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Luca Peretti, dottorando presso l’Università di Yale, è stato il research assistant di Alan O’Leary, docente di italianistica dell’Università di Leeds, per il suo progetto sui cinepanettoni (da cui è uscito il libro 'Fenomenologia del cinepanettone', Rubbettino, 2013). Quello che segue è un dibattito sui film di natale e sul loro ruolo all’interno del cinema e della società italiana, che amplia e problematizza la discussione iniziata in un forum online gentilmente ospitato su ReadingItaly: https://readingitaly.wordpress.com/2013/12
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Il cinepanettone e la società
Dibattito intorno a una fenomenologia,
ai consumi culturali, e su come studiare
il cinema italiano
ALAN O’LEARY & LUCA PERETTI
1
Luca Peretti (LP), dottorando presso
l’Università di Yale, è stato il research
assistant di Alan O’Leary (AOL), docente di
italianistica dell’Università di Leeds, per il suo
progetto sui cinepanettoni. Quello che segue è
un dibattito sui film di natale e sul loro ruolo
all’interno del cinema e della società italiana,
che amplia e problematizza la discussione
iniziata in un forum online gentilmente
ospitato su ReadingItaly:
https://readingitaly.wordpress.com/2013/12/
2
LP: Fenomenologia del cinepanettone
(Rubbettino, 2013) è un libro importante e che
si inserisce in una estremamente sana e
necessaria tendenza dei recenti studi sui media
e sul cinema italiano: attenzione al cinema
popolare, agli oggetti abietti, lontano da
tendenze autoristiche e paternalistiche che fino
ad ora hanno caratterizzato una buona parte
degli studi sul cinema italiano, ed in particolare
gli Italian Cinema Studies. Il tuo libro ha dei
passaggi davvero convincenti e innovativi, come
la tavola rotonda finale, e nel corso di questo
dialogo faccio riferimento ad altri passaggi
molto interessanti. Il fatto stesso che questo
dialogo esista dipende dal fatto che il tuo libro
stia suscitando dibattiti e reazioni, e altri lavori
(come quello di Cucco1 e il numero di
ReadingItaly) sono influenzati o sono nati grazie
1 Marco Cucco, ‘Il cinepanettone nell’economia del cinema italiano’, Economia della cultura, 23: 4 (2013), 475-88.
3
al tuo Fenomenologia. Tenuto presente tutto
ciò, vorrei però discutere con te di alcuni punti
che mi convincono meno.
Partirei con la tua scelta di occuparti poco di
questioni relative a distribuzione, industria,
marketing, pubblico.2 Per esempio, ti chiedo
conto del perché nel tuo libro occupi così poco
spazio, quasi nulla, il fatto che i cinepanettoni
escano in un numero di sale piuttosto alte3 e
quanto questo influenzi la scelta degli
spettatori—che poi questo non ci dica nulla
sull’effettiva qualità dei film, siamo d’accordo,
ma credo ci possa dire qualcosa sul loro
successo. Nel tuo libro si ricorda giustamente
che il cinepanettone è l’unico sopravvissuto di
un certo cinema industriale (e di un cinema 2 Su questo tema, si veda l’articolo di Cucco sopracitato. 3 Secondo i dati racconti da Cucco via Cinetel il record è quello di Natale a Beverly Hills con 617 sale. Va segnalato che sono comunque molte meno di un film come Sole a catinelle, distribuito 31 ottobre 2013 in 1200 copie.
4
seriale che in Italia, esclusi brevi esperimenti
come Manuale d’amore, davvero non esiste
più), ma non discuti un aspetto fondamentale di
questa industria, la distribuzione. Come
influenzano, queste questione industriali, i
cambi di stile e modi nei cinepanettoni (che è
un filone molto eterogeneo, come giustamente
noti)? Discuti infatti di come il prodotto più
recente, quello anni Duemila con o senza Boldi,
abbia una struttura a storie parallele e quasi
tutti composti dalla formula
‘Natale+preposizione+località’, mentre i film
prima, specie dei Vanzina, hanno una struttura
più a gag e molti riferimenti alla società italiana
contemporanea, mentre quelli recenti di
Parenti no (Fenomenologia, pp. 18-19). Se
questo è davvero un passaggio fondamentale
per smentire una delle leggende più triviali sui
cinepanettoni, quella che dice che siano tutti
uguali, mi pare manchi qui una riflessione sul
5
cosa spinge il produttore De Laurentis a
cambiare stili e registi nel corso degli anni, se
motivazioni artistiche o di marketing: infatti
diversi degli intervistati nel tuo libro, in primis
lo sceneggiatore Marco Martani,4 pongono
l’attenzione sul fatto che questi film vadano
giudicati in funzione del pubblico, e quindi se
non vendono vada cambiata strategia. Connesso
a questo problema, c’è la questione sul quanta
gente effettivamente veda i cinepanettoni. La
potenza della distribuzione, e della pubblicità,
non sono aspetti che si possano mettere da
parte quando si parla di film del genere. Come
forse andava discusso meglio quei ‘molti
italiani’ di cui tu parli per cui il cinepanettone è
significativo: molti sì, ma quanti? Il critico
4 ‘L’obiettivo del film di Natale è far ridere. Basta. Non ci sono altri obiettivi alti, non ce ne frega assolutamente nulla. Il film di Natale ha quell’obiettivo là, fare più soldi possibile e far ridere. Punto. Se raggiunge questi due obiettivi, è un capolavoro. Perché quello è l’obiettivo iniziale, mica stiamo riscrivendo la storia del cinema...’ (p. 123).
6
Cristina Borsatti (p. 138) pensa siano cinque-sei
milioni, cifra probabilmente ottimistica, ma
anche fosse si tratta comunque di numeri uguali
o inferiori ad una mini-serie televisiva di medio
successo, e molto meno di un’importante
partita della nazionale italiana di calcio. Valeva
quindi forse la pena di confrontare vari dati e
chiedersi quanto davvero i cinepanettoni
influenzino l’immaginario italiano, facendo una
sorta di zoom fuori dal cinema e guardando ad
altre forme culturali, in primis la televisione –
che mi pare la grande assente, nel tuo libro,
viene evocata solo per notare come magari i
comici dei cinepanettoni vengono da lì, ma il
linguaggio sia diverso.
AOL:5 Sono sicuro che sarebbe stato possibile
scrivere un libro molto diverso ma altrettanto
5 Le risposte di Alan son state tradotte dall’inglese da Chiara Fiorentini. Traduzione rivista da Alan e da Luca.
7
utile sul cinepanettone. Una storia statistica e
di economia politica del filone sarebbe molto
interessante (e l’articolo di Cucco, che è uscito
mentre noi stavamo portando avanti questa
conversazione, è un’ulteriore conferma di ciò),
ma non è il libro che volevo scrivere io. Prima di
tentare di rispondere alle tue critiche, dunque,
vorrei spiegare quali fossero gli obiettivi che ho
tentato di raggiungere.
Volevo considerare un fenomeno
cinematografico estremamente longevo e
popolare che è stato però pure in grado di
suscitare forti antipatie. Volevo dimostrarne
l’interesse intrinseco, esplorarne la costruzione
discorsiva all’interno della cultura italiana e i
modi in cui circola in quella cultura. Volevo
inoltre trovare un vocabolario che permettesse
di articolare le ragioni di appeal e godimento di
un fenomeno popolare (e su questo Backtin è un
riferimento chiave). Il contenuto del libro si
8
spiega secondo questi obiettivi guida, che mi
hanno portato lontano dai film studies, nella
loro accezione classica, e verso una analisi dello
status del cinepanettone e del suo pubblico (e
qui Bourdieu è un altro punto di riferimento).
Ho iniziato il libro dichiarando
un’alleanza: ho scritto a nome di coloro che
apprezzano i cinepanettoni. Ho cercato di
mettermi nei panni del pubblico (solitamente
disprezzato al pari dei film stessi), e di
rappresentarli (in entrambi i possibili sensi del
termine). Questa concezione di me stesso come
di un ‘delegato’—e mi rendo conto del rischio di
arroganza, di populismo culturale e pure di un
paternalismo debole che l’assunzione di tale
posizione comporta—implica che io non
condivido il pensiero, tipico della economia
politica, che le condizioni industriali
determinino le scelte e il gusto dello
spettatore. L’opinione di John Storey
9
sull’approccio della economia politica è che
questa tende a presupporre ‘that audience
negotiations are fictitious, merely illusory
moves in a game of economic power’.6 E
prosegue, ‘While it is clearly important to
locate the texts and practices of say, popular
music [a cui si potrebbe aggiungere il cinema
popolare] within the field of their economic
determinations, it is insufficient to do this and
think you have also analysed important
questions of audience appropriation and use’.7
Potremmo certo dibattere a proposito
delle cifre: ad esempio, ci sono più di 3.200
6 ‘Che le negoziazioni dello spettatore siano fittizie, delle mosse puramente illusorie all’interno del gioco del potere economico.’ Cultural Studies and the Study of Popular Culture, 2nd edn (Edinburgh: Edinburgh University Press, 2003), p. 113. 7 ‘Mentre è chiaramente importante collocare i testi e le pratiche della—diciamo—musica popolare all’interno del campo delle loro determinate economiche, non è sufficiente fare ciò e pensare di aver pure analizzato le importanti questioni dei modi di appropriazione e utilizzo da parte del pubblico.’ Ibid.
10
schermi in Italia,8 e anche assumendo che le
centinaia di copie del cinepanettone dell’anno
venissero proiettate simultaneamente in più
sale di uno stesso multisala, possiamo supporre
che ci debba essere stata comunque una
qualche sorta di scelta di visione (oltre alla
ovvia alternativa di restare a casa). Mi chiedo,
pertanto, se la preoccupazione rispetto alle
cifre e le statistiche in merito ai cinepanettoni
(e non, diciamo, in merito al cinema d’autore
italiano) non rifletta piuttosto la convinzione
che gli spettatori del cinema popolare siano
vittime di una industria prepotente? (Perché
quindi alcuni cinepanettoni hanno meno
successo di altri? Saranno stati distribuiti in
modo simile…) Mi permetto di collegare questa
idea del pubblico all’opposizione che fai tu tra
‘motivazioni artistiche o di marketing’.
8 Vedi le cifre a http://www.cinetel.it/i-nostri-servizi/il-campione-cinetel.html.
11
Possiamo entrambi concordare che non è una
opposizione da buon materialista, e che è
insostenibile in relazione a forme industriali
come il cinema. Concordo che le motivazioni
dei produttori siano finanziarie; la mia
premessa nel libro è che i cinepanettoni
evolvano nel momento in cui i produttori
cercano di assecondare i gusti del pubblico (e
delle varie categorie e fasce d’età al suo
interno), bilanciando le novità con gli elementi
che hanno già avuto successo in altri film della
serie. In quanto tale, arte e industria sono parte
della stessa attività o categoria.
Giungendo ora alla tua ultima obiezione:
quante persone vedono un film di Natale al
cinema? È una buona domanda a cui non è facile
dare risposta.9 Vedranno più persone una serie
9 Vedi Christopher Wagstaff sulle difficoltà di dedurre numeri di spettatori dalle cifre di botteghino in ‘Italian Cinema, Popular?’, in Popular Italian Cinema, ed. by Louis Bayman and Sergo Rigoletto (London: Palgrave Macmillan, 2013) pp. 29-51.
12
popolare o un evento (come una partita dei
mondiali) in televisione? Certamente, in molti
casi, sì. Il cinema in Italia non è più, e non lo è
da diversi decenni, ciò che Pierre Sorlin una
volta lo definì: ‘the most popular form of
entertainement’;10 a differenza della
televisione (per non parlare di YouTube), il
cinema non è più un passatempo quotidiano.
Nuovamente, però, nel tuo comprensibilissimo
desiderio di trovare le esatte cifre che
permettano di calcolare ‘quanto davvero i
cinepanettoni influenzino l’immaginario
italiano’ tu stai chiedendo un libro diverso. Io
non intendo dare per assunto che i
cinepanettoni siano più influenti della
televisione, ed è stata voluta la decisione di
lasciare la televisione (quasi) fuori dalla
discussione. Una mossa necessaria e strategica, 10 ‘La più popolare forma di intrattenimento.’ Titolo di capitolo in Pierre Sorlin, Italian National Cinema (London: Routledge, 1996).
13
perché il cinepanettone è regolarmente
liquidato in quanto ‘televisuale’, mentre io ero
interessato a osservare i film (come raramente
lo sono stati) qua cinema! Era essenziale
enfatizzare il contesto di visione originario—la
sala affollata con diverse tipologie di persone—
in modo da comprendere i film, il loro registro
carnevalesco e la loro forma estetica. Per i miei
scopi la questione televisiva era una
distrazione.
Tuttavia, indipendentemente dal reale
numero di spettatori che un singolo
cinepanettone possa aver ottenuto, rimane il
fatto che da un punto di vista di cultural
status—osservando il volume di discorsi
screditanti che generavano, e lo status abietto
che i film e il loro pubblico hanno ancora
all’interno dei discorsi autorevoli—i
cinepanettoni sono estremamente significanti. È
per questo che insisto nel riferirmi a essi, alla
14
conclusione del mio studio (e alla fine del
penultimo capitolo del libro) come ‘cinema
italiano nazionale’. La provocazione mi riporta
alle domande iniziali in merito al libro che
volevo scrivere e a una delle altre ragioni che
mi ha portato a scriverlo. Scrivevo dall’interno
degli Italian Cinema studies, ma contro i tropi
chiave della disciplina, come il realismo, la
‘paternità’ autoriale, l’impegno civile o politico
e così via. Sostenere il cinepanettone qua
cinema era una lezione indirizzata anche alla
disciplina…
LP: Sono naturalmente d’accordo con te: i
cinepanettoni sono estremamente significativi,
e hanno bisogno di essere studiati. La tua
affermazione ‘io ero interessato a osservare i
film (come raramente lo sono stati) qua
cinema!’ mi aiuta anche a capire che
probabilmente dobbiamo ‘agree to disagree’ sul
15
fatto che per me il cinema è prodotto finito
(i.e. il testo filmico) ma anche la produzione
dello stesso, la distribuzione, il marketing
messo in campo per promuoverlo, le reazioni
degli spettatori, ecc., mentre per te rimane
soprattutto l’analisi testuale dei film (più dei
questionari, e ci arriviamo). Niente di male,
sono approcci diversi.
Mi pare che tu voglia smarcarti dall’idea
che le condizioni industriali determino le scelte
e i gusti dello spettatore. Per quanto mi
riguarda, non mi sento di negare che si venga
influenzati dai comportamenti dei gruppi sociali
a cui si appartiene, dalle mode, dalla
pubblicità, anche se tutto ciò non cancella la
nostra volontà di scelta. Mi pare che quando si
parla di cinema popolare serva una dialettica
tra le due cose, costante, e che se ci si
schiaccia troppo su uno dei due poli (industria
culturale che ci schiavizza, o completa
16
autonomia di scelta e industria culturale che
non ci influenza) si rischia un approccio monco.
Ciò detto ti chiedo, e non è una domanda
retorica, si può con i cinepanettoni
semplicemente ignorare la distribuzione (i.e.
uno degli elementi fondamentali del cinema,
tipicamente ignorato da chi fa analisi close
reading, puramente estetiche e/o formaliste) e
le strategie pubblicitarie? In un libro sui
cinepanettoni dove si dice di parlare dei gusti
del pubblico questa domanda credo debba
avere un qualche ruolo.
‘Perché—mi e ti chiedi—dunque alcuni
cinepanettoni hanno più o meno successi di
altri?’ Ma chiaro, perché alcuni funzionano
meglio o peggio di altri. Ma cosa dipende questo
funzionare? Da ragioni interne ai film (che tu
ben analizzi), e da molte altre ragioni: quanti
giorni festivi ci sono quelle vacanze di natale,
quanto è stato investito in pubblicità, cosa
17
hanno fatto gli attori impegnati nel film durante
l’anno, quanti altri film di successo sono usciti
quella stessa stagione, etc. Mi pare che tu
finisca per concentrarti più sulla prima parte, in
ciò ripetendo proprio gli stilemi di un certo
vecchio modo di fare Italian Cinema Studies che
vuoi combattere. E, in film popolari come i
cinepanettoni, che si esauriscono nel giro di
pochi giorni, mi pare più sbagliato che nel caso
di altri film. (Una coda a questo:
Sull’espressione ‘motivazione artistiche o di
marketing’, poco da dire, hai ragione,
espressione infelice, penso anche io che Aurelio
De Laurentiis e co.—e del resto molti altri
produttori e registi—ragionino sul doppio
binario, uno non escluda l’altro.)
Due cose sulla parte finale della tua
risposta. Legittima la battaglia dall’interno di
Italian Cinema Studies, e ancora di più l’idea
del cultural status dei cinepanettoni. E
18
probabilmente, è proprio da lì che nasce la mia
affettuosa frustrazione, dal fatto cioè che mi
pare manchi un lavoro su questi film come
oggetti culturali, che si muovono all’interno non
solo delle dinamiche estetiche e
cinematografiche ma anche ben più ampie.
Lasciare fuori la televisione mi pare
strategicamente sbagliato semplicemente
perché influenza molto il pubblico che va a
vedere i cinepanettoni. Non mi pare che negare
che questi film siano televisuali e poi comunque
prendere in considerazione la tv sia
metodologicamente errato. Faccio molta fatica
a pensare al cinema popolare italiano
contemporaneo come totalmente slegato dal
più grande produttore di immaginario popolare
contemporaneo.
AOL: Uno degli scopi del libro era di fornire
degli spunti utili per studi futuri, sia come
19
effettiva fonte di materiali, come ad esempio i
testi delle interviste, o nei termini di possibili
temi da sviluppare. Non a caso, molti dei dati
che tu utilizzi qui sopra per criticare una mia
mancanza di attenzione rispetto alla
distribuzione e alla pubblicità sono in realtà
tratti dal mio testo! La questione del numero di
copie del cinepanettone distribuito
annualmente da Filmauro; l’importanza dei fine
settimana e delle vacanze per gli incassi;
l’investimento in pubblicità; la selezione di
attori popolari: tutti questi aspetti sono
presenti nel libro e specialmente nelle
interviste del capitolo conclusivo.11 Certo gli
stessi aspetti non saranno tutti sviluppati
lungamente, a causa di una mia scelta
strategica sia di natura estetica che etica, ma
11 Alcune sono sviluppate più approfonditamente nel blog del progetto. Vedi ad esempio il post “DOMENICA IN: Christian and the cast, Sunday 12 December”, disponibile a <http://tinyurl.com/mvpo66q>.
20
gli spunti sono intatti e disponibili per altri
studiosi sia del cinepanettone sia dell’industria
cinematografica italiana in sé.
Preferivo non parlare troppo, nel libro,
del cinepanettone come ‘parte della società’,
in quanto volevo trattare delle funzioni che i
film hanno per i loro spettatori piuttosto che
della misura in cui i film possono o non possano
aver in qualche modo aver riflettuto la società
italiana. Trovo che l’approccio al cinema come
‘specchio’ della società o della realtà tenda a
portare a banali (e non dimostrabili)
generalizzazioni politiche; che propenda a
congedare una forma cinematografica piuttosto
che a genuinamente cercare di comprenderne il
fascino. Un esempio di quest’approccio (che
menziono pure nel pezzo per ReadingItaly)12 è
quello fornito dal giornalista di Repubblica (e 12 Vedi < https://readingitaly.wordpress.com/2013/12/11/cinepanettone-memory/>.
21
adesso parlamentare europeo) Curzio Maltese,
che sostiene che il cinepanettone è
Berlusconiano per eccellenza, così come i
cosiddetti ‘telefoni bianchi’ degli anni ’30 erano
legati al Fascismo. Sciocchezze, certo, ma
anziché proporre, in replica a Maltese, che il
cinepanettone ‘rifletta’ un aspetto della realtà
piu gradevole a noi (di sinistra), oppure che lo
faccia in modo critico, ho preferito
contestualizzare e osservare criticamente il
discorso del giornalista. Ed è questo il punto: ho
deciso di stare nel regno dell’analisi discorsiva
anziché inciampare nella denuncia speculativa
della società italiana.
Vorrei cercare di trattare la questione
della misura in cui le scelte e il gusto del
pubblico sarebbero influenzati da un industria
autoritaria. Due cose mi vengono alla mente.
Prima di tutto, credo che dipenda da cosa si
intende per ‘influenza’. Se uno scrive della
22
cultura seguendo la tradizione di Matthew
Arnold o Theodor Adorno (o Croce?), crede pure
che la cultura di massa determini
completamente i desideri e piaceri dei suoi
consumatori. Trovo elitarie queste posizioni ma
anche naïve dietro loro atteggiamento di
perspicacia superiore (parafrasando Marx, si
dimentica che le persone creano il proprio
gusto, sebbene non lo facciano in circostanze
scelte da loro stessi). In ogni caso—e questo è il
mio secondo punto—non dovremmo dimenticarci
che pure il pubblico di un cinema più autoriale
o arthouse è ‘influenzato’ dal carattere
industriale del prodotto. Antonioni, Fellini,
Moretti, Sorrentino—sono tutti in se stessi
‘prodotti’ come gusti per il loro pubblico, in un
modo quasi autonomo della qualità dei loro
film, attraverso un articolato apparato di
pubblicità e distribuzione (pensa al circuito
internazionale dei film festival, alle campagne
23
per l’Oscar come miglior film straniero, ecc.).
Tuttavia per qualche motivo il cinema definito
popolare risulta colpevole del suo carattere
industriale mentre il cinema d’autore sembra
conservare la sua purezza, e così il suo
spettatore, malgrado presenti una similare
industrialità. Pertanto siamo perfettamente
d’accordo quando dici che ‘non mi sento
neanche di negare che si venga influenzati dai
comportamenti dei gruppi sociali a cui si
appartiene, dalle mode, dalla pubblicità, anche
se tutto ciò non cancella la nostra volontà di
scelta’. Solo che siamo più predisposti a
riconoscere questo in relazione con i
cinepanettoni piuttosto che, per dire, con La
grande bellezza o The Act of Killing.
Similarmente, la relazione con la
televisione tende a essere portata in causa
quando è sotto esame il cinema popolare, e non
quello culturalmente ammirato (a meno che non
24
passi attraverso i termini di un una critica
autoriale, come in Ginger e Fred e Reality). Se
avessi scritto un libro su Nanni Moretti o Paolo
Sorrentino, avresti comunque insistito sulla
misura in cui il pubblico italiano dei loro film
fosse legato al ‘più grande produttore di
immaginario popolare contemporaneo’? e se no,
perché no?
Infine, lasciami dire qualcosa in merito
alla forma del mio libro. Non era per niente mia
intenzione scrivere la parola definitiva sui
cinepanettoni, e la struttura del libro riflette
ciò. Nel penultimo capitolo esplicito il mio
punto di vista parziale e mi situo come
soggetto: uomo, bianco, eterosessuale, non-
italiano… Vista la necessaria parzialità del mio
account dei film, dedico l’ultimo capitolo a
spazio per altre voci, quelle dei molti
intervistati con cui io e te abbiamo dialogato. E
infatti le ultime parole del libro sono riservate a
25
Cristina Borsatti, che critica il cinepanettone,
pertanto il libro finisce con un’opinione
negativa rispetto ai film, che è abbastanza
diversa dalla mia. Le sue ultime parole
diventano una domanda rivolta anche al
lettore—‘ma a voi piacciono questi film?’—
suggerendo che il libro non sia altro che un
primo colpo nella battaglia su un certo tipo di
cinema popolare. È questo rifiuto di un’autorità
paternalistica e pedagogica che si pronuncia
definitivamente rispetto ai cinepanettoni, al
suo pubblico e alla sua critica, a rendere
diverso il mio libro dagli studi di cinema italiano
più mainstream, credo. Si può pensare al libro
come una sorta di pamphlet esteso…
LP: La maggior parte del capitolo 5 del tuo libro
è dedicato ad un’indagine qualitativa che hai
condotto grazie ad un questionario, compilato
da sole 289 persone, campione che tu stesso
26
giudichi non statistico, ma, argomenti ‘avevo
comunque la speranza che i questionari
avrebbero potuto rivelare qualcosa del modo di
consumo, utilizzo e circolazione dei
cinepanettoni da parte del loro pubblico. In
realtà, la maggioranza dei rispondenti si è
manifestata contro questi film, riprendendo
molti dei contenuti e del tono dei giudizi
negativi sul cinepanettone di cui in questo libro
ho già dato conto’ (76). Però poi usi grafici,
strumento che appartiene alle analisi
statistiche, a supporto dei risultati, e mi sembra
che tu tratti questi pochi rispondenti come un
campione in qualche modo valido. Volevo
chiederti se potevi spiegare meglio questa tua
scelta.
Una delle parti che più mi piace del tuo
libro è dove smonti, semplicemente guardando
con attenzione questi film, alcuni dei luoghi
comuni più applicati ai cinepanettoni, e cioè
27
che siano sempre pieni di seni e sederi (o
meglio, tette e culi), argomentando come ‘il
corpo che più spesso viene mostrato nudo è
quello di Boldi’ (21). Mi pare però, che anche
per essere un pamphlet, in alcuni frangenti la
difesa a spada tratta del cinepanettone e il
debunking dei luoghi comuni ad esso
generalmente associati diventi uno dei limiti del
tuo lavoro; la difesa diventa estrema almeno
quanto gli attacchi, come quando cerchi di
dimostrare che la satira che la trasmissione Mai
dire Martedì e Boris: il film dedicano ai
cinepanettone sia di fatto sbagliata, dato che
‘rischia di rimanere senza mordente perché
riduce i film a una “volgarità” che ne è soltanto
una delle caratteristiche’ (31): come se questo
non sia un tratto distintivo della satira, e come
se soprattutto spetti ai critici stabilire quale
satira è giusta e quale no. O quando commenti
le risposte del questionario. Tra gli altri punti,
28
noti come molti rispondenti elaborino un’idea di
spettatore tipico come ignorante, semplice,
superficiale, che va al cinema una volta l’anno.
Idea sbagliata poiché ‘è assai improbabile—dato
il successo che il cinepanettone riscuote presso
un pubblico molto vario all’interno del quale si
situano famiglie e persone di ogni sesso ed età—
che il suo spettatore possa essere descritto con
tanta sicurezza’ (91). Tre cose su questa
risposta: in primis, sembri avere nei confronti
dei rispondenti al suo questionario lo stesso
atteggiamento paternalistico che condanni in
Brunetta e altri commentatori, sembri andare
alla ricerca della risposta giusta, dello
spettatore giusto, da opporre a quello sbagliato.
C’è poi un problema con il concetto di
spettatore tipico, che non può equivalere a
tutti gli spettatori possibili, quanto ad uno che
‘presenta le caratteristiche distintive o
peculiari di una determinata categoria di
29
persone, cose, fenomeni: i caratteri tipici di
una razza; caso, esempio tipico, esemplare’
(definizione di ‘tipico’ del Devoto-Oli, corsivo
non mio). In un certo senso, potrebbe essere
interessante pensare allo spettatore tipico
come al modello che hanno in mente, quando
scrivono le loro sceneggiature, gli autori dei
cinepanettoni. Infatti, e siamo al terzo punto,
sembri avere un’opinione del pubblico molto
diversa di quella degli stessi addetti ai lavori, si
veda ad esempio Martani quando dice che ‘se tu
fai un film di Natale con persone che vanno al
cinema una volta l’anno, non è che stai
ragionando con dei cinefili’ (122) o Enrico
Vanzina che esprime un concetto simile (135),13
13 Ma anche Fausto Brizzi: ‘è un pubblico spesso poco cittadino, molto provinciale. Semplicemente come dato statistico, non è un giudizio di merito’ (corsivo mio, p. 141); Luigi De Laurentis: ‘L’80 per cento del Paese è semplice, ha bisogno di un linguaggio molto facile’ (p. 141); o infine Enrico Oldoini: ‘Il cinema di Natale è proprio destinato a un pubblico che vuole soltanto evadere e basta’ (p. 140).
30
mentre i rispondenti si avvicinano forse
all’opinione che ha del pubblico chi questi film
li fa.
AOL: Riuscire a trovare un numero adeguato di
persone che rispondono a un questionario è
sempre un problema. Sono riuscito ad ottenere
289 risposte valide: è una cifra che sarebbe
considerata pressoché sufficiente per certi
settori, specialmente perché molte delle
domande poste richiedevano una risposta
discorsiva. Se ricordo bene, Claire Monk non ha
trovato molti più respondents nel suo
importante libro sugli spettatori dei heritage
film britannici.14 In ogni caso (come tu dici)
sono stato attento a non rivendicare alcun tipo
di risultato statistico nell’esposizione dei dati,
tuttavia ritenevo che sarebbe stato possibile 14 Claire Monk, Heritage Film Audiences: Period Films and Contemporary Audiences in the UK (Edinburgh: Edinburgh University Press, 2011).
31
usare quelle informazioni per sviluppare uno
strumento per valutare i punti di vista dello
spettatore (e del non-spettatore) in modo più
preciso e rappresentativo, punti di vita che
sarebbero potuti divenire in seguito oggetto di
studio statistico. In altre parole il mio lavoro
può fungere da progetto ‘pilot’. Dato questo
punto, non posso dire di simpatizzare con la tua
obiezione rispetto all’uso dei diagrammi, mi
pare più una obiezione estetica piuttosto che
metodologica. Rimane la questione rispetto al
‘peso’ che ho dato al materiale nei
questionari—in particolar modo per quanto
riguarda il materiale negativo rispetto ai film.
Questo materiale mi è stato utile specialmente
per registrare il tipo di discorsi che capita di
sentire ogni volta in cui si porta avanti una
conversazione sui cinepanettoni e sul loro
pubblico. Il materiale riportato rappresenta la
presunzione e il pregiudizio che pare essere
32
dilagante tra i gruppi di cui ho discusso
nell’introduzione al capitolo dei questionari:
quelli con pretese culturali, di sinistra,
eccetera.
Questo tema si potrebbe esprimere attraverso il
concetto di capitale culturale.
È infatti nei termini dei processi di
‘distinzione’, che conosciamo attraverso
Bourdieu, che ho discusso le rappresentazioni
satiriche dei cinepanettoni nel film Boris o in
altri esempi. La satira deve essere essa stessa
oggetto di critica se assume una funzione
reazionaria o ipocrita. La cosa importante in
questa discussione è lo status culturale di Boris
(serie e film) e quello dei cinepanettoni. Il
gusto minoritario per Boris ha a che fare con
l’esposizione di un maggiore discernimento
politico e estetico, tuttavia molto
dell’umorismo in Boris è volgare, basso e
misogino come qualunque elemento in
33
Christmas in Love o in Natale a Beverly Hills. Mi
riservo pertanto il diritto di stabilire che la
satira ai cinepanettoni in Boris è debole: è
debole perché lascia intatti una serie di
pregiudizi culturali e perché funziona in modo
di permettere al pubblico di Boris di distinguersi
dal pubblico arretrato dalle mini-serie
sentimentali della tv (a loro volta parodiate nel
film), dalle commedie natalizie e così via.
Sembra che la satira in Boris sia auto-
consolatoria e una ricetta per la compiacenza
(critica, a sua volta, spesso indirizzata ai
cinepanettoni).
A proposito delle tue preoccupazioni in
merito allo ‘spettatore tipico’, certo si
potrebbe obbiettare l’uso che ho fatto nel
questionario di una ‘leading question’ che può
incoraggiare e portare a ottenere la risposta
che cercavo. (Io chiedo: ‘C’è uno spettatore
tipico per i cinepanettoni? Se la risposta è “Sì”,
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si prega di scrivere una descrizione dello
spettatore tipico.’) Questa era una ‘trappola’ in
cui sono inciampati solo metà degli intervistati
(l’altra metà ha detto che non c’era nessuno
spettatore tipico), ma molti di quelli che lo
hanno fatto hanno rivelato un estremo
bigottismo culturale. E la regolarità con cui lo
‘spettatore tipico’ era di sesso maschile e
presumibilmente di destra, è certamente
significante. Molte delle persone che hanno
risposto, mi pare, stavano rivelando i loro stessi
pregiudizi, e mostrando i meccanismi della
distinzione del capitale culturale. Se mostrare
questo mi rende colpevole di paternalismo
brunettiano, che così sia.
Non so quanto sia accurata l’assunzione
che la maggior parte del pubblico dei
cinepanettoni sua illetterata
cinematograficamente (dire che lo spettatore
non è un ‘cinefilo’ non corrisponde a dire che a
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lui/lei manchino le basi di conoscenza delle
convenzioni filmiche), e non posso dire quanto
sia accurata l’idea degli stessi filmmakers
rispetto al loro stesso target demografico, ma è
un errore prendere la mia caratterizzazione
dello spettatore al di fuori del contesto del
libro, che è strutturato come una
giustapposizione di prospettive (nuovamente, il
fatto che le citazioni che tu utilizzi per
criticarmi sono prese dal mio libro evidenzia
ciò). Tuttavia, come ho spiegato sopra, anche
se sono l’autore del libro non ho nessuna
pretesa di aspirare a un’oggettività
disinteressata, o di mostrare una autorità
suprema. Come ho detto all’inizio della nostra
conversazione, sono schierato: scrivo a nome di
coloro a cui piacciono i cinepanettoni; sto
cercando di rompere un pregiudizio comune
(attorno ai film e al loro pubblico) occupando
una posizione estrema, e dimostrando che tale
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posizione può essere occupata. Sono un ‘aca-
fan’15 dei cinepanettoni—e me ne vanto!
LP: Due cose veloci sulla tua risposta poi
passiamo ad altro. Naturalmente non ti ho
accusato di paternalismo brunettiano, che è una
tua definizione che non condivido. (Ti ho fatto
notare solo come mi pare che tu condanni un
certo atteggiamento, imputandolo a Brunetta e
altri, ma poi tu non ne sia necessariamente del
tutto esente). E soprattutto, ma è una lunga
discussione per un altro contesto, ho qualche
difficoltà con l’idea che si possano fare
interviste andando alla ricerca di determinate
risposte, o come dici tu ponendo delle trappole.
Nel libro citi Brunetta che dice che il
cinema di Vanzina, Parenti e Oldini (cioè, i
cinepanettoni e dintorni) possano ‘diventare
15 Crasi che unisce ‘academic’ e ‘fan’, usata soprattutto nell’ambito academico americano.
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l’emblema più significativo di un decennio [gli
anni Ottanta] caratterizzato, almeno nelle
immagini vincenti, da un bisogno di ridere, da
una rinuncia a pensare, da una celebrazione
dell’apparire, dal cinismo e dal rampantismo,
dall’abbassamento sensibile del quoziente di
intelligenza comica, dalla convinzione della
perfetta permeabilità tra cinema e televisione’
(citato a p. 47). Metti in evidenza come
Brunetta abbia una bassa opinione sia dei film
che del pubblico che li guarda, ed in generale
sembri interessato a segnalare che nella cultura
italiana ci sia una visione degli anni Ottanta
come disprezzati e una preponderanza
dell’assioma anni Ottanta=nascita
berlusconismo. Non c’è però il tentativo di
proporre una visione alternativa di questo
decennio, di spiegare cioè quale immagini ‘alte’
abbiano invece caratterizzato gli anni Ottanta,
o discutere le immagini ‘perdenti’. La tua
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strategia mi pare volta a evidenziare i
(presunti) limiti di alcuni punti di vista, come
quello di Brunetta, ma non di spiegare perché
negli anni Ottanta abbiamo avuto successo
determinate ‘forme culturali che si dimostrano
compatibili e accomodanti’ (p. 50) e non altre.
Insomma, e qui torno all’oggetto iniziale del
contendere, mi pare che una volta che hai
smontato, convincentemente, l’idea del cinema
come ‘mirror image’ della società italiana, e hai
quindi condotto con onore e gloria una certa
battaglia all’interno degli Italian Cinema
Studies, non cerchi però poi di discutere
criticamente il ruolo dei cinepanettoni
all’interno della società. Il rischio di una lettura
del genere è dunque che questi film diventino
dei piccoli mondi a sé che fluttuano nelle sale
italiane senza dialogare con il resto.
AOL: Nel 1953 l’artista americano Robert
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Rauschenberg comprò un dipinto dell’abstract
expressionist William de Kooning—e lo cancellò
(Rauschenberg poi ne esibì il risultato). Il gesto
rappresentò una necessaria ‘compensazione del
terreno’ che permise di sostituire un approccio
più cool (che poi sarebbe divenuta la Pop Art)
per l’atteggiarsi macho dei pittori
espressionisti. La mia attitudine aggressiva
rispetto ai discorsi standard attorno agli anni
ottanta e al cinema popolare italiano ambisce a
un risultato similare. Non fornisco una visione
alternativa degli anni ottanta, comunque spero
che quantomeno il terreno possa ora essere
stato ripulito per nuovi approcci; spero di aver
aiutato a rendere i vecchi discorsi non più
sostenibili. Il mio libro voleva essere distruttivo,
e ho scelto deliberatamente di mantenerlo
corto. Questo vuol dire che molti punti
interessanti sono rimasti fuori—l’analisi della
pubblicità, il ruolo dei film all’interno della
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società, e molte altre cose—ma, come pamphlet
esteso, esso assolve al suo lavoro polemico, e si
prefigge di indicare la strada per altri studi
futuri.
Alan O’Leary <[email protected]>
Luca Peretti <[email protected]>
Novembre 2014