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Una più adeguata illustrazione in questa sede consente di valorizzarlo come
un’opera fondamentale per la comprensione dei primi anni parigini di Bol-
dini, quando il giovane artista, da poco arrivato nella capitale francese, si ci-
mentò con entusiasmo nel repertorio tipico della celebre “Maison Goupil”, il mercante
che condizionò per lungo tempo il gusto della borghesia e dei nuovi ricchi tra la vecchia
Europa e il nuovo Continente2. Tale repertorio, affidato appunto a dipinti di piccolo for-
mato ma caratterizzati da una estrema precisione nella resa di ogni dettaglio, spaziava
tra i temi cosiddetti di genere, cioè accattivanti scenette di vita quotidiana spesso in co-
stume, dove un Settecento di maniera si alternava all’Impero o ad un esotismo conven-
zionale, oscillante tra l’Oriente islamico e la Spagna.
Il matador è in realtà uno dei due soli quadri di ambientazione iberica eseguiti da Boldi-
ni giunti sino a noi. L’altro, appartenente al prestigioso Sterling & Francine Clark Art In-
stitute di Williamstown, è la Serenata, noto anche con il titolo A guitar player3, firmato e
datato 1873. I dipinti sembrano proprio concepiti insieme, come possibili variazioni del-
lo stesso tema: i due personaggi appaiono gli stessi, non solo per costume e fisionomia ma
anche per il loro atteggiamento, con la donna in mantiglia di pizzo nero seduta di profi-
lo che sorregge una chitarra e il torero vestito per la corrida che le sta davanti appollaia-
to sul tavolo con le gambe divaricate in una posa virile ma sguaiata, contrapponendo dun-
que, con un vivace senso del racconto tipico di Boldini, alla grazia frivola della suonatri-
ce l’aria strafottente da guappo del matador. La raffinata esecuzione, tutta a minuti ma
precisi colpi di pennello, definisce con uno straordinario brio le due figure bloccate nelle
pose nervose e dinamiche, come l’ambiente diversamente caratterizzato, dove al posto del-
lo stipo e del manifesto della corrida presenti sullo sfondo della Serenata di Williamstown
ritroviamo una sorta di arazzo di cui si intravede solo il bordo inferiore, utilizzato dun-
que come una vivace quinta colorata insieme ai due pappagalli – uno bianco e l’altro mul-
ticolore- che azzuffandosi sul loro trespolo appaiono attirare la divertita attenzione del-
la coppia. Una scena simile la ritroviamo in un dipinto di collezione privata, anch’esso
assegnato al 1873, Due signore col pappagallo4 , dove in un interno dominato dalla presenza
di uno sgargiante arazzo due dame in abito Impero ingaggiano un gustoso dialogo con il
volatile che, presente anche nei quadri di un altro italiano a Parigi De Nittis, era diventa-
to un po’ l’emblema di questo tipo di pittura disimpegnata, troppo condizionata dalla mo-
da, per cui i due ex- macchiaioli, Boldini e De Nittis appunto, venivano redarguiti dai vec-
chi compagni, ed in particolare da Diego Martelli, che metteva in guardia il pittore di Bar-
letta: “Pensi il De Nittis che i pappagalli non piacciono in Italia, né dureranno a piacere
in Francia, e che quando egli avrà consumata ogni tempra virile in queste effeminatezze,
sarà inutile il tardo pentimento, per quanto doloroso e amaro”5.
Sicuramente lo sfrontato Boldini non ebbe mai a pentirsi di essersi stabilito a Parigi e
aver lavorato tanto (e tanto guadagnato) al servizio del famigerato Goupil. Sin dall’ini-
zio non ebbe alcun dubbio, come scrisse già alla fine del 1871 all’amico di sempre, il pit-
tore macchiaiolo Cristiano Banti, rimasto a Firenze: “Credo che non verrò più a Firen-
AR
TEQuesto dipinto, che ci sorprende per la qualità della pittura e lo strabiliante virtuosismo dell’esecuzione, che risalta proprio nel formato ridotto (cm. 26 x 35), è stato pubblicato senza le dimensioni e come di ubicazione ignota nel catalogo più recente e aggiornato dei dipinti del maestro ferrarese1.
ze, sono troppo impegnato con Parigi. Ho un’amante qui da far venire l’acqua alla boc-
ca, è troppo bella, è troppo buona, è troppo amabile, quindi mi sarebbe impossibile di
lasciarla per ora. Forse più tardi, ma che vuoi, qui ho uno studio magnifico, ho tutti i
confortavili della vita, lavoro molto e mi diverto, e poi ho mandato al diavolo Reitlinger,
perché è un mercante meschino per me, ho preso Goupil il quale mi dà danaro quanto
ne voglio e poi questo ha la bellissima qualità di far mussare gli artisti a tutta oltranza,
per cui impossibile con lui essere sconosciuti…”6.
In un’altra lettera, dell’ottobre del 1872, sempre inviata da Parigi e ancora a Banti, ribadi-
va: “Io non ho nessuna intenzione di venire in Italia per ora, a dirti il vero mi annojo un
poco in Italia. Ho l’intenzione di andare nel mese di Gennajo in Spagna…”.
Quindi all’inizio del 1873, quando in effetti dipinse la Serenata di Williamstown e il no-
stro quadretto, Boldini aveva progettato un viaggio in Spagna, di cui però non abbiamo
alcuna conferma documentaria, come per quello che invece è sicuro, risalente a molti an-
ni dopo, nel 1882, quando vi si recò con Degas per studiarvi la grande pittura del Sei e Set-
tecento, da Velàzquez a Goya, che in effetti eserciteranno una grande suggestione sui suoi
celebri ritratti della maturità. Ora andare in Spagna, che vi ci sia stato o meno, assumeva
un altro significato, collegato alla volontà di inserire nel proprio repertorio quei temi spa-
gnoli che erano diventati di moda grazie ai pittori di successo che in questi anni furono i
suoi idoli. Mi riferisco a Ernest Meissonier e soprattutto a Mariano Fortuny7, l’artista ca-
talano dallo straordinario successo, la cui leggenda fu alimentata dalla morte prematura,
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quando scomparse anco-
ra giovane a Roma nel
1874. Boldini, che dunque
non fece in tempo a cono-
scerlo, lo ammirava molto,
tanto da ritrarne nel 1882
la vedova Cecilia de Ma-
drazo8, e deve essersi sicu-
ramente ispirato al tema
del torero e della corrida in
cui Fortuny si era cimen-
tato tante volte, con risul-
tati straordinari.
Seguire le orme del pittore
spagnolo, riprendendone i
soggetti e lo stile dal vir-
tuosismo pirotecnico, assi-
curò a Boldini il successo
commerciale e il favore del
pubblico, ma anche l’osti-
lità di quella critica che
fiancheggiava invece la pit-
tura sperimentale e sinte-
tica degli Impressionisti,
come Edmond Duranty.
Egli si fece interprete di
quel “certo fastidio verso la
troupe dei pittori meridio-
nali legati al carro di Tespi
di Goupil”, notando come
in “Spagna e in Italia arri-
vò d’un balzo sulla scena la
numerosa compagnia che
era guidata da Zamacois e
Fortuny, ora diretta dai
Sigg. Boldini e Simonetti, i
settari d’un’arte spumeg-
giante, saltellante, tutta un
abbaglio di ricami, di passamanerie, rasi, dorature, urletti di colore, trepidante di toni
qui placcati, là specchianti, di contrasti e crudezze sminuzzate e confuse, un misto di ab-
breviature e abbandoni di macchie e di minuti modellati, un’arte lesta di gente che sa far
la barba alla pittura canticchiando e piroettando”9.
Il critico francese sapeva probabilmente che Boldini era solito dipingere cantando romanze
d’opera, come ogni italiano all’estero che si rispetti, e ne intende perfettamente, anche se
poi lo condanna, lo straordinario virtuosismo, quella capacità proprio di narrare e di va-
lorizzare ogni dettaglio, anche in quadri come il nostro che hanno la dimensione di una
miniatura. Il mirabolante gioco di prestigio del pittore del resto finiva col sedurre tutti i
frequentatori, favorevoli o contrari che poi fossero, del suo affascinante atelier parigino.
Sicuramente quello che più di tutti seppe comprendere, senza riserve e pregiudizi, l’enor-
me talento che sprigionava da questi artifici pittorici, tanto più seducenti perché spinti ol-
tre ogni limite, fu ancora e sempre il grande Diego Martelli, sottolineandone, in un brano
molto citato e giustamente celebre, la vocazione sperimentale. Rileggerlo diventa il migliore
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viatico per comprendere la destrezza e la bellezza di un quadro come il nostro Matador:
“Descrivere il talento di questo artista – scrisse Martelli – è un’impresa più che difficile
e peggio il dare ad intendere la sua pittura. I suoi quadri hanno delle parti eseguite con
minuzia incredibile, e delle parti capricciosamente lasciate, senza che questa minuzia o
questo lascito abbiano, né punto, né poco, la fisionomia del ciarlatanismo, o di colui che
vuol darla a bere agli ignoranti della folla dorata. S’io non sapessi come è fatto il Boldi-
ni, e si fosse sempre nel tempo delle fate, lo immaginerei come un silfo appartenente al-
la corte della regina dei sogni, descritta da Shakespeare; il quale avesse la forma di uno
scarabeo, munito di grandi ali, e di gambe lunghe, a guisa di un ragno. Questo scarabeo
di fantastica fattura, invece di adoprare pennelli e tavolozza, eseguirebbe i suoi lavori
così: ora volando sopra un rosaio fiorito, strapperebbe una
delle foglie più belle a una rosa, quindi scherzando ver-
rebbe a posarla sulla tela, e qui con quelle sue zampuccie
spiegazzandola in mille modi, ne caverebbe fuori una sot-
tana alla Pompadour, poi intorno a questa prima crea-
zione aggiusterebbe ancora e foglie e fiori, e impastereb-
be argilla, come adoprano i tafani nei loro nidi, poi a un
certo punto, e per un certo spirito di contraddizione, scas-
serebbe, passandoci su con la coda, metà del suo lavoro, e
poi di nuovo vola pei campi, cogliendo delle erboline che
a piccole o grandi masse, secondo il capriccio, spargereb-
be sul quadro, sempre ridendo con quella maliziuccia
che è innata nei genii delle leggende; e poi zufolando una
canzonetta, mille capriole facendo, seminerebbe di bava
un pezzo di fondo, poi correrebbe a prendere del miele co-
me le api, per versarcelo sopra insieme alla cera; finché co-
perta e impiastrata tutta la superficie del quadro, il nostro
scarabeo scappa dalla finestra, facendo brillare al sole le
sue ali dorate, contento e libero in cerca di altri fiori, d’al-
tri amori e d’altre avventure”10.
Note
1 P. Dini – F. Dini, Giovanni Boldini 1842-1931. Catalogo ragionato, Torino, Umberto Allemandi &
C., 2002, vol. III, p. 92 n. 147.2 La borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino,
Palazzo Cavour), a cura di A. P. Quinsac, Cinisello Balsamo 2004.3 Comparso alla recente rassegna boldiniana allestita a Padova (Palazzo Zabarella) e alla Galleria Na-
zionale d’Arte Moderna di Roma (Boldini, catalogo della mostra a cura di F. Dini, F. Mazzocca e C.
Sisi, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 126-127.4 Ibidem, pp. 122-123 n. 32.5 D. Martelli, Esposizione di Belle Arti in Parigi 1870. Impressioni in punta di penna, in “La Rivista Eu-
ropea”, 1 agosto 1870.6 Questa lettera, datata da Parigi il 17 novembre 1871, è pubblicata come il resto dell’epistolario del-
l’artista, fondamentale per ricostruire la sua biografia, nel terzo volume del citato Catalogo ragiona-
to (III, p. 38).7 Si vedano su di loro in particolare le recenti rassegne Ernest Meissonier. Rétrospective, catalogo del-
la mostra (Lyon, Musée des Beaux-Arts) a cura di P. Durey e J. Thuillier, Paris, Réunion des Musées
nationaux, 1993; Fortuny 1838-1874), catalogo della mostra (Barcelona, Museu Nacional d’Art de
Catalunya), Barcelona 2003.8 Esposto nella rassegna di Boldini a Padova (Boldini cit., pp. 210-211 n. 79).9 E. Duranty, Reflexions d’un bourgeois sur le Salon de peinture, in “Gazette des Beaux-Arts”, 2, 1877, p.
48 (questo brano straordinario è stato riproposto all’attenzione da M. Lamberti, Il debutto di Boldini
sulla scena parigina, in Aria di Parigi nella pittura italiana del secondo Ottocento, catalogo della mostra
(Livorno, Villa Mimbelli) a cura di G. Matteucci, Torino, Umberto Allemandi & C., 1998, p. 73).10 D. Martelli, Corrispondenza, in “Gazzetta d’Italia”, XIII, 5 maggio 1878 (ora in Id., Scritti d’arte a cu-
ra di A. Boschetto, Firenze 1952, pagg. 55-56).
AR
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