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Il Serale Settimanale quotidiano 05 novembre 2012 numero 20 Il cantiere delle morti bianche I caduti sul lavoro non sono solo numeri

Il cantiere delle morti bianche

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I caduti sul lavoro non sono solo numeri

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Il SeraleSettimanale quotidiano

05 novembre 2012numero 20

Il cantiere delle morti biancheI caduti sul lavoro non sono solo numeri

I morti ammassati

«Non chiamatele "mortibianche", per favore».

L’appello giunge periodicamentee con puntualità.

A giugno scorso, un’inchiestade L’Espresso portava alla luce ladiscrepanza tra i dati Inail e quelliforniti dall’Osservatorio di Bolo-gna. La differenza è elementare: iprimi tengono il conto dei soli as-sicurati, i secondi no. Si può cosìampliare lo spettro delle categoriedi esseri umani che rientranonella definizione di “mortebianca”: lavoratori in nero, pen-dolari, militari, pensionatiecc...Ognuna di queste categoriaviene “esclusa” a seconda di criteridifferenti: chi è senza contrattonon esiste per il lavoro, chi serve

di Filippo Desabato

la patria per i media è un eroe manon un lavoratore, chi muore inore non lavorative, chi ha finito dilavorare ma continua per neces-sità. In tutti i casi si tratta di de-clinare in modo diverso unaparola soltanto, modificandone iconfini. Viene allora da chiedersiquali siano i limiti di una defini-zione parziale che pretende di as-sociare un colore a una scala dizone grigie, che fa dei dati un pro-prio segno distintivo.

Ricapitolare i numeri del pro-blema non è una cura omeopatica,anzi aiuta a farlo sembrare un am-masso di nomi che di mestiere faimpressione. Le morti bianche in-vece vivono in un habitat vero, unecosistema diventato cantiere.

L’etichetta non dice nulla“Morte bianca” è un’etichetta strumentalizzata, utilizzatasecondo criteri variabili. È la mappa bucata di un mondo

che non è possibile stigmatizzare

Una definizione recinta unconcetto ed è allo stesso

tempo una riduzione comunica-tiva, una scorciatoia. Ma quandoil significato da imbrigliare ètroppo più ampio di quel che sipensa, le briglie diventano ca-tene di comodo e modificano illinguaggio con cui le si descrive.

«La dicotomia tra vita e lavoroall’Ilva di Taranto ha prodottouna nuova pagina nera: un ope-raio di 29 anni, Claudio Marsella,di Oria (Brindisi), è mortoschiacciato da un locomotore du-rante le operazioni di agganciodella motrice ai vagoni. È statosoccorso da alcuni colleghi ma lelesioni riportate al torace eranotroppo gravi ed è morto in ospe-dale». (La Stampa, 30 ottobre)

«“La cava era il “suo” posto”.Forse, se avesse potuto scegliereun posto dove andarsene, Ga-briele avrebbe scelto proprioquello. La cava di papà, ma anchequella in cui andava a derapare

con la sua Ktm, la moto che erala sua passione. Quella che riem-piva le sue giornate divise tra illavoro (aveva mollato l’annoscorso un istituto professionale),le corse sulla provinciale e le se-rate con gli amici». (Repubblica,1 novembre)

Queste sono la penultima el’ultima delle cosiddette “mortibianche”, persone che muoionosul lavoro. Le notizie riportatesono le elegie di Claudio Mar-sella, morto all’Ilva di Taranto, edi Gabriele Fazzari, morto a Toi-rano in Liguria. I toni lasciano

spazio alla retorica e agli orpellistilistici e il linguaggio si insinuanella definizione con agilità,quasi naturalmente: questo tipodi morte va trattato e raccontatocosì. Di per sé il concetto che sta

di Lorenzo Ligas

Claudio Marsella e Gabriele Fazzari,rispettivamente da Taranto e Toirano, sono gli

ultimi iscritti all’albo dei decessi sul lavoro

dietro alla “morte bianca” è sem-plice: morire mentre si lavora.Quello che sta dietro alla parola“lavoro” invece si presenta fintroppo vasto ed è proprio il so-

praccitato articolodella Stampa chefornisce la chiave dilettura di questacomplessità: il la-voro è strettamentelegato alla vita.

Così definirecome “mortebianca” solo lamorte che riguarda

lavoratori regolari, preferibil-mente giovani e operai, ha por-tato con sé la stereotipizzazionemediatica di un identikit falso euna divisione in compartimentistagni basata sull’orario lavora-tivo. Ma allora si dovrebbe par-lare di una morte “sull’impiego”,non “sul lavoro” e anche esclu-dere, per assurdo, anche gli ope-rai in cantiere durante la pausapranzo. Perché non includerenella lista anche i pensionati cheancora lavorano per necessità, oi pendolari che lasciano le pennementre prendono il treno ol’auto, o i militari morti in Af-ghanistan, o chi è stato assuntoin nero?

Queste categorie, poste senzamotivo fuori dalla definizione,trovano consequenzialmente untrattamento linguistico diverso.

«Un uomo di 83 anni di Fa-

sano, Giuseppe Petruzzi, è mortonel primo pomeriggio di oggi inseguito alla caduta dal suo trat-tore in contrada Cerasina a Fa-sano. Il pensionato, notoproprietario terriero, pare siamorto sul colpo. Forse a determi-nare la caduta è stato un improv-viso malore. Il corpo senza vitadell’uomo è stato trovato da al-cuni passanti che alla vista dellatragedia non hanno esitato achiamare i soccorsi». La fred-dezza della notizia, di tre giornifa, è pari alla sua imprecisione:Giuseppe Petruzzi è morto in-fatti schiacciato dal ribaltamentodel suo trattore. Stessa sorte, dueanni fa, per Onofrio Pugliari,67enne di Vibo Valentia, anch’e-gli pensionato, oppure per Augu-sto Tomaino, agricoltore morto a63 anni cadendo da un albero disua proprietà.

La morte da “bianca” diventa

per prassi “tricolore” quando levittime sono invece militari. Ti-ziano Chierotti è l’ultimo ra-gazzo ucciso in Afghanistan eancora si ricordano i campi dicalcio listati a lutto la domenica.

«Nell’assalto contro una pattu-glia mista di militari italiani e af-ghani nella provincia di Farah èmorto un alpino di 24 anni, il ca-

La “morte bianca”riguarda solo ilavoratoriregolari. Per glialtri la prassimediatica èdiversa

L’uso della definizione ha stereotipato un iden-tikit falso e una divisione in compartimenti sta-

gni basata sull’orario lavorativo

porale Tiziano Chierotti. Tresuoi compagni sono rimasti fe-riti. Non sono in pericolo di vita.Morto anche un soldato afganoche partecipava all’operazione». Il linguaggio dei media, ac-

compagnato dai minuti di silen-zio in tutta Italia, spostano ilcampo dal lavoro alla passionepatriottica. Pur trattandosi di unimpiego che dal 2004 ha fatto 52morti, viene sottratto immedia-tamente al pericoloso e impul-sivo recinto della “morte bianca”;morire lavorando in Afghanistanimpone che le istituzioni «si rac-colgano intorno alle forze armateitaliane, confermando il pienosostegno al loro impegno nellearee di crisi ed in particolare al-

l’opera encomiabile che prestanoal servizio del nostro Paese». “Morte bianca” è una defini-

zione ed è una comodità, ma,quando ci sono ragioni politicheche s’impongono sulla notizia,allora i media sono costretti a ri-nunciarvi e un incidente in autodurante il turno lavorativo nonrientra più nella definizione. Seinfatti il caporale Chierotti èstato vittima di un’azione diguerra, gli altri tre caporali, de-ceduti a febbraio a causa del ri-baltamento del mezzo sul qualeviaggiavano, non erano coinvoltiin nessuno scontro a fuoco. «Tremilitari italiani sono morti que-sta mattina in un incidente stra-dale avvenuto nell'area diShindad, nella parte occidentaledell'Afghanistan. Tutti e tre i sol-dati appartenevano al 66esimo

Il linguaggio dei media distingue unimpiego da un altro come se moriresul lavoro fosse un concettovariabile a seconda della mansione

I giornali non riportano enfasi né retorica neltrattare i decessi dei militari in Afghanistan.

Così come non ne utilizzano per altre categorie

reggimento aeromobile "Trieste"di stanza a Forlì. Un quarto sol-dato è rimasto ferito, ed è ricove-rato nell'ospedale militare dacampo di Shindand in ipotermia.

Non sarebbe in peri-colo di vita». L’asetticità tira le

fila della notizia,l’appello di Napoli-tano alle istituzionimigra nell’occhielloe si trasforma insemplice cordoglio,ma rimane lì per di-stinguere questo im-

piego dagli altri. Infine i lavoratori in nero.

Quando a morire è uno di loro,la tecnica è la stessa: freddezzasulla notizia e informazioni man-canti: «Un operaio è morto sta-mattina a Catania in unincidente sul lavoro. La vittima,Orazio Savoca, 26 anni, è preci-pitata dall'impalcatura sullaquale stava lavorando ed è rima-sta uccisa nell'impatto al suolo».Bisogna affidarsi a CtZen per ca-pire chi davvero sia Orazio Sa-voca: «Orazio Savoca, 26 anni, èmorto questa mattina a San Cri-stoforo, precipitando dall’impal-catura fatiscente di un cantiereedile. Lavorava in nero, dal 2006non riceveva un regolare paga-mento alla Cassa edile. Una vi-cenda gravissima per i sindacatidi categoria Fillea Cgil Filca Cisle Feneal Uil, che affermano:

“Questo non è lavoro ma omici-dio”». I buchi sono troppi e la map-

patura della “morte bianca”, cosìcome viene fornita dall’Inail,non ha senso perché troppo in-completa.Il lavoro è un concetto vago

stretto in una tenaglia. Lo con-ferma Michele Sasso che per l’E-spresso scrive: «Ad agosto inItalia si è registrato il picco dellevittime. E anche il dato comples-sivo dall'inizio dell'anno segnaun più 3,2 per cento. La causa?La crisi, che accresce i carichi dilavoro e spinge a tagliare sulla si-curezza». Se i carichi di lavoro si spo-

stano da dove sono abitualmentelocalizzati allora le “morti bian-che” non sono più rintracciabili,non sono più classificabili. Difatto non esistono.

L’etichettaesclude le zonegrigie del lavoroche si preferisceignorare: adesempio ilavoratori in nero

Così Michele Sasso dell’Espresso: «La crisi, cheaccresce i carichi di lavoro e spinge a tagliare

sulla sicurezza»

Local crew

In principio fu Samuele Ber-sani. In villa, nell’estate del

1997. Una telefonata da un miocugino. All’epoca ignoravocome funzionasse il caporalatodi piccolo cabotaggio. Avevoventuno anni e scelto di iscri-vermi alla facoltà di Lettere.

Dovevo pagarmi glistudi. Mi chiesero dispostare qualchebaule e di portare unpaio di amici. 50milalire al giorno. Nes-suna competenza

specifica. «Non è un lavorocomplicato», mi dissero. Unacosa facile facile. E, in effetti, ilpalco che contribuimmo ad al-lestire era poco più di un tavo-laccio con la strumentazione abordo. Qualche giorno dopo erogià entrato nel giro. Gli amici da

portare erano diventati una de-cina. A Lucera, al concerto deiPooh, cominciammo a realiz-zare. Ci impiegarono al “ferro”,che in gergo è la struttura por-tante, la base del palco vero eproprio. Poi giunsero i tir, i “bi-lici”. Non ricordo più quanti. Larampa al suolo. Due ragazzi abordo, lo stivatore – che di so-lito è anche l’autista del camion– ai margini, a dirigere le ope-razioni, a indicare le casse chehanno la priorità, altri ragazzi ailati della rampa e sotto, a racco-gliere e dirottare verso il palcoil carico del tir. Un supervisoree qualche collaboratore, sempred’area tecnica, ad ammassarebauli nelle varie zone del palco.A montare le lunghe teorie dialluminio che faranno da sche-letro, che “ospiteranno” le luci.

I palchi imponenti sono il guscio accattivante di eventimusicali spesso mediocri. Ma dietro la roboante morte diMatteo Armellini vive un mondo più silenzioso di Francesco Berlingeri

«Avevo ventun anni. Michiesero di spostarequalche baule e portareun paio di amici»

La “americana” si tira su queltanto che basta. Poi il tecnico in-dica i bauli e tira fuori i pezzi:fari par, teste mobili, spot, wash.I facchini – quel che siamo,

nonostante l’inglese addolciscain Local Crew la mansione – se-guono i tecnici per l’intera mat-tinata. C’è chi srotola cavi, chiassembla e fa salire le casse sulletorrette laterali, chi avvita bul-loni e stringe sicure attorno alleluci, chi monta l’area del mixer“di sala” e chi quella “di palco”.Non è ancora il momento deglistrumenti. Si suda e si fumatanto. I vecchi del paese si fer-mano a guardare, fanno do-mande, confabulano. Mentre ilperimetro di un concerto dipiazza diviene un piccolo bazardi formiche all’opera. A pranzoun panino, forse due. O quel chepassa il convento. Può capitareche ti portino al ristorante, inpizzeria o che resti a mangiarecucinato nei dintorni. Dipende

dall’organizzazione. I tour,quelli a pagamento, sono unacosa. Ma le serate di piazzahanno Comitati Organizzatoriche seguono regole loro, ed ognivolta la sorpresa è dietro l’an-golo. Quella volta a Lucera ci li-cenziarono senza troppi

convenevoli. Ci dissero di farcirivedere per le quattro. Tor-nammo a casa, con inevitabilispese di benzina e di pasto, dadetrarre alla paga. Che sempredi 50mila lire rimaneva. Un ac-cordo preventivo, che vincola ifacchini al proprio intermedia-

Local Crew è il termine inglese che abbellisce l’essenza dellavoro: facchini che trasportano bauli, svuotano tir e blilci e

poi seguono i tecnici per montare il palco

«Ogni volta la sorpresa è dietro l’angolo:quella volta a Lucera ci licenziarono senzatroppi convenevoli. Ci dissero di farcirivedere per le quattro»

rio. Sugli accordi tra interme-diari e su quelli tra intermediarie boss di vario grado, non c’è ve-rità storica. Si ragiona su tutto:gli spostamenti, la benzina, ledocce, la cena. E l’impressione,maturata sin da subito, è cheogni passaggio sprema ulterior-

mente il limone del guadagno.Per noi non cambia – non devecambiare – niente. La paga pat-tuita va accettata, senza troppedomande. E nell’ordine di ideeche quando squilla il telefono,sia qualcuno che ti propone unadata. Così cambi scenario e con-

testo una volta ogni due o tregiorni. Ti muovi. Da Oria aTrani, da Bisceglie a Monopoli aMottola. E ogni volta adatti losforzo a una location diversa.Una piazza in salita, un lido, unclub privato col giardino, uncampo sportivo. A volte le datele conosci con largo anticipo,altre volte lo squillo ti butta giùdal letto. E la richiesta è semprela stessa: bisogna allestire unasquadra. È una specie di pira-mide virtuale, dove ogni pixeldipende dal pixel che sta un gra-dino più sopra. E quanti più gra-dini ci sono, tanto meno sarà ilbeneficio di quelli che stannosotto, alla base. La mentalità delcaporale, in questo lavoro dovela concorrenza delle altre “squa-dre” è un getto di calore acidosul collo, è una biscia tentatrice,dalla sommità fino al cuore delfacchinaggio. E si sposa con uncrumiraggio latente. Chi orga-nizza le squadre, prima o poi,

Lo sforzo adattato ogni volta a una location diversa: unapiazza in salita, un lido, un club privato, un campo. Alcune

volte c’è preavviso, altre volte la chiamata è improvvisa

«Sugli accordi tra intermediari e boss di variogrado non c’è verità storica, si ragiona sututto: gli spostamenti, la benzina, le docce, lacena: ogni passaggio spreme il guadagno»

tende ad appassionarsi al proprioruolo. Ma, di converso, se lesquadre si solidificano, il pro-blema può accasarsi altrove.Perché è vero che non è un la-voro di alta specializzazione, manon è neppure la catena di mon-taggio. E quando un palco va is-sato e buttato giù nel minortempo possibile, perché i bilicidevono tornare in strada, maci-nare chilometri nella notte egiungere in una piazza lontana ilmattino seguente, allora è beneavere delle crew che non sianoproprio alle prime armi, ma chesappiano dove mettere le mani.E quando lavori fianco a fiancoper anni, un po’ – anche solo perinerzia – il “mestiere” lo impari.E giacché scaricare un tir inventi minuti è diverso da farloin cinquanta, arriva sempre ilmomento che la squadra tende avalorizzarsi. E nascono le primefrizioni col caporalato organiz-zato. Ai tempi dei Pooh favoleg-

giavamo di facchini nordici chenelle brume – per il nostrostesso lavoro – percepivano ildoppio di noi. E l’anno seguente– il 1998 del Mondiale di Fran-cia – il nostro impegno – che siconcretizzava in una quindicinadi date – valeva ventimila lire in

più. Non dipendeva da noi, eh.Ma eravamo diventati bravi. Lodicevano tutti. Lo dicevano perfarci lavorare con entusiasmo,certamente, lo dicevano a tuttiprima o poi, ma nondimeno lanostra consapevolezza cresceva.Discutevamo di tutto, sempre.

Dopo un po’ di anni d’esperienza il mestiere, anche perinerzia, si impara. La squadra così ingrana, si migliora e

ambisce a un aumento del compenso

«Scaricare un tir in venti minuti è diverso chefarlo in cinquanta, arriva sempre il momentoche la squadra tende a valorizzarsi. E nasconole prime frizioni col caporalato organizzato»

Dai rimborsi per la benzina alpranzo. E quando, nel settembredel 1999, bloccammo la costru-zione del palco dei Lunapop allostadio della Vittoria di Bari,chiedendo un aumento di ulte-riori 30mila lire per quell’im-pianto che ci sembrava

mastodontico, la corda si spezzò.Percepimmo l’intera giornata la-vorativa e ci staccarono al volo.I tempi erano maturi per unanuova squadra, da far crescerecon le molliche, a pane e acqua.All’inizio sarebbero stati lenti eimpacciati, come noi, come

tutti. Ma presto avrebbero impa-rato. E avrebbero cominciato aguardarsi attorno. Ma il princi-pio dominante, che poi è il prin-cipio cardine dello sfruttamentoa ben vedere, resta evidente:qualsiasi cosa tu faccia, c’è sem-pre qualcuno che può farlo permeno. E così non resta che ac-cettare. Accettare di spingerebauli, e magari arrampicarsisulle torrette, o accettare di ri-manere a casa. Non pensavoavrei mai più fatto quel lavoro.Eppure. Nel 2008 ho ripreso. Lapaga è di 70 euro al giorno,adesso. O di 7 euro all’ora, per ipalchi maggiori. I miei compa-gni, negli anni in cui non c’ero,hanno lavorato per Ligabue eper Vasco Rossi. (E io che rite-nevo mastodontico il palchettodei Lunapop!). Palchi da quattrogiorni di montaggio, coi ritmisfalsati e i turni serrati. Impiantida dieci giorni di lavoro. Daiplaywood al suolo – per permet-

«Nel 2008 ho ripreso. La paga è di 70 euro al giorno, o di 7euro all’ora per i palchi maggiori. Mentre non c’ero i mieicompagni hanno montato palchi da dieci giorni di lavoro»

«Quando, nel settembre del 1999 bloccammola costruzione del palco dei Lunapop allostadio della Vittoria di Bari per un aumento di30mila lire, ci licenziarono»

tere lo scivolamento dei bauli –all’anima di ferro, dall’allesti-mento alla strumentazione, allesedie, al catering, fino allosmontaggio. Un mese per il PopMart Tour degli U2 al Campo-volo di Reggio Emilia. Centinaiadi facchini come in un formi-caio. Per due ore di spettacolo.Una tendenza che, un tempo,veniva vissuta come frivolezzada stars. I Pink Floyd, gli Oasis.Quasi con leggerezza, comeun’esperienza da raccontare.Poi, un paio d’anni fa, al Fossatodel castello di Barletta, accettaidi far parte della squadra per ilconcerto di Laura Pausini.Quella di «Marco se n’è andato enon ritorna più». Certo, pezzoda novanta nel mercato sudame-ricano, ma pur sempre lei. At-taccai alle quattro delpomeriggio. Il primo tir da sca-ricare giunse passata mezza-notte. Riuscimmo a svuotarnedue, sotto le luci elettriche. L’in-

domani, alle sette, ricomin-ciammo da dove avevamo la-sciato. Teloni neri, schermi alled, insulsi elementi scenogra-fici, scalinate ornamentali. Ilbackline, gli strumenti veri epropri. Tre giorni, col caschettoin mano e l’incubo dell’Ispetto-

rato del lavoro. La tendenza. Ladimensione-spettacolo, il con-cetto dell’evento, hanno modifi-cato alla radice il rapporto tra ilpubblico pagante e l’artista. Nonpiù la musica a fare da collante.Lo spettatore dev’essere rapito,trascinato in un mondo di effetti

La dimensione-spettacolo, il concetto dell’evento, hannomodificato alla radice il rapporto tra il pubblico pagante e

l’artista.

«Ma il principio dominante, che poi è ilprincipio cardine dello sfruttamento a benvedere, resta evidente: qualsiasi cosa tu faccia,c’è sempre qualcuno che può farlo per meno»

e comparse, spesso del tuttoavulso dal concerto stesso. Lacompetizione a suon di palchiciclopici per mascherare la po-chezza dell’offerta musicale. DaElisa a Tiziano Ferro, non c’ènessun cantante di mezza tacca– oggi in Italia – che non s’av-valga di strutture di primo li-vello. Enormi e vuote. Dal puntodi vista di chi ai palchi ci lavora,si dice: «Bene, più grandi sono,più lavoriamo». Ma anche qui lacompetizione è diventata spa-smodica. Rumeni, albanesi,ucraini, a far la guerra sottocostoad altrettante squadre italiane aloro volta impegnate nel garan-tirsi, sottocosto, la garanzia diquante più date possibili. Unadivisione zonale che rispondeappieno ai desideri – mancotanto reconditi – dei responsa-bili intermedi e degli organizza-tori d’eventi. Palchi sempre piùcomplessi da montare, nella loroapparente semplicità. Una garaall’apparire che frantuma qual-siasi fermento di qualità. L’im-portante è accumulare ore,strappare la permanenza e farepoche storie. Ad agosto, smaltitele grosse produzioni, ci sarannole piazze di paese, dai ritmi piùblandi. Che sembrano quasi va-canze retribuite. Francesco eMatteo sono morti a vent’anniper questo concorso di cause. In-seguendo il proprio bisogno dimettere da parte qualcosa in un

mondo dove prevale la fretta e silavora accettando orari dilatati econdizioni salariali e di sicu-rezza assai precari. Il seguito èsempre lo stesso: il lavoro è que-sto, se non ti sta bene, vai a casa.La loro morte è servita a fingeresgomento. Adesso ci sono le vi-site mediche e i turni da ottoore. Ma l’attenzione è destinataa scemare. E chi, per bisogno, sitroverà di nuovo tra bauli e

americane, ben presto dovrà tor-nare ad attendere dei tir in pienanotte, dopo otto ore di lavoro giàassolte. E magari a chiedere dilavorare di più, maledicendo amezza bocca tutta questa buro-crazia di facciata.

«Il lavoro è questo, se non ti sta bene, vai acasa. La morte di Matteo e Francesco è servitaa fingere sgomento: ci sono visite e i turni da 8

ore. Ma l’attenzione è destinata a scemare»

Insicurezza sul lavoroIl Testo Unico è diventato un gioco

Perché, a più di quattro anni dalla firma del quadro normativoche avrebbe dovuto arrestare il fenomeno delle “morti bianche”,

quattro lavoratori al giorno non tornano a casa?

Ieri notte, tornando a casa, mi è capitato didare un passaggio a un vecchio amico. L’hotrovato che camminava a passo svelto, e un po’infreddolito, per la salita d’ingresso del nostropaese, probabilmente cercando di rispondere ilpiù presto possibile al richiamo del letto, giuntoqualche mezz’ora prima. Un pezzetto di stradainsieme, quattro chiacchiere, la fermata,obbligatoria, per comprare le sigarette, eognuno di nuovo per la sua strada fino alprossimo incontro. Un incontro come un altro,a conclusione di una serata come un’altra. Maun incontro che ha seriamente rischiato di nonpotere mai avvenire. Qualche anno prima quel ragazzo si trovava

arrampicato su un palo del telefono. Era il suolavoro: quella mattina, come tante altre, dovevacontrollare che una linea funzionasse. Leprotezioni le aveva. Era saldamente ancorato aquel palo. Ma nessuno si era preventivamenteassicurato che la struttura fosse solida. E a uncerto punto è crollata, portandosi dietro il mioamico. A salvarlo ci ha pensato unprovvidenziale muretto, cha ha impedito che ilpalo si schiantasse a terra, sul suo corpo. Nonne è uscito propriamente indenne. Ci sono stateoperazioni alla spina dorsale, ospedali,riabilitazione, cause legali, indennizzi eingiustizie, ma posso ancora avere la fortuna diincontrarlo davanti a una birra, per lamentarciinsieme di quanto sia piatta e noiosa la vita dipaese. A lui, come si suole dire in questi casi,«è andata bene». Ma se guardiamo gli ultimi dati

dell’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro di VegaEngineering, sono già 392 i casi di infortuniomortale avvenuti in Italia dall’inizio del 2012.A differenza dei dati Inail, che si basasolamente sui propri assicurati, questo

di Marta Cioncoloni

osservatorio istituito nel 2009 prende inconsiderazione tutti i casi avvenuti durantel’esercizio di un’attività lavorativa, senzadistinzione tra assicurati e non assicurati,subordinati e datori di lavoro, regolari oirregolari, e comprendono, inoltre, tutti ilavoratori in agricoltura non assicurati Inail. E’importante questa puntualizzazione, perchéconsiderando solo l’ultimo rapporto Inail lasituazione italiana potrebbe apparire miglioratarispetto agli anni passati, quando in realtà non ècosì. La caduta dall’alto è la causa principale dimorte registrata dall’Osservatorio, seguita dalloschiacciamento per caduta di oggetti pesanti edal ribaltamento di un veicolo o di un mezzo inmovimento. Alti anche i casi di morte dovuta acause elettriche, dirette e indirette, e, ancorapiù agghiacciante, per seppellimento osprofondamento. Contrariamente a come sipensa, non è quello delle costruzioni il settorepiù a rischio, bensì l’agricoltura, a cui sonoattribuibili il 37,4% dei casi di morti bianche ditutto il paese. Gettando un rapido sguardoindietro, nel 2010 i casi di infortuni fatali sullavoro, secondo l’Osservatorio indipendente diBologna, sono stati 1080, e nel 2011 sonoarrivati a 1170. Questi numeri, questepercentuali, sono la testimonianza palese chec’è qualcosa di sbagliato nel sistema diprevenzione per la sicurezza e nel meccanismonormativo. Non si può vestire di fatalismo ilfatto che ogni giorno 3 o 4 persone sul posto dilavora ci lasciano la vita.

Le norme vigenti in materia di prevenzione esicurezza fanno riferimento al Testo Unico perla Sicurezza sul Lavoro, Dlgs 81/08, la cui storiainizia con la firma del 9 Aprile del 2008. Sitrattava di una legge piuttosto innovativa cheintroduceva, tra le altre cose, sanzioni e pene

più elevate è maggiore formazione per irappresentanti dei lavoratori per la sicurezza,rispetto al quadro normativo precedente. Ilproblema è che per la piena attuazioneavrebbero dovuto essere emanati ben 38 decretiattuativi, missione praticamente impossibileper un governo Prodi allora ormaidimissionario. Impugnato dal successivogoverno Berlusconi, il Testo è stato modificato,con un decreto correttivo di 149 articoli, il Dlgs106 del 3 Agosto 2009, che ne ha praticamenteannullato la potenziale azione incisiva e dicontrollo. Molte sanzioni ai datori di lavorosono state dimezzate, sono state introdotteproroghe a 90 giorni per fare la valutazione deirischi, molte categorie di dirigenti sono statepreposte e, in alcuni casi, si è sostituito l’arrestocon l’ammenda. Pensiamo un attimo a unlavoro a tempo determinato, magari di due otre mesi: è chiaro che sia rischioso il fatto chepossano passare 90 giorni dall’inizio delleattività alla consegna della valutazione suirischi. C’è poi il punto più controverso, la cosìdetta legge “salvamanager”, che mette al riparoi vertici di tutte le aziende dalla responsabilitàsu tutti gli infortuni sul lavoro. Per fare unesempio pratico, se un luogo di lavoro è privodi estintori e scoppia un incendio, laresponsabilità della negligenza non sfioranemmeno chi gestisce i budget e ha quindi ilpotere di comprarli, ma ricade a livello piùbasso, come potrebbe essere il responsabiledello stabilimento specifico.Fondamentalmente un capro espiatorio, il cuipotere sarà sempre e comunque schiacciato daqualcuno più in alto. Che il Dlgs 106/09 non siapropriamente incisivo rispetto alle finalità chedovrebbe raggiungere, se ne è accorta anchel’Unione Europea a seguito di una denunciaeffettuata da Marco Bazzoni, un operaio

metalmeccanico e rappresentante dei lavoratoriper la sicurezza, insieme all’ingegnere MarcoSpezia. Il 30 Settembre 2011 viene recapitata algoverno italiano la lettera di messa in mora perla presunta violazione della direttiva UE89/391, che tratta di sicurezza e salute sul luogodi lavoro. Sotto accusa, oltre alla salvamanager,altri cinque punti del Testo Unico e unultimatum di quindici giorni per convincere ivertici comunitari di avere preso unbell’abbaglio. Lorenzo Fantini, l’alloraresponsabile della direzione generale dellerelazioni industriali e dei rapporti del Ministerodel Lavoro, in un’intervista pubblicata sul sitoInail rispose che si trattava di «un insieme dicensure fondate su un presupposto sbagliato:ritenere che le parti della legge siano volte aderesponsabilizzare il datore di lavoro» e che sitrattasse di «censure di dettaglio che, a livellogenerale, si correlano con questa impostazioneerronea». Niente da fare. L’italia è colpevole. Lenormative comunitarie non sono ancora stateancora recepite. L’attuale Ministro del Lavoro,Elsa Fornero, è tornata a parlare del TestoUnico, quello del 2008, proprio nei giorniscorsi, dichiarando che i lavori sui famosidecreti attuativi rimasti in sospeso sono «inavanzato stato di definizione: l’impegno ècompletare tutto entro la fine dell’anno». Intanto in Francia la sicurezza sul lavoro è

già anni che viene insegnata a scuola. Da noi sicontinuano a contare le vittime di un sistemache ha fatto dell’illegalità una filosofia di vita eche cerca di nascondere con una mano dibianco le proprie letali crepe strutturali.

Non si vive di soli incidenti

«Preferisco morire di can-cro lavorando, piuttosto

che di fame per mancanza di la-voro».

Taranto. I microfoni sparsi agodere dell’eco della protestadegli operai all’Ilva, raccolgonouna frase che mette a tutti gli ef-fetti una lapide sulla dignitàdell’essere umano. Non si trattapiù di capire se il lavoro nobilitio meno l’uomo, ormai il dado ètratto: il lavoratore si è toltodallo storico compromesso, e si è

consegnato nelle mani di un si-stema produttivo che per anni gliha tenuto puntata contro l’armadella disperazione.

Così, seguendo la deviazione,se lo sfruttamento si è ormai pra-

ticamente ridotto a presuppostodel discorso, il rapporto tra con-dizione occupazionale e salutedel lavoratore ne diviene solouna delle possibili storture.Come dire: facciamo si tutte lebattaglie per la sicurezza sulposto di lavoro, ma intanto lavo-riamo, che è la cosa più impor-tante.

Poi arriva, sempre più spesso,l’incidente mortale. E le co-scienze politiche, con la societàcivile, si accoppiano in un’orgia

di bisogno di “nuova legislatura”e di investimenti. Per poi ritro-varsi a dire che «i dati registranoun calo» positivo; ma se aveteavuto la buona idea di leggere glialtri articoli di questo numero,

«I dati segnano un calopositivo».Poi arriva l’incidente

mortale e le coscienze politiche, conla società civile, si accoppiano in

un’orgia di bisogno di “nuovalegislatura” e di investimenti

Le tecnopatie, o malattieprofessionali, sono l’alter ego degliinfortuni sul lavoro: fanno menoclamore, ma gli stessi danni(e morti) per più tempo

di Nicola Chiappinelli

allora dovreste già sapere chenon c’è una vera corrispondenzatra statistiche e grandezza effet-tiva del tragico problema. Nu-meri e morti, oltretutto, fannopace solo in guerra o nelle cata-strofi. E questo vorrà pur direqualcosa.Di qualunque colore siano, in-

somma, le morti sul lavoro esi-stono, e sono tante. Ma ilproblema, per triste paradosso,

va ben oltre il solo tragico eventodella perdita di vite umane. Visono infatti due ambiti più gene-rali di riflessione che circondanola notizia centrale delle “mortibianche”, e che la includono

come un sistema di insiemi im-possibile da scindere.Il primo, più facilmente imma-

ginabile, è costituito da quellavasta gamma di situazioni trau-matiche legate al posto di lavoro.Oltre agli infortuni propria-mente detti, mortali e non, biso-gna infatti considerare anchetutte le conseguenze possibilidell’essere sottoposti per tantianni a determinate situazioni la-vorative, soprattutto quelle incui si ha a che fare con sostanzenocive per l’organismo umano.In questi casi, che la morte ar-

rivi in piena e meritata vecchiaianon può essere certamente rite-nuto consolatorio. Questo per-

ché, proprio come un incidentepuò prolungare i suoi effetti neltempo, così pure l’assorbimentocontinuato di elementi tossici ri-schia di presentare il conto sol-tanto dopo la pensione.

Oltre agli infortuni, mortali enon, si devono considerare tutte leconseguenze dell’essere sottoposti adeterminate condizioni per anni

Il problema delle “mortibianche”, per triste paradosso, vaben oltre il tragico evento della

perdita: esiste una vasta gamma disituazioni traumatiche legate al

posto di lavoro

Lo sanno bene forse a Praia aMare, Cosenza, dove da pochesettimane ha preso il via a pienoregime la fase dibattimentale delprocesso alla Marlane-Marzotto,lo stabilimento tessile rilevatodalla ricca famiglia dei tessuti ve-neta nell’anno del Signore 1987,e chiuso nel 2004 con un bilan-cio di almeno 50 ex operai mortidi tumore, ed altri 60 circa a cuiè stata riscontrata la stessa pato-logia. Ma questo, in realtà, lodeve ancora stabilire ufficial-mente il Tribunale di Paola, sem-pre nel cosentino, dove sonoconfluite diverse inchieste degliultimi anni che hanno fatto fi-nire indagati 13 ex dirigenti etecnici dell’azienda, tra cui Pie-tro Marzotto, capo della dinastia,e Antonio Favrin, vicepresidentevicario della Confindustria delVeneto, oltre al sindaco di Praiaa Mare, Carlo Lomonaco (Pdl). Icapi d’accusa? Omessi controllidi sicurezza, disastro ambientale,

delitto e omicidio colposo.Si, perché nella fabbrica Mar-

lane, poi acquisita dalla Mar-zotto, sin dagli anni ’60 glioperai, per produrre lenzuola etovaglie, lavoravano a strettocontatto con l’amianto che ve-niva sprigionato dai freni dellemacchine, e si diffondeva su tuttigli altri impianti; poi, come senon bastasse, grazie alla segnala-zione di uno dei dipendentimorto mesi fa, i carabinieri delNucleo Operativo Ecologicohanno rinvenuto, seppelliti in 11aree dell’area circostante lo sta-bilimento, vari rifiuti tossici tracui anche il cromo VI, ossia quelcromo esavalente che è causaprima di leucemie e altri tipi ditumori. Secondo la recente depo-sizione del tecnico ambientaledella procura, Emilio Osso, laMarzotto ha potuto mandare iveleni in Campania fino aquando il governo regionale nonne ha vietato l’ingresso conun’ordinanza. Poi sono comin-ciati gli scarichi a Costapisola,frazione fra Scalea e Santa Do-menica Talao. E’ stato qui cheuna notte un blocco di contadiniha fermato uno dei tir con i ri-fiuti, permettendo che l’Asl qual-

A Praia a Mare (CS) è iniziato ilprocesso alla Marlane-Marzotto: lostabilimento chiuso nel 2004 con 50morti di tumore e altri 60 malati

che mese dopo trovasse gli smal-timenti illeciti della fabbrica al-l’interno della discarica.Ma, questione strettamente

giudiziaria a parte, di cui s’è sen-tito parlare comunque moltopoco sui media nazionali, vale lapena riprendere alcuni passidella deposizione del 28 settem-bre scorso di Luigi Pacchiano, exoperaio della fabbrica: nel 1995fu proprio lui, dopo essere stato

operato per un carcinoma allavescica, a presentarsi alla procuradi Paola per denunciare il pattotra lavoro e morte che si stavastringendo alla Marlene-Mar-zotto.

«Non si vedeva a due metri didistanza tanto era il fumo cheveniva sprigionato dalle vasche edai pozzi dove venivano im-merse le lane» - ha detto l’ex di-pendente in aula, rispondendoalle domande del pm RobertaCarotenuto - «Gli aspiratori nonfunzionavano e nell’aria stagna-vano le puzze e le polveri, che sisprigionavano dai telai, pregne diacidi e di amianto». E a chi pro-vasse a lamentarsi delle condi-zioni dannose, il naturale invitoa tacere: «Se il lavoro non vabene, la porta è quella».Nessuna mascherina, niente

guanti, niente tute: si morivacome mosche e i dirigenti,

quando spariva un operaio, dice-vano che si era licenziato. Lo ri-corda tristemente il signorPacchiano, che sviscera i nomi ditutti gli operai lasciati morire colsolo conforto delle proprie fami-

Luigi Pacchiano, ex operaio dellafabbrica, si presentò nel 1995 perdenunciare ciò che accadeva nellafabbrica durante le lavorazioni

«Non si vedeva a due metri didistanza tanto era il fumo che

veniva sprigionato dalle vasche e daipozzi dove venivano immerse le

lane. Gli aspiratori nonfunzionavano»

glie. E le firme di licenziamentofatte fare sul letto di morte, leminacce dai capireparto, le man-cate visite mediche: una strageannunciata. Annunciata dallesue denunce. Ma la fabbrica an-dava, gli operai sapevano fare ilproprio lavoro, e il resto non im-portava.Poi, tra le memorie, quella

breve annotazione che da solavale più di mille accuse: agli ope-rai ogni giorno veniva dato unlitro di latte. Era per disintossi-carsi, dicevano. E loro, ignari, lobevevano come fosse l’acqua diLourdes. Anche di questo ha par-lato Pacchiano. Delle buste dilatte che si distribuivano per di-minuire il pericolo delle malat-tie. Senza alcun risultato.Ma a voler fare altri esempi,

senza cadere nell’appello scola-stico di casi e vittime, si potrebbeanche restare a Taranto, dove neigiorni scorsi la moglie di un exdipendente dell’Ilva originario di

Grottaglie, morto nel 2003 a se-guito di una leucemia acuta mie-loide, ha presentato unadenuncia penale contro i rappre-sentanti legali dell’azienda ipo-tizzando il reato di omicidiocolposo. Nella querela si fa no-tare come all’operaio, deceduto aseguito di ben due trapianti dimidollo osseo, fosse stato ricono-sciuto nel 2001 «il nesso di cau-salità sussistente tra la malattia el’esposizione ad agenti inqui-nanti e sostanze ad azione cance-rogena, fra le quali il benzene».Questo scrisse il consulente

tecnico dell’Inail, Giuseppe Spi-nelli, accertando nel paziente ilcaso di “patologia professionale”.Eccoci arrivati all’altro insieme

del sistema: le tecnopatie. Cosìsono chiamate le malattie profes-sionali, ossia quelle contrattenello svolgimento della propriaattività lavorativa. Secondo i datiInail, in Italia nel 2011 i casi ac-certati (scordatevi cifre sui lavo-ratori “neri”) sono stati 46.558, 4mila in più del 2010, quasi 17mila in più rispetto al 2007. Ilsettore produttivo di maggiorepericolosità resta l’industria con38.101 casi, ma un incremento dirilievo lo fa segnare l’agricoltura,

Pacchiano disse anche che aglioperai ogni giorno veniva dato unlitro di latte. Era per disintossicarsi eridurre il pericolo di malattie

con un + 24,8% annuo.In generale tra 20 tipi di pato-

logie, comprese quelle ancoranon riconosciute dal Ministerodel Lavoro, sono racchiusi il 90%dei casi: malattie osteo-articolarie muscolo tendinee, soprattuttoaffezione dei dischi vertebrali etendiniti, di fatto la patologia piùfrequente; ipoacusia da rumore,o potenziale sordità; malattie re-spiratorie, anch’esse in aumento;

malattie cutanee, invece in co-stante diminuzione; tumori pro-fessionali, ovvero la prima causadi morte per malattia tra i lavo-ratori, e in un’ottica per di piùsottostimata viste le difficoltà di

denuncia e di rilevamento delnesso causale; quindi le malattieprofessionali di natura psichica,che si concentrano soprattuttonell’attività dei servizi e tra i di-pendenti pubblici.

A tale proposito, nonostante ilnumero esiguo di denunce (piùdi 500 l’anno), vanno citati i “di-sturbi dell’adattamento cronico”e i “disturbi post-traumatici dastress lavoro correlato”. Si scrivecosì per la medicina, si leggemobbing per la cronaca. E si ri-torna allora, di rovescio, alla di-gnità psico-fisica del lavoratore.Per il quale, evidentemente, nonsono bastate tutte le riforme chel’hanno espropriato, negli anni,del valore dei propri sforzi, to-gliendo credito al sacrificio.

Ecco perché verrebbe da chie-dersi: ma i suicidi dei disoccu-pati, dei precari, o dei licenziatisono anch’esse morti bianche?Sennò, di che colore sono?

20 tipi di patologie, molti ancoranon riconosciuti dal ministero

Malattie articolari e muscolotendinee, soprattutto affezione dei

dischi vertebrali e tendiniti, di fattola patologia più frequente; ipoacusia

da rumore, o potenziale sordità;malattie respiratorie

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