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Vlad Sandrini 1

Il fantasma di Idalca

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È un periodo di tregua fra le nazioni di Dargorea e Uskadia, a due anni da quando il negromante Recks Woods risolse un conflitto con la prima arma di distruzione di massa. Allora com’è possibile che la caporale non morta Lith Cross veda oggi un’intera città distrutta da un nuovo ordigno che nessuno possiede? Perché nella stessa notte si prepara una spedizione segreta su un’aeronave occultata? Come fa un misterioso ladro a sottrarre un golem d’assalto, sotto il naso delle sentinelle, senza lasciare tracce? E a cosa serve il furto di un reperto storico vecchio di millenni? Mentre un personaggio del folclore sembra prendere vita, le circostanze portano un piccolo gruppo di superstiti a fuggire dalle truppe speciali a dorso di drago, per tornare al mondo di tutti i giorni. Riusciranno a ricostruire una civiltà persa tra i detriti del tempo?

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Collana

“Sulle ali del drago”

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Proprietà letteraria riservata © 2011 Sogno Edizioni, Genova (GE)

Sede legale: Via Borgoratti, 41/9 – Genova Prima edizione Giugno 2011

© Collana “Sulle ali del drago” ISBN: 978-88-96746-13-4

Immagine di copertina: Chiara Boz

Sito web: www.bozchiara.com E-mail: [email protected]

Stampato da Atena S.r.l.

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Parte i

Quattro Novembre

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1. Terza veglia “Ahi” disse il caporale Lith Cross. Il caporale era una giovane donna dalla corporatura atletica, moderatamente alta. Le rimanevano una manciata di minuti prima di doversi presentare insieme a tutte le forze rianimate per una sessione di istruzione, e si era offerta di passarli riparando lo scanner sperimentale di ricerca del movimento. Questo apparecchio antibiologico era stato appena installato alla postazione di guardia orientale e già non ne voleva sapere di funzionare. Del caporale spiccava la carnagione cianotica della mano sinistra, appoggiata alla lega ruvida, mentre il volto spigoloso e il braccio destro erano immersi nel pannello di manutenzione. Il suo corpo impregnava le pareti scure di un odore di cenere pungente. “Che male.” Riemerse leccando dal dorso della destra una goccia del necrostatico blu che le scorreva nelle vene. I capelli erano come una confusione di zucchero filato sporco. “Mi serve ancora un minuto. Non so perché non li possa riparare una persona vivente. A Crowsbeek ne avevamo uno e l'ho riparato due volte, e…” Il caporale si voltò e non vide il naso a pinna di squalo del soldato a cui pensava di parlare. Al suo posto la fissava il cipiglio olivastro di Eron Lamb, sergente, suo amico da alcuni anni, nella divisa viola scintillante in disordine. I due cordini argentei dei gradi pendevano liberi dalla spalla sinistra, anziché infilarsi composti nel colletto spiegazzato. Lamb era paonazzo dalla rabbia. “Non aggiusterai un bel niente. Lith, hai idea di che ore sono?” Era la terza veglia e zero cinquantasei; lei conosceva sempre l'orario preciso, grazie a un oscillatore interno, e lui lo sapeva. “Ne ho idea.” “Stupida incosciente” lui le ringhiò. Si avvicinò per incombere più severo. “Quanto ci metti ad andar là? Ti pare il caso di rischiare?” “Ho ancora tre minuti.” rispose sicura, e nello stesso istante, pensò che avrebbe dovuto prendersi a sberle da sola. Lei e Lamb non erano

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più in uno sperduto fortino in montagna, ma a Hossa, il luogo in cui la Milizia forgiava la disciplina. Ripassò a mente i corridoi che l'avrebbero portata all'aula 2N4E: forse tre minuti sarebbero stati appena sufficienti. Diede al sergente un furtivo bacio sulla guancia tenendogli le spalle, e si tuffò nella porta dietro di lui, facendosi inghiottire dal corridoio di pannelli del colore del fumo. “Grazie” gli gridò da lontano. “Riposo.” Non posso continuare a scherzare così! si disse. Correva verso il corridoio decumano 2N4, sperando di arrivare in tempo all'aula. E il ragazzo non è più sotto il mio comando da un pezzo. È un sergente, ed è anche in gamba, andrà avanti. Entrambi avevano prestato servizio di ordine pubblico a Crowsbeek per anni. Poi l'amministrazione locale aveva deciso di tagliare delle risorse; Eron era stato trasferito in primavera a Hossa, sede dell'Accademia e centro di formazione. A lei era toccata la stessa destinazione il due novembre. Lith Cross non era viva, e questo spiegava il ritmo della sua corsa. Era una rean, un'unità antibiologica rianimata. Deceduta in servizio due anni prima, rimessa in piedi in negromanzia. C'era qualche vantaggio. Mai più un'influenza, per esempio; costituzione migliorata, supporto servomotorio, esperienze e riflessi di combattimento aggiunti. Ma non essendo viva, non godeva di diritti civili. Non passava giorno che non insultasse se stessa e la sua scelta di firmare da giovane la disponibilità. La condizione di rean era una frode bella e buona. “Non preoccuparti” le avevano detto allora, “se anche morissi, sarai a posto in un attimo. Farai fatica ad accorgerti della differenza.” Con la carnagione cianotica, la scopa di saggina sbiadita al posto dei capelli e il puzzo da posacenere ricolmo, se ne accorgeva eccome. Raggiunse il giunto 3N4E1; girò a sinistra troppo vicino ai pannelli di lega forte nera. Impegnata a pensare, si fermò di colpo solo un istante prima di urtare un commilitone. “Che schifo!” lo sentì strillare. “I rean non sanno guardare dove vanno?”

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Due minuti, valutò. Non si fermò a discutere con il giovane che portava i pugni alla vita: con lui non avrebbe sprecato neanche un attimo. Riprese la corsa gettandosi sulle scale, lasciandolo a lamentarsi, “Senti qua, puzzerò ancora dopo venti docce.” Ma la fregatura vera erano le revisioni. Quando l'avevano rianimata, appena finita la guerra, le cose non stavano ancora così. Tempo pochi mesi, e la sezione scientifica aveva rivisto i parametri per la misura dell'efficienza, nero su bianco. Tutti dovevano adeguarsi. Ricordava benissimo la comunicazione: alle nuove conversioni erano riservati vistosi accrescimenti corporali, che lei non avrebbe ricevuto; ma le avrebbero impiantato lo stato dell'arte del software di combattimento. Ancora dopo quasi due anni faticava a capire cosa fosse il software, ma si preoccupava a leggere di un condizionamento ‘inibitorio delle anomalie di personalità’, e di ‘procedure decisionali ausiliarie’. Le mettevano i brividi. No grazie. A Crowsbeek non avevano altri rean; là, il negromante Najstad la conosceva, e lui per primo aveva proposto di firmare a vuoto i suoi rapporti di aggiornamento. Trasferita a Hossa, il primo di questi appuntamenti l'aveva scampato grazie a Eron, che aveva scambiato un favore con un negromante; ma non poteva andare avanti per sempre con liberatorie false. E ora lei era quasi in ritardo per l'aula 2N4E, dove erano convocati per quel momento tutti i rean di Hossa. Quattro novembre, terza veglia e uno zero zero. Eron non l'aveva sgridata abbastanza. Mostrarsi in un banale ritardo, per un'unità rianimata era come presentarsi in negromanzia a chiedere volontariamente un aggiornamento. Lith stava buttando via gli sforzi dell'amico per permetterle di essere se stessa. E perché mai avranno riunito tutti i rean nello stesso posto alla stessa ora, nel cuore della notte, si chiese. Hanno parlato di nuove disposizioni. Non era più comodo infilarci un cavetto e scrivere nel tessuto grigio? Arrivata. L'ingresso marcato 2N4E era alto fino al soffitto. Spalancò i battenti dell'atrio dell'aula mentre l'orologio, sopra la testa di una

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recluta brufolosa, segnava la terza e uno zero zero. La recluta la fissò, aggrottò la fronte, scosse la testa. Un altro rean – largo tre volte la recluta e alto almeno sette piedi – usciva dall'aula verso di loro, industriandosi di far passare il suo corpo senza aprire la porta per intero. “Cosa ci fai ancora fuori?” il ragazzino sgridò Lith. Lei gli rispose indicando il rean impegnato in quel tentativo maldestro. “Beh, che cosa ci fa lui, ancora fuori?” “Manutenzione. E ci andrai anche tu appena finisce la sessione.” Il giovane si avvicinò tutto serio. Con il suo viso da adolescente l'avrebbe fatta sorridere, se non avesse lanciato una minaccia così concreta, temibile per lei in particolare. “Il generale mi ha ordinato personalmente di assicurarmi che tutte le nostre forze rean siano qui, stanotte, nell'ora stabilita.” Puntò il dito. “E tu vai dentro adesso, non farmi fare brutte figure.” Il rean grande e grosso aveva quasi passato la porta, quando da dentro giunsero un chiarore e un debole scoppio. Era come se il dito del ragazzo avesse fatto fuoco. Lith si sentì mancare; per lei era una sensazione impossibile, ma vedere l'altro rean stramazzare al suolo la preoccupò di più. Con anni di esperienza nella Milizia, Lith poteva ben dire di riconoscere gli effetti di alcune armi. Il lampo, lo scoppio e il mancamento erano sintomi precisi: esposizione indiretta a un broestad radiale, un sistema che rilasciava radiazioni elementali pure e uccideva con l'alterazione della natura stessa della materia. Radiale, non lineare, perché altrimenti non avrebbe visto il lampo, e il fascio di elementi avrebbe colpito un bersaglio preciso. La detonazione era avvenuta dietro un muro schermato e una porta doppia in lega forte, socchiusa. Se dietro questa l'aula fosse stata piena di persone regolarmente vive, non sarebbe sopravvissuto nessuno. Le armi broestad, infatti, colpivano tessuti effettivamente viventi: umani, animali, piante; la struttura dei tessuti antibiologici era completamente diversa, per il poco che ne ricordava. Basata su elementi opposti.

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Se fosse successo quello che sembrava, il ragazzino borioso sarebbe stata l'unica vittima. Perché allora funzionava tutto al contrario, lei si sentiva così male, e quel rean era crollato a terra? Lith si dovette appoggiare alla recluta per sostenersi. Lui la fissava, incredulo e indenne, troppo indenne. Poteva essere stato un nuovo tipo di arma, creata su misura per le unità rean? Dietro quei battenti schermati, un generale aveva riunito tutte le forze rianimate presenti a Hossa. Nessuna eccezione. Nella sessione, sarebbero state illustrate ‘nuove disposizioni’. “Non è possibile, non può succedere davvero” Lith mormorò sulle spalle della recluta. “Non può succedere proprio a me.”

* * * In un parcheggio della città di Herth nella Repubblica Uskana, a centinaia di miglia da Hossa, Thorn Brire era accucciato di fianco a un furgone blu Rainbow Trek. Giocava ad avvicinare l'accendino antivento a una ciocca dei suoi capelli scuri, pettinati all'indietro con la gelatina. Combatteva il tedio di non avere da fare finché Joy non avesse finito con la sua installazione. Intanto, rimuginava se avesse fatto o no la cosa giusta. Aveva cercato a lungo, con la dovuta discrezione, un'idea per uscire dal giro delle corse clandestine. Sentita una voce su un certo Gray, disposto a pagare un anticipo di settemila corone per un lavoro di trasporto - glielo avevano assicurato: soldi puliti - si era fatto reclutare al volo. Le settemila se n'erano andate quasi tutte per confezionare un suo cadavere finto, ma con le gare aveva chiuso. Mise via l'accendino. Si grattò la barba di due giorni voltandosi a guardare il Trek. “Dì, Joy. Chi è che ci ha commissionato il lavoro?” La bionda a cui si rivolgeva aveva passato due ore sepolta nel vano posteriore del furgone blindato. Joy era esile, minuscola e portava sempre qualcosa di colore appariscente. Era responsabile per il suo manichino carbonizzato, nonché per l'incidente fasullo in carrozza,

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con cui il suo agente e decine di altri affiliati alla malavita organizzata avevano creduto di vederlo morire in un incendio spettacolare. Holy, se non era uscito con stile! Da quello che sapeva, Joy era esperta di alchimia, tecnologia avanzata, roba tecnica in genere. Per esempio, i motori a repulsione vines-bell da aeronave che stava installando nel Trek erano pane per i suoi denti. Anche quella era un'impresa non meno incredibile del manichino carbonizzato. Lui non aveva le conoscenze specifiche per spiegare il perché, era una di quelle cose che si sanno e basta: i motori vines-bell avevano bisogno di un sacco di spazio, schermature, distanza da tutto ciò che non si voleva distruggere durante il volo. Joy stava montando queste belve dentro un automezzo Rainbow, un comune furgone da consegne che non poteva certo essere paragonato a una nave. Lei stessa ci sarebbe salita nelle prossime ore. Thorn prese i sigaretti dalla tasca della divisa blu da corriere. Non gli rispose Joy, ma Rose, con la sua vocina delicata. “Gray non te l'ha detto?” Rose era più alta e pesava a occhio il doppio di Joy, ma era una ragazzina. Viso tondo dai lineamenti appena accennati, con gli occhi a mandorla e una lunga treccia nera. Teneva d'occhio tutto il parcheggio con un muso mortalmente annoiato, appoggiata di schiena a un pilastro. Avrebbe mosso a compassione chiunque. Quando Thorn l'aveva vista per la prima volta, pensava che fosse la nipote di Gray o di Joy. Rose portava sempre un'arma broestad illegale, celata sotto le braccia incrociate o nelle braghe, e sapeva centrare bersagli impossibili in un baleno. Se Thorn due giorni prima la credeva timida e imbarazzata, ora la conosceva come scostante e pericolosamente silenziosa. Una figura sinistra, a cui non voltare mai le spalle. Thorn si accese uno dei sigaretti e aspirò una boccata. Si inventò, “Ma certo che me l'ha detto. Volevo vedere se lo sapevate anche voi.” “Beh, ce l'ha commissionato Gray, è ovvio” disse Joy dall'interno del Trek. Forse era l'unica cosa saggia per prevenire polemiche.

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Thorn inalò ancora. “Se torniamo interi, vi servirà un guidatore per il prossimo lavoro?” “Ma tanto non sopravvivi.” Joy spuntò dal vano di carico, spettinata. “Vero, Rosie?” La giovane la scrutò per un attimo, poi annuì. Joy sorrise. “Guarda, sei già tutto bianco. Piantala di fumare. E se mi distrai dallo scudo, ti cuoci anche tu.”

* * * Ancora prima di aprire la porta e superare il rean steso, Lith sapeva di trovarvi duemila unità rean - le avevano detto che il numero era più o meno quello - tutte colpite e inattive. In negromanzia si usava questo termine, poiché morte lo erano già anche prima della rianimazione. Quello che non aveva chiaro in mente era un'immagine di quante fossero, duemila. I posti a sedere erano disposti su una cinquantina di file, in una leggera pendenza perché tutti gli astanti vedessero bene gli oratori sul palco, dovunque fossero seduti. Su quasi ogni posto riposava il corpo cianotico di un'unità rean, immobile nello splendore dell'uniforme luccicante. Anche gli oratori sul palco erano inattivi; qualcuno accasciato, uno seduto con la testa ciondolante, due protesi sul tavolo. Solo di quello seduto Lith riuscì a distinguere i gradi di maggiore, e si chiese se anche un ufficiale come lui avesse il panico a ogni comunicazione dalla negromanzia. Lith scavalcò di nuovo il corpo sulla soglia per tornare all'atrio, dove la recluta sedeva al suo banco in silenzio, picchiettandosi le punte delle dita. “Soldato. Cosa ne pensi di duemila rean di notte, tutti in uno stesso locale, per una procedura che normalmente si esegue in laboratorio?” Il ragazzo sbuffò. “Grande Holy.” “E in quel luogo avviene la detonazione di un'arma confezionata apposta per colpire gli organismi antibiologici.”

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“Cosa ne devo pensare, signora? A me hanno dato un incarico.” “Il suo incarico non prevede di avvisare tempestivamente qualcuno in caso di incidenti?” “No signora.” Lith sgranò gli occhi. Il giovane continuò, “Il generale è stato molto chiaro.” “Mi sta dicendo che è andato tutto secondo le previsioni?” “Ovviamente no, signora. Insomma…” Un rumore sordo richiamò gli occhi di entrambi. Il corpo del rean steso in mezzo alla porta tentava di alzarsi. Aveva afferrato il bordo del battente per fare leva. Lo videro alzarsi di pochi pollici, poi cadere con lo stesso rumore, privo di forze. Lo fece più volte mentre loro strabuzzavano gli occhi. Duemila rean eliminati in un colpo solo. Un soldato con disposizioni precise di non avvertire nessuno. Un rean impegnato nella ripetizione sempre uguale di un gesto inutile. Per un momento Lith si chiese se ridere, o urlare. Neanche Eron le avrebbe creduto, se l'avesse raccontato, ma meno di tutto avrebbe creduto al broestad. Non era proprio un'arma adatta a far fuori gli organismi antibiologici. A ogni sessione teorica sugli strumenti d'offesa, per prima cosa le ripetevano la storiella dell'antica città di Broestad in Dargorea centrale, polverizzata secondo il mito dagli incantesimi tsunami e sole di potenti stregoni uskani; poi i criteri secondo cui si irradiavano cinque dei sei elementi della materia, così come gli stregoni del mito liberavano gli elementi della natura. Alimentate da serbatoi schermati di materiali instabili, le armi broestad scatenavano la propria forza distruttiva alterando la composizione di tutto ciò che si trovava sul percorso del fascio elementale. Le carni viventi subivano un decadimento istantaneo. Ma di qualunque tipo fossero, radiali o lineari, con qualunque miscela di elementi, non riuscivano a portare danno alle forme di vita rianimate. Punto. Né ai rean, né ai golem (quei grandi veicoli di pietra vagamente antropomorfi, lei stessa ne aveva manovrato uno un paio di volte; di fatto erano creature antibiologiche simili a lei,

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fatte di pietra sintetica e materiale antibiologico di coltura) e neanche ai draghi della Difesa uskana, varani uccisi e rianimati in laboratorio. Avevano tutti caratteristiche analoghe, dipendenti dal vuoto, o buio, per un processo di ‘inversione’. Lith non avrebbe saputo spiegare il motivo, le sue conoscenze di alchimia e interazioni degli elementi erano frammentarie, limitate alle nozioni sulle armi; ricordava a mala pena che fra i sei elementi c'erano acqua, fuoco e luce. Prima o poi avrebbe anche capito i segreti del meccanismo che le permetteva di non temere nulla dai broestad, neanche dai più potenti cannoni tattici della Repubblica Uskana. Rianimata appena dopo la scorsa guerra, Lith non aveva combattuto per la liberazione di Sjilen. Ma aveva sentito raccontare delle armi tattiche e dei loro effetti. La contaminazione elementale era così pesante che un'area colpita rimaneva tossica per tutti gli esseri viventi, anche diversi mesi dopo il brillamento. Eppure accadeva in rare occasioni di avvistare un piccolo rettile, come una lucertola, rianimato spontaneamente in prossimità di uno di questi disastri. Dicevano che questa loro seconda vita fosse breve, instabile, ma la maggior parte delle carogne dei draghetti naturali, erano sempre state trovate presso le infermerie dove si trattavano le contaminazioni da broestad. I draghetti le portarono alla mente per analogia gli incidenti e le vittime riportate fra i rean trattati per errore contro la contaminazione da broestad. Ovviamente danni da contaminazione non ne avevano, ma la cura stessa gliene aveva procurati di equivalenti. E perché mai non ci aveva pensato subito? Perché non sarebbe mai venuto in mente a nessuno, ecco perché. Trattare un rean contro un broestad era una cosa stupida, inutile, dannosa. Un errore. Chi avrebbe fatto un errore di proposito? Almeno sapeva distinguere una cosa che faceva male a una persona in vita da una cosa che faceva male a lei. Cominciava a farsi una vaga idea di cosa potesse essere successo. Se la stessa differenza si poteva applicare anche alle cose che facevano bene, all'uno e all'altro tipo di organismi, aveva anche un rimedio da tentare subito iniziando dal

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rean grande agonizzante. “Hai un fucile broestad?” chiese alla recluta. “Eh?” Lith alzò la voce. Gli afferrò il braccio. “Non vedi che sta male?” La sua stretta era come una morsa d'acciaio. “Mi serve un broestad, di qualsiasi tipo.” “Cosa?” Il ragazzo rise nervosamente tentando di divincolarsi. “Caporale, lo vuole ammazzare?” “Veramente è già morto da un pezzo, come me.” Lei allentò la stretta ferrea dandogli uno sguardo di compatimento; la recluta strappò indietro il suo braccio. L'altro rean ripeté un altro dei suoi tentativi. “Non ho un fucile broestad. Ho una Rivers accelerata, e la daga.” “Non mi interessa il tuo arsenale.” Lith tornò nell'aula e si guardò in giro. Ispezionò i corpi più vicini. Nessuno si era portato dietro un'arma facoltativa, generalmente preferita da cecchini e assassini professionisti. Il soldato giovane la chiamò poco dopo dall'atrio. Aveva aperto un armadietto; fece appena in tempo a porgerle un fucile di precisione Squire LDK25 che in un lampo Lith scavalcò il rean a terra, ghermì l'arma e ispezionò l'indicatore del serbatoio di instabili. Aprì uno spiraglio nella casacca del rean, perché la lega delle fibre nelle divise dargorene proteggeva un pochino dalle irradiazioni e fece fuoco più volte. Pian piano il rean fu in grado di levarsi in piedi e scansare il battente. Lith dovette colpirlo ancora perché recuperasse tutta la fluidità dei movimenti. Il rean eseguì il saluto portando il pugno alla spalla. Si volse verso la sala, e subito verso Lith. Parlò con voce metallica, raschiante. “Caporale, siamo sotto attacco, signora.” “Lo vedo bene” rispose lei. Imbracciava ancora il fucile con l'indice teso. Le finestre dell'aula brillarono, più a lungo di un lampo. “Ora, visto che l'attacco è finito…” Lith si bloccò. Si erano spente le luci; il curioso chiarore alle finestre persisteva. La recluta invece strozzò un gemito dietro di lei.

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“Cosa succede, soldato?” gli chiese “Rapporto.” Lui non rispose subito. Lith si avvicinò per osservarlo. Poiché la luce era estremamente scarsa, si attivò autonomamente un software che le avevano impiantato con la rianimazione per alterare la sua vista. Percepiva tutto come disegnato a linee di colori brillanti: il giovane era quasi tracciato a pennello su una tavoletta di carbone. Gli toccò il volto per saggiare la temperatura. Il soldato rispose a fatica, “Caporale, non mi sento bene, signora.” “Ti accompagno in infermeria.” Aiutò il giovane ad alzarsi e lui si accasciò gemendo un'ultima volta, mentre lei si sentì investire dal flutto di una sensazione bizzarra, esaltante. Era carica, su di giri come non mai. La memoria servoassistita le suggerì come termine di paragone un ricordo dei suoi quindici anni, si era ingozzata di eccitanti al posto degli analgesici. Le linee colorate del ragazzo erano immobili, come quelle di tutti i corpi oltre la porta. Sperava di essersi sbagliata, con quel modo di vedere fasullo, ma i capelli della recluta erano proprio sbiancati. Il chiarore di fuori era sufficiente. Tese la mano verso la giugulare, ma in realtà, già sapeva che non avrebbe sentito battito.

* * * Thorn si alzò, imprecò contro le gambe indolenzite e si appoggiò di schiena al Trek. Era rimasto accucciato un bel po'. Prese un altro sigaretto, rimuginando sempre sulla sua scelta. Gli garantiva un futuro, o si era tagliato le gambe da solo? Si infilò il sigaretto in bocca; rovistò la tasca in cerca dell'accendino. “Bene. Ora” Joy avvertì dal furgone. “Voi due là fuori, distanza di sicurezza. È l'ora del test.” Thorn accese e inalò, immerso nel flusso dei pensieri. “Tre, due…” Soffiò una colonna di fumo. Rose lo vide immobile, gli gridò un avvertimento.

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“Stai in là, scemo!” Il guidatore emerse dal suo mondo. Le aggrottò la fronte. Joy continuava, “Uno…” Rose gli sparò una scarica broestad vicino al piede. L'arma fece solo una specie di pop; Thorn saltò di lato gridando, “Che cazzo ti salta in mente!” “Che c'è, tutto bene?” Joy si sporse dal vano del Trek; Rose tendeva ancora le braccia con l'arma illegale puntata in avanti. Si sporse di più per vedere l'altro. Steso a terra, Thorn tossiva gettando occhiate di astio timoroso alla giovane. Il mozzicone ancora acceso, l'accendino dorato e anche il pacchetto dei sigaretti erano rimasti vicino al Trek. Il punto colpito da Rose era ben evidente: sull'asfalto si era formata una macchia ovale. Con più attenzione si notava che non era una macchia, bensì lo stesso asfalto diventato una sostanza metallica, lucida, piena di crepe. “Te l'ho detto che non devi fumare” Joy lo canzonò. Diede un paio di sguardi alla distanza fra lui e il furgone. “Non ti muovere” concluse. “Fermo lì che va bene. Ti dico io quando puoi alzarti.” Scomparve di nuovo nel Trek, dopo uno o forse due secondi scattò una levetta, poi udirono un ronzio lamentoso. Il pacchetto di sigaretti si sgretolò in un mucchietto di cenere mentre l'accendino antivento si annerì riempiendosi di crepe. Rose tornò alla sua colonna e nascose la piccola arma broestad sotto le braccia incrociate. Disse, “Se vuoi suicidarti accomodati, ma fallo dopo il lavoro.” Thorn annuì. Non era più così convinto di proporsi a Gray per il lavoro successivo.

* * *

Correvano lungo il decumano 2S3, verso la postazione di guardia orientale, dove Lith poco prima aveva tentato di riparare uno scanner; gli angoli dei pannelli neri erano segnati da linee colorate nella visione notturna. Il rean grande si presentò con il numero di matricola di rianimazione, quando Lith gli chiese di identificarsi.

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“R1712, signora.” Anche lei aveva una matricola. La sigla NU604 era tatuata sulla clavicola sinistra, e accompagnava nella massa dati di zona la registrazione dell'impronta unica del suo cervello antibiologico. L'illuminazione era fuori uso in tutto l'edificio, così come sembrava spenta la vita stessa. Lungo il percorso avevano incontrato solo i corpi di due sottufficiali, morti nello stesso modo della recluta all'atrio dell'aula di sopra. Lith aveva deciso di accorrere lì subito, non tanto perché ricordava un terminale di radiocomunicazione Buccaneer, quanto per Eron. Veder morire la recluta, e poi i volti dei due sottufficiali sbiancati come cartapecora, le aveva messo angoscia. Voleva verificare se per qualche miracolo l'amico fosse sopravvissuto, se fosse possibile dargli una mano. Glielo doveva. Il suo corpo infatti era mummificato come tutti gli altri, davanti allo scanner guasto ancora aperto. Volto e capelli sbiancati, sotto il grigiore che filtrava dai pannelli esterni. I lineamenti erano distorti, ma lo tradiva la divisa in disordine. Lith si chinò su di lui. Aspettò rassegnata l'ondata della memoria servoassistita, che rivangava continuamente i suoi ricordi. Immagini e volti che vedeva, parole che sentiva, le occorrenze trovate la investivano sotto forma di una slavina di ricordi attinenti, accompagnati da un indice cronologico inverso. Subì paziente la reminescenza di alcune scene del crimine. Tre corpi rinvenuti con il braccio destro nella stessa posizione, sotto la schiena, due vittime senza segni di traumi - per una di queste, il patologo aveva parlato di avvelenamento - e per finire, il corpo della madre che aveva scoperto lei stessa, a suo tempo, supina sullo tappeto rosso, accanto al letto. Si sfogò dall'assalto di immagini picchiando il pugno a terra, il pannello in lega del pavimento rimase curvo. Sgridò l'amico, gli disse che aveva scelto il momento peggiore per andarsene, e che badasse bene di non aver firmato un accidente. Che preferiva non avere più nessuno a cui raccontare i suoi scleri, piuttosto che sapere

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anche lui rianimato. La sagoma di R1712 attendeva ancora istruzioni sulla porta. Lith gli ordinò di provare la console Buccaneer accanto allo scanner, e inviare il DCQ per la richiesta di soccorso. Lo prevedeva la procedura in caso di postazione isolata, lo sapevano tutti. Il rean grande armeggiò con la strumentazione per una manciata di secondi, che lei passò ancora china sull'amico, poi riferì che il sistema era inservibile. Lith sospirò. Se non era possibile lanciare un DCQ via radio, la procedura stabiliva che due messaggeri partissero in cerca di un punto da cui si prendesse un segnale ACK di ritorno, e quindi da cui si potesse richiedere soccorso; altrimenti, i due messaggeri dovevano portare le cattive notizie di persona. Si avviarono di buon passo verso i piani inferiori, dove Lith ricordava la rimessa dei veicoli. “R1712 è orribile” disse lei, passata una porta alta almeno nove piedi, aperta; linee colorate evidenziavano un corpo steso fra i battenti. “E poi i 1711 prima di te non se la passano bene. Come ti chiami? Qual è il nome?” Altre linee le mostravano all'interno il braccio di un golem, incustodito su un piano. Negromanzia, era il laboratorio 2S3H, c'era già stata per ritirare il rapporto di aggiornamento falso. Nell'occhiata colse anche il contorno di un golem tetrapode, il padrone del braccio, un vecchio G4 alto sedici piedi, anche questo l'aveva già visto lì, che ruotò di poco la tozza propaggine sopra le spalle. “Tod Stalker, signora.” “Bene Tod, io sono Lith Cross, come va.” “Sto camminando, signora.” Holy santissimo, il caporale imprecò fra sé. Non voglio diventare anch'io così. Prima che mi becchino per una revisione, fatemi trovare un tritarifiuti che mi mastichi senza rompersi. Raggiunsero il giunto 2S3W3, poi si affrettarono per le scale verso il cardo 1W3. Erano arrivati al buio del piano terreno, quando in fondo alle scale Lith vide finire le sue linee colorate.

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“Scommetto che sei una conversione piuttosto recente, vero?” disse, rallentando. “Data di rianimazione sei settembre, prima veglia e zero cinquanta, signora” le rispose R1712. “Mi sarebbe bastato un sì.” “Ricevuto, signora.” Lith si stava pentendo di aver salvato questo rean smisurato, dalla voce ronzante alle risposte ingenue, Tod Stalker le dava un esempio pratico del proprio futuro più probabile. Se aver letto del ‘condizionamento inibitorio’ e delle ‘procedure decisionali ausiliarie’ l'aveva messa in guardia in modo astratto, ora vedeva dipinte quelle parole nel grande rean, chiare e limpide. Tornarono poche linee sgargianti, i contorni verticali dell'apertura su un abisso. Non poteva leggere la sigla 1W3G sulla targa al buio, ma c'erano tanti piedi fra una linea e l'altra. L'abisso era il piano superiore della rimessa occidentale dei veicoli. L'addetto al turno di sorveglianza poteva non essere abbastanza vivo per chiederle di esibire un ordine scritto, prima di lasciarla uscire. L'eco dei passi dava la misura della vastità dell'ambiente, anche con il buio completo, non c'erano finestre, solo le ventole d'aerazione e una galleria che non aveva ancora visto. “Tod, ci vedi al buio?” “Sì, signora.” “Sei in grado di trovare una carrozza?” “Sì, signora.” Non sentì i passi di R1712. Immobile dov'era, come uno spaventapasseri invisibile, aveva colto la sua domanda solo in senso letterale. “Beh, fallo” lo assalì. “Guardale, mettine una in moto, vienimi a prendere. Vai. Muoviti.” Lo sentì subito all'opera. Era furiosa. Contro R1712, forse, ma solo perché le ricordava a ogni momento il suo destino, la sua rabbia era per la Milizia e i negromanti, e anche per se stessa e la sua firma.

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Si avvicinò a tentoni alla parete, vicino alla sbarra colorata con cui il suo cervello le mostrava il corridoio e si accucciò. R1712 aveva già aperto e provato un veicolo, lo sentì chiudere una portiera e aprirne un'altra. Non funzioneranno, si disse, rilassando la schiena al muro. Chiuse gli occhi. Come le radio e le luci. Dovevo immaginarlo. Si strinse le ginocchia, concentrandosi sui suoi problemi. Non voleva diventare come lui, ma non sarebbe riuscita a imbrogliare i negromanti per sempre. La fuga era fuori discussione. Se avesse tentato di abbandonare la Milizia non avrebbe avuto solo il colorito cianotico da nascondere: presto le sarebbe servito un ricambio di necrostatico fresco, un controllo della consistenza minerale, quelle cose che i negromanti le facevano. Il suo corpo era fatto di tecnologia delicata. Si accorse che R1712 aveva esaminato cinque carrozze, non le serviva prestare attenzione per contare la sesta portiera, la memoria assistita teneva il conteggio per lei. Non aveva dubbi che R1712 sarebbe andato avanti imperterrito a controllarle tutte finché non l'avesse interrotto lei. Che continuasse. Abbandonò la testa fra le braccia e tirò qualche respiro profondo prima di asciugarsi gli occhi. “Ne hai già provate diciannove, Tod. Non serve a niente.” Lo udì chiaramente richiudere la portiera e tentare la ventesima maniglia. “Basta, Tod. Se dico che non serve a niente, vuol dire che non c'è bisogno di andare avanti.” “Ricevuto, signora.” Stalker richiuse il veicolo. “Andiamo.” L'unico veicolo che Lith aveva visto muoversi era il vecchio golem G4 in riparazione, fu facile ripercorrere i corridoi fino alla negromanzia. Non si soffermò più di tanto a domandarsi come mai quello funzionasse e le carrozze a motore no. Le avrebbe permesso di partire da Hossa, e questo bastava. Lei e R1712 si arrampicarono su per gli appigli delle quattro zampe e del torso bombato del golem. Trovò facilmente la leva d'apertura,

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anche senza poterne riconoscere il color arancio, fra la confusione di pastelli che la delineavano nell'oscurità. Il golem fece scattare la testa in avanti e il portello sopra la spalla vuota per farli accomodare dentro di sé. Davanti ai sellini scomodi, lo schermo schiariva il poco spazio della cabina con una rappresentazione ad alto contrasto della sala della negromanzia. Najstad l'aveva definito retinale, a Crowsbeek, spiegandole che funzionava più o meno come un occhio, ma nel modo opposto. Vi vedeva il braccio guasto, una torretta portatile stipata di indicatori, il tubo di una pompa di necrostatico, evidenziati con linee simili a quelle a cui era abituata. Ai lati dell'immagine sullo schermo, alcune figure stilizzate erano quello che Najstad chiamava interfaccia. Al tatto era come la ricordava da quando aveva manovrato un golem a Crowsbeek, come una gelatina di pollo. Toccò l'ingranaggio delle funzioni speciali e cercò la cartina; il mezzo conosceva la disposizione delle sedi della Milizia e suggeriva Idalca come la più vicina. Che Idalca fosse, dunque. Lith la conosceva di fama: una stazione militare di dimensioni ben più che monumentali, in un cratere sui monti Ithwind. Da quando le era capitato in mano un opuscolo di propaganda che ne illustrava le meraviglie, si era interessata alla sua storia. I documenti facevano risalire il cratere all'invasione uskana di quattro secoli prima. Uskadia allora era in conflitto praticamente con qualsiasi territorio confinante o vicino che non avesse già occupato, e Idalca era un suo avamposto in Dargorea. Le fonti concordavano sul momento della distruzione, prima che le forze di invasione partissero da lì per Hossa, e ne facessero un altro avamposto. L'inutilità fu più o meno palese pochi mesi dopo, quando l'invasione di Dargorea riuscì ugualmente grazie a un'offensiva via mare, perché nello stesso anno Uskadia dovette capitolare. Da un successo strepitoso, al massacro delle truppe in tutti i territori conquistati, salvo le unità che disertarono per darsi al brigantaggio. Sul metodo della distruzione, invece, gli storici si facevano evasivi. Il

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buco più o meno sferico negli Ithwind era lì, concreto, e misurava oltre due miglia. Il giorno prima c'era l'avamposto, il giorno dopo, il vuoto. Nessuno aveva tramandato una testimonianza concreta. Si erano sbizzarrite con la fantasia le canzoni epiche e le saghe popolari. Dall'uso bellico di invocazioni spiritiche nell'opera di Ishtoos, agli stregoni che cancellavano regioni intere con la magia nelle storie raccolte da Child. Ishtoos si era ispirato alla tradizione popolare degli Ithwind, che voleva il Fantasma di Idalca presente fin da allora nella zona. Secondo la superstizione lo spirito entrava non visto nelle case, si serviva di tutto ciò che gli piacesse e metteva l'ambiente a soqquadro. Era più popolare del principe Kennig Mihan. Ma al di fuori della regione, la fama di Idalca riguardava sostanzialmente il cratere. Nei secoli, lo spazio vuoto era stato occupato con un edificio che pochi civili potevano vantare di aver visto, anche solo in foto. La costruzione era un cubo di oltre due miglia di lato, letteralmente conficcato nel rilievo montano. Una struttura modulare fatta per sfruttare le migliorie delle tecniche edili nel corso del tempo, una fortezza sempre aggiornata. Teoricamente, in grado di resistere a ogni offensiva. I livelli inferiori ospitavano centrali energetiche sufficienti per soddisfare la sede della Milizia, il porto aeronavale, i laboratori di ricerca, e anche quasi tutto il fabbisogno della città vicina. Fuori dall'installazione di Hossa, passate le torrette di guardia spente e le quattro guardie mummificate nel gabbiotto corazzato, nulla oltre al golem era in grado di muoversi. Lith lo manovrò a grandi falcate per le prime tre miglia, secondo il percorso suggerito dallo stesso mezzo. Giunse così al centro urbano di Hossa fra carrozze fuori uso, prostrate contro gli alberi anneriti o precipitate nel fosso al lato della strada. Qualunque cosa avesse colpito l'installazione, Lith presupponeva che l'obiettivo fosse militare, perché aveva appena privato la Milizia di migliaia di unità; la speranza ragionevole era che il raggio dell'area colpita fosse circoscritto intorno alla sede da cui usciva.

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Purtroppo neanche in territorio urbano li abbandonavano né le carcasse di carrozze entrate in qualche vetrina o addosso alle altre parcheggiate, né le mummie dei pochi passanti della notte. Il grigiore del cielo, che incupiva maggiormente la desolazione, li avrebbe accompagnati ancora per almeno tutte le tre ore della quarta veglia, e metà della terza. Il golem aveva percorso dalla sede della Milizia circa tre miglia e mezzo. Era più o meno il raggio di Merry Woods, la desolazione prodotta a Sjilen dalla famosa arma di distruzione di massa. Un ordigno dargoreno, che due anni prima aveva posto fine alla guerra di liberazione di Sjilen spingendo la Repubblica Uskana a capitolare; un deserto di trenta miglia quadrate di tronchi pietrificati e case sbriciolate era stato convincente. Ricordava le foto di Merry Woods; non era neanche per sbaglio ciò che osservava in quel momento sullo schermo gelatinoso del golem. I sensori acustici non le trasmettevano altri suoni che il rimbombo delle quattro zampe di pietra: il silenzio completo di una città morta, quando una metropoli non era mai in silenzio, neanche di notte. Non ci aveva mai fatto caso. Elencò a mente quello che si sarebbe aspettata: il soffio dei motori greenebush, per esempio. Mezzi pubblici e carrozze dei tiratardi. Il ronzio delle caldaie e degli impianti di ventilazione. Niente illuminazione. Come nell'installazione militare, i tubi fotoelementali erano spenti. C'era solo uno strano crepuscolo metallico. Nell'attraversare la città il golem si imbatté presto in un trasporto pubblico della linea sette, che aveva schiacciato almeno quattro carrozze contro alcune vetrine. Dopo qualche isolato, un quattro aveva raso al suolo un chiosco, un palo segnaletico e l'unico albero di un'aiuola pubblica. Dalle parti del centro c'era gente per strada, anche alla terza veglia. I volti dei senzatetto e dei nottambuli erano di cartapecora bianca come tutte le altre mummie. L'apparecchio radio Buccaneer a bordo del golem non si accendeva neppure. Lith e R1712 dovettero proseguire oltre la città sotto quel cielo

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uniforme, grigio da ogni lato. Presero l'imbocco dell'interregionale montana per gli Ithwind a nord. Dopo venti miglia di campagna morta, macchie di alberi anneriti e qualche sporadico veicolo fermo, pensare all'estensione di questo disastro in rapporto a Merry Woods, che invece si allargava appena sei o sette miglia da un lato all'altro, dava il capogiro. Al versante nord del passo montano artificiale del Solco trovarono finalmente una linea netta, ben visibile. Sopra le pareti scavate i sempreverdi mostravano qualche ago ancora verde, sul lato settentrionale. Lo schermo del golem ne esaltava le differenze dei colori come pennellate vivaci. Finite le pareti, dove l'interregionale proseguiva con un viadotto sospeso, si notava chiaramente la linea di confine, ancora meglio che se fosse stata segnalata da un cartello. La luminescenza che li aveva perseguitati per tante miglia, ora irradiava l'asfalto per poche decine di piedi davanti al G4, e poi buio. Sotto, l'erba scolorita si perdeva nella notte alla stessa altezza. Alla loro destra il versante degli Ithwind piegava verso nordest; lì, la linea di confine si mostrava sul pendio del monte. Proseguirono fino a superare l'area rischiarata. Lith tirò la leva arancio che apriva il portello, attese che il mezzo antropomorfo facesse slittare la testa piatta avanti, poi il portello sopra la spalla. Si alzò per scrutare intorno. Ora il crepuscolo grigio era alle spalle, il nuovo punto di vista le mostrava chiaramente che la poca luce non proveniva dal cielo. Era l'aria stessa a brillarne debolmente. Corrugò la fronte. Contemplando il disastro dall'esterno, ci capiva ancora meno. “Tod, secondo te cosa può essere stato? Abbiamo percorso venti-trenta miglia, vedo un confine netto, entro cui sono morte tutte le forme di vita. Bio, noi no. E c'è questa luminescenza su tutta l'area.” “Non esistono spiegazioni note, signora.” Lith scrutò ancora un paio di volte intorno al golem. “Un broestad radiale modificato? O qualcosa come Merry Woods?” “Negativo, signora.” “Perché?”

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“Nessuna arma nota ha effetti documentati oltre le sette miglia. La dispersione elementale dei broestad è graduale, qui invece l'area ha un confine preciso. La luminosità costante non è documentata fra le armi note. La terminazione della vita senza danno fisico…” “Va bene, basta, ho capito.” Lith si rimise a sedere. Da una parte provava sollievo per essere uscita finalmente dall'area colpita, perché prima del Solco cominciava a temere di trovare Idalca nelle stesse condizioni, e chissà quante altre città. Ma rimanevano alcune preoccupazioni serie. Per prima cosa, le coincidenze. Che riunire duemila rean per un aggiornamento fosse una cosa sbagliata e strana, ci era arrivata già da sola. Poi la recluta boriosa con l'ordine di omertà, il broestad al contrario per abbattere le forze rianimate, e infine questa tragedia, nell'arco di pochi minuti. Non si poteva credere a una catastrofe accidentale, e tuttavia Hossa, come obiettivo, era una scelta discutibile. In un colpo solo, la Milizia dargorena aveva perso molte forze, tutte ancora in formazione. Il grosso degli effettivi d'assalto, della cavalleria pesante, delle navi si trovava in altri centri. Era una bravata fine a se stessa, e chiunque fosse stato, non si sarebbe fermato a questo: non poteva essere il vero obiettivo. Ci sarebbero state delle conseguenze, e l'intento poteva essere proprio quello di provocarle. Infine, la recluta boriosa aveva ricevuto i suoi ordini da un generale, nientedimeno. Doveva aver partecipato per forza qualche membro insospettabile dello stato maggiore, qualcuno abbastanza in alto da ordinare una riunione di non morti senza essere messo in discussione. Il gioco era troppo grande per un semplice caporale. Fino a quel momento Lith si era occupata solo di ordine pubblico, in un paese montano dove non succedeva mai niente. Se cerchi un momento per andartene, pensò fra sé, è adesso. Nessuno sospetta che sei sopravvissuta. Si guardò di nuovo intorno, tentata dall'idea. La decisione era

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difficile. Di solito, con un dilemma così pesante sarebbe andata a cercare Eron, anche a notte fonda. Lei gli avrebbe offerto di prendere in carico alcuni suoi compiti del giorno dopo, l'amico avrebbe rifiutato con i suoi modi bruschi e non l'avrebbe lasciata andare prima di averle fatto chiarezza in testa. Quando Eron si era arruolato a ventisette anni, al limite dell'età di leva, Lith era caporale da due mesi, ed era ancora una ragazzina scappata di casa e piena di rabbia. Pur superiore di grado, aveva cominciato presto ad appoggiarsi a lui come se fosse la sua famiglia. Non ho nulla da perdere, non ho più un amico con cui ricordare i tempi andati. La mia impronta unica è a Hossa: non mi cercheranno per un mese, forse mai. Basta deciderlo, posso nascondermi ovunque. È l'unica occasione. Se non scappo adesso, come se avessi i dragoni alle calcagna… Sbuffò. Il suo compagno di sventura era in silenzio, in attesa di istruzioni precise. Il visore retinale del golem mostrava una strada appena accennata dal contrasto amplificato. E dove accidenti posso andare, si chiese. Potrei anche inventare che ho una malattia della pelle e fumo trenta sigaretti al giorno, ma quale pollo ci cascherebbe? Dove mi imbosco? Ho scritto rean in fronte, e mi serve un negromante per la manutenzione. Dove lo trovo un negromante fuori dalla Milizia? Loro sono ancora più schiavi di me. “Prova le luci, Tod.” Era scoraggiata. Poteva solo andare avanti e recitare la sua parte alla meglio. Dalla testa del golem, ancora bloccata contro il ventre di pietra, un raggio luminoso schiarì alcune iarde quadrate di erba verde e viva. “Va bene, prova anche la radio.” Spinse la leva arancio del portello superiore, il blocco di pietra cominciò a muoversi da sopra la spalla sinistra. “Passami quel coso.” Prese il comunicatore mentre il G4 si sigillava.

* * *

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“DCQ di che classe?” Moore rilasciò il commutatore. Summer Moore, diciannove anni, dopo il brevetto da pilota era rimasto di leva nel cubo di Idalca presso il centro delle comunicazioni. Si passava una mano sulla fronte scura per non far scappare dalla testa le parole appena udite. Era un allarme. Lottò contro gli occhi per non farli tornare al numero di Strada oggi con la foto della carrozza dei suoi sogni. Una lampada da lettura illuminava metà della pagina. La donna alla radio aveva parlato di una Classe A. Possibile? Sede isolata, ingenti vittime anche civili. Poteva essersi distratto. “Classe A, confermate? Non dico con il sigillo del gran gene...” Una mano ghermì il suo microfono, ne vide le dita bianche e si zittì. Era il tenente Leon, uno dei responsabili delle comunicazioni, l'unico di razza novana. Il tenente pestò il commutatore e tuonò nome e grado. “La classe A è una cosa seria” continuò. “Non se ne sentiva dalla presa di Palni Vende. È notte fonda, e tocca a me svegliare lo stato maggiore. Ditemi che è uno scherzo del cazzo e vi prometto che non mi arrabbierò.” Ascoltò impassibile quella donna che enumerava le disgrazie di Hossa. Alla fine, esitò un momento prima di pigiare ancora il commutatore. “Dove vi trovate?” “Interregionale degli Ithwind” disse la voce alla radio. “Ventisei piedi a nord del Solco.” “Ora vi dirò cosa fare. Prendete appunti perché non ve lo ripeterò.”

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