mia nonna Teresina, e mi assentavo. Dopo una di que- ste estasi, dissi ai miei: g’ho visto ’na femena in canale co’ do pute- le. Il giorno dopo fu trovata nella roggia una mamma morta suici- da: s’era annegata con le due fi- gliolette». Terribile. «In terza elementare arrivò a ca- sa nostra il sergente reclutatore. Aveva la talare e una giardinetta grigia targata Treviso. Estrasse da una borsa nera un tema che avevo scritto in classe per un con- corso missionario. “Dimmi la verità: è tutta farina del tuo sacco o ti ha aiutato il parroco?”, m’in- terrogò. Credette al- la mia sincerità e mi consegnò in premio un mappamondo lu- minoso. Prima di se- ra l’avevo già rotto. Mentre mi metteva- no a letto mezzo ad- dormentato, sentivo i miei che confabula- vano di un collegio gratuito in Piemon- te, dalle parti di Ales- sandria. Ero il penul- timo di sette figli, nessuno dei quali aveva studiato. “Ma non si può mandar- lo più vicino, a Pado- va o a Vicenza?”, re- sisteva mia madre. “Il prete mi ha detto che solo là hanno i benefattori che li aiutano”, tagliò cor- to mio padre». Ci finì. «Aspirantato per il seminario, lo chiamavano. “Un posto bellissi- mo, con campi di calcio, alberi, ci- nema, teatro e biliardini”, me lo aveva descritto papà. La prima co- sa che notai di quel casermone è che non aveva i comignoli. Fu un trauma. Una casa senza camino? Non capivo: è il focolare la casa. I cessi stavano all’estremità di un loggiato. Sulla porta un cartello li- so: “L’occhio di Dio ti vede anche in fondo ai portici”. Nella camera- ta rischiarata dalla luce azzurro- gnola passavo notti intere a rimu- ginare con gli occhi sbarrati: ma perché mi hanno messo in questo posto così lontano? voglio la mam- ma, voglio tornare a casa, che co- sa ho fatto di male per finire qui? Domande senza risposta, come le lettere che mandavo ai miei. L’uni- ca missiva me la spedirono per in- formarmi, a funerali avvenuti, che un mio fratello era morto. Ave- vo un unico amico venuto dal mio stesso paese, in quel collegio. Mo- rì annegato nel tentativo di salva- re un cane». Fu il direttore ad abusare di lei? «No, un missionario tornato dal Brasile per curarsi da una malat- tia tropicale. Io stavo lì già da cin- que anni. Terza media, pieno svi- luppo, i pantaloni sempre più stretti, scoppiavo fuori da ogni parte. Per tutti ero sempre stato Zanin. Lui fu l’unico a chiamarmi per nome, Bruno. Mi fece sentire importante. Un giorno portò tutta la classe in escursione sull’Argen- tera. A 2.700 metri ci sorprese una tormenta di neve. Fummo co- stretti a passare la notte in un pa- gliaio. Il prete ci diede da bere un goccio di grappa por- tata nella malga dai montanari. Mentre tutti dormivano, sen- tii il suo fiato vicino alla mia bocca. Poi un bacio caldo. For- se era ubriaco. Fece tutto lui, con l’atten- zione di un adulto pratico. Io subii pas- sivo come un cada- vere». Non poteva ribellar- si? «Io non avevo espe- rienze, non sapevo nulla di donne. Era la prima volta che mi accadeva. È diffi- cile da spiegare. C’era la violenza ma anche la scoperta del piacere: è que- sto l’imprinting che ti marchia per tutta la vita. Lo spiega be- ne San Paolo: io so- no di carne, venduto come schiavo del peccato, io non riesco a capire nep- pure ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. La lotta per sentirsi puliti cede a una sessuali- tà assurda, sporca, deviata. A 7 an- ni la stessa esperienza era capita- ta in collegio anche al mio violenta- tore. È una catena». E l’indomani? «Dolore, vomito, vertigini, febbre. Alla sera il missionario, tutto suda- to, pretese di confessarmi. Mi spie- gò che il diavolo, invidioso della nostra vocazione, ci aveva fatti ca- dere in un maleficio. Piangeva: “Scusami, Bruno, non puoi capire quanto Satana sia potente nel ten- tare noi preti che abbiamo in affi- damento anime cristalline come la tua”. Poi il tono di voce si fece impersonale: “Non ripensare mai più a questo episodio, quel che è successo è successo. Nessuno do- vrà saperlo”. Mi diede l’assoluzio- ne per un peccato commesso da lui». Lei non chiese aiuto ai suoi? «Tornato a casa per l’estate, rife- rii l’accaduto a mio padre. La pre- se come una scusa per non torna- re in collegio e mi mandò, Dio solo sa perché, a bottega da un barbie- re che era notoriamente gay. Non glielo perdono neanche oggi che è morto, a papà». Altre violenze. «Mi confidai col parroco in confes- sione. “Va in cartoleria, compra un foglio protocollo e mettimi per iscritto ciò che mi hai raccontato”, mi ordinò. L’indomani il parruc- chiere era in galera e io sulla boc- ca di tutti. Scappai di casa. Lavora- vo in circhi e luna park, fra sradi- cati come me. C’intendevamo sen- za parlare. Fino a quando i carabi- nieri non mi acciuffavano. L’ulti- ma volta mio padre disse ai milita- ri: “Basta, tegnìvelo!”. Fui rinchiu- so prima alle Zattere a Venezia e poi a Udine. In riformatorio tiri fuori tutto ciò che in seminario vie- ne represso. È una casa di corru- zione, non di correzione». E all’uscita dal riformatorio? «Dormivo per strada col mio cane Whisky. Fui raccattato in una cal- le veneziana da Melcarth. Posai per lui come modello. Era l’artista prediletto del miliardario Forbes, aveva affrescato la Rotunda del- l’hotel Pierre di New York e dise- gnato i celebri occhiali surrealisti di Peggy Guggenheim. Mi portava a colazione da lei. Ogni tanto si mettevano a parlare fra loro in yid- dish. L’anziana collezionista face- va rimanere Whisky sull’uscio per- ché aveva paura che attaccasse le pulci ai suoi cagnolini». Come fu scritturato da Fellini? «Per caso. Mi ospitava a Roma una madre di quattro figli. Uno di loro, Pino, che poi sarebbe andato a morire come fotografo in Paki- stan, faceva la comparsa nei we- stern. Lo accompagnai a Cinecit- tà. Vidi tanti ragazzi in fila per le selezioni di Amarcord e m’intrup- pai. A un certo punto Fellini urlò ai suoi assistenti: “Cazzo, ma siete proprio delle grandi patacche, voi della produzione, ciechi del tutto! Non vedete che è uno come quello lì vicino al termosifone che ci ser- ve? Su, portatelo qui!”. Ero io. Mi fece biondo e dopo una settimana cominciò le riprese. Federico e Cri- sto sono quelli che mi hanno cam- biato e complicato di più la vita». Curiosa gerarchia. «Be’, ma fu Fellini a stravolgerme- la, a mettermi in mano un milione di lire a settimana. Era il ’73. Oggi sarebbero quasi 7.000 euro. E che sono soldi guadagnati, quelli? Li spendevo prima d’averli. Ero sem- pre indebitato. Federico è stato troppo buono con me. Era un eter- no adolescente. Con la scusa di mostrarmi come andava girata la scena, infilava la sua testa una, due, tre volte fra le tettone della tabaccaia, che in realtà era una camiciaia di Bologna che lo adora- va, povera Antonietta, è morta die- ci anni fa cadendo da un balcone. A me lasciava il compito di solle- varla fino a 40 volte, un quintale abbondante, alla fine mi ci voleva una bottiglia di Vov per riprender- mi». E dunque? «È che l’attore non ha il senso né della realtà né di niente. Il bel mondo ti corteggia. La gente ti vuole ospite a tavola e anche a let- to. Ti sbronzi, tiri cocaina. Io sono nato contadino. Dovevo sentirmi sempre un impostore per fare quel mestiere. Ho chiuso. Oggi so- no attratto dal cinema quanto dal- la salma di una prostituta strango- lata e lasciata nuda ai bordi della tangenziale. È tutto lontano, den- tro una nuvola. È come se avessi vissuto un sogno». Di che campa? «Non chiedere mai a un artista di che campa. Scrivo, ma non mi sen- to scrittore. Scrivo quando sto ma- le. Siccome non so parlare, metto sulla carta quello che la voce non riesce a esprimere. Poi rileggo e mi domando: ma l’ho scritto io? Ho fatto il Cammino di Santiago de Com- postela, 40 giorni a piedi con mio figlio, per scacciare la be- stiaccia, la depressio- ne che viene a visitar- mi e mi spegne la lu- ce, mi toglie la voglia di vivere, mi lascia nel mondo senza far- mici stare». Della Chiesa che co- sa pensa? «Non ce l’ho con i pre- ti. Gli rimprovero so- lo d’essere diventati impiegati, con i loro orari e i loro stipen- di. Non si vede nean- che il riverbero di Cri- sto nel clero. Andai a trovare per anni fra- tel Carlo Carretto nel suo eremo di Spello, dove s’era ritirato al ritorno dal Sahara. “Bruno, devi avere misericordia”, mi esortava. Ma Cristo si prese come apostoli dodici uomi- ni adulti, alcuni anche sposati, non dei bambini. Non ne ho cono- sciuto uno, di coloro che hanno pa- tito ciò che ho patito io, che sia diventato normale: sono finiti tutti o pervertiti, o eroinomani, o suici- di. È una malattia da cui esci solo con la lobotomia. Ho passato i miei giorni a chiedermi se dovevo attaccarmi una macina di mulino al collo o se c’era una clemenza, un’attenuante, una possibile Cor- te d’appello che m’avrebbe reso giustizia per la storpiatura ricevu- ta». Ora ha ritrovato un suo equili- brio? «L’equilibrio si ritrova dopo mor- ti». Stefano Lorenzetto (368. Continua) [email protected] , , TIPI ITALIANI Ero un bimbo molto pio, vivevo libero I miei, poverissimi, mi affidarono a un reclutatore in talare. Finii a 400 chilometri da casa. Dopo la violenza, il confessore m’assolse per il peccato commesso da lui. Seppi a funerali avvenuti che mio fratello era morto Cristo non si scelse apostoli bambini Ho vissuto tra riformatorii e circhi. Conobbi Peggy Guggenheim, ma fui scelto per caso da Federico. Oggi sono attratto dal cinema quanto dalla salma di una prostituta. Chi mi renderà giustizia per la storpiatura? BRUNO ZANIN Era il Titta Biondi di «Amarcord». Ma dietro quel sorriso si celava un terribile segreto. «Nessuno dovrà saperlo», gli disse il prete. Ne ha fatto un libro. Per dimostrare che si può diventare omosessuali per uno stupro DALLA PRIMA VIVE COME UN EREMITA Bruno Zanin, 56 anni, nella sua baita alle pendici del monte Rosa. Ha avuto una moglie, dalla quale dice d’essersi separato «mai e sempre», e due figli. Durante la guerra in Bosnia portava aiuti umanitari per conto dell’Abbé Pierre. «Ho venduto l’auto, sennò il demone che ho dentro la sera mi porterebbe in cerca di emozioni proibite» Bruno Zanin a 22 anni nella scena di «Amarcord» in cui sollevava di peso la prosperosa tabaccaia dai seni enormi. «Fellini le metteva la testa fra le tette...» Federico Fellini dà istruzioni a Bruno Zanin sul set di «Amarcord». «Guadagnavo un milione a settimana, quasi 7.000 euro di oggi, ma lo spendevo prima d’averlo» «Un sacerdote mi ha rovinato la vita Fellini e Gesù me l’hanno cambiata» il Giornale Domenica 25 marzo 2007 Cronache 17

il Giornale Domenica25marzo2007 Cronache … il tono di voce si fece impersonale: “Non ripensare mai più a questo episodio, quel che è successo è successo. Nessuno do-vràsaperlo”.Midiedel’assoluzio-ne

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(...) visto un condannato a mor-te». Il topo rosicchia le esche avve-lenate. «Sono obbligato a farlo. Iratti combinano disastri, mi buca-no le coperte». Si gira di nuovo.«Però adesso mi dispiace, poveri-no. Non dovevo mettere il topici-da».

A 56 anni il biondino che diedecorpo sullo schermo alle fantasieoniriche di Federico Fellini èschiacciato dai sensi di colpa. Perla violenza sessuale che subì in se-minario a opera di un sacerdote.Per l’omosessualità borderlineche ne derivò. Per i tre cicli di psi-coanalisi junghiana affrontati nel-la speranza di uscirne. Per avertentato il suicidio quando scoprìche la ragazza di cui s’era invaghi-to lo dileggiava offrendo in pastoagli amici le poesie d’amore scrit-te per lei. Per il ricovero in manico-mio che ne seguì. Per Monique, lamoglie da cui s’è separato «mai esempre», una fotografa conosciu-ta al Théâtre de la Ville di Parigidove lui recitava Ionesco, sposatanel ’78 spinto dal bisogno di dimo-strare a se stesso che sapeva fareil suo dovere di uomo. Per i duefigli di 28 e 23 anni, uno insegnan-te in Lussemburgo, l’altro operaioin Normandia, messi al mondo alsolo scopo d’inondarli dell’affettoe della tenerezza che non ha avu-to da bambino.

Ora Zanin è tormentato anchedal rimorso per aver svelato tuttoquesto nel romanzo autobiografi-co Nessuno dovrà saperlo (TullioPironti editore), «un libro di espia-zione e di redenzione, il libro diun’anima ferita e di una coscienzaincapace di perdonarsi», come hascritto Raffaele La Capria, soprat-tutto per aver dedicato questo vo-lume alla memoria della madreAdele, del padre Anselmo e di Ed-ward Melcarth, riser-vando però la ripro-vazione al sanguedel suo sangue e ilrimpianto all’artistache considera il suovero genitore, «mor-to povero in un ospe-dale pubblico di Ve-nezia, il primo adultoche mi ha rispettato,che non mi ha maimesso le mani addos-so, che mi ha presen-tato alla sua amicaPeggy Guggenheim,sfamato, consigliato,portato in giro perl’Italia senza preten-dere nulla in cam-bio».

Ero salito fino aVanzone, alle pendi-ci del monte Rosa,per unamarcord e in-vece mi tocca racco-gliere una confessio-ne. «Questa baita è lamiaprigione. Mici so-no recluso da solo.Dieci anni fa ho venduto anchel’auto, così non posso più scende-re a valle. Altrimenti, appena cala-no le tenebre, il demone che hodentro mi porterebbe a cercareemozioni proibite giù in città».Per scappare da se stesso ha ab-bandonato il cinema (dopo Amar-cord aveva girato Il buon soldato,Il caso Moro, L’Agnese va a mori-re, una dozzina di film, «ma nonmi chieda qual è stato l’ultimo,non me lo ricordo», rovista nelbaule alla ricerca di una foto conFellini, «per me è come scavare inuna tomba»), ha abbandonato latelevisione (Marco Polo, Il Mercan-te di Venezia), ha abbandonato ilpalcoscenico («quando GiorgioStrehler mi prese al Piccolo di Mi-lano, nel ’75, non avevo mai mes-so piede in un teatro in vita mia,neanche come spettatore») ed è

andato per conto dell’Abbé Pierrea portare aiuti umanitari durantela guerra in Bosnia, da dove man-dava corrispondenze alla RadioVaticana.

Zanin dimostra ancora la pre-stanza fisica che in Amarcord gliconsentiva di caricarsi sulle spalleAntonietta Belluzzi, la tabaccaiadi Amarcord con due aerostati alposto delle tette. Ma non potrebbepiù infilare le mani sotto la gonnabianca di Magali Noël, la Gradi-sca, nemmeno nel buio di un cine-matografo, tanto sono oggi irruvi-dite e scorticate («faccio il murato-re e il manovale, taglio la legnadei boschi, le bollette a volte van-no in mora, ma chissenefrega»).Del Titta Biondi che fu gli sono ri-masti solo gli occhi, di un azzurropolinesiano, e il sorriso malandri-no.

Sarà pur vero che diversi si na-

sce, ma Zanin ha provato nelleproprie carni che lo si può anchediventare per quello che lui chia-ma, rifacendosi a Konrad Lorenz,«l’imprinting». Le oche selvati-che, private della madre in teneraetà, scambiavano l’etologo au-striaco per il loro genitore e, unavolta adulte, per il loro partner. Ilpiccolo Bruno, un selvàdego cre-sciuto libero a Vigonovo nell’entro-terra veneziano, confinato dai ge-nitori a 400 chilometri da casa hafinito per scambiare per amore leattenzioni di un pedofilo e, passatipiù di 40 anni, è ancora qui a farcii conti tutti i giorni.Mi parli della sua infanzia.«Splendida e solitaria. Il paradisoin terra. Un bambino all’inizio vi-ve lo stato edenico primordiale,crede a ciò che gli raccontano i ge-nitori, gli insegnanti, i preti. Nei

campi mi sentivo re, mago, parónde tuto. Ero molto pio, pregavo,portavo i fiori davanti ai capitellidella Madonna. Mi accadevano fe-nomeni paranormali».Per esempio?«Ripetevo fino all’estenuazione“Gesù e Maria ve vogio tantoben”, una giaculatoria che mi ave-va insegnato mia nonna Teresina,e mi assentavo. Dopo una di que-ste estasi, dissi ai miei: g’ho visto’na femena in canale co’ do pute-le. Il giorno dopo fu trovata nellaroggia una mamma morta suici-da: s’era annegata con le due fi-gliolette».Terribile.«In terza elementare arrivò a ca-sa nostra il sergente reclutatore.Aveva la talare e una giardinettagrigia targata Treviso. Estrasseda una borsa nera un tema cheavevo scritto in classe per un con-

corso missionario.“Dimmi la verità: ètutta farina del tuosacco o ti ha aiutatoil parroco?”, m’in-terrogò. Credette al-la mia sincerità e miconsegnò in premioun mappamondo lu-minoso. Prima di se-ra l’avevo già rotto.Mentre mi metteva-no a letto mezzo ad-dormentato, sentivoi miei che confabula-vano di un collegiogratuito in Piemon-te,dalle parti di Ales-sandria.Ero il penul-timo di sette figli,nessuno dei qualiaveva studiato. “Manon si può mandar-lo più vicino, a Pado-va o a Vicenza?”, re-sisteva mia madre.“Il prete mi ha dettoche solo là hanno ibenefattori che liaiutano”, tagliò cor-

to mio padre».Ci finì.«Aspirantato per il seminario, lochiamavano. “Un posto bellissi-mo, con campi di calcio, alberi, ci-nema, teatro e biliardini”, me loaveva descritto papà. La prima co-sa che notai di quel casermone èche non aveva i comignoli. Fu untrauma. Una casa senza camino?Non capivo: è il focolare la casa. Icessi stavano all’estremità di unloggiato. Sulla porta un cartello li-so: “L’occhio di Dio ti vede anchein fondo ai portici”. Nella camera-ta rischiarata dalla luce azzurro-gnola passavo notti intere a rimu-ginare con gli occhi sbarrati: maperché mi hanno messo in questoposto così lontano? voglio la mam-ma, voglio tornare a casa, che co-sa ho fatto di male per finire qui?Domande senza risposta, come le

lettere che mandavo ai miei. L’uni-ca missiva me la spedirono per in-formarmi, a funerali avvenuti,che un mio fratello era morto. Ave-vo un unico amico venuto dal miostesso paese, in quel collegio. Mo-rì annegato nel tentativo di salva-re un cane».Fu il direttore ad abusare di lei?«No, un missionario tornato dalBrasile per curarsi da una malat-tia tropicale. Io stavo lì già da cin-que anni. Terza media, pieno svi-luppo, i pantaloni sempre piùstretti, scoppiavo fuori da ogniparte. Per tutti ero sempre statoZanin. Lui fu l’unico a chiamarmiper nome, Bruno. Mi fece sentireimportante. Un giorno portò tuttala classe in escursione sull’Argen-tera. A 2.700 metri ci sorpreseuna tormenta di neve. Fummo co-stretti a passare la notte in un pa-gliaio. Il prete ci diede da bere ungocciodi grappapor-tata nella malga daimontanari. Mentretutti dormivano, sen-tii il suo fiato vicinoalla mia bocca. Poiun bacio caldo. For-se era ubriaco. Fecetutto lui, con l’atten-zione di un adultopratico. Io subii pas-sivo come un cada-vere».Nonpoteva ribellar-si?«Io non avevo espe-rienze, non sapevonulla di donne. Erala prima volta chemi accadeva. È diffi-cile da spiegare.C’era la violenza maanche la scopertadel piacere: è que-sto l’imprinting cheti marchia per tuttala vita. Lo spiega be-ne San Paolo: io so-no di carne, vendutocome schiavo delpeccato, io non riesco a capire nep-pure ciò che faccio; infatti nonquello che voglio io faccio, maquello che detesto. La lotta persentirsi puliti cede a una sessuali-tà assurda, sporca, deviata. A 7 an-ni la stessa esperienza era capita-ta incollegio anche al mio violenta-tore. È una catena».E l’indomani?«Dolore, vomito, vertigini, febbre.Alla sera il missionario, tutto suda-to, pretese di confessarmi. Mi spie-gò che il diavolo, invidioso dellanostra vocazione, ci aveva fatti ca-dere in un maleficio. Piangeva:“Scusami, Bruno, non puoi capirequanto Satana sia potente nel ten-tare noi preti che abbiamo in affi-damento anime cristalline comela tua”. Poi il tono di voce si feceimpersonale: “Non ripensare maipiù a questo episodio, quel che è

successo è successo. Nessuno do-vrà saperlo”. Mi diede l’assoluzio-ne per un peccato commesso dalui».Lei non chiese aiuto ai suoi?«Tornato a casa per l’estate, rife-rii l’accaduto a mio padre. La pre-se come una scusa per non torna-re in collegio e mi mandò, Dio solosa perché, a bottega da un barbie-re che era notoriamente gay. Nonglielo perdono neanche oggi che èmorto, a papà».Altre violenze.«Mi confidai col parroco in confes-sione. “Va in cartoleria, compraun foglio protocollo e mettimi periscritto ciò che mi hai raccontato”,mi ordinò. L’indomani il parruc-chiere era in galera e io sulla boc-ca di tutti. Scappai di casa. Lavora-vo in circhi e luna park, fra sradi-cati come me. C’intendevamo sen-za parlare. Fino a quando i carabi-

nieri non mi acciuffavano. L’ulti-ma volta mio padre disse ai milita-ri: “Basta, tegnìvelo!”. Fui rinchiu-so prima alle Zattere a Venezia epoi a Udine. In riformatorio tirifuori tutto ciò che in seminario vie-ne represso. È una casa di corru-zione, non di correzione».E all’uscita dal riformatorio?«Dormivo per strada col mio caneWhisky. Fui raccattato in una cal-le veneziana da Melcarth. Posaiper lui come modello. Era l’artistaprediletto del miliardario Forbes,aveva affrescato la Rotunda del-l’hotel Pierre di New York e dise-gnato i celebri occhiali surrealistidi Peggy Guggenheim. Mi portavaa colazione da lei. Ogni tanto simettevano a parlare fra loro in yid-dish. L’anziana collezionista face-va rimanere Whisky sull’uscio per-ché aveva paura che attaccasse le

pulci ai suoi cagnolini».Come fu scritturato da Fellini?«Per caso. Mi ospitava a Romauna madre di quattro figli. Uno diloro, Pino, che poi sarebbe andatoa morire come fotografo in Paki-stan, faceva la comparsa nei we-stern. Lo accompagnai a Cinecit-tà. Vidi tanti ragazzi in fila per leselezioni di Amarcord e m’intrup-pai. A un certo punto Fellini urlòai suoi assistenti: “Cazzo, ma sieteproprio delle grandi patacche, voidella produzione, ciechi del tutto!Non vedete che è uno come quellolì vicino al termosifone che ci ser-ve? Su, portatelo qui!”. Ero io. Mifece biondo e dopo una settimanacominciò le riprese. Federico e Cri-sto sono quelli che mi hanno cam-biato e complicato di più la vita».Curiosa gerarchia.«Be’, ma fu Fellini a stravolgerme-la, a mettermi in mano un milionedi lire a settimana. Era il ’73. Oggisarebbero quasi 7.000 euro. E chesono soldi guadagnati, quelli? Lispendevo prima d’averli. Ero sem-pre indebitato. Federico è statotroppo buono con me. Era un eter-no adolescente. Con la scusa dimostrarmi come andava girata lascena, infilava la sua testa una,due, tre volte fra le tettone dellatabaccaia, che in realtà era unacamiciaia di Bologna che lo adora-va, povera Antonietta, è morta die-ci anni fa cadendo da un balcone.A me lasciava il compito di solle-varla fino a 40 volte, un quintaleabbondante, alla fine mi ci volevauna bottiglia di Vov per riprender-mi».E dunque?«È che l’attore non ha il senso nédella realtà né di niente. Il belmondo ti corteggia. La gente tivuole ospite a tavola e anche a let-to. Ti sbronzi, tiri cocaina. Io sononato contadino. Dovevo sentirmisempre un impostore per farequel mestiere. Ho chiuso. Oggi so-no attratto dal cinema quanto dal-la salma di una prostituta strango-lata e lasciata nuda ai bordi dellatangenziale. È tutto lontano, den-tro una nuvola. È come se avessivissuto un sogno».Di che campa?«Non chiedere mai a un artista diche campa. Scrivo, ma non mi sen-to scrittore. Scrivo quando sto ma-le. Siccome non so parlare, mettosulla carta quello che la voce nonriesce a esprimere. Poi rileggo emi domando: ma l’ho scritto io?

Ho fatto il Camminodi Santiago de Com-postela, 40 giorni apiedi con mio figlio,per scacciare la be-stiaccia, la depressio-ne che viene a visitar-mi e mi spegne la lu-ce, mi toglie la vogliadi vivere, mi lascianel mondo senza far-mici stare».Della Chiesa che co-sa pensa?«Nonce l’hocon i pre-ti. Gli rimprovero so-lo d’essere diventatiimpiegati, con i loroorari e i loro stipen-di. Non si vede nean-che il riverbero di Cri-sto nel clero. Andai atrovare per anni fra-tel Carlo Carretto nelsuo eremo di Spello,dove s’era ritirato alritorno dal Sahara.“Bruno, devi averemisericordia”, miesortava. Ma Cristo

si presecome apostoli dodici uomi-ni adulti, alcuni anche sposati,non dei bambini. Non ne ho cono-sciuto uno, di coloro che hanno pa-tito ciò che ho patito io, che siadiventato normale: sono finiti tuttio pervertiti, o eroinomani, o suici-di. È una malattia da cui esci solocon la lobotomia. Ho passato imiei giorni a chiedermi se dovevoattaccarmi una macina di mulinoal collo o se c’era una clemenza,un’attenuante, una possibile Cor-te d’appello che m’avrebbe resogiustizia per la storpiatura ricevu-ta».Ora ha ritrovato un suo equili-brio?«L’equilibrio si ritrova dopo mor-ti».

Stefano Lorenzetto(368. Continua)

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TIPI ITALIANI

‘ ‘Ero un bimbo molto pio, vivevo liberoI miei, poverissimi, mi affidaronoa un reclutatore in talare. Finii a 400chilometri da casa. Dopo la violenza,il confessore m’assolse per il peccatocommesso da lui. Seppi a funeraliavvenuti che mio fratello era morto

Cristo non si scelse apostoli bambiniHo vissuto tra riformatorii e circhi.Conobbi Peggy Guggenheim, ma fuiscelto per caso da Federico. Oggisono attratto dal cinema quantodalla salma di una prostituta. Chi mirenderà giustizia per la storpiatura?

BRUNO ZANIN

Era il Titta Biondi di «Amarcord». Ma dietroquel sorriso si celava un terribile segreto.«Nessuno dovrà saperlo», gli disse il prete.Ne ha fatto un libro. Per dimostrare chesi può diventare omosessuali per uno stupro

� DALLA PRIMA VIVE COME UN EREMITABruno Zanin, 56 anni, nella

sua baita alle pendici delmonte Rosa. Ha avuto una

moglie, dalla quale diced’essersi separato «mai e

sempre», e due figli.Durante la guerra in Bosniaportava aiuti umanitari per

conto dell’Abbé Pierre.«Ho venduto l’auto, sennò

il demone che ho dentrola sera mi porterebbe in

cerca di emozioni proibite»

Bruno Zanina 22 anni nellascena di«Amarcord» incui sollevavadi peso laprosperosatabaccaiadai seni enormi.«Fellini lemetteva la testafra le tette...»

Federico Fellinidà istruzionia Bruno Zaninsul set di«Amarcord».«Guadagnavoun milionea settimana,quasi 7.000euro di oggi,ma lo spendevoprima d’averlo»

«Un sacerdote mi ha rovinato la vitaFellini e Gesù me l’hanno cambiata»

il Giornale � Domenica25marzo2007 Cronache 17