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Il Cane Di Terracotta - WordPress.com · Ti perfezioni sempre di più nel pompino?». «Salvù, non metterti a garrusiare al solito tuo. Io semmai, e tu lo sai, non travaglio ma faccio

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Andrea CamilleriIl cane di terracotta

© 1996Uno

A stimare da come l'alba stavaappresentandosi, la iurnata s'annunziavacertamente smèusa, fatta cioè ora dibotte di sole incaniato, ora di gelidistizzichii di pioggia, il tutto condito daalzate improvvise di vento. Una diquelle iurnate in cui chi è soggetto albrusco cangiamento di tempo, e nelsangue e nel ciriveddro lo patisce,capace che si mette a svariarecontinuamente di opinione e didirezione, come fanno quei pezzi dilattone, tagliati a forma di bannèra o digallo, che sui tetti ruotano in ogni senso

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ad ogni minima passata di vento.Il commissario Salvo Montalbano

apparteneva da sempre a quest'infelicecategoria umana e la cosa gli era statatrasmessa per parte di matre, che eracagionevole assai e spesso si serravanella càmmara di letto, allo scuro, per ilmalo di testa e allora non bisognava farerumorata casa casa, camminare a pedilèggio. Suo patre invece, timpesta obonazza, sempre la stessa salutemanteneva, sempre del medesimointìfico pinsèro se ne restava, pioggia osole che fosse.

Magari questa volta il commissarionon smentì la natura della sua nascita:aveva appena fermato l'auto al decimochilometro della provinciale Vigàta-

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Fela, come gli era stato detto di fare, chesubito gli venne gana di rimettere inmoto e tornarsene in paese, mandando apatrasso l'operazione. Arriniscì acontrollarsi, accostò meglio la macchinaal ciglio della strata, raprì il cassetto delcruscotto per pigliare la pistola cheabitualmente non portava addosso. Peròla mano gli restò a mezz'aria: immobile,affatato, continuò a taliare l'arma.

«Madonna santa! È vero!» pensò.La sera avanti, qualche ora prima che

arrivasse la telefonata di Gegè Gullottaad armare tutto il mutupèrio - Gegè eraun piccolo spacciatore di roba leggera eorganizzatore di un bordello all'apertoconosciuto come la mannara - ilcommissario stava leggendo un romanzo

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giallo di uno scrittore barcellonese chel'intricava assai e che portava lo stessocognome suo, ma spagnolizzatoMontalbàn. Una frase l'avevaparticolarmente colpito: «la pistoladormiva con il suo aspetto di lucertolafredda». Ritirò la mano tanticchiaschifato, richiuse il cassetto lasciando lalucertola al suo sonno. Tanto, se tutta lastoria che stava per cominciare si fosserivelata un trainello, un'imboscata,aveva voglia a portarsi appresso lapistola, quelli l'avrebbero spirtusatocome e quando volevano a colpi dikalashnikov, e tanti saluti e sono. C'erasolo da sperare che Gegè, in ricordodegli anni trascorsi l'uno allato all'altrosullo stesso banco delle elementari,

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amicizia continuata poi magari quandos'erano fatti grandi, non si fosse risolto,per interesse suo, a venderlo come carneda porco, contandogli una minchiataqualisisiasi per farlo cadere nella rete.No, qualisisiasi proprio no: la facenna,se vera, sarebbe arrisultata cosa grossae rumorosa.

Tirò un profondo sospiro e pigliò adacchianare lento, un pedi leva e l'altrometti, lungo uno stretto viottolo sassosotra ampie distese di viti. Era uva datavola, di chicco rotondo e sodo, detta,va a sapere pirchì, «uva Italia», l'unicache pigliasse su quei terreni, perchéquanto ad altra racìna per fare vino,sempre su quei terreni era megliosparagnarsi la spesata e il travaglio.

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La casuzza a un piano, una càmmarasotto e una sopra, stava proprio in pizzoalla collinetta, seminascosta da quattroenormi ulivi saraceni che lacircondavano quasi per intero. Era comeGegè gliel'aveva descritta. Porta efinestre inserrate e scolorite, nellospiazzo davanti c'era una gigantescatroffa di càpperi e poi c'erano troffe piùpiccole di cocomerelli serbatici, diquelli che appena si toccano con lapunta d'un bastone schizzano in ariaspandendo simenza, una seggia di pagliasfondata e messa a gambe all'aria, unvecchio cato di zinco per pigliarel'acqua reso inservibile dalla ruggineche se l'era mangiato a pezzi. L'erbaaveva coperto il resto. Tutto concorreva

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a dare l'impressione che da anni il locofosse disabitato, ma era apparenzaingannevole e Montalbano per spirenzias'era fatto troppo sperto per lasciarsipersuadere, anzi era convinto chequarcheduno se ne stesse a taliarlodall'interno della casuzza, giudicando lesue intenzioni dai gesti che avrebbefatto. Si fermò a tre passi dalla porta, silevò la giacchetta, l'appese a un ramod'ulivo, in modo che potessero vedereche non portava arma, chiamò senzaisare troppo la voce, come un amico cheva a trovare un altro amico.

«Ohè! Di casa!».Nessuna risposta, nessuna rumorata.

Dalla sacchetta dei pantaloni ilcommissario tirò fòra un accendino e un

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pacchetto di sigarette, se ne mise una inbocca e l'addrumò, sistemandosicontrovento con un mezzo giro su sestesso. Così chi c'era dintra la casa oraavrebbe potuto comodamente taliarlo dispalle, come prima l'aveva taliato dipetto. Tirò due boccate, poi andò decisoalla porta e tuppiò forte col pugno, tantoda farsi male alle nocche per lescrostature indurite della vernice sullegno.

«C'è quarcuno?» spiò di nuovo.Tutto poteva aspettarsi, meno la voce

ironica e calma che lo pigliò atradimento alle spalle.

«C'è, c'è. Sono qua».«Pronto? Pronto? Montalbano?

Salvuzzo! Io sono, Gegè sono».

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«L'avevo capito, calmati. Come stai,occhiuzzi di miele e zàgara?».

«Bene sto».«Hai travagliato di bocca in queste

iurnate? Ti perfezioni sempre di più nelpompino?».

«Salvù, non metterti a garrusiare alsolito tuo. Io semmai, e tu lo sai, nontravaglio ma faccio travagliare dibocca».

«Ma tu non sei il maestro? Non sei tuche insegni alle tue variopinte buttanecome devono mettere le labbra, quantodev'essere forte la sucatina?».

«Salvù, magari se fosse come dici tu,sarebbero loro a darmi lezione. A diecianni arrivano imparate, a quindici sonotutte maestre d'opera fina. C'è

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un'albanese di quattordici anni che...».«Ti stai mettendo a fare la reclami

alla merce?».«Senti, tempo ne ho picca per stare a

babbiare. Ti devo consegnare una cosa,un pacco».

«A quest'ora? Non puoi farmelo averedomani a matino?».

«Domani non ci sono in paese».«Lo sai che c'è nel pacco?».«Certo che lo saccio. Ci sono

mostazzoli di vino cotto, quelli che tipiàcino. Me soro Mariannina li ha fattiapposta per te».

«Come sta Mariannina con gliocchi?».

«Meglio assai. A Barcellona diSpagna hanno fatto miracoli».

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«A Barcellona di Spagna scrivonomagari libri belli».

«Che dicisti?».«Nenti. Cose mie, non ci fare caso.

Dov'è che ci vediamo?».«Al posto solito, tra un'ora».Il posto solito era la spiaggetta di

Puntasecca, una corta lingua di sabbiasotto una collina di marna bianca, quasiinaccessibile via terra, o meglioaccessibile solo per Montalbano e perGegè che fin dalle elementari avevanoscoperto un sentiero già difficoltoso afarselo a piedi, addirittura temerario apercorrerlo in macchina. Puntaseccadistava pochi chilometri dalla villettasul mare, appena fòra Vigàta, doveabitava Montalbano e questi perciò se la

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pigliò comoda. Ma proprio quandoaveva aperto la porta per andareall'appuntamento, squillò il telefono.

«Ciao, amore. Eccomi puntuale. Cometi è andata oggi?».

«Normale amministrazione. E tu?».«Idem. Senti, Salvo, ho pensato a

lungo a quello che...».«Livia, scusami se t'interrompo. Ho

poco tempo, anzi non ne ho per niente.Mi hai pigliato che già ero sulla porta,stavo uscendo».

«Allora esci e buonanotte».Livia riattaccò e Montalbano rimase

col microfono in mano. Poi gli tornò amente che la sera avanti aveva detto aLivia di chiamarlo a mezzanotte precisaperché avrebbero avuto certamente

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tempo per parlare a lungo. Restòindeciso se richiamare subito la suadonna a Boccadasse o farlo al rientro,dopo l'incontro con Gegè. Con una puntadi rimorso rimise a posto il ricevitore,niscì.

Quando arrivò, con qualche minuto diritardo, Gegè era ad aspettarlo, passiavanirbùso avanti e narrè lungo la sua auto.S'abbracciarono e si baciarono, era datempo che non si praticavano.

«Andiamo ad assittarci nella miamacchina, stanotti fa friscoliddro» disseil commissario.

«Mi hanno messo in mezzo» attaccòGegè appena assittato.

«Chi?».«Persone alle quali non posso

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negarmi. Tu sai che io, come ognicommerciante, pago il pizzo pertravagliare in santa pace e per non faresuccedere burdello, fatto ad arte, nelburdello che ho. Ogni mese che uSignuri Iddio manda in terra, c'è uno chepassa e incassa».

«Per conto di chi? Me lo puoi dire?».«Passa per conto di Tano u grecu».Montalbano strammò, magari se non

lo diede a vedere all'amico. GaetanoBennici, inteso «u grecu», non avevavisto la Grecia manco col cannocchialee delle cose dell'Eliade ne potevasapere quanto un tubo di ghisa, ma eradetto così per un certo vizio che la vocepopolare diceva sommamente graditonei paraggi dell'acropoli. Aveva

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sicuramente tre omicidi sulle spalle, nelgiro occupava un posto un gradino piùsotto ai capi capi, ma non si sapeva cheoperasse nella zona di Vigàta e dintorni,qui erano le famiglie Cuffaro e Sinagra acontendersi il territorio. Tanoapparteneva a un'altra parrocchia.

«Ma Tano u grecu che ci accucchia daqueste parti?».

«Che minchia di domande mi fai? Cheminchia di sbirro sei? Non lo sai che èstato stabilito che per Tano u grecu nonci sono parti, non ci sono zone quando sitratta di fìmmine? Gli è stato dato ilcontrollo e la pribenna su tutto ilbuttaname dell'isola».

«Non lo sapevo. Vai avanti».«Verso le otto di stasira stessa passò

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il solito omo per l'incasso, era la iurnatastabilita per pagare il pizzo. Si pigliò lisordi che io gli desi, ma, invece diripartirsene, questa vota raprì losportello della machina e mi dissed'acchianare».

«E tu?».«Mi scantai, mi vennero i sudori

freddi. Ma che potevo fare? Acchianai,e lui partì. Per fartela breve, piglia lastrata per Fela, si ferma dopo mancomezz'ora di camino...».

«Ci domandasti dove stavateandando?».

«Certo».«E che ti disse?».«Muto, come se non avessi parlato.

Dopo una mezzorata mi fa scìnniri in un

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posto che non c'era anima criata, mi fasigno di pigliare una trazzera. Nonpassava manco un cane. A un certomomento, e nun saccio da dove minchiasbucò, mi si para davanti Tano u grecu.Mi pigliò un colpo, le gambe fatte diricotta. Capiscimi, non è vigliaccaggine,ma quello tiene cinco micidii».

«Come cinque?».«Perché, a voi quanti ve ne

arrisultano?».«Tre».«Nossignore, sono cinco, garantito al

limone».«Va bene, continua».«Io mi tirai subito il paro e il dispàro.

Dato che avevo sempre pagatoregolarmente, mi feci persuaso che Tano

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volesse isàre il prezzo. Degli affari nonmi posso lamentare, e loro lo sanno. Misbagliavo, non era cosa di soldi».

«Che voleva?».«Senza manco salutàrimi, mi spiò se ti

conoscevo».Montalbano credette di non avere

inteso bene.«Se conoscevi a chi?».«A tia, Salvù, a tia».«E tu che gli dicesti?».«Io, cacandomi nei cazùna, gli

arrisposi che ti conoscevo, certo, macosì, di vista, bongiorno e bonasira. Mitaliò, mi devi accrìdiri, con un parod'occhi che parevano quelli delle statue,fissi e morti, poi tirò la testa narrè, sifece una risateddra leggia leggia, e mi

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addomandò se volevo sapere quanti peliavevo nel culo, a sbagliare di unmassimo di due. Voleva significare chedi mia accanosceva vita, miracoli emorte, speriamo il chiù tardo possibile.Perciò calai gli occhi a terra e non rapriibocca. Allora mi disse di dirti che tivoli vìdiri».

«Quando e dove?».«Stanotte stissa, all'arba. Dove, te lo

spiego subito».«Lo sai che vuole da me?».«Questo non lo saccio e non lo voglio

sapìri. Ha detto di farti convinto che tipuoi fidare di lui come con un fratello».

Come con un fratello: queste parole,anziché rassicurare Montalbano, gliprocurarono uno spiacevole brivido

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nella schiena, era risaputo che al primoposto dei tre - o cinque - omicidi diTano c'era quello di suo fratellomaggiore Nicolino, prima strangolato epoi, per una misteriosa regolasemiologica, accuratamente scuoiato.Cadde in pensieri neri, che divenneroancora se possibile più neri alle paroleche Gegè gli sussurrò, mettendogli unamano sulla spalla.

«Statti accorto, Salvù, quello è unavestia mala».

Se ne stava tornando a casa guidandopiano quando i fari della macchina diGegè che lo seguiva lampeggiaronoripetutamente. Si fece di lato, Gegès'accostò e piegandosi tutto verso ilfinestrino dalla parte di Montalbano, gli

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porse un pacchetto.«Mi scordavo i mostazzoli».«Grazie. Credevo fosse stata una tua

scusa, una copertura».«E io che sono? Uno che dice una

cosa per un'altra?».Accelerò, offeso.Il commissario passò una nottata da

contarla al medico. Il primo pinsèro chegli venne fu quello di telefonare alquestore, arrisbigliarlo e informarlo,cautelandosi su tutti gli sviluppi che lafacenna poteva avere. Però Tano u grecuin proposito era stato esplicito, come gliaveva riferito Gegè: Montalbano nondoveva far sapere niente a nessuno eall'appuntamento doveva andarci dasolo. Qui però non era quistione di

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giocare a guardie e ladri, il dovere suoera di fare il dovere suo, vale a direavvertire i superiori, con loropredisporre fin nei minimi dettagli leoperazioni d'appostamento e di cattura,magari con l'aiuto di sostanziosi rinforzi.Tano era latitante da quasi dieci anni elui, tranquillo e sireno, andava atrovarlo come se quello fosse un amicotornato dalla Merica? Manco a parlarne,non era cosa, il questore dovevaassolutamente essere messo al corrente.Compose il numero dell'abitazione delsuo superiore a Montelusa, il capoluogo.

«Sei tu, amore?» fece la voce di Liviada Boccadasse, Genova.

Montalbano restò per un momentosenza fiato, si vede che il suo istinto lo

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stava portando a non parlare colquestore, facendogli sbagliare numero.

«Scusami per poco fa, ho ricevuto unatelefonata imprevista che mi ha costrettoa uscire».

«Lascia perdere, Salvo, lo so ilmestiere che fai. Scusami tu piuttostoper lo scatto, ero rimasta delusa».

Montalbano taliò il ralogio, avevaalmeno tre ore prima di andare aincontrarsi con Tano.

«Se vuoi, possiamo parlare ora».«Ora? Scusami, Salvo, non è per

ripicca ma preferirei di no. Ho preso ilsonnifero, tengo a fatica gli occhiaperti».

«D'accordo, d'accordo. A domani. Tiamo, Livia».

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La voce di Livia cangiò di colpo, sifece sveglia e agitata.

«Eh? Che c'è? Che c'è, Salvo?».«Niente c'è, che ci deve essere?».«Eh no, caro, tu non me la conti

giusta. Devi fare qualcosa dipericoloso? Non mi fare stare inpensiero, Salvo».

«Ma come fanno a venirti certe ideein testa?».

«Dimmi la verità, Salvo».«Non sto facendo nulla di

pericoloso».«Non ci credo».«Ma perché, Cristo santo?».«Perché m'hai detto ti amo, tu da

quando ci conosciamo me l'hai dettosolo tre volte, le ho contate, e ogni volta

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è stato per qualcosa d'insolito».L'unica era troncare, con Livia si

poteva arrivare a matino.«Ciao, amore, dormi bene. Non essere

stupida. Ciao, devo uscire di nuovo».E ora come fare a passare tempo?

Fece la doccia, lesse qualche pagina dellibro di Montalbàn capendoci poco,tambasiò da una stanza all'altra oraraddrizzando un quadro ora rileggendouna lettera, una fattura, un appunto,toccando tutto quello che gli veniva atiro di mano. Rifece la doccia, sisbarbò, procurandosi un taglio propriosul mento. Addrumò il televisore el'astutò subito, gli diede un senso dinausea. Finalmente si fece l'ora. Giàpronto per uscire, volle mettersi in

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bocca un mostazzolo di vino cotto. Conautentico stupore s'accorse che il paccosulla tavola era stato aperto, che dentrola guantiera di cartone non c'era piùmanco un dolce. Se li era mangiati tuttisenza farci caso per il nervoso. E, quelch'era peggio, non se li era nemmenogoduti.

DueMontalbano si voltò adascio, quasi a

bilanciare la sorda, improvvisa raggiaper essersi lasciato pigliare di spallealla sprovvista come un principiante.Per quanto fosse stato sull'allarme, nonaveva avuto modo di sentire la minimarumorata.

«Uno a zero a favore tuo, cornuto!»pensò.

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Benché non l'avesse mai veduto diprisenza, lo riconobbe subito: rispettoalle segnaletiche di qualche anno avanti,Tano s'era fatto crescere barba e baffi,ma gli occhi erano sempre quelli,mancanti d'ogni espressione, «di statua»come aveva efficacemente detto Gegè.

Tano u grecu s'inchinò leggermente enon c'era nel suo gesto manco il piùlontano sospetto di scòncica, di presa ingiro. Automaticamente Montalbanoricambiò il mezzo inchino. Tano buttò latesta indietro e rise.

«Paremo due giapponisi, quelliguerrieri con la spada e la corazza.Come si chiamano?».

«Samurai».Tano allargò le braccia, quasi volesse

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stringere a sé l'omo che gli stavadavanti.

«Al piacere d'accanuscìripirsonalmente di pirsona il famosocommissario Montalbano».

Montalbano decise di togliere dimezzo le cerimonie e d'attaccare subito,tanto per mettere l'incontro nel suogiusto terreno.

«Non so quanto piacere potrà averedalla mia conoscenza».

«Uno, intanto, di piacìri me lo stafacendo provare».

«Si spieghi».«Mi sta dando del lei, poco le pare?

Non c'è stato uno sbirro che sia uno, e neho incontrati tanti, che m'abbia dato dellei».

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«Lei si renderà conto, lo spero, che iorappresento la legge, mentre lei è unlatitante pericoloso e pluriomicida? E citroviamo faccia a faccia».

«Io sono disarmato. E lei?».«Magari io».Tano buttò nuovamente la testa

all'indietro, rise a gola piena.«Mai mi sono sbagliato sulle pirsune,

mai!».«Armato o no, io devo arrestarla lo

stesso».«E io qua sono, commissario, per

farmi arrestare da lei. Ho voluto vederlaapposta».

Era sincero, non c'era dubbio, ma fuproprio quella scoperta sincerità a far sìche Montalbano s'inquartasse a difesa,

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non riuscendo a capire dove Tanovolesse arrivare.

«Poteva venire al commissariato ecostituirsi. Qui o a Vigàta è la stessacosa».

«Eh no, duttureddru, non è la stessacosa, mi meraviglio di lei che sapilèggiri e scriviri, le parole non sonouguali. Io mi faccio arrestare, non micostituisco. Si pigliassi la giacchetta chene parliamo dintra, io intanto rapro laporta».

Montalbano staccò la giacca dal ramod'ulivo, se la mise sul braccio, entrò incasa seguendo Tano. Dintra eracompletamente scuro, u grecu addrumòun lume a pitrolio, fece cenno alcommissario d'assittàrisi su una delle

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due seggie che erano allato a un piccolotavolo. Nella càmmara c'erano unabranda col solo matarazzo, senzacuscino o linzòla, uno scaffaletto a vetricon dintra bottiglie, bicchieri, gallette,piatti, pacchi di pasta, buatte di salsa,scatolame. C'era una cucina a legna consopra pignate e pentole. Una scala dilegno malandata portava al piano disopra. Ma gli occhi del commissario sisoffermarono su un animale assai piùpericoloso della lucertola che dormivanel cassetto del cruscotto della suamacchina, questo era un vero e proprioserpente velenoso, un mitra chesonnecchiava in piedi, appoggiato almuro, allato alla branda.

«Haiu del vino buono» fece Tano

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come un vero padrone di casa.«Grazie sì» disse Montalbano.Tra il freddo, la nuttata, la tensione, il

chilo e passa di mostazzoli che s'erasbafato, del vino ne sentiva veramente ilbisogno.

U grecu versò, alzò il bicchiere.«Alla saluti».Il commissario alzò il suo, ricambiò

l'augurio.«Alla sua».Il vino era cosa di considerazione, se

ne calava ch'era una billizza, passandodava conforto e calore.

«E veramente bono» si complimentòMontalbano.

«Un altro?».Il commissario, per non cadere in

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tentazione, allontanò con un gesto bruscoil bicchiere.

«Vogliamo parlare?».«Parliamo. Dunque, io le ho detto che

ho deciso di farmi arrestare...».«Perché?».La domanda di Montalbano, a

pistolettata, lasciò l'altro imparpagliato.Fu un attimo, si ripigliò.

«Ho bisogno di farmi curare, sonomalato».

«Mi permette? Dato che lei pensa diconoscermi bene, saprà magari che iosono pirsuna che non si fa pigliare per ilculo».

«Ne sono persuaso».«Allora perché non mi rispetta e la

finisce di contarmi minchiate?».

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«Lei non ci crede che sono malato?».«Ci credo. Ma la minchiata che lei

vuole farmi ammuccare è che per esserecurato lei ha necessità di farsi arrestare.Se vuole, mi spiego. Lei è statoricoverato per un mese e mezzo allaclinica Madonna di Lourdes di Palermo,e poi per tre mesi alla clinica Getsemanidi Trapani dove il professor AmerigoGuarnera l'ha magari operato. Se lei lovuole, oggi stesso, malgrado le cosestiano in modo leggermente diverso diqualche anno fa, trova più di una clinicadisposta a chiudere un occhio e a nonsegnalare la sua presenza alla polizia.Quindi la ragione per la quale lei vuolefarsi arrestare non è quella dellamalattia».

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«Se le dicessi che i tempi cangiano eche la rota gira di corsa?».

«Questo mi convince di più».«Vede, la bonarma di me patre, che

era omo d'onore ai tempi in cui la parolaonore significava, spiegava a miapicciliddro che il carretto sul qualeviaggiavano gli uomini d'onore avevabisogno di molto grasso per fare girarele rote, per farle caminare spedite. Poi,passata la generazioni di me patre,quando fui io ad acchianare sul carretto,quarcheduno dei nostri disse: ma perchédobbiamo continuare ad accattare ilgrasso che ci serve dai politici, daisìnnaci, da quelli che hanno le banche ecompagnia bella? Fabbrichiamolonuatri, il grasso che ci serve! Bene!

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Bravo! Tutti d'accordo. Certu, c'erasempre chi arrubbava il cavallo delcompagno, chi impediva una certa strataal suo socio, chi si metteva a sparareall'urbigna su carretto, cavallo ecavaliere di un'altra congrega... Tuttecose però che si potevano mèttiri aposto tra noi. I carretti si moltiplicarono,ci furono più strate da caminare. A uncerto momento un grandi ingegnu fece nabella pinsata, si addumandò che cosasignificasse continuare a caminari colcarretto. Siamo troppo lenti - spiegò - cifottono in velocità, tutto il mondo oracamìna con la machina, non si puòammucciare il progresso! Bene! Bravo!E tutti a correre a cangiare il carrettoper l'automobile, a pigliàrisi la patente.

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Quarcheduno però non ce la fici apassare l'esame alla scola di guida e sene niscì, o lo fecero nèsciri, fòra. Non cifu manco u tempu di pigliare confidenzacon la machina nova che i più picciottidi noi, che in automobile ci andavano daquando erano nasciuti e che avevanostudiato liggi o economia negli Stati o inGermania, ci fecero sapiri che le nostremachine erano troppo lente, che oracome ora abbisognava satare sopra unamachina da corsa, una Ferrari, unaMaserati, addubbata di radiotelefono efàcchisi, ed essere capaci di partirecome un furgarone. Questi picciotti sononuovi nuovi, parlano con gli apparecchie non con le persone, manco ticanusciono, non sanno chi sei stato, e se

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lo sanno se ne fottono allegramente,manco fra loro capace ches'accanuscino, si parlano col computer.A farla breve, questi picciotti nontaliano in faccia a nisciuno, appena tivedono in difficortà con una machinalenta, ti jettano fòra strata senza pinsarcidue volte e tu ti ritrovi dintra un fossocon l'ossa del collo rotte».

«E lei la Ferrari non la sa portare».«Esatto. Perciò, prima di morire in un

fosso, è meglio che mi tiro sparte».«Lei però non mi pare il tipo che si

tira sparte di testa sua»«Di testa mia, commissario, glielo

assicuro, di testa mia. Certo, c'è modo emodo di convincere una pirsuna ad agireliberamenti di testa sua. Una volta un

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amico che leggeva assà e che era struìto,mi contò una storia che io riporto a leipara para. L'aveva liggiuta in un librotedesco. C'è un omo che dice a un suoamico: scommessa che il mio gatto simangia la senape ardosa, di quella tantoardosa che ti fa un pirtuso nella panza?Ai gatti non ci piace la senape - dicel'amico. E inveci al mio gatto ci lafaccio mangiari - fa l'omo. Ci la faimangiari a botte e a Ugnate? -addomanda l'amico. Nossignore, senzaviolenza, se la mangia liberamente, ditesta sò - risponde l'omo. Scommissafatta, l'omo piglia un bello cucchiaro disenape, di quella che a solo taliarla unosi senti àrdiri la vucca, agguanta il gattoe, zaffi, gli schiaffa la senape in culo. Il

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poviro gatto, a sentirsi abbrusciare inquel modo il culo, si mette a leccarselo.Licca che ti licca, si mangia,liberamente, tutta la senape. E questo èquanto, egregio».

«Ho capito benissimo. Ora ripigliamoil discorso dal principio».

«Stavo dicendo che io mi faccioarristari, ma mi necessita tanticchia ditriatro per salvare la faccia».

«Non capisco».«Ora vegnu e mi spiego».Si spiegò a lungo, bevendo ogni tanto

un bicchiere di vino. FinalmenteMontalbano si fece persuaso delleragioni dell'altro. Ma c'era da fidarsi diTano? Questo era il vero busillis!. AMontalbano, in gioventù, andava a genio

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giocare a carte, poi fortunatamente gliera passata: sentiva perciò che l'altrostava giocando con carte non segnate,senza trucco. Doveva per forza affidarsia questa sensazione, sperando che nonavrebbe fallato. Minuziosamente,picinosamente misero a punto i dettaglidell'arresto per evitare che qualche cosasi mettesse di traverso. Quando finironodi parlare, il sole era già alto. Prima dinèsciri dalla casuzza e dare principioalla recita, il commissario taliò a lungoTano occhi negli occhi.

«Mi dica la virità». «Agli ordini,dutturi Montalbano». «Perché ha sceltoproprio a mia?». «Perché lei, e me lo stadimostrando, è uno che le cose lecapisce».

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Mentre se ne scendeva a rotta di collolungo il viottolo tra i vigneti,Montalbano si ricordò che alcommissariato doveva esserci diguardia Agatino Catarella e che quindila conversazione telefonica ches'apprestava a intraprendere sarebbestata al minimo difficoltosa, se non fontedi disgraziati e pericolosi equivoci.Questo Catarella non era sinceramentecosa. Lento a capire, lento ad agire, erastato pigliato nella polizia certamenteperché lontano parente dell'exonnipotente onorevole Cusumano che,dopo un'estate passata al fresco delcarcere dell'Ucciardone, aveva saputoriannodare legami coi nuovi potentitanto da guadagnarsi una larga fetta di

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torta, di quella torta chemiracolosamente di volta in volta sirinnovava, bastava cangiare qualchecandito o mettere nuove candeline alposto di quelle già consumate. Le cosecon Catarella s'imbrogliavano di più segli saltava il firticchio, cosa che glicapitava spesso, di mettersi a parlare inquello che lui chiamava taliàno.

Un giorno gli si era appresentato conla faccia di circostanzia.

«Dottori, lei putacaso mi saprebbifare la nominata di un medico di quelliche sono specialisti?».

«Specialista di cosa, Catarè?».«Di malatia venerea».Montalbano aveva spalancato la

bocca per lo stupore.

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«Tu?! Una malattia venerea? E quandote la pigliasti?».

«Io m'arricordo che questa malatia mivenne quando ero ancora nico, nonavevo manco sei o sette anni».

«Ma che minchia mi vai contando,Catarè? Sei sicuro che si tratta di unamalattia venerea?».

«Sicurissimo, dottori. Va e viene, va eviene. Venerea».

In macchina, alla volta di una cabinatelefonica che avrebbe dovuto esserciverso il bivio di Torresanta (avrebbedovuto esserci fatti salvi il taglio el'asporto della cornetta, il furtodell'apparecchio intero, la sparizionedella cabina stessa) Montalbano decisedi non telefonare nemmeno al suo vice,

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Mimì Augello, perché era il tipo che,non c'erano santi, per prima cosaavrebbe avvertito i giornalisti, fingendopoi di stupirsi per la loro prisenza. Nonrestavano che Fazio e Tortorella, i duebrigadieri o come diavolo sichiamavano adesso. Scelse Fazio,Tortorella qualche tempo prima era statosparato alla panza e ancora non si eraripigliato, di tanto in tanto la ferita glidoleva.

La cabina miracolosamente c'eraancora, il telefono miracolosamentefunzionava e Fazio arrispunnì che ilsecondo squillo non era ancora finito.

«Fazio, sei già vigliante a quest'ora?».«Sissi, duttù. Manco mezzo minuto fa

m'ha telefonato Catarella».

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«Che voleva?».«Poco ci capii, s'era messo a parlare

taliàno. A occhio e croce pare chestanotte hanno sbaligiato il supermercatodi Carmelo Ingrassia, quello grosso chesta tanticchia fòra di paese. Ci sonoandati almeno con un tir o un camiongrosso».

«Non c'era il guardiano notturno?».«C'era, ma non si trova».«Ci stavi andando tu?».«Sissi».«Lascia perdere. Telefona subito a

Tortorella, digli che avverta Augello. Civadano loro due. Dicci che tu non cipuoi andare, contagli una minchiataqualsiasi, che sei caduto dalla culla ehai battuto la testa. Anzi, no: digli che i

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carabinieri sono venuti ad arrestarti.Meglio, telefona e digli d'avvertirel'Arma, tanto il fatto è cosa da niente,una cazzata di furto, e l'Arma diventacontenta perché l'abbiamo chiamata acollaborare. Ora stammi a sentire:avvertiti Tortorella, Augello e l'Arma, tuchiami Gallo, Galluzzo, madonna santami pare d'essere in un pollaio, eGermanà e venite dove ora vi dico io.Armatevi tutti di mitra».

«Cazzo!».«Cazzo, sissignore. È cosa grossa che

dev'essere fatta con prudenza, nessuno sideve lasciare scappare mezza parola,soprattutto Galluzzo cu sò cognato ilgiornalista. Raccomanda a quella testadi Gallo di non mettersi a guidare come

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a Indianapolis. Nenti sirene, nentilampeggianti. Quando c'è scarmazzo,movimento d'acqua, il pesce scappa. Eora stai attento che ti spiego dove devivinìri».

Arrivarono silenziosi, dopo mancomezz'ora dalla telefonata, parevano dinormale pattugliamento. Sceserodall'auto e si diressero versoMontalbano che fece loro signo diseguirlo. Si radunarono darrè una casamezzo distrutta, così dalla provincialenon era possibile vederli.

«In macchina haiu un mitra per lei»disse Fazio.

«Mettitelo in culo. Statemi a sentire:se ci sappiamo giocare bene la partita,capace che ci portiamo a casa Tano u

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grecu».Materialmente Montalbano percepì

che i suoi uomini avevano smesso per unattimo di respirare.

«Tano u grecu da queste parti?» simeravigliò Fazio che si era ripigliatoper primo.

«L'ho visto bene, è iddru, s'è lasciatocrìsciri barba e baffi ma s'arraccanuscilo stesso».

«E lei come l'ha incontrato?».«Fazio, non rompere, ti spiego tutto

dopo. Tano è in una casuzza in cima aquella montagnola, da qua non si vede.Torno torno ci sono ulivi saraceni. Lacasa è fatta di due càmmare, una sopra euna sotto. Sul davanti ci sono una porta euna finestra, un'altra finestra è nella

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càmmara di sopra, ma dà sul retro. Mispiegai? Avete capito tutto? Tano non haaltre strate per nèsciri se non quelledavanti, oppure deve buttarsi alladisperata dalla finestra della càmmaradi sopra, capace però che si stocca unagamba. Facciamo accussì. Fazio e Gallovanno nella parte di darrè; io, Germanàe Galluzzo sfondiamo la porta etrasèmo».

Fazio si fece dubitoso.«Che c'è? Non sei d'accordo?».«Non è meglio circondari la casa e

dirgli d'arrendersi? Senio cinco controuno, non ce la può fare».

«Sei certo che dintra la casa non cisia nessuno nzèmmula a Tano?».

Fazio ammutolì.

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«Sentite a mia» fece Montalbanoconcludendo il breve consiglio di guerra«meglio che gli facciamo trovare l'ovodi Pasqua con la sorpresa».

TreMontalbano calcolò che da cinque

minuti almeno Fazio e Gallo sidovevano essere appostati darrè lacasuzza; in quanto a lui, stinnicchiato apanza per terra in mezzo all'erba, pistolain pugno, con una pietra che gli premevafastidiosamente proprio sulla boccadello stomaco, si sentiva profondamenteridicolo, gli pareva d'essere diventatoun personaggio da film di gangster e nonvedeva perciò l'ora di dare il segnaled'isare il sipario. Taliò Galluzzo che glistava allato - Germanà era più lontano,

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verso destra - e gli spiò sussurrando:«Sei pronto?».«Sissi» rispose l'agente che, si

vedeva, era tutto un fascio di nervi esudava. Montalbano ne ebbe pena, manon poteva certo andargli a contare chesi trattava di una messinscena, dall'esitodubbio, è vero, però sempre di cartone.

«Vai!» gli ordinò.Come lanciato da una molla

compressa allo stremo, quasi nontoccando terra, Galluzzo con tre saltiarrivò alla casuzza, s'appiattì contro ilmuro a manca della porta. Parse nonavere fatto faticata, però il commissariogli vide il petto che s'alzava es'abbassava per il respiro affannato.Galluzzo impugnò bene il mitra e fece

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signo al commissario ch'era pronto perla seconda parte. Montalbano allorataliò verso Germanà che appariva nonsolo sireno, ma addirittura rilassato.

«Io vado» gli disse senza suono,muovendo esageratamente la bocca esillabando.

«La copro io» arrispose Germanà allostesso modo, indicando con unmovimento della testa il mitra cheteneva fra le mani.

Il primo balzo in avanti delcommissario fu, se non da antologia,minimo da manuale: uno stacco da terradeciso ed equilibrato, degno di unospecialista di salto in alto, unasospensione d'aerea lievità, inatterraggio netto e composto che

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avrebbe meravigliato un ballerino.Galluzzo e Germanà che stavano ataliarlo da diversi punti di vista,ugualmente si compiacquero per laprestanza del loro capo. La partenza delsecondo balzo fu calibrata meglio dellaprima, nella sospensione però successequalcosa per cui di colpo Montalbano,da dritto che era, s'inclinò di lato comela torre di Pisa, mentre la ricaduta fu unvero e proprio numero da clown. Dopoavere oscillato spalancando le bracciaalla ricerca di un appiglio impossibile",crollò pesantemente di fianco.Istintivamente Galluzzo si mosse perportargli adenzia, si fermò a tempo, sirimpiccicò contro il muro. MagariGermanà si susì di scatto, poi si

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riabbassò. Meno male che la cosa erafinta, pensò il commissario, altrimentiTano avrebbe potuto in quel momentoabbatterli come birilli. Sparando i piùsostanziosi santioni del suo vastorepertorio, Montalbano carponi si misea cercare la pistola che nella caduta gliera scappata di mano. Finalmente lavide sotto una troffa di cocomerelliserbatici e appena ci calò in mezzo ilvrazzo per pigliarla, tutti i cocomerelliscoppiarono e gli inondarono la facciadi simenza. Con una certa rabbiosatristezza il commissario si rese conto diessere stato degradato da eroe di film digangster a personaggio di una pellicoladi Gianni e Pinotto. Oramai non se lasentiva più né di fare l'atleta né di fare il

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ballerino, percorse perciò i pochi metriche lo separavano dalla casuzza a passosvelto, stando solo tanticchiaaggomitolato.

Taliandosi negli occhi, Montalbano eGalluzzo si parlarono senza parole e simisero d'accordo. Si piazzarono a trepassi dalla porta, che non parevaparticolarmente resistente, tirarono ilfiato e vi si scagliarono contro con tuttoil peso dei loro corpi. La porta si rivelòessere fatta di carta velina o quasi,sarebbe bastata una manata a farlacedere, perciò i due si trovarono aessere proiettati all'interno. Ilcommissario arriniscì a fermarsimiracolosamente, invece Galluzzo,portato dalla violenza della sua stessa

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spinta, traversò la càmmara intera eandò a sbattere con la faccia contro ilmuro, scugnandosi il naso e restandomezzo assufficato dal sangue che avevapigliato a sgorgare violento. Alla scarsaluce del lume a pitrolio che Tano avevalasciato addrumato, il commissario ebbemodo d'ammirare l'arte di attoreconsumato del grecu. Fingendosisorpreso nel sonno, balzò in piedigridando bestemmie e si precipitò versoil kalashnikov che ora stava appuiato altavolo e perciò lontano dalla branda.Montalbano fu pronto a recitare la suaparte di spalla, come viene chiamata intriatro.

«Fermo! In nome della liggi, fermo osparo!» gridò con tutta la voce che

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aveva e sparò quattro colpi verso ilsoffitto. Tano s'immobilizzò, le vrazzaalzate. Persuaso che nella càmmara disopra ci fosse ammucciato quarcheduno,Galluzzo sparò una raffica di mitraverso la scala di legno. Da fuori, Fazio eGallo, a sentire tutta quella sparatina,aprirono un fuoco di scoraggiamentocontro la finestrina. Tutti dentro lacasuzza erano rimasti intronati dai bottiquando arrivò Germanà a metterci ilcarrico di undici:

«Fermi tutti o sparo».Non ebbe manco il tempo di finire la

minacciosa intimazione che si trovòspinto alle spalle da Fazio e Gallo,costretto a intrupparsi tra Montalbano eGalluzzo che, posato il mitra, aveva

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tirato fòra dalla sacchetta un fazzolettocol quale cercava d'attagnarsi il naso, ilsangue gli aveva allordato la cammisa,la cravatta, la giacchetta. Gallo, avederlo, s'innervosì.

«Ti ha sparato? Ti ha sparato, eh, quelcornuto?» fece arraggiato voltandosiverso Tano che se ne stava sempre, consanta pacienza, con le vrazza isate inattesa che le forze dell'ordine facesseroordine nel casino che stavanocombinando.

«No, non mi sparò. Sbattii contro ilmuro» articolò malamente Galluzzo.Tano non taliava a nessuno, consideravala punta delle sue scarpe.

«Gli viene da ridere» pensòMontalbano e diede un ordine secco a

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Galluzzo: «Ammanettalo».«E lui?» spiò a bassa voce Fazio.«E lui, non lo riconosci?» disse

Montalbano.«Che facciamo ora?».«Mettetelo in macchina e portatelo

alla questura, a Montelusa. Stratafacendo, chiami il questore, gli spieghitutto e ti fai dire cosa dovete fare.Cercate che nessuno lo veda e loriconosca. L'arresto deve per ora restareassolutamente segreto. Andate».

«E lei?».«Io do una taliata alla casa, la

perquisisco, non si sa mai».Fazio e gli agenti, tenendo in mezzo

Tano ammanettato, si mossero peruscire, Germanà teneva in mano il

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kalashnikov del prigioniero. Solo alloraTano u grecu isò la testa e taliò per unattimo Montalbano. Il commissarios'addunò che lo sguardo «di statua» erascomparso, ora quegli occhi eranoanimati, quasi ridenti.

Quando il gruppo dei cinque, altermine del viottolo, scomparve allavista, Montalbano rientrò nella casuzzaper cominciare la perquisizione. Infattiraprì la credenza, pigliò la bottiglia divino che era ancora china a metà e se laportò all'ombra d'un ulivo, perscolarsela tutta in santa pace. La catturadel pericoloso latitante era statafelicemente portata a termine.

Mimì Augello, che pareva pigliato daldiavolo, appena vide comparire

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Montalbano in ufficio, se l'abbattédavanti per porco.

«Ma dove sei stato? Dove ti seiandato ad ammucciare? Che fine hannofatto gli altri òmini? Ma ti pare modo difare, buttana d'una buttana?».

Doveva essere veramente arraggiatoper mettersi a parlare spartano: da treanni che travagliavano assieme mai ilcommissario aveva sentito il suo vicedire parolazze. Anzi no: quella volta cheuno stronzo sparò nella panza diTortorella aveva reagito allo stessomodo.

«Mimì, che ti piglia?».«Come, che mi piglia? Mi sono

scantato, mi sono!».«Ti sei spaventato? E di che?».

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«Qua hanno telefonato almeno seipersone. Contavano sempre cose diversenei dettagli, però tutte concordavanonella sostanzia, un conflitto a foco conmorti e feriti. Uno parlava dicarneficina. Tu non c'eri a casa, Fazio egli altri erano nisciuti con la macchinasenza dire nenti a nisciuno... Ho pensatoche due e due facessero quattro. Avevotorto?».

«No, non avevi torto. Però non te ladevi pigliare con me, ma col telefono, èsua la corpa».

«Che ci trasi, il telefono?».«C'entra, eccome! Perché oggi il

telefono si trova magari nel più persopagliaro di campagna. E allora che fa lagenti che ha il telefono a portata di

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mano? Telefona. Conta cose vere, coseimmaginate, cose possibili, coseimpossibili, cose insugnate come nellacomedia d'Eduardo, come si chiama, ah,Le voci di dentro, gonfia, sgonfia esempre senza mai dire nome e cognomedi chi sta parlando. Fanno i numeri verdidove uno può dire le peggiori minchiatedi questo mondo senza assumersene laresponsabilità! E intanto gli esperti dimafia s'entusiasmano: in Sicilia calal'omertà, cala la complicità, cala lapaura! Non cala un cazzo, aumenta solola bolletta della Sip».

«Montalbà, non m'intronare con le tuechiacchiere! È vero che ci sono statimorti e feriti?».

«Non è vero nenti. Non c'è stato

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conflitto, abbiamo sparato solo colpi inaria, Galluzzo s'è scugnato da solo ilnaso e quello si è arreso».

«Quello chi?».«Un latitante».«Sì, ma chi?».L'arrivo di Catarella affannato lo levò

dall'imbarazzo della risposta.«Dottori, ci sarebbi al tilifono il

signor quistore».«Poi ti dico» fece Montalbano

tuffandosi nel suo ufficio.«Carissimo amico sono qui a porgerle

le più vive felicitazioni!».«Grazie».«Ha messo a segno un bel colpo, sa!».«Siamo stati fortunati».«Pare che il personaggio in questione

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sia assai più importante di quanto eglistesso abbia sempre voluto farapparire».

«Dov'è attualmente?».«In viaggio per Palermo.

All'Antimafia hanno voluto così, non cisono stati santi. I suoi uomini non sisono potuti nemmeno fermare aMontelusa, hanno dovuto proseguire. Ioci ho aggiunto una macchina di scortacon quattro dei miei».

«Quindi lei non ha parlato conFazio?».

«Non ne ho avuto né tempo né modo.Della faccenda ignoro quasi tutto. Perciòle sarei grato se potesse oggipomeriggio passare da me in ufficio eraccontarmi anche i dettagli».

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«Questo è l'intoppo» pensòMontalbano ricordandosi di unatraduzione ottocentesca del monologo diAmleto. Ma si limitò a spiare:

«A che ora?».«Diciamo verso le cinque. Ah, da

Palermo raccomandano l'assolutosilenzio sull'operazione, almeno perora».

«Se dipendesse solo da me...».«Non dicevo per lei, io la conosco

benissimo, posso assicurare che al suoconfronto i pesci sono una razzaloquace. Senta, a proposito».

Ci fu una pausa, il questore si erainterrotto e Montalbano non aveva ganadi sentirlo parlare, un campanellofastidioso aveva pigliato a suonargli

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nella testa a quell'elogiativo: «io laconosco benissimo».

«Senta, Montalbano» riattaccòesitante il questore, mentre aquell'esitazione il campanello suonavapiù forte.

«Mi dica».«Penso che questa volta non riuscirò a

evitarle la promozione a vicequestore».«Madunnuzza biniditta! Ma pirchì?».«Non sia ridicolo, Montalbano».«Mi scusi, ma perché devo essere

promosso?».«Che domanda! Per quello che lei ha

fatto stamattina».Montalbano provò friddo e càudo

nello stesso momento, aveva la frontesudata e la schina aggelata, la

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prospettiva l'atterriva.«Signor questore, io non ho fatto

niente di diverso da quello che fannoogni giorno i miei colleghi».

«Non lo metto in dubbio. Però questoarresto in particolare, quando saràconosciuto, farà molto rumore».

«Non c'è speranza?».«Via, non faccia il bambino».Il commissario si sentì come un tonno

nella càmmara della morte, l'ariaprincipiò a mancargli, raprì e chiuse labocca a vacante, poi tentò una sortitaalla disperata.

«Non potremmo dire che è colpa diFazio?».

«Come, colpa?».«Scusi, mi sono sbagliato, volevo dire

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merito».«A più tardi, Montalbano».Augello, che lo postiava darrè la

porta, fece una faccia interrogante.«Che t'ha detto il questore?».«Abbiamo parlato della situazione».«Mah! Hai una faccia!».«Come ce l'ho?».«Sbattuta».«Non ho digerito quello che ho

mangiato aieri a sira».«Che hai mangiato di bello?».«Una chilata e mezza di mostazzoli di

vino cotto».Augello lo taliò sbalordito e

Montalbano che sentiva arrivare ladomanda sul nome del latitante arrestato,ne approfittò per cangiare discorso e

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mettere l'altro su una rotta diversa.«L'avete trovato poi il guardiano

notturno?».«Quello del supermercato? Sì, l'ho

trovato io. I ladri gli hanno dato una granbotta in testa, l'hanno imbavagliato,legato mani e pedi, l'hanno catafottutodintra un grande congelatore».

«È morto?».«No, però credo che lui non si senta

manco vivo. Quando l'abbiamo tiratofòra pareva uno stoccafisso gigante».

«Hai pinsàto a una strata?».«Io un mezzo pinsèro ce l'ho, il

tenente dell'Arma ce n'ha uno diverso,ma una cosa è sicura: per portarsi viatutto quel materiale hanno usato uncamion grosso. A carricare, deve averci

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badato una squatra di almeno sei pirsunecomandate da qualche professionista».

«Senti, Mimì, io faccio un salto acasa, mi cangio d'abito e poi torno».

Verso Marinella s'addunò che la spiadel serbatoio aveva pigliato alampeggiare. S'arrestò al distributoredove qualche tempo prima era successauna sparatoria e lui aveva dovutofermare il benzinaro per fargli dire tuttoquello che aveva visto. Il benzinaro, chenon gli portava rancore, appena lo videlo salutò con quella sua voce dalregistro acuto che lo facevarabbrividire. Fatto il pieno, il benzinarocontò il denaro e poi taliò ilcommissario.

«Che c'è? Ti ho dato di meno?».

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«Nonsi, i sordi giusti sono. Le volevodire una cosa».

«E dilla» fece impazienteMontalbano, se quello parlava ancoratanticchia gli saltavano i nervi.

«Taliassi chiddru camion».E gl'indicò un grosso automezzo col

rimorchio fermo nello spiazzo darrè ildistributore, i teloni ben tirati adammucciare il carico.

«Stamattina prestu» continuò «quannoho aperto, il camion stava già qua. Sonopassate quattro ore e non è ancoravenuto nuddru a pigliarselo».

«Hai visto se qualcuno dorme nellacabina?».

«Sissi, nun c'è nuddru. E c'è n'autracosa stramma, le chiavi stanno appizzate

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al loro posto, il primo che passa puòmèttili in moto e arrubbarselo».

«Fammi vedere» disse Montalbano dicolpo interessato.

QuattroMinuto, baffetti a coda di sorcio,

sorrisino 'ntipatico, occhiali conmontatura d'oro, scarpe marrò, quasettemarrò, completo marrò, cammisa marrò,cravatta marrò, più che altro un incuboin marrò, Carmelo Ingrassia, ilproprietario del supermercato, si stiròcon le dita la piega del cazùne destroche teneva accavallato sul sinistro eripeté per la terza volta la sua sinteticainterpretazione dei fatti.

«È stato uno sgherzo, commissario, mihanno voluto fare una babbiata».

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Montalbano si perse a fissare la pennaa sfera che teneva in mano, si concentròsul cappuccio, l'estrasse, l'esaminòdintra e fòra come se non avesse maivisto prima un aggeggio simile, soffiònella parte interna del cappuccio perpuliziarlo da qualche invisibile granellodi polvere, lo taliò nuovamente, nonrimase assoddisfatto, vi soffiò ancora, loposò sulla scrivania, svitò la punta dimetallo, ci pinsò sopra tanticchia, lasistemò allato al cappuccio, consideròattentamente la parte centrale che glirestava in mano, l'allineò vicino aglialtri due pezzi, sospirò profondamente.Era così arrinisciuto a darsi unacalmata, a dominare l'impulso, che perun attimo l'aveva quasi sopraffatto, di

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susìrisi, accostarsi a Ingrassia,spaccargli la faccia con un pugno e poispiargli:

«Mi dica sinceramente: a suo parere,sto sgherzando o facendo sul serio?».

Tortorella, che era presenteall'incontro e conosceva certe reazionidel suo capo, visibilmente si rilassò.

«Mi lasci capire» fece Montalbanonel pieno possesso del suo controllo.

«E che c'è da capire, commissario?Tutto è chiaro lampanti come il sole. Lamerce arrubbata c'era tutta nel camionritrovato, non mancava manco un palìco,uno stuzzicadenti, un lecca lecca.Allora: se non l'hanno fatto perarrubbare, l'hanno fatto per sgherzo, pergarrusiare».

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«Io sono tanticchia lento di testa, portipacienza signor Ingrassia. Dunque, ottogiorno fa da un autoparco di Catania,vale a dire dalla parte diametralmenteopposta alla nostra, due persones'appropriano di un camion conrimorchio della ditta Sferlazza. Ilcamion è in quel momento vacante. Persette giorni questo camion se lo tengonoammucciato, nascosto da qualche partenel tratto Catania-Vigàta, dato che non èstato visto in giro. Dunque, a rigore dilogica, l'unico motivo per cui quelcamion è stato arrubbato e ammucciatoera quello di tirarlo fòra al momentogiusto per fare uno sgherzo a lei. Vadoavanti. Aieri notte il camion simaterializza e verso l'una, quando strata

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strata c'è pochissima gente, si fermadavanti al suo supermercato. Ilguardiano notturno pensa che si tratta diun rifornimento di merce, sia pure fattoad ora stramma. Non sappiamo come siaandata esattamente la cosa, il guardianoancora non arrinesci a parlare, il fattocerto è che lo mettono fòracombattimento, gli pigliano le chiavi,tràsino. Uno dei ladri spoglia ilguardiano e ne indossa la divisa: questaè, sinceramente, una mossa geniale.Seconda mossa geniale, gli altriaddrumano le luci e cominciano atravagliare alla sfaccialata, senzapricauzioni, alla luce del sole sipotrebbe dire se non fosse notte.Ingegnoso, non c'è dubbio. Perché a uno

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straneo che viene a trovarsi nei paraggie vede il guardiano in divisa chesorveglia alcune pirsune che travaglianoper carricare un camion, non ci puòpassare manco per l'anticamera delciriveddro che si tratta di un'arrubbatina.Questa è la ricostruzione fatta dal miocollega Augello che viene confermatadalla testimonianza del cavaliereMisuraca che stava tornandosene acasa».

Ingrassia, che pareva perdereinteresse via via che il commissarioparlava, a quel nome satò come pungiutoda una vespa.

«Misuraca?!».«Sì, quello ch'era impiegato

all'anagrafe».

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«Ma è un fascista!».«Non vedo cosa c'entrino le idee

politiche del cavaliere con la facenna dicui stiamo parlando».

«E c'entrano sì! Perché quando iofacevo politica, lui era mio nemico».

«Adesso non fa più politica?».«Ma cosa vuole fare! Con questi

quattro giudici di Milano che hannodeciso di distruggere la politica, ilcommercio e l'industria!».

«Senta, quello che ha detto ilcavaliere non è altro che una pura esemplice testimonianza che avvalora ilmodus operandi dei ladri».

«Io me ne fotto di quello che avvalorail cavaliere. Dico solo che si tratta di unpoviro vecchio stòlito che ha passato da

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un pezzo l'ottantina. Quello capace chevede un gatto e dice che è un elefante. Epoi che ci faceva a quell'ora di notti?».

«Non lo so, glielo domanderò.Vogliamo tornare al nostro discorso?».

«Torniamoci».«Terminato di fare il carrico al suo

supermercato dopo almeno due ore ditravaglio, il camion se ne riparte.Percorre cinque o sei chilometri, tornaindietro, si va a posteggiare aldistributore di benzina e lì resta fino aquando non arrivo io. E secondo leihanno messo in piedi tutto questomutupèrio, commesso mezza dozzina direati, rischiato anni di galera solo perfarsi o farle fare quattro risate?».

«Commissario, possiamo magari fare

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notti, ma io ci giuro che non arrinescio apensare altro diverso dallo sgherzo».

Nel frigorifero trovò pasta fredda conpomodoro, vasalicò e passuluna, olivenere, che mandava un profumod'arrisbigliare un morto, e un secondopiatto d'alici con cipolla e aceto:Montalbano usava affidarsi interamentealla fantasia culinaria ma gustosamentepopolare d'Adelina, la cammarera, lafìmmina di casa che una volta al giornoveniva a dargli adenzia, madre di duefigli irrimediabilmente delinquenti, unodei quali stava ancora in galera permerito suo. Magari questo giornoAdelina dunque non l'aveva deluso, ognivolta che stava per raprire il forno o ilfrigo gli si riformava dintra la stessa

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trepidazione di quando, picciliddro, allamatina presto del due novembre cercavail canestro di vimini nel quale durante lanotte i morti avevano deposto i lororegali. Festa ormai persa, cancellatadalla banalità dei doni sotto l'albero diNatale, così come facilmente adesso sicancellava la memoria dei morti. Gliunici a non scordarseli, i morti, anzi atenacemente tenerne acceso il ricordo,restavano i mafiosi, ma i doni cheinviavano in loro memoria non eranocerto trenini di latta o frutti dimartorana. La sorpresa insomma era unpimento indispensabile ai piattid'Adelina.

Pigliò le pietanze, una bottiglia divino, il pane, addrumò il televisore,

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s'assistimò a tavola. Gli piacevamangiare da solo, godersi i bocconi insilenzio, fra i tanti legami che lotenevano a Livia c'era magari questo,che quando mangiava non rapriva bocca.Pensò che in fatto di gusti egli era piùvicino a Maigret che a Pepe Carvalho, ilprotagonista dei romanzi di Montalbàn,il quale s'abbuffava di piatti cheavrebbero dato foco alla panza di unosqualo.

Tirava, a sentire le televisioninazionali, una laida aria di malessere, lamaggioranza governativa stessa si eravenuta a trovare spaccata su una leggeche negava la scarcerazione preventivaa gente che s'era mangiato mezzo paese,i magistrati che avevano scoperto gli

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altarini della corruzione politicaannunziavano dimissioni di protesta, unaleggera brezza di rivolta animava leinterviste alla gente comune.

Passò alla prima delle due televisionilocali. «Televigàta» era governativa perfede congenita, quale che fosse ilgoverno, rosso, nero o cilestrino. Lospeaker non faceva cenno alla cattura diTano u grecu, diceva solo che alcunisolerti cittadini avevano segnalato alcommissariato di Vigàta una tantovivace quanto misteriosa sparatoria alleprime luci del mattino in una campagnadetta «la noce», ma che gli investigatori,giunti immediatamente sul posto, nonavevano riscontrato nulla d'anormale.Dell'arresto di Tano non fece cenno

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manco il giornalista di «Retelibera»,Nicolò Zito, che non ammucciavad'essere comunista. Segno che la notiziafortunatamente non era riuscita a filtrare.Invece, del tutto inaspettatamente, Zitoparlò dell'anomalo furto al supermercatod'Ingrassia e dell'inspiegabileritrovamento del camion con tutta lamerce che era stata portata via. Eraopinione comune, riferì Zito, chel'automezzo fosse stato abbandonato inseguito a una lite fra i complici per laspartizione della refurtiva. Zito però nonera d'accordo, secondo lui le cosedovevano essere andate diversamente, laquestione era certamente assai piùcomplessa.

«Commissario Montalbano, mi

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rivolgo direttamente a lei. Non è veroche la storia è più intricata di quantoappare?» domandò, concludendo, ilgiornalista.

A sentirsi chiamare di persona, avedere gli occhi di Zito che lo taliavanodall'apparecchio mentre stavamangiando, a Montalbano andò ditraverso il vino che stava bevendo,assufficò, tossì, santiò.

Finito di mangiare, indossò il costumeda bagno e trasì in acqua. Era gelata, mala nuotata lo rimise a vita.

«Mi racconti esattamente com'èandata» fece il questore.

Fatto trasìri il commissario nel suoufficio, si era susùto, gli era andatoincontro, l'aveva abbrazzato di slancio.

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Ora Montalbano aveva questo, che eraassolutamente incapace di mentire, dicontare una farfanterìa a persone chesapeva oneste o che stimava. Davanti adelinquenti, a gente che non lo quatrava,era invece capace di sparare smàfari afaccia stagnata, poteva sostenere d'averevisto la luna pizzi pizzi, merlettata. Ilfatto che non solo stimasse il suosuperiore, ma che certe volte gli avesseparlato come a un patre, lo mise, aquella richiesta, in agitazione, diventòrosso, sudò, cangiò più volte posizionesulla seggia come se fosse quella delmalo stare. Il questore notò il disagiodel commissario, ma l'attribuì allasofferenza autentica che Montalbanoprovava ogni volta che doveva parlare

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di una sua azione ben riuscita. Ilquestore non dimenticava che all'ultimaconferenza stampa, davanti alletelecamere, il commissario si eraespresso, si fa per dire, con un lungo epenoso balbettìo, a tratti destituito daogni senso comune, con gli occhisbarrati e le pupille che ballavano'mbriache.

«Vorrei un consiglio, prima dimettermi a contare le cose».

«A disposizione».«Che devo scrivere nel rapporto?».«Che domanda è, mi scusi? Non ha

mai scritto rapporti? Nei rapporti siscrivono i fatti accaduti» rispose seccoe tanticchia strammato il questore. Evisto che l'altro ancora non si decideva

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a parlare, proseguì. «A proposito. Lei hasaputo abilmente e coraggiosamentetrarre profitto da un incontro casuale emutarlo in una riuscita operazione dipolizia, d'accordo, ma...».

«Ecco, volevo dirle...».«Mi lasci finire. Ma sono costretto a

rilevare che lei ha rischiato molto e fattorischiare molto ai suoi uomini, avrebbedovuto chiedere rinforzi consistenti,prendere doverose precauzioni.Fortunatamente tutto è andato bene, ma èstata una scommessa, questo glielovoglio dire in tutta sincerità. E ora midica».

Montalbano si taliò le dita della manomancina come se gli fossero spuntateimprovvisamente e lui non sapesse a

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cosa dovevano servire.«Che c'è?» spiò paziente il questore.«C'è che è tutto fàvuso» esplose

Montalbano. «Non c'è stato nessunincontro casuale, sono andato a trovareTano perché lui aveva domandato divedermi. E in quell'incontro ci siamomessi d'accordo».

Il questore si passò una mano sugliocchi.

«Vi siete messi d'accordo?».«Al cento per cento».E dato che c'era, gli contò tutto, dalla

telefonata di Gegè fino alla messinscenadella cattura.

«C'è altro?» spiò alla fine il questore.«Sì. C'è che stando così le cose, io

non mi merito nessuna promozione a

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vicequestore. Se fossi promosso,sarebbe per una falsità, un inganno».

«Questo lo lasci decidere a me» dissebrusco l'altro.

Si susì, si mise le mani darrè laschina, rimase un pezzo a pensare. Pois'arrisolvette e si voltò.

«Facciamo così. Rapporti me nescriva due».

«Due?!» fece Montalbano pensandoalla fatica che gli faceva in generemettere nero su bianco.

«Non stia a discutere. Il finto me lotengo in bella evidenza perl'immancabile talpa che si preoccuperàdi trasmetterlo alla stampa o alla mafia.Quello vero me lo metto in cassaforte».

Fece un sorriso.

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«E per la faccenda della promozione,che mi pare essere la cosa che laterrorizza di più, venga venerdì sera acasa mia, ne riparleremo con calma. Losa? Mia moglie s'è inventata unostrepitoso sughetto speciale per leàiole».

Il cavaliere Gerlando Misuraca, anniottantaquattro bellicosamente portati,non si smentì, attaccò turilla appena ilcommissario ebbe detto: «Pronto?».

«Chi è quel fesso di centralinista chem'ha passato lei?».

«Perché, che ha fatto?».«Non capiva il mio cognome! Non

riusciva a trasìricci in quella tistazzaferrigna! Bisurata mi chiamava, come lamagnesia!».

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Fece una pausa sospettosa, cangiòtono di voce.

«Lei mi garantisce, sul suo onore, chesi tratta solo di una povera testa dicazzo?».

Pensando che a rispondere era statoCatarella, Montalbano risultòconvincente.

«Glielo posso garantire. Ma perchévuole la garanzia, mi scusi?».

«Perché se aveva invece intenzione disfottermi, o sfottere ciò che iorappresento, fra cinque minuti arrivo incommissariato e gli spacco il culo,quant'è vero Dio!».

«Ma cosa rappresenta il cavaliereMisuraca?» si spiò Montalbano mentrel'altro continuava a minacciare cose

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terribili. Niente, assolutamente nientedal punto di vista, come dire, ufficiale.Impiegato comunale da gran tempo inpensione, non ricopriva né avevaricoperto cariche pubbliche, nel suopartito era un semplice tesserato. Omod'onestà inattaccabile, campavadignitosamente da quasi povero, mancoai tempi di Mussolini aveva volutoapprofittarsi, era sempre stato fedelegregario, come si diceva allora. Incompenso, dal '35 in poi, si era fattotutte le guerre ed era venuto a trovarsi inmezzo alle peggio battaglie, non se n'erapersa una, pareva dotato d'ubiquità, daGuadalajara in Spagna a Bir el Gobi inAfrica settentrionale, passando perAxum in Etiopia. Poi la prigionia in

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Texas, il rifiuto a collaborare, unaprigionia più dura come conseguenza, apane e acqua. Rappresentava quindi -concluse Montalbano - la memoriastorica di errori storici, certo, ma da luivissuti con ingenua fede e pagando dipersona: tra ferite piuttosto serie, una lofaceva zoppicare dalla gamba mancina.

«Ma lei, se fosse stato in grado difarlo, sarebbe andato a combattere aSalò, coi tedeschi e i repubblichini?» gliaveva un giorno spiato a tradimentoMontalbano che a modo suo gli volevabene. Già. perché in quel grancinematografo di corruttori, corrotti,concussori, mazzettisti, tangentari,mentitori, ladri, spergiuri, a cui ognigiorno s'aggiungevano nuove sequenze,

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il commissario, verso le persone chesapeva inguaribilmente oneste, daqualche tempo principiava a nutrire unsenso d'affetto.

Alla domanda, aveva visto il vecchiocome svacantarsi dall'interno, le rughesulla faccia gli si erano moltiplicatementre lo sguardo si faceva nebbioso.Aveva allora capito che quello stessointerrogativo Misuraca se l'era postomigliaia di volte e mai aveva saputodarsi una risposta. Non insistette.

«Pronto? C'è ancora?» spiò la vocestizzosa di Misuraca.

«Mi dica, cavaliere».«M'è tornata a mente una cosa, per

questo non la dissi quando venni atestimoniare».

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«Cavaliere, non ho motivo didubitare. L'ascolto».

«Una cosa stramma che mi successequand'ero quasi arrivato all'altezza delsupermercato, ma io in quel momentonon ci diedi importanza, ero nirbùso eagitato perché ci sono in giro dei cornutiche...».

«Me la vuole dire?».A lasciarlo parlare, il cavaliere

capace che la pigliava dalla fondazionedei fasci di combattimento.

«Per telefono, no. Di prisenza. È cosagrossa assai, se ho visto giusto».

Il vecchio passava per uno che dicevasempre quello che c'era da dire, senzametterci carrico o levare peso.

«Riguarda il furto al supermercato?».

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«Certo».«Ne ha già parlato con qualcuno?».«Con nisciuno».«Mi raccomando. Bocca serrata».«Vuole offendermi? Io una tomba

sono. Domani a matino presto vengo nelsuo ufficio».

«Cavaleri, una curiosità. Che cifaceva lei a quell'ora di notti, inmachina, solo e nirbùso? Lo sa che a unacerta età ci voli prudenza?».

«Venivo da Montelusa. C'era stata unariunione del direttivo provinciale e io,sebbene non ne faccia parte, ho volutoessere presente. Nessuno è capace dichiudere una porta in faccia a GerlandoMisuraca. Bisogna impedire che ilnostro partito perda la faccia e l'onore.

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Non può stare al governo con questi figlibastardi di politici bastardi ed essered'accordo con loro a fare un decreto chepermette d'uscire dalla galera a queifigli di buttana che si sono mangiata lanostra patria! Lei deve capire,commissario, che...».

«Durò fino a tardi, la riunione?».«Fino all'una di notte. Io volevo

continuare, ma gli altri si sono opposti,cadevano di sonno. Gente senza palle».

«E quanto tempo c'impiegò perarrivare a Vigàta?».

«Una mezz'ora. Vado piano. Dunquecome le stavo dicendo...».

«Mi scusi, cavaliere, mi chiamanoall'altro telefono. A domani» tagliòMontalbano.

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Cinque«Peju dei delinquenti! Peju degli

asasini ci hanno trattato quei figli dilorda buttana! E chi si credono d'èssiri?Strunzi!».

Non c'era verso di calmare Fazio,appena tornato da Palermo. Germanà,Gallo e Galluzzo gli facevano da corosalmodiarne, agitando a ruota il bracciodestro per significare avvenimentoinaudito.

«Cosi di pazzi! Cosi di pazzi!».«Calma e gesso, ragazzi. Procediamo

con ordine» intimò Montalbanomettendosi d'autorità. Poi, notando cheGalluzzo aveva giacchetta e cammisapulite dal sangue che gli era colato dalnaso scugnato, gli spiò:

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«Sei passato da casa a cangiarti primadi venire qua?».

La domanda fu un passo falso, perchéGalluzzo diventò paonazzo, il nasogonfio per la botta si colorò di venatureviola.

«Ca quali casa e casa! Non ce lo stadicendo Fazio? Da Palermo veniamo,direttamente. Quando siamo arrivatidove ci sta l'Antimafia e abbiamoconsegnato Tano u grecu, ci hannopigliato e ci hanno messo ognuno in unacàmmara diversa. Siccome che il nasomi faceva ancora male, ci volevo mèttirisopra un fazzoletto vagnàto. Dopo unamezzorata ca non si vedeva nisciuno, hoaperto la porta. E mi sono trovatodavanti un collega. Dove vai? Vado a

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cercarmi tanticchia d'acqua, mi vagno ilnaso. Non puoi nèsciri, torna dintra.Capito, commissà? Piantonato ero!Come se fossi stato io Tano u grecu!».

«Non dire quel nome e abbassa lavoce!» lo rimproverò Montalbano.«Nessuno deve sapere che l'abbiamopigliato! Il primo che parla lo spediscoall'Asinara a calci in culo».

«Tutti noi eravamo piantonati»ripigliò Fazio con la faccia sdignata.

Galluzzo continuò il suo racconto.«Dopo un'orata trasì nella càmmara

uno che canuscio, un suo collega che oraè passato all'Antimafia, Sciacchitano mipare che si chiama».

«Bello stronzo» pensò fulmineo ilcommissario, ma non disse niente.

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«Mi taliò come se fossi uno chefaceva feto, un povirazzo cheaddimannava l'elemosina. Mi continuò ataliare per un pezzo e poi fece: lo saiche così conciato non puoi presentarti alsignor prefetto?».

Ferito era rimasto dall'assurdotrattamento, a stento teneva bassa lavoce.

«E il bello è che fece l'occhiincazzati, come se fosse stata corpa mia!Sinni niscì mormoriandosi. Poi arrivò uncollega con una giacchetta e unacammisa pulite».

«Ora parlo io» intervenne Fazioavvalendosi del grado. «A farla breve,dalle tre di dopopranzo fino allamezzanotti d'aieri a sira, ognuno di noi è

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stato interrogato otto volte da ottopersone diverse».

«Che volevano sapere?».«Com'era successo il fatto».«Io per la verità sono stato interrogato

dieci volte» disse con un certo orgoglioGermanà. «Si vede che le cose le socontare meglio e a loro gli pare di stareal cinematò».

«Verso l'una di notte ci hanno messo'nzèmmula» proseguì Fazio, «ci hannoportato in un cammarone, una specie diufficio granni, dove c'erano due divani,otto seggie e quattro tavoli. Hannostaccato i telefoni e se li sono portativia. Poi ci hanno mandato quattro paninifitùsi e quattro birre càvude cheparevano pisciazza. Ci siamo

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accomidati alla meglio e alle otto distamatina è venuto uno che ha detto chece ne potevamo tornare a Vigàta. Mancobongiorno, manco scù o passiddrà comesi dice ai cani che si vonno alluntanàri.Nenti».

«Va bene» fece Montalbano. «Che civolete fare? Andate a casa, arriposatevie tornate qua dopopranzo tardo.V'assicuro che questa storia gliela dicoal questore».

«Pronto? Sono il commissario SalvoMontalbano di Vigàta. Vorrei parlare colcommissario Arturo Sciacchitano».

«Rimanga in linea, per favore».Montalbano pigliò un foglio di carta e

una penna. Fece un disegno senzapensarci e solo dopo s'addunò che aveva

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disegnato un culo assittato sopra unatazza di retrè.

«Mi dispiace, il commissario è inriunione».

«Senta, gli dica che magari io sono inriunione, così siamo pari e patta. Luiinterrompe la sua per cinque minuti, iofaccio lo stesso con la mia e siamo tuttie due felici e contenti».

Aggiunse alcuni stronzi al culo checacava.

«Montalbano? Che c'è? Scusami, hopoco tempo».

«Pure io. Senti, Sciacchitanov...».«Come Sciacchitanov? Che cazzate

dici?».«Ah, non ti chiami così? Non fai parte

del kappagibì?».

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«Non ho voglia di scherzare».«E io non sto scherzando. Ti telefono

dall'ufficio del questore che è indignatoper il modo, proprio da kgb, col qualehai trattato i miei uomini. Mi hapromesso che oggi stesso scriverà alministro».

Il fenomeno era inspiegabile, eppuregli capitò: vide, attraverso il filo deltelefono, impallidire Sciacchitano,universalmente noto per essere unpavido leccaculo. La menzogna diMontalbano aveva colpito l'altro comeuna sprangata in testa.

«Ma che stai dicendo? Tu devi capireche io, come responsabile dellasicurezza...».

Montalbano l'interruppe.

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«Sicurezza non esclude cortesia» fecelapidario, sentendosi come un cartellostradale del tipo "precedenza nonesclude prudenza".

«Ma sono stato cortesissimo! Hoofferto loro birra e panini!».

«Mi dispiace dirti che malgrado labirra e i panini la cosa avrà un seguito inalto loco. Del resto, consòlati,Sciacchitano, non è colpa tua. Chi nascetondo non può morire quadrato».

«Che vuol dire?».«Vuol dire che tu, essendo nato

stronzo, non puoi morire intelligente.Esigo una lettera, a me indirizzata, nellaquale elogi ampiamente i miei uomini.La voglio entro domani. Ti saluto».

«Pensi che se io ti scrivo la lettera il

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questore non proceda?».«Sarò onesto: io non so se il questore

procederà o non procederà. Ma se fossiin te, io la lettera la scriverei. Perguardarmi le spalle. E magari ci mettereila data di ieri. Mi sono spiegato?».

S'era sfogato e si sentì meglio.Chiamò Catarella.

«È in ufficio il dottor Augello?».«Nonsi, ma ora ora tilifonò. Disse

così che calcolata una distanzia di unadecina di minuti, fra una decina di minutiin ufficio viene».

Ne approfittò per mettere mano alrapporto finto, quello vero invecel'aveva scritto a casa sua la notte avanti.A un certo punto Augello tuppiò e trasì.

«M'hai cercato?».

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«Ti costa proprio tanto venire inufficio tanticchia prima?».

«Scusami, ma il fatto è che sono statoimpegnato fino alle cinque di stamatina,poi sono tornato a casa, mi sonoappinnicato e buonanotte».

«Sei stato impegnato con qualchebuttana di quelle che ti piacciono? Diquelle che stazzano non meno dicentoventi chili di carne?».

«Ma Catarella non t'ha detto niente?».«M'ha detto che arrivavi in ritardo».«Stanotte, verso le due, c'è stato un

incidente mortale. Sono andato sul postoe ho pensato di lasciarti dormire, vistoche la cosa per noi non avevarilevanza».

«Per i morti forse la rilevanza c'è».

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«Il morto, uno solo. S'è fatto ladiscesa della Catena a rotta di collo,evidentemente non gli funzionavano ifreni, ed è andato a incastrarsi sotto a uncamion che, in senso inverso,principiava la salita. Poverazzo, è mortosul colpo».

«Lo conoscevi?».«Certo che lo conoscevo. E magari tu.

Il cavaliere Misuraca».«Montalbano? M'hanno appena

telefonato da Palermo. Non solo ènecessario fare la conferenza stampa, maè importante che abbia una certarisonanza. Serve alle loro strategie.Verranno giornalisti da altre città, nedaranno notizia i telegiornali nazionali.Una cosa grossa insomma».

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«Vorranno dimostrare che il nuovogoverno non allenta la lotta alla mafia,che anzi essa sarà più serrata, senzatregua...».

«Montalbano, che le è preso?».«Niente, sto leggendo i titoli di

dopodomani».«La conferenza è stabilita per

domattina alle dodici. Volevo avvertirlaper tempo».

«La ringrazio, signor questore, ma ioche c'entro?».

«Montalbano, io sono buono e caroma fino a un certo punto. Lei c'entra,eccome se c'entra! Non faccia ilbambino!».

«E che devo dire?».«Ma benedetto Iddio! Dirà quello che

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ha scritto sul rapporto».«Quale?».«Non ho sentito bene. Che ha detto?».«Niente».«Cerchi di parlare in modo chiaro,

senza smozzicare le parole, senzastarsene a testa bassa. Ah, le mani.Stabilisca una volta e per tutte dovemetterle e lì le tenga. Non faccia comel'ultima volta che il giornalista del"Corriere" suggerì a voce alta ditagliargliele per farlo stare a suo agio».

«E se mi domandano?».«Certo che la domandano, tanto per

usare il suo italiano bastardo.Giornalisti sono, no? Buongiorno».

Troppo nirbùso per le cose chestavano succedendo e per quelle che

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sarebbero successe il giorno appresso,non ce la fece a restarsene in ufficio.Niscì, passò dalla solita putìa, s'accattòun sacchetto consistente di càlia esimenza e s'avviò verso il molo. Quandoarrivò ai piedi del faro e si voltò pertornare narrè, si venne a trovare faccia afaccia con Ernesto Bonfiglio,proprietario di un'agenzia di viaggi egrande amico dell'appena defuntocavaliere Misuraca.

«C'è nenti che si possa fare?» quasil'aggredì Bonfiglio.

Montalbano, che stava cercando dilevarsi un pezzetto di nocciolinaamericana rimasto incastrato fra duedenti, lo taliò ammammaloccuto.

«Sto spiando se c'è nenti da fare»

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ripeté terrigno Bonfiglio, taliandolo asua volta di traverso.

«Da fare in che senso?».«Nel senso del mio povero e

compianto».«Vuole favorire?» fece il

commissario porgendogli il sacchetto.«Grazie sì» fece l'altro pigliandosi un

pugno di calia e simenza.La pausa servì a Montalbano per

inquadrare meglio il suo interlocutore:oltre ad essere amico fraterno delcavaliere, era uomo che professava ideed'estremissima destra e non ci stavatanto con la testa.

«Lei sta parlando di Misuraca?».«No, di mio nonno».«E cosa dovrei fare io?».

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«Arrestare gli asasini. È dovere suo».«E chi sarebbero questi assassini?».«Non sarebbero, sono. Mi riferisco al

direttivo provinciale del partito che nonera degno di averlo tra le sue fila. Lorol'hanno ammazzato».

«Scusi, ma non si è trattato di unincidente?».

«Ah, perché lei crede che gl'incidenticapitano incidentalmente?».

«Direi di sì».«E sbaglia. Uno se li chiama

gl'incidenti e c'è sempre un altro prontoa mandarglieli. Faccio un esempio tantoper essere chiaro. Mimì Crapanzano èmorto annegato a frivàro di quest'annomentre si faceva una nuotata. Morteaccidentale. Ma ora vengo io e

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domando: quanti anni aveva Mimìquando è morto? Cinquantacinque.Perché ha voluto fare a quell'età questaspirtizza di farsi il bagno col gelo, cosache faceva da picciotto? La risposta è lasiquenti: perché s'era maritato da menodi quattro mesi con una giuvane milanisidi ventiquattro anni e la giuvane ci spiò,mentre passiavano a ripa di mare: caro,è vero che tu a febbraio ti facevi ilbagno in questo mare? Certo, arrisposeCrapanzano. La giuvane, cheevidentemente s'era stuffata del vecchio,sospirò. Che hai? spiò come uno strunzoCrapanzano. Mi dispiace che ormai ionon possa vedertelo più fare, disse labuttana. Senza dire né ai né bai,Crapanzano si spogliò e si gettò in

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acqua. Sono stato chiaro?».«Chiarissimo».«Ora veniamo ai signori del direttivo

provinciale di Montelusa. Dopo unaprima riunione finita a male parole, aieria sira se n'è tenuta un'altra. Il cavaliere,e qualche altro con lui, voleva che ildirettivo facesse un comunicato damandare ai giornali contro il decreto delgoverno che risparmia la galera ai ladri.Altri erano invece di pensiero diverso.A un certo punto un tale disse aMisuraca che era un rottame, un secondoaffermò che gli ricordava l'opera deipupi, un terzo lo chiamò vecchio stòlito.Sono tutte cose che ho saputo da unamico che era presente. Alla fine ilsegretario, un fitùso che manco è

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siciliano e di cognome fa Biraghìn, glidisse se per favore voleva accomodarsialla porta, dato che non aveva nessundiritto di partecipare alla riunione. Cosavera, ma nisciuno s'era mai permessoprima. Il mio amico pigliò laCinquecento e fece per tornarsene aVigàta. Sicuramente il sangue gli stavabollendo, ma quelli l'avevano fattoapposta a fargli perdere la testa. E lei miviene a contare che è stato unincidente?».

L'unico modo per ragionare conBonfiglio era quello di mettersiesattamente al suo livello, ilcommissario lo sapeva per precedentispirenzie.

«Lei ha un personaggio televisivo che

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le sta particolarmente 'ntipatico?».«Centomila, ma Mike Bongiorno è il

peggio di tutti. Quando lo vedo, lostomaco mi si fa una pesta, mi veni discassare l'apparecchio».

«Bene. E se lei, dopo aver sentitoquesto presentatore, si mette inmacchina, va a sbattere contro un muro es'ammazza, io che dovrei fare, secondolei?».

«Arrestare Mike Bongiorno» fecedeciso l'altro.

Tornò in ufficio sentendosi piùtranquillo, l'incontro con la logicad'Ernesto Bonfiglio l'aveva divertito esvagato.

«Novità?» spiò entrando.«C'è una littra pirsonale per lei che

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ora ora portò la posta» disse Catarella esottolineò sillabando: «Pir-so-na-le».

Sul suo tavolo c'erano una cartolina disuo padre e alcune comunicazioni diservizio.

«Catarè, dove l'hai messa la lettera?».«Se le dissi che era pirsonale!» si

risentì l'agente.«Che significa?».«Significa che essendo che era

pirsonale, abbisognava farla aviri allapirsona».

«Va bene, la pirsona è qui, davanti ate, ma la lettera dov'è?».

«E dovi doviva andare. Dovi lapirsona pirsonalmente abita. Dissi alpostino di portarla a casa sò di lei,signor dottori, a Marinella».

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Davanti alla trattoria «San Calogero»c'era, a pigliare un attimo di fresco, ilcuoco proprietario.

«Commissario, che fa, tira di longo?».«Vado a mangiare a casa».«Mah, faccia come cridi. Ma io ho

certi gamberoni da fare arrosto che nonpare di mangiarseli, ma di sognarseli».

Montalbano trasì, vinto dall'immaginepiù che dal desi57

derio. Poi, finito di mangiare,allontanò i piatti, incrociò le braccia sultavolo, vi poggiò la testa,s'addrummiscì. Mangiava quasi semprein una saletta con tre tavoli, fu facileperciò al cameriere Serafino dirottare iclienti verso il salone e lasciare in paceil commissario. Verso le quattro, a

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locale già chiuso, visto che Montalbanonon dava segno di vita, il proprietariogli preparò una tazza di caffè forte e losvegliò delicatamente.

SeiDella lettera pirsonalmenti pirsonali

preannunciata da Catarella se n'eracompletamente scordato, gli venne amente solo quando ci posò il piedesopra entrando in casa, il postinol'aveva infilata sotto la porta. L'indirizzopareva da lettera anonima: «Montalbano- Commissariato - Città». E, in alto asinistra, l'avvertimento: personale.Quello che aveva purtroppo messo inmoto le terremotate meningi diCatarella.

Anonima però non era, anzi. La firma

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che Montalbano andò subito a cercaregli esplose nel ciriveddro come unbotto.

Egregio Commissario, ho pensato chemolto probabilmente non sarò in gradodi venire da lei domani mattina comeconvenuto. Se per caso, e come paremolto probabile, la riunione deldirettivo provinciale di Montelusa, dovemi recherò appena finito di scriverequesta mia, dovesse risolversi in uninsuccesso per le mie tesi, credo che ilmio dovere sia quello di andare aPalermo a cercare di scuotere gli animie le coscienze di quei camerati cheoccupano incarichi veramentedecisionali all'interno del Partito.Disposto magari a volare a Roma e a

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chiedere udienza al SegretarioNazionale. Questi miei propositi, serealizzati, allontanerebbero alquanto ilnostro incontro e perciò voglia tenermiper scusato se metto per iscritto quelloche avrei voluto dirle a voce, dipresenza.

Come lei certamente ricorderà, ilgiorno appresso allo strano furto nonfurto al supermercato, spontaneamentevenni in Commissariato a raccontarequello che avevo casualmente visto ecioè un gruppo di uominitranquillamente al lavoro, sia pure adora insolita, a luci accese e sorvegliatida un individuo in divisa che mi sembròessere quella del guardiano notturno.Nessuno, passando, avrebbe potuto

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scorgere qualcosa d'anormale in quellascena: se avessi notato alcunchéd'insolito io stesso mi sarei premuratod'avvertire le forze dell'ordine.

La notte seguente la miatestimonianza, non mi riuscì di chiudereocchio per il nervosismo cagionatomidalle discussioni con alcuni camerati ecosì mi venne di riandare con lamemoria alla scena del furto. E miricordai, solo allora, di un fatto cheforse può essere assai importante. Diritorno da Montelusa, agitato com'ero,sbagliai la strada d'accesso per Vigàta,resa recentemente difficoltosa da unaserie d'insensati sensi unici. Così,invece di prendere via Granet, imboccaila vecchia strada Lincoln, per cui mi

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venni a trovare contromano. Accortomidopo qualche cinquantina di metridell'errore, decisi allora di fare marciaindietro, manovra che portai a terminefino all'altezza del vicolo Trupìa, dentroil quale sarei dovuto entrare rinculandoper poi rimettermi nella giusta direzione.Mi fu però impossibile entrare nelvicolo perché trovai il medesimoletteralmente sbarrato da una grossamacchina tipo «Ulisse», largamentepropagandata in questi giorni ma nonancora in vendita se non in rariesemplari, targata Montelusa 328280. Aquesto punto non mi restava altro checontinuare nell'infrazione. Dopo pochimetri sono sbucato nella piazza ChiesaVecchia, dove sorge il supermercato.

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Le risparmio ulteriori indagini: quellamacchina, del resto unica in paese,appartiene al signor Carmelo Ingrassia.Ora, dato che Ingrassia abita a MonteDucale, che ci faceva la sua macchina adue passi dal supermercato, sempre diproprietà dell'Ingrassia, che intantoveniva apparentemente svaligiato? A leila risposta.

Mi creda suo devot.moCav. Gerlando Misuraca

«M'hai inculato con tutti i sacramenti,cavaliere!» fece per tutto commentoMontalbano taliando malamente la let60

tera che aveva posato sul tavolo dellacàmmara da mangiare. E di mangiare,appunto, ora non se ne parlava più.Raprì il frigorifero solo per rendere un

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mesto omaggio alla sapienza culinariadella cammarera, omaggio meritato,perché sentì subito l'avvolgente sciàurodei polipetti affogati. Richiuse ilfrigorifero, non ce la faceva, un pugnogli serrava lo stomaco. Si spogliò e,nudo com'era, si mise a passiare a ripadi mare, tanto a quell'ora non c'eraanima viva. Niente fame e niente sonno.Verso le quattro del matino si gettònell'acqua ghiacciata, nuotò a lungo, poitornò a casa. Si addunò, e rise, che gliera venuto duro. Decise di parlargli, dipersuaderlo alla ragione.

«È inutile che ti fai venire fantasie».Il duro gli suggerì che forse una

telefonata a Livia ci sarebbe stata bene,a Livia nuda e càvuda di sonno nel suo

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letto.«Tu sei una testa di minchia che mi

dice minchiate. Queste sono cose dipicciotti segaioli».

Offeso, il duro si ritirò. Montalbano simise un paio di mutande, unasciugamano asciutto sulle spalle, pigliòuna seggia e s'assittò nella veranda chedava sulla spiaggia.

Se ne stette a taliare il mare chelentissimo si schiariva, poi pigliavacolore, si venava di striature gialle disole. Si prospettava una bella giornata eil commissario si sentì racconsolato,pronto ad agire. Le idee, dopo la letturadella lettera del cavaliere gli eranovenute, il bagno era servito per metterlein ordine.

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«Combinato così lei alla conferenzanon si può apprisintare» sentenziò Faziosquatrandolo severamente.

«Che pigliasti lezione da quellidell'Antimafia?».

Montalbano raprì il sacchetto dinailon rigonfio che aveva in mano.

«Qua ci ho pantaloni, giacchetta,cammisa e cravatta. Mi cangio prima diandare a Montelusa. Anzi, fai una cosa:tirali fòra e mettili sopra una seggia,vasannò pigliano pieghe».

«Quelle le hanno già pigliate. Ma nondicevo per il vestito, dicevo per lafaccia. Lei per forza deve andare dalvarbèri».

Per forza aveva detto Fazio che loconosceva bene e sapeva quanto

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costasse al commissario recarsi dalbarbiere. Passandosi una mano darrè ilcozzo, Montalbano convenne che i suoicapelli avevano bisogno di unasforbiciata. S'abbuiò.

«Oggi non andrà bene un cazzo!»predisse.

Prima di nèsciri, stabilì che mentre luisi faceva bello, qualcuno andasse acercare Carmelo Ingrassia el'accompagnasse in ufficio.

«Se mi spia perché, cosa devorispondere?» domandò Fazio.

«Tu non rispondi».«E se insiste?».«Se insiste gli dici che voglio sapere

da quanto tempo non si fa un clistere. Tiva bene così?».

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«C'è bisogno d'arrabbiarsi?».Il varbèri, il suo garzone e un cliente

che stava assittato ad una delle dueseggie girevoli che il salone, in realtà unsottoscala, a malapena conteneva,stavano animatamente discutendo, maappena videro profilarsi il commissarioammutolirono. Montalbano era trasùtocon quella che lui stesso definiva«faccia da varbèri», vale a dire boccaridotta a fessura, occhi socchiusisospettosamente, sopracciglia corrugate,espressione a un tempo sprezzante esevera.

«Bongiorno, c'è d'aspittari?».Magari la voce gli veniva bassa e

rauca.«Nonsi, commissario, s'assittassi».

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Mentre Montalbano prendeva postosulla seggia vacante, il varbèri, a tempiaccelerati come in una comica diCharlot, faceva ammirare il travagliocompiuto al cliente mettendogli unospecchio darrè la nuca, lo liberavadall'asciugamano, lo gettava in uncontenitore, ne pigliava uno pulito, loposava sulle spalle del commissario. Ilcliente, rifiutata la consueta spazzolatada parte del garzone, pigliòletteralmente il fujuto dopo un«bongiorno» borbottato.

Il rito del taglio di barba e capelli,svoltosi in rigoroso silenzio, fu veloce efunereo. Un nuovo cliente fece pertrasìri scostando la tenda di perline, ma,fiutata l'ariata e riconosciuto il

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commissario:«Passo dopo» disse. E sparì.Sulla strata del ritorno verso l'ufficio,

Montalbano sentì aleggiare attorno unodore indefinibile ma disgustoso, amezzo fra la trementina e un certo tipo dicipria che usavano le buttane unatrentina d'anni prima. Erano i suoicapelli a fètere in quel modo.

«Nel suo ufficio c'è Ingrassia» disseTortorella a bassa voce, come se sitrattasse di cosa di congiura.

«Fazio dov'è andato?».«A casa a cangiarsi d'abito. C'è stata

una telefonata dalla questura. Dice chemagari Fazio, Gallo, Galluzzo eGermanà devono partecipare allaconferenza».

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«Si vede che la mia telefonata aquello stronzo di Sciacchitano ha fattoeffetto» pensò Montalbano.

Ingrassia, che questa volta era tuttovestito di verde pallido, accennò asusìrisi.

«Comodo, comodo» disse ilcommissario assittandosi a sua voltadarrè la scrivania. Si passò,distrattamente, una mano sui capelli esubito l'odore di trementina e ciprias'avvertì più forte. Allarmato, si portò ledita al naso, le sciaurò ed ebbeconferma del suo sospetto. Ma non c'eraniente da fare, nel bagno dell'ufficio nonteneva sciampo. Di colpo, gli tornò la«faccia di varbèri». A vederlo cosìstracangiare, Ingrassia si squietò, s'agitò

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sulla seggia.«C'è cosa?» spiò.«In che senso, scusi?».«Mah... In tutti i sensi» s'imparpagliò

Ingrassia.«Boh» fece evasivamente

Montalbano.Tornò a sciaurarsi le dita e il dialogo

stagnò.«Ha sentito del povero cavaliere?»

spiò il commissario come se stessero aparlare tra amici, in un salotto.

«Eh! La vita!» sospirò l'altrocompunto.

«Pensi, signor Ingrassia: gli avevodomandato se poteva tornare a darmialtri particolari su quello che avevavisto la notte del furto, ci eravamo messi

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d'accordo per incontrarci, e invece...».Ingrassia allargò le braccia in un

gesto che invitava Montalbano allarassegnazione davanti al destino.Lasciata passare una doverosa pausa dimeditazione:

«Mi scusi» disse «ma quali altriparticolari poteva contargli il poverocavaliere? Tutto quello che aveva visto,l'aveva detto».

Montalbano con l'indice gli fece'nzinga di no.

«Lei pensa che non abbia detto tuttoquello che ha visto?» fece Ingrassiaintrigato.

Nuovamente Montalbano col dito fece'nzinga di no.

«Cuoci nel tuo brodo, cornuto»

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pensava intanto.Il ramo verde ch'era Ingrassia s'agitò

come scosso da un venticello.«Ma allora che voleva sapere da

lui?».«Quello che credeva di non avere

veduto».Il venticello si cangiò in vento forte, il

ramoscello oscillò.«Non ho capito».«Glielo spiego. Lei sicuramente avrà

visto quel dipinto di Pieter Bruegel ches'intitola Giochi di fanciulli!».

«Chi? Io? No» fece preoccupatoIngrassia.

«Fa niente. Avrà allora sicuramentevisto qualcosa di Hieronymus Bosch».

«Nonsi» disse Ingrassia e principiò a

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sudare. Stavolta si stava scantando pidavero mentre la faccia gli si andavaintonando al colore dell'abbigliamento,verde.

«Non ha importanza, lasciamoperdere» disse magnanimo Montalbano.«Volevo dire che uno, vedendo unascena, ricorda di quella scena la primagenerica impressione che ne ha ricevuto.D'accordo?».

«D'accordo» fece Ingrassia ormaipreparato al peggio.

«Poi, picca a picca, gli può tornare amente qualche dettaglio che ha visto,registrato nella memoria, ma messo daparte come cosa che non è importante.Faccio qualche esempio: una finestraaperta o chiusa, una rumorata, che so, un

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fischio, una canzona, una seggiaspostata, un'automobile ch'era dove nondoveva essere, una luce che s'astutava...Cose così, dettagli, particolari chefiniscono con l'avere importanzaestrema».

Ingrassia tirò fòra dalla sacchetta unfazzoletto bianco con l'orlo verde es'asciucò il sudore.

«Mi ha fatto venire qua solo per dirmiquesto?».

«No. L'avrei scomodata ammàtula,non me lo sarei permesso. Voglio saperese ha ricevuto notizie da quelli che,secondo lei, le hanno organizzato losgherzo del finto furto».

«Nisciuno s'è fatto vivo».«Strano».

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«Perché?».«Perché il bello di uno sgherzo è di

goderselo poi con la persona che è statala vittima. Ad ogni modo, se per caso sifanno vivi me lo faccia sapere.Buongiorno».

«Buongiorno» rispose Ingrassiasusendosi. Grondava, i pantaloni gli sierano appiccicati sul sedere.

Fazio si fece vedere tutto acchittatocon una divisa fiammante.

«Io sono qua» disse.«E il papa a Roma».«Va bene, commissario, ho capito,

oggi non è cosa».Fece per ritirarsi ma si fermò sulla

soglia.«Ha telefonato il dottore Augello,

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dice così che ha un malo di dentigrandissimo. Viene solo se ce n'è dibisogno».

«Senti, lo sai dove sono andati afinire i rottami della Cinquecento delcavaliere Misuraca?».

«Sissi, è ancora qua, nel nostrogaraggi. Sintissi a mia: questa è tuttainvidia».

«Ma di che cosa stai parlando?».«Del malo di denti del dottore

Augello. Quella botta d'invidia è».«E chi invidia?».«A lei, perché lei fa la conferenza e

lui invece no. Ed è magari incazzatopirchì lei non gli ha voluto dire il nomedi quello che abbiamo arrestato».

«Mi fai un favore?».

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«Sissi, ho capito, me ne vado».Quando Fazio ebbe ben chiuso la

porta, formò un numero. Gli rispose unavoce di donna che pareva la parodia deldoppiaggio di una negra.

«Bronto? Chi balli? Chi balli tu?».«Ma dove le vanno a raccattare le

cameriere in casa Cardamone?» sidomandò Montalbano.

«C'è la signora Ingrid?».«Zì, ma chi balli?».«Sono Salvo Montalbano».«Tu speta».Invece la voce di Ingrid era identica a

quella che la doppiatrice italiana avevaprestato a Greta Garbo, che del resto eramagari lei svedese.

«Ciao, Salvo, come stai? È da tempo

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che non ci vediamo».«Ingrid, ho bisogno del tuo aiuto. Sei

libera stasera?».«Veramente non lo sarei. Ma se è una

cosa importante per te, mando tuttoall'aria».

«È importante».«Allora dove e a che ora».«Stasera alle nove, al bar di

Marinella».La conferenza stampa si risolvette per

Montalbano, come del resto già luistesso sapeva, in una lunga, patitavrigogna. Da Palermo era venuto ilvicequestore De Dominicisdell'Antimafia, che pigliò posto alladestra del questore. Gesti imperiosi eocchiatazze costrinsero Montalbano, che

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voleva restarsene in mezzo alla gente, adassittarisi a mancina del suo capo.Darrè, in piedi, Fazio, Germanà, Gallo eGalluzzo. Cominciò a parlare il questoree per prima cosa fece il nomedell'arrestato, il numero uno dei numeridue: Gaetano Bennici inteso Tano ugrecu, pluriassassino da anni latitante.Fu letteralmente un botto. I giornalisti,che erano tanti e c'erano magari quattrotelecamere, satàrono sulle seggie e simisero a parlare tra di loro, tanto che ilquestore faticò a ottenere il silenzio.Disse che il merito dell'arresto era delcommissario Montalbano il quale,coadiuvato dai suoi uomini, e ne fece inomi presentandoli, aveva saputoabilmente e coraggiosamente sfruttare

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un'occasione propizia. Poi parlò DeDominicis che spiegò il ruolo di Tano ugrecu in seno all'organizzazione, ruolose non di primissimo, certamente diprimo piano. Si risedette e Montalbanocapì che veniva abbandonato ai cani.

Le domande partirono a raffica,peggio di un kalashnikov. C'era statoconflitto a fuoco? Tano u grecu era solo?C'erano stati feriti tra le forzedell'ordine? Che aveva detto Tanoquando l'avevano ammanettato? Tanodormiva o era sveglio? Aveva con séuna femmina? Un cane? Era vero che sidrogava? Quanti omicidi aveva sullespalle? Com'era vestito? Era nudo? Eravero che Tano era un tifoso del Milan?Che aveva addosso una foto di Ornella

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Muti? Voleva spiegare quale era statal'occasione propizia di cui aveva parlatoil questore?

Montalbano s'affannava a risponderee sempre meno capiva quello cheandava dicendo.

«Meno male che c'è la televisione»pensò. «Così poi mi rivedo e capisco leminchiate che ho detto».

E poi, a fare più difficili le cose,c'erano gli occhi adoranti dell'ispettriceAnna Ferrara, fissi su di lui.

A cercare di tirarlo fòra dalle sabbiemobili in cui stava annegando ci provòil giornalista Nicolò Zito di«Retelibera», che gli era veramenteamico.

«Commissario, mi permetta. Lei ha

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detto che ha incontrato Tano tornando daFiacca dove era stato invitato da amici amangiare una tabisca. Ho inteso bene?».

«Sì».«Cos'è una tabisca?».Se l'erano mangiata tante volte

insieme, quindi Zito gli stava tirando unsalvagente. Montalbano l'agguantò.Tornato di colpo sicuro e preciso, ilcommissario s'addentrò in unadettagliata descrizione di quellastraordinaria pizza multisapore.

SetteNell'omo di volta in volta pigliato dai

turchi, balbuziente, esitante, strammàto,stunàto, perso, ma sempre con gli occhispiritati, che la telecamera di«Retelibera» impietosamente

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inquadrava in primo piano, a stentoMontalbano riconobbe se stesso sottol'imperversare delle domande deigiornalisti garrusi e figli di buttana. Laparte della spiegazione di com'era fattala tabisca, quella che gli era venuta-meglio, non venne trasmessa, forse nonera perfettamente in linea conl'argomento principale, la cattura diTano.

Le milanzane alla parmigiana che lacammarera gli aveva lasciate nel fornogli parsero di colpo scipite, ma nonpoteva essere, non era così, si trattava diun effetto psicologico nel vedersi tantotesta di minchia dintra la televisione.

Improvvisa, gli venne la voglia dichiàngiri, di stinnicchiarsi sul letto

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incuponandosi tutto con un linzòlo comeuna mummia.

«Commissario Montalbano? SonoLuciano Acquasanta del giornale "IlMezzogiorno". Vorrebbe essere tantocortese di concedermi un'intervista?».

«No».«Non le farò perdere tempo, lo

giuro».«No».«Parla il commissario Montalbano?

Sono Spingardi, Attilio Spingardi dellaRAI di Palermo. Stiamo allestendo unatavola rotonda sul tema...».

«No».«Ma mi lasci finire!».«No».«Amore? Sono Livia. Come ti senti?».

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«Bene. Perché?».«Ti ho appena visto in televisione».«Oh Gesù! M'hanno visto in tutta

Italia?».«Credo di sì. Ma è stata una cosa

breve, sai?».«Si è sentito quello che dicevo?».«No, parlava solo lo speaker. Di te si

vedeva però la faccia ed è per questoche mi sono preoccupata. Eri giallocome un limone».

«C'erano magari i colori?!».«Certo. Ogni tanto ti mettevi la mano

sugli occhi, sulla fronte».«Avevo mal di testa e le luci mi

davano fastidio».«T'è passato?».«Sì».

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«Commissario Montalbano? SonoStefania Quattrini di "Essere donna".Vorremmo farle un'intervista telefonica,può restare in linea?».

«No».«È roba di pochi secondi».«No».«Ho l'onore di parlare proprio con il

celebre commissario Montalbano chetiene conferenze stampa?». «Nonrompetemi i coglioni».

«No, i coglioni, stai tranquillo, nonvogliamo romperteli. Ma il culo sì».

«Chi parla?».«La to' morti, parla. Ti voglio dire che

non te la passerai liscia, cornuto d'untragediatore! A chi credevi di pigliareper fissa con tutto quel triatro che hai

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fatto col tuo amico Tano? E per questopagherai, pi aviri circato di pigliàrinnipo culu».

«Pronto? Pronto?».La comunicazione era stata interrotta.

Montalbano non ebbe il tempo dicapacitarsi di quelle minacciose parole,di ragionarci sopra, perché capì che ilsuono insistente che da un pezzo sentivanel tananai di quelle telefonate eraquello del campanello della porta.Chissà perché si fece persuaso che sitrattava di un qualche giornalista piùsperto degli altri che aveva decisod'apprisintarsi direttamente. Corseesasperato all'ingresso e, senza raprìre,gridò:

«Chi cazzo è?».

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«Sono il questore».E che voleva da lui, a casa sua, a

quell'ora e senza manco avvertirloprima? Diede una manata allo scoppo,spalancò la porta.

«Buongiorno, s'accomodi» e si fece dilato.

Il questore non si cataminò.«Non abbiamo tempo. Si metta in

ordine e mi raggiunga in macchina».Gli voltò le spalle, s'allontanò.

Passando davanti allo specchio grandedell'armuar, Montalbano capì cosavolesse assignificare il questore conquel «si metta in ordine». Era infatticompletamente nudo.

La macchina non portava la scrittadella polizia, aveva invece il

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contrassegno delle auto da noleggio, alposto di guida c'era, in borghese, unagente della questura di Montelusa chelui conosceva. Appena si fu assittato, ilquestore parlò.

«Mi scusi se non ho avuto modod'avvertirla, ma il suo telefono risultavasempre occupato».

«Già».Avrebbe potuto interrompere, certo,

però questo non rientrava nel suo mododi fare, da persona gentile e discreta.Montalbano non gli spiegò perché il suotelefono non gli avesse concesso tregua,non era cosa, il suo capo era nìvurucome mai l'aveva visto prima, la facciatirata, la bocca storciuta a mezzo in unaspecie di smorfia.

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Dopo un tre quarti d'ora che avevanopigliato la strata che da Montelusaportava a Palermo, e l'autista cacciavaforte, il commissario principiò a taliarequella parte di paesaggio della sua isolache più gli faceva garbo.

«Ti piace davvero?» avevadomandato sbalordita Livia quando,qualche anno avanti, l'aveva portata inquei paraggi.

Aride colline, quasi tumoligiganteschi, coperte solo di stoppiegialle d'erba secca, abbandonate dallamano dell'uomo per sopravvenutesconfitte dovute alla siccità, all'arsura opiù semplicemente alla stanchezza di uncombattimento perso in partenza, ditanto in tanto interrotte dal grigio di

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rocce a pinnacolo, assurdamente natedal nulla o forse piovute dall'alto,stalattiti o stalagmiti di quella fondagrotta a cielo aperto ch'era la Sicilia. Lerare case, tutte di solo pianoterra,dammùsi, cubi di pietre a secco, eranomesse di sghembo, quasi che avesserofortunosamente resistito a una violentasgroppata della terra che non volevasentirsele sopra. C'era sì qualche raramacchia di verde, ma non d'alberi o dicolture, bensì d'agavi, di spinasanta, disaggina, d'erba-spada, stenta,impolverata, prossima anch'essa allaresa.

Come se avesse aspettato lascenografia adatta, il questore si decisea parlare, il commissario però capì che

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non a lui si rivolgeva, ma a se stesso, inuna sorta di dolorante e rabbiosomonologo.

«Perché l'hanno fatto? Chi ha decisodi decidere? Se si facesse un'inchiesta,ipotesi impossibile, risulterebbe o chenessuno ha preso l'iniziativa o che hannodovuto agire per ordini superiori. Alloravediamo chi sono questi superiori chehanno dato l'ordine. Il capodell'Antimafia negherebbe e così ancheil ministro dell'Interno, il presidente delConsiglio, il capo dello Stato. Restano,nell'ordine: il papa, Gesù, la Madonna,il Padreterno. Griderebbero alloscandalo: come si può pensare che sianostati loro a dare l'ordine? Non resta cheil Maligno, quello che si è fatto la fama

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d'essere la causa di ogni male. Ecco chiè il colpevole: il diavolo! Insomma, inpoche parole, hanno stabilito ditrasferirlo in un altro carcere».

«Tano?» osò spiare Montalbano. Ilquestore manco gli rispose.

«Perché? Non lo sapremo mai, questoè certo. E mentre noi stavamo a fare laconferenza stampa, quelli lo mettevanodentro una macchina qualsiasi con dueagenti in borghese di scorta - Dio!quanto sono furbi! - per non darenell'occhio, certo, e così, quando dalleparti di Trabia da un viottolo è arrivatala classica potente motocicletta con duesopra, assolutamente anonimi per via delcasco... Morti i due agenti, lui staagonizzando in ospedale. Questo è

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quanto».Montalbano incassò, cinicamente

pensando solo che se l'ammazzavanoqualche ora prima, si sarebberisparmiata la tortura della conferenzastampa. Pigliò a fare domande soloperché intuì che il questore si eratanticchia calmato con quello sfogo.

«Ma come hanno fatto a sapereche...».

Il questore diede una gran botta alsedile che stava davanti, l'autistasobbalzò e la macchina sbandòleggermente.

«Ma che domande mi fa, Montalbano?Una talpa, no? È questo che mi manda inbestia».

Il commissario lasciò passare qualche

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minuto prima di spiare ancora.«Ma noi che c'entriamo?».«Le vuole parlare. Ha capito che sta

morendo, le vuole dire una cosa».«Ah. E lei perché si è disturbato?

Potevo andarci solo».«L'accompagno per evitarle ritardi,

contrattempi. Quelli, nella loro sublimeintelligenza, sono magari capacid'impedirle il colloquio».

Davanti al cancello dell'ospedalec'era un'autoblindo, una decina diguardie stavano sparpagliate nelgiardinetto coi mitra spianati.

«Coglioni» disse il questore.Superarono, con crescente

nervosismo, almeno cinque controlli,poi finalmente arrivarono nel corridoio

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dove c'era la stanza di Tano. Tutti iricoverati erano stati fatti sgombrare,portati altrove tra maledizioni ebestemmie. Alle due estremità delcorridoio, quattro poliziotti armati, altridue davanti la porta dove evidentementeci stava Tano. Il questore mostrò loro illasciapassare.

«Mi congratulo» disse al graduato.«Di che, signor questore?»

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«Del servizio d'ordine».«Grazie» fece il graduato

illuminandosi, non aveva capito uncazzo dell'ironia del questore.

«Entri solo lei, io l'aspetto fuori».Solo allora il questore s'addunò che

Montalbano era livido, il sudore glibagnava la fronte.

«Oddio, Montalbano che ha? Si sentemale?».

«Sto benissimo» gli rispose ilcommissario tra i denti.

E invece gli stava contando unafarfanterìa, stava malissimo. Dei mortise ne fotteva altamente, poteva dormirci'nzèmmula, fingere di spartirci il pane odi giocarci a tressette e briscola, non glifacevano nessuna impressione, ma quelli

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che stavano per morire invece gliprovocavano la sudarella, le maniprincipiavano a tremargli, si sentivaagghiacciare tutto, un pirtuso gli siscavava dintra lo stomaco.

Sotto il linzòlo che lo ricopriva, ilcorpo di Tano gli parse accorciato, piùpiccolo di come se lo ricordava. Lebraccia stavano stese lungo i fianchi, ildestro era avvolto in spesse fasciature.Dal naso, ora quasi trasparente, sipartivano i tubicini dell'ossigeno, lafaccia pareva finta, di un pupo di cera.Controllando la voglia che aveva discapparsene, il commissario pigliò unaseggia di metallo, s'assittò allato almoribondo che teneva gli occhiinserrati, come se stesse dormendo.

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«Tano? Tano? Sono il commissarioMontalbano».

La reazione dell'altro fu immediata,sgriddrò gli occhi, fece come persusìrisi a mezzo sul letto, uno scattoviolento sicuramente dettato dall'istintod'animale da lungo tempo braccato. Poi isuoi occhi misero a fuoco ilcommissario, la tensione di quel corpovisibilmente s'allentò.

«Mi voleva parlare?».Tano fece 'nzinga con la testa di sì e

accennò a un sorriso. Parlò con moltalentezza, molta fatica.

«Mi hanno ittato lo stesso fòra dallastrata».

Si riferiva al colloquio che avevanoavuto nella casuzza e Montalbano non

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seppe cosa dire.«S'avvicinassi».Montalbano si susì dalla seggia, si

calò verso di lui.«Ancora».Il commissario si chinò fino a toccare

con l'orecchio la bocca di Tano, il fiatobruciante dell'altro gli provocò unasensazione di disgusto. E Tano allora glidisse quello che aveva da dirgli, conlucidità, con precisione. Ma il parlarel'aveva stancato, inserrò nuovamente gliocchi e Montalbano non seppe che fare,se andarsene o restare lì ancoratanticchia. Scelse d'assittarsi e di nuovoTano disse una cosa con la voceimpastata. Il commissario si risusì, sipiegò sul moribondo.

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«Che ha detto?».«Mi scanto».Aveva paura, e al punto in cui si

trovava non aveva ritegno a dirlo. Eraquesta la pietà, quest'ondata improvvisadi calore, questo moto del cuore, questosentimento struggente? Montalbano posòuna mano sulla fronte di Tano, gli vennequesta volta spontaneo dargli del tu.

«Non t'affruntari, non ti vergognare adirlo. Magari per questo tu sei un omo.Tutti ci scanteremo a questo passo.Addio, Tano».

Uscì a passo rapido, chiuse la portaalle sue spalle. Ora nel corridoio, oltreal questore e agli agenti, c'erano DeDominicis e Sciacchitano. Gli corseroincontro.

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«Che ha detto?» spiò ansioso DeDominicis.

«Niente, non è riuscito a dirmi niente.Voleva, evidentemente, ma non ce lafaceva. Sta morendo».

«Mah!» fece dubbioso Sciacchitano.Con calma, Montalbano gli poggiò la

mano aperta sul petto e gli diede unaspinta violenta. L'altro arretrò,sbalordito, di tre passi.

«Resta lì, non t'avvicinare» disse tra identi il commissario.

«Basta così, Montalbano» intervenneil questore.

De Dominicis non parse dare pesoalla quistione tra i due.

«Chissà cosa aveva da dirle»insistette taliandolo con occhio

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inquisitivo e con un'espressione chevoleva significare: tu non me la contigiusta.

«Se le fa piacere, tiro a indovinare»ribatté sgarbato Montalbano.

Prima di lasciare l'ospedale, al barMontalbano si scolò un doppio J&Bliscio. Partirono alla volta di Montelusa,il commissario calcolò che per le sette emezzo di sera sarebbe stato di nuovo aVigàta, poteva perciò rispettarel'appuntamento con Ingrid.

«Ha parlato, vero?» spiò quietamenteil questore.

«Sì».«Una cosa importante?».«A mio parere, sì».«Perché ha scelto proprio lei?».

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«Ha promesso che voleva farmi unregalo personale, per la lealtà che hodimostrato verso di lui in tutta lafaccenda».

«L'ascolto».Montalbano gli riferì tutto e alla fine

il questore rimase pensieroso. Poi tiròun sospiro.

«Risolva tutto lei, con i suoi uomini.È meglio che nessuno sappia niente. Nonlo devono sapere nemmeno in questura:l'ha appena visto, le talpe possonotrovarsi dovunque».

Visibilmente ripiombò in quelmalumore che l'aveva pigliato durante ilviaggio d'andata.

«A questo siamo ridotti!» disserabbioso.

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A metà strata, squillò il telefonino.«Sì?» fece il questore.Dall'altro capo parlarono brevemente.«Grazie» disse il questore. Poi si

rivolse al commissario.«Era De Dominicis. Gentilmente

m'informava che Tano è mortopraticamente mentre noi uscivamodall'ospedale».

«Bisognerà che stiano attenti» disseMontalbano.

«A che?».«A non farsi rubare il cadavere» fece

con pesante ironia il commissario.Proseguirono per un poco in silenzio.«Perché De Dominicis si è premurato

di fargli sapere che Tano è morto?».«Ma caro, la telefonata era

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praticamente diretta a lei. È chiaro cheDe Dominicis, che fesso non è, pensagiustamente che Tano sia riuscito a dirlequalcosa. E vorrebbe o spartirsi la tortacon lei o fregargliela del tutto».

In ufficio trovò Catarella e Fazio.Meglio così, preferiva parlare con Faziosenza persone attorno. Per dovere, piùche per curiosità, spiò:

«Ma gli altri dove sono?».«Sono appresso a quattro picciotti su

due motociclette che fanno una gara divelocità».

«Gesù! Tutto il commissariato se neva appresso a una gara?».

«È una gara speciale» spiegò Fazio.«Una motocicletta è verde, l'altra gialla.Prima parte la gialla e fa di corsa tutta

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una strata, scippando lo scippabile.Dopo una o due ore, quando la gente s'ècalmata, parte la verde e si fotte ilfottibile. Poi cangiano strata e quartiere,però questa volta a partire per prima èla verde. È una gara a chi arrinesci ascippare di più».

«Ho capito. Senti, Fazio, dovrestipassare in serata dalla ditta Vinti. Anome mio, prega il ragioniere diprestarci una decina tra pale, picuna,zappuna, vanghe. Domani matina alle seici troviamo tutti qua. In ufficio restino ildottor Augello e Catarella. Voglio duemacchine, anzi una perché dalla dittaVinti ti fai dare magari una Jeep. Aproposito, chi ce l'ha la chiave delnostro garage?».

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«La tiene sempre chi è di guardia.Adesso ce l'ha Catarella».

«Fattela dare e dammela».«Subito. Scusassi, commissario, ma

perché ci servono pale e zappuna?».«Perché cangiamo di mestiere. Da

domani ci dedichiamo all'agricoltura,alla sana vita dei campi. Ti va bene?».

«Con lei, commissario, da qualchegiorno non si può ragionare. Si puòsapere che le pigliò? È addiventatogrèvio e 'ntipatico».

OttoDa quando l'aveva conosciuta, nel

corso d'una indagine nella quale Ingrid,del tutto innocente, gli era stata offerta,attraverso false piste, come caproespiatorio, fra il commissario e quella

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splendida donna era nata una curiosaamicizia. Di tanto in tanto Ingrid sifaceva viva con una telefonata epassavano una serata a chiacchierare. AMontalbano la giovane rimetteva le sueconfidenze, i suoi problemi, e luifraternamente e saggiamente laconsigliava: era una sorta di padrespirituale - ruolo che aveva dovutoimporsi a forza, Ingrid suscitandopensieri non precisamente spirituali -del quale la donna accuratamentedisattendeva i consigli. In tutti gliappuntamenti avuti, sei o sette, mai cheMontalbano fosse arrivato in anticipo sudi lei, Ingrid aveva un culto addiritturamaniacale per la puntualità.

Magari questa volta, fermata l'auto al

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posteggio del bar di Marinella, vide chegià c'era la macchina della donna,accanto a una Porsche cabriolet, unasorta di bolide, pittata di un giallooffensivo per il gusto e per la vista.

Quando entrò nel bar, Ingrid era inpiedi al bancone, stava bevendo unwhisky e allato a lei, checonfidenzialmente le parlava, unquarantenne vestito di giallo canarino,elegantissimo, Rolex e codino.

«Quando deve cangiarsi d'abito,cangerà magari macchina?» si spiò ilcommissario.

Appena lo vide, Ingrid gli corseincontro, l'abbracciò, lo baciòleggermente sulle labbra, erachiaramente contenta d'incontrarlo.

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Magari Montalbano era contento: Ingridera una vera grazia di Dio, coi jeanspittati sulle gambe lunghissime, isandali, la camicetta celeste trasparenteche lasciava intravedere la forma delseno, i capelli biondi sciolti sullespalle.

«Scusami» disse al canarino ch'eracon lei. «Ci vediamo presto».

Andarono ad assittarsi a un tavolo,Montalbano non volle bere niente,l'uomo col Rolex e codino andò a finireil suo whisky sulla terrazza a mare. Sitaliàrono sorridenti.

«Ti trovo bene» fece Ingrid. «Oggiinvece in televisione mi eri parsosofferente».

«Già» disse il commissario e sviò il

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discorso. «Anche tu stai bene».«Volevi vedermi per scambiarci

complimenti?».«Ti devo chiedere un favore».«Sono qua».Dalla terrazza, l'uomo col codino

occhieggiava verso di loro.«Chi è quello?».«Uno che conosco. Ci siamo

incrociati per strada mentre venivo qua,m'ha seguita, m'ha offerto da bere».

«In che senso dici di conoscerlo?».Ingrid diventò seria, una ruga le

increspò la fronte.«Sei geloso?».«No, lo sai benissimo e d'altra parte

non c'è motivo. È che appena l'ho vistom'è stato sullo stomaco. Come si

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chiama?».«Ma dai, Salvo, che te ne frega?».«Dimmi come si chiama».«Beppe... Beppe De Vito».«E che fa per guadagnarsi il Rolex, la

Porsche e tutto il resto?».«Commercia in pellami».«Ci sei stata a letto?».«Sì, l'anno scorso mi pare. E mi stava

proponendo di fare il bis. Però io diquell'unico incontro non ho un ricordopiacevole».

«Un degenerato?».Ingrid lo taliò per un attimo, poi

scoppiò in una risata che fecesobbalzare il barista.

«Che c'è da ridere?».«Per la faccia che hai fatto, di bravo

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poliziotto scandalizzato. No, Salvo, alcontrario. È privo totalmente di fantasia.Il ricordo che ho di lui è diun'asfissiante inutilità».

Montalbano fece 'nzinga all'uomo colcodino d'avvicinarsi al loro tavolo ementre quello avanzava sorridente,Ingrid taliò il commissario con ariapreoccupata.

«Buonasera. Io la conosco, sa? Lei èil commissario Montalbano».

«Temo, purtroppo per lei, che dovràconoscermi meglio».

L'altro s'imparpagliò, il whiskytremolò nel bicchiere, i cubetti dighiaccio fecero tin tin.

«Perché ha detto purtroppo?».«Lei si chiama Giuseppe De Vito e

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commercia in pellami?».«Sì... ma non capisco».«Capirà a tempo debito. Uno di questi

giorni sarà convocato dalla questura diMontelusa. Ci sarò anch'io. Avremomodo di parlare a lungo».

L'uomo col codino, di subito diventatogiarno di faccia, posò il bicchiere sultavolino, non ce la faceva a tenerlofermo in mano.

«Non potrebbe cortesementeanticiparmi... spiegarmi...».

Montalbano fece la faccia di uno cheviene travolto da un incontenibileslancio di generosità.

«Guardi, solo perché lei è amicodella signora qui presente. Lei conosceun tedesco, un certo Kurt Suckert?».

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«Glielo giuro: mai sentito» fece l'altrocavando dalla sacchetta un fazzolettocolor canarino e asciugandosi il sudoredalla fronte.

«Se lei mi risponde così, allora nonho altro da aggiungere» fece gelido ilcommissario. Lo squatrò, gli fece 'nzingadi farsi più vicino.

«Le do un consiglio: non faccia ilfurbo. Buonasera».

«Buonasera» rispose meccanicamenteDe Vito e, senza manco rivolgere unataliàta a Ingrid, se ne niscì di corsa.

«Tu sei uno stronzo» disse calmaIngrid «e anche una carogna».

«Sì, è vero, ogni tanto mi piglia eaddivento accussì».

«Questo Suckert esiste davvero?».

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«È esistito. Ma lui si faceva chiamareMalaparte. Era uno scrittore».

Sentirono il rombo della Porsche, lasgommata.

«Ora ti sei sfogato?» domandò Ingrid.«Abbastanza».«L'ho capito appena sei entrato, sai,

ch'eri di cattivo umore. Che t'è successo,puoi dirmelo?».

«Potrei, ma non ne vale la pena.Rogne di lavoro».

Montalbano aveva suggerito a Ingriddi lasciare la sua macchina al posteggiodel bar, sarebbero ripassati dopo aprenderla. Ingrid non gli avevadomandato né dove erano diretti né cosaandavano a fare. A un tratto Montalbanole spiò:

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«Come va con tuo suocero?».La voce d'Ingrid si fece allegra.«Bene! Avrei dovuto dirtelo prima,

scusami. Con mio suocero va bene. Dadue mesi mi lascia in pace, non mi cercapiù».

«Cos'è successo?».«Non lo so, lui non me l'ha detto.

L'ultima volta è stata al ritorno da Fela,eravamo andati a un matrimonio, miomarito non è potuto venire, mia suoceranon si sentiva bene. Insomma, eravamonoi due soli. A un certo punto haimboccato una strada secondaria, èandato avanti per qualche chilometro, s'èfermato in mezzo a degli alberi, m'hafatto scendere, m'ha spogliata, m'hagettata a terra e m'ha scopata con la

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solita violenza. Il giorno dopo sonopartita per Palermo con mio marito,quando sono tornata, dopo unasettimana, mio suocero era comeinvecchiato, tremante. Da allora quasimi evita. Perciò ora posso trovarmifaccia a faccia con lui in un corridoio dicasa senza timore d'essere sbattutacontro un muro con le sue due mani unasulle tette e l'altra sulla fica».

«Meglio così, no?».La storia che Ingrid gli aveva appena

contata, Montalbano la conoscevameglio di lei. Il commissario avevasaputo della facenna fra Ingrid e suosuocero fin dal primo incontro con ladonna. Poi una notte, mentrediscorrevano, improvvisamente Ingrid

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era scoppiata in un pianto convulso, nonreggeva più la situazione con il padre disuo marito: lei, che era una donnaassolutamente libera, si sentiva comesporcata, immiserita da quel quasiincesto che le veniva imposto, meditavad'abbandonare il marito e tornarsene inSvezia, il pane avrebbe trovato modo diguadagnarselo, era un ottimo meccanico.

Era stato allora che Montalbanoaveva pigliato la risoluzione d'aiutarla,di cavarla fuori dall'impiccio. Il giornoappresso invitò a pranzo Anna Ferrara,l'ispettrice di polizia che lo amava e cheera convinta che Ingrid fosse la suaamante.

«Sono disperato» esordì sistemandosiuna faccia da grande attore tragico.

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«Oh Dio, che succede?» disse Annastringendogli una mano tra le sue.

«Succede che Ingrid mi tradisce».Calò la testa sul petto,

miracolosamente riuscì a farsi inumidiregli occhi.

Anna soffocò un'esclamazione ditrionfo. Aveva sempre visto giusto, lei!Intanto il commissario nascondeva ilvolto tra le mani e la ragazza si sentìsconvolgere davanti a quellamanifestazione di disperazione.

«Sai, non te l'ho mai voluto dire pernon addolorarti. Ma ho fatto qualcheindagine su Ingrid. Tu non sei il solouomo».

«Ma questo lo sapevo!» fece ilcommissario sempre con le mani sulla

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faccia.«E allora?».«Questa volta è diverso! Non è

un'avventura come le tante, che io possomagari perdonare! Si è innamorata ed èricambiata!».

«Lo sai di chi è innamorata?».«Sì, di suo suocero».«Oh Gesù!» fece Anna sobbalzando.

«Te l'ha detto lei?».«No. L'ho capito io. Lei, anzi, nega.

Nega tutto. Ma io ho bisogno di unaprova che sia sicura, da sbattergliela infaccia. Mi capisci?».

Anna si era offerta di fornirglielaquella prova sicura. E tanto aveva fattoche con una macchina fotografica erariuscita a fissare le immagini della scena

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agreste nel boschetto. Le aveva fatteingrandire da una sua amica fidata dellaScientifica e le aveva consegnate alcommissario. Il suocero di Ingrid, oltread essere il primario dell'ospedale diMontelusa, era magari un uomo politicodi primo piano: alla sede provincialedel partito, all'ospedale e a casaMontalbano gli aveva spedito una prima,eloquente documentazione. Dietro adognuna delle tre foto c'era scrittosoltanto: ti abbiamo in pugno. La raffical'aveva evidentemente scantato a morte,in un attimo aveva visto in pericolocarriera e famiglia. Per ogni evenienza,il commissario di foto ne aveva un'altraventina. A Ingrid non aveva detto niente,quella era capace d'attaccare turilla

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perché la sua svedese privacy era stataviolata. Montalbano accelerò, erasoddisfatto, ora sapeva che la complessastrumentiazione che aveva messo in attoaveva raggiunto lo scopo prefisso.

«La macchina portala dentro tu» disseMontalbano scendendo e principiandoad armeggiare con la saracinesca delgarage della polizia. Quando l'auto fuentrata, accese le luci e abbassònuovamente la saracinesca.

«Che devo fare?» spiò Ingrid.«Li vedi i rottami di quella

Cinquecento? Voglio sapere se i frenisono stati manomessi».

«Non so se riuscirò a capirlo».«Provaci».«Addio camicetta».

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«Ah no, fermati. Ho portatoqualcosa».

Dai sedili posteriori della sua autopigliò un sacchetto di plastica, ne tiròfuori una camicia e un paio di jeanssuoi.

«Mettiti questi».Mentre Ingrid si cambiava, andò in

cerca di una lampada portatile, quelle daofficina, la trovò sul bancone, inserì laspina. Senza dire niente Ingrid pigliò lalampada, una chiave inglese, uncacciavite e strusciò sotto il telaiodistorto della Cinquecento. Le bastaronouna decina di minuti. Uscì da sotto lamacchina sporca di polvere e di grasso.

«Sono stata fortunata. La cordicelladei freni è stata in parte troncata, ne

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sono sicura».«Che vuol dire in parte?».«Vuol dire che non è stata tagliata

tutta, hanno lasciato quel tanto chebastava per non mandarlo a sbatteresubito. Ma alla prima forte trazione lacordicella si sarebbe sicuramentespezzata».

«Sei certa che non si sia rotta da sola?Era una macchina vecchia».

«Il taglio è troppo netto. Non c'èsfilacciamento, o almeno c'è solo inminima parte».

«Ora stammi bene a sentire» disseMontalbano. «L'uomo che era al volanteè partito da Vigàta per Montelusa, èstato un pezzo fermo lì, poi ha fattoritorno a Vigàta. L'incidente è successo

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nella discesa ripida che c'è per entrarein paese, la discesa della Catena. Èandato a fottersi contro un camion,restandoci. Chiaro?».

«Chiaro».«Allora io ti domando: questo bel

lavoretto, secondo te, glielo hanno fattoa Vigàta o a Montelusa?».

«A Montelusa» disse Ingrid. «Seglielo avessero fatto a Vigàta sarebbeandato a sbattere assai prima,sicuramente. Vuoi sapere altro?».

«No. Grazie».Ingrid non si cambiò, non si lavò

nemmeno le mani.«Lo faccio a casa tua».Al posteggio del bar Ingrid scese,

pigliò la sua macchina, seguì quella del

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commissario. Non era ancoramezzanotte, la serata era tiepida.

«Vuoi farti una doccia?».«No, preferisco fare un bagno a mare,

semmai dopo».Si levò gli abiti allordati di

Montalbano, si sfilò le mutandine: e ilcommissario dovette fare un qualchesforzo nel contemporaneo rivestirsi deisofferti panni del consigliere spirituale.

«Dai spogliati, vieni anche tu».«No. Mi piace starti a taliàre dalla

veranda».La luna piena faceva magari troppa

luce. Montalbano restò sulla sdraia agodersi la sagoma d'Ingrid che arrivavaa ripa di mare e dintra l'acqua friddaprincipiava una sua danza di saltelli a

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braccia allargate. La vide tuffarsi, seguìper un tratto il puntolino nero ch'era lasua testa e poi, di botto, s'addrummiscì.

Si svegliò che già faceva la primaluce. Si susì, tanticchia infreddolito, sipreparò il caffè, ne bevve tre tazze diseguito. Prima d'andare via, Ingridaveva puliziato la casa, non c'era tracciadel suo passaggio. Ingrid valeva oro apeso: aveva fatto quello che lui le avevachiesto e non gli aveva domandatonessuna spiegazione. Dal punto di vistadella curiosità, fìmmina certamente nonera. Ma solo da quello. Sentendo unapunta d'appetito, raprì il frigorifero: lemilinciane alla parmigiana che amezzogiorno non aveva mangiate nonc'erano più, se l'era fatte fuori Ingrid.

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Dovette contentarsi di un pezzo di panee di un formaggino, meglio addubbarecosì che niente. Si fece la doccia eindossò gli stessi vestiti che avevaprestato a Ingrid, sottilmente ancoraodoravano di lei.

Com'era d'abitudine, arrivò alcommissariato con una decina di minutidi ritardo: i suoi uomini erano pronti,con una macchina di servizio e la Jeepprestata dalla ditta Vinti piena di pale,zappuna, picuna, vanghe, parevanobraccianti che si andavano a guadagnarela iurnata, travagliando la terra.

La montagna del Crasto, che da partesua montagna non si era mai sognatad'essere, era una collina piuttostospelacchiata, sorgeva a ovest di Vigàta e

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distava dal mare manco cinquecentometri. Era stata accuratamente bucata dauna galleria, ora chiusa con assi dilegno, che doveva essere parteintegrante di una strada che partiva dalnulla per portare al nulla, utilissima perla fabbricazione di tangenti nongeometriche. Si chiamava infatti latangenziale. Una leggenda contava chedintra le viscere della montagna c'eranascosto un crasto, un ariete, tutto d'oromassiccio: gli scavatori della gallerianon l'avevano trovato, quelli cheavevano bandito l'appalto invece sì.Attaccato alla montagna c'era, dallaparte che non taliava il mare, una speciedi fortilizio roccioso, detto «ucrasticeddru»: lì le ruspe e i camion non

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erano arrivati, la zona aveva una suabellezza selvaggia. Fu proprio verso ilcrasticeddru che le due auto si diresserodopo aver percorso strade impervie pernon dare nell'occhio. Era difficileproseguire senza una trazzera, unsentiero, ma il commissario volle che lemacchine arrivassero proprio fino allabase dello sperone di roccia.Montalbano ordinò a tutti di scendere.

L'aria era frisca, la matinata sirena.«Che dobbiamo fare?» spiò Fazio.«Taliate tutti u crasticeddru.

Attentamente. Girateci torno torno.Datevi da fare. Da qualche parte deveesserci l'entrata d'una grotta. L'avrannoammucciata, mimetizzata con pietre ofrasche. Occhio. Dovete scoprirla. Vi

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assicuro che c'è».Si sparpagliarono.Due ore dopo, scoraggiati, si

ritrovarono vicino alle macchine. Il solebatteva, erano sudati, il previdente Fazioaveva portato dei thermos di caffè e tè.

«Riproviamo» disse Montalbano.«Ma non guardate solo verso la roccia,taliate magari per terra, capace che c'èqualcosa che non quatra».

Ricominciarono a cercare e dopo unamezzorata Montalbano sentì la vocelontana di Galluzzo.

«Commissario! Commissario! Vengaqua!».

Il commissario raggiunse l'agente cheper la ricerca si era assegnato a quellato dello sperone più vicino alla

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provinciale per Fela.«Guardi».Avevano tentato di far sparire le

tracce, ma in un certo punto eranoevidenti le impronte lasciate sul terrenoda un grosso camion.

«Vanno da quella parte» disseGalluzzo e indicò la roccia.

Mentre diceva quelle parole, si fermò,a bocca aperta.

«Cristo di Dio!» disse Montalbano.Come avevano fatto a non

addunarìsinni prima? C'era un grossomasso situato in una posizione strana, dadietro sbucavano stocchi d'erbainaridita. Mentre Galluzzo chiamava isuoi compagni, il commissario corseverso il masso, afferrò una troffa

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d'erbaspada, la tirò con forza. Amomenti cadde all'indietro: il cespuglionon aveva radici, era stato infilato lì,assieme a mazzi di saggina, permimetizzare l'entrata della grotta.

NoveIl masso era un lastrone di pietra di

forma approssimativamente rettangolareche pareva fare corpo unico con laroccia che aveva attorno e poggiava suuna specie di gradone anch'esso diroccia. Montalbano a occhio stabilì chedoveva essere un due metri d'altezza peruno e mezzo di larghezza, spostarlo amano manco a pensarci. Eppure un mododoveva esserci. Al centro del latodestro, distanziato una decina dicentimetri dall'orlo, c'era un pirtuso che

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pareva cosa assolutamente naturale.«Se fosse stata una vera porta di

ligno» ragionò il commissario «quelbuco sarebbe stato all'altezza giusta permetterci la maniglia».

Tirò fòra dal taschino della giacchettauna biro e l'infilò nel pirtuso. La pennaci trasì tutta, ma quando Montalbanostava per rimettersela in sacchetta, sentìche la biro gli aveva allordato la mano.Se la taliò, se la sciaurò.

«Questo è grasso» disse a Fazio,l'unico che gli era restato allato.

Gli altri agenti s'erano assistimatiall'ùmmira, Gallo aveva trovato unatroffa d'acetosella, ne offriva aicompagni:

«Sucàtene il gambo, è una meraviglia

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e fa passari la siti».Montalbano pensò che c'era solo una

soluzione possibile.«Ce l'abbiamo un cavo d'acciaio?».«Certo, quello del gippone».«Allora fallo avvicinare qua più che

puoi».Mentre Fazio s'allontanava, il

commissario, adesso ch'era persuasod'avere trovato il marchingegno perspostare il lastrone, taliò il paesaggioattorno con occhi cangiati. Se quello erail loco giusto che gli aveva rivelatoTano u grecu in punto di morte, un postoper tenerlo sotto sorveglianza dovevaesserci da qualche parte. La zona parevadeserta e solitaria, niente lasciavaimmaginare che, girato il costone, a

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poche centinaia di metri passasse laprovinciale con tutto il suo traffico.Poco distante, sopra un rialzo di terrenopietroso ed arso, c'era una casuzzaminuscola, un dado, fatta di una solacàmmara. Si fece portare il binocolo. Laporta di ligno, chiusa, pareva sana;allato alla porta, ad altezza d'uomo,c'era una finestrina senza imposte,protetta da due sbarre di ferro a croce.Pareva disabitata, ma era l'unicopossibile posto d'osservazione neiparaggi, le altre abitazioni erano troppolontane. Per il sì o per il no, chiamòGalluzzo.

«Vai a dare un'occhiata a quellacasuzza, rapri in qualche modo la porta,ma non la sfunnàri, attento, può esserci

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di comodo. Talìa se dintra c'è signo divita recente, se quarcheduno ci abbia inqueste iurnate abitato. Ma lascia tuttocom'era, come se tu non ci fossi maipassato».

Il gippone era intanto arrivato quasi alivello del basamento del masso. Ilcommissario si fece dare il capo delcavo d'acciaio, l'infilò facilmente nelpirtùso, pigliò a spingerlo dintra. Nonfece molta fatica, la corda scorrevaall'interno del masso come seguendo unaguida molto ben coperta di grasso, senzaintoppo, e infatti dopo tanticchia la puntadel cavo spuntò alla vista da darrè illastrone come la testa di un sirpintello.

«Prendi questo capo» disseMontalbano a Fazio «attaccalo al

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gippone, metti in moto e tira, ma adasciuadasciu».

Lentamente la macchina principiò amuoversi e con essa il masso, dallalatata destra, cominciò a staccarsi dallaparete, come ruotando su invisibilicardini.

«Ràpriti pipiti e chiuditi pòpiti»mormorò stupefatto Germanà,ricordandosi della formula magica di ungioco di bambini che serviva a farschiudere, per virtù di magarla appunto,tutte le porte.

«Le assicuro, signor questore, chequel lastrone di pietra era statotrasformato in porta da un mastrod'opera fina, pensi che i cardini di ferroerano assolutamente invisibili

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dall'esterno. Richiudere quella porta èstato altrettanto facile che aprirla. Siamoentrati con le torce elettriche. Dentro, lacaverna è attrezzata con molta cura eintelligenza. Il pavimento è statoricavato con una decina di farlaccheinchiodate l'una all'altra e posate sullaterra nuda».

«Cosa sono queste farlacche?» spiò ilquestore.

«Non mi viene la parola italiana.Diciamo che sono assi di legno moltospesse. Il pavimento è stato fatto perevitare che i contenitori delle armistessero troppo a lungo a contatto direttocon l'umidità del terreno. Le pareti sonocoperte da assi più leggere. Insomma,dentro la grotta c'è come una grande

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scatola di legno senza coperchio. Cihanno travagliato a lungo».

«E le armi?».«Un vero e proprio arsenale. Una

trentina tra mitragliatori e mitragliette,un centinaio tra pistole e revolver, duebazooka, migliaia di munizioni, cassed'esplosivo di tutti i tipi, dal tritolo alsemtex. E poi una quantità di divisedell'Arma, della polizia, giubbottiantiproiettile e svariate altre cose. Iltutto in perfetto ordine, ogni cosaavvolta nel cellophan».

«Gli abbiamo dato un bel colpo, eh?».«Certo. Tano s'è vendicato bene, quel

tanto che bastava per non passare per untraditore o per un pentito. Le comunicoche non ho sequestrate le armi, le ho

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lasciate nella grotta. Ho organizzato dueturni di guardia al giorno con i mieiuomini. Stanno in una casetta disabitataa qualche centinaia di metri daldeposito».

«Spera che venga qualcuno arifornirsi?».

«Me lo auguro».«Va bene, sono d'accordo con lei.

Aspettiamo una settimana, teniamo tuttosotto controllo e se non accade nullaoperiamo il sequestro. Ah, senta,Montalbano, si ricorda del mio invito acena per dopodomani?».

«Come vuole che me ne dimentichi?».«Mi dispiace, bisognerà rimandare di

qualche giorno, mia moglie hal'influenza».

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Non ci fu bisogno d'aspettare unasimana. Il terzo giorno appresso lascoperta delle armi, terminata la suaguardia che correva da mezzanotte amezzogiorno, Catarella, morto di sonno,s'apprisintò a rapporto dal commissario:Montalbano voleva che tutti cosìfacessero appena smontati dal turno.

«Novità?».«Nisciuna. dottori. Tutto calmezza e

piaciutà».«Va bene, anzi va male. Vattene a

dormire».«Ah, ora ora che ci faccio mente, una

cosa ci fu, ma cosa da nenti, glielariverisco più per scrupolo che perdoviri, una cosa passeggera».

«Cos'è questa cosa da nenti?».

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«Che un turista passò».«Spiegati meglio, Catarè».«Il ralogio poteva assignare le

ventuno del maitino».«Se era maitino, erano le nove,

Catarè».«Come vuole lei. E fu propio che

allora allora sentii il rompo d'unapotente motogigletta. Pigliato ilbinoccollo che portavo a tracollo,caustamente m'affacciai e confermato nefui. Trattavasi di motogigletta roscia».

«Non ha importanza il colore. Epoi?».

«Dal di sopra della medesimadiscendette un turista di sessomaschile».

«Perché hai pensato che si trattasse di

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un turista?».«Per via della màchina fotorafica che

si portava d'incollo, grande, così grandeche un cannone pareva».

«Sarà stato un teleobiettivo».«Quello, sissignori. E si mise a

fotorafare».«Che fotografava?».«Tutto, dottori mio, fotorafò. Il

paisaggio, il crasticeddru, il loco istessoda dentro del cui io mi trovavo».

«S'avvicinò al crasticeddru?».«Maisignuri. Al momento di

ricavarcare la motogigletta e partirsene,mi salutò con le mani».

«T'ha visto?».«No. Sempre di dentro arrimasi.

Peroni, come le dissi, una volta che mise

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in moto fece ciao inverso la casuzza».«Signor questore? C'è una novità non

bella, secondo me hanno in qualchemodo saputo della nostra scoperta ehanno mandato uno in ricognizione peraverne conferma».

«E lei come fa a saperlo?».«Stamattina l'agente ch'era di guardia

nella casupola ha visto un tale, arrivatoin motocicletta, che fotografava la zonacon un potente teleobiettivo. Certamenteattorno al masso che nascondeval'entrata avevano sistemato un qualcosadi particolare, che so, un ramettoorientato in un certo modo, un sassopoggiato a una certa distanza... Erainevitabile che non riuscissimo arimettere tutto a posto come stava

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prima».«Mi scusi, aveva dato particolari

istruzioni all'agente di guardia?».«Certamente. L'agente di guardia

avrebbe dovuto, nell'ordine, fermare ilmotociclista, identificarlo, sequestrarela macchina fotografica, portare inufficio il motociclista stesso...».

«E perché non l'ha fatto?».«Per una ragione semplicissima: era

l'agente Catarella, ben noto a lei e ame».

«Ah» fu il sobrio commento delquestore.

«Allora che facciamo?».«Procediamo subito, in giornata, al

sequestro delle armi. Da Palermom'hanno ordinato di dare il massimo

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rilievo alla cosa».Montalbano sentì che le ascelle gli si

bagnavano di sudore.«Un'altra conferenza stampa?!».«Temo di sì, mi dispiace».Al momento di partire con due

macchine e un camioncino verso ilcrasticeddru, Montalbano s'addunò cheGalluzzo lo taliava con occhi piatosi, dicane vastuniato. Lo chiamò in disparte.

«Che hai?».«Posso avere il primisso d'avvisare

della cosa mio cognato, u giornalista?».«No» rispose Montalbano di slancio,

ma ci ripensò immediatamente, gli eravenuta un'idea della quale si congratulò.

«Senti, proprio per farti un piacerepersonale, fallo venire, telefonagli».

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L'idea che gli era venuta era che se ilcognato di Galluzzo si fosse trovato sulposto e avesse dato ampia pubblicitàalla scoperta, forse la necessità dellaconferenza stampa andava a farsi fottere.

Al cognato di Galluzzo e al suooperatore di «Televigàta» Montalbanonon solo lasciò mano libera, ma li aiutòa fare lo scoop improvvisandosi regista,facendo montare un bazooka che Fazioimpugnò mettendosi in posizione di tiro,illuminando la caverna a giorno perchévenisse fotografato o registrato ognicaricatore, ogni cartuccia.

Dopo due ore di travaglio serio, losvuotamento della caverna venne portatoa termine. Il giornalista e il suooperatore se ne corsero a Montelusa per

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montare il servizio, Montalbano coltelefonino chiamò il questore.

«Il carico è fatto».«Bene. Me lo mandi qui, a Montelusa.

Ah, senta. Lasci un uomo di guardia. Trapoco viene Jacomuzzi con la squadradella Scientifica. Congratulazioni».

A seppellire definitivamente l'ideadella conferenza stampa provvideJacomuzzi. Del tutto involontariamente,certo, perché nelle conferenze stampa,nelle interviste, Jacomuzzi ci sguazzavabeato. Il capo della Scientifica, prima direcarsi alla grotta per i rilievi, s'erapremurato infatti d'avvertire una ventinadi giornalisti, sia della stampa che dellatelevisione. Se il servizio approntato dalcognato di Galluzzo rimbalzò nei

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telegiornali regionali, lo scarmazzo, ilrumore che fecero i servizi dedicati aJacomuzzi e ai suoi uomini ebberorisonanza nazionale. Il questore, comeMontalbano aveva previsto, decise dinon fare più la conferenza stampa, tantogià tutti sapevano tutto, e si limitò a uncircostanziato comunicato.

In mutande, con una bottiglia grandedi birra in mano, Montalbano si godettein televisione da casa sua la faccia diJacomuzzi, sempre in primo piano, chespiegava come i suoi uomini stesserosmontando pezzo a pezzo la costruzionein legno all'interno della caverna allaricerca di un minimo indizio,dell'accenno di un'impronta digitale,della traccia di un'orma. Quando la

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grotta rimase nuda, restituita al suoaspetto originario, l'operatore di«Retelibera» fece una lenta e lungapanoramica dell'interno. E proprio nelcorso di questa panoramica ilcommissario vide qualcosa che non gliquatrò, un'impressione era e niente dipiù. Ma tanto valeva controllare.Telefonò a «Retelibera», domandò sec'era Nicolò Zito, il giornalistacomunista suo amico.

«Non c'è problema, te lo faccioriversare».

«Ma io non ho il coso, quello lì, comecazzo si chiama».

«Allora vieni a vedertelo qui».«Andrebbe bene domani a matino

verso le undici?».

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«Va bene. Io non ci sarò, ma lasciodetto».

Alle nove della matinata del giornoappresso, Montalbano si recò aMontelusa, alla sede del partito neiquale aveva militato il cavaliereMisuraca. La targhetta allato al portoneindicava che bisognava acchianare alquinto piano. Tradimentosa, la targhettanon specificava che l'unica erad'arrivarci a piedi, dato che il palazzonon era munito d'ascensore. Dopoessersi fatto almeno dieci rampe, colfiato tanticchia grosso, Montalbanotuppiò e rituppiò a una porta che restòcaparbiamente chiusa. Ridiscese lescale, uscì dal portone. Proprio a fiancoc'era un negozio di frutta e verdura, un

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uomo anziano stava servendo un cliente.Il commissario aspettò che ilfruttivendolo fosse solo.

«Lei conosceva il cavalierMisuraca?».

«Delle persone che io conosco o chenon conosco a lei mi spiega che glienefotte?».

«Me ne fotte. Sono della polizia».«D'accordo. Sono Lenin».«Vuole babbiare?».«Per niente. Mi chiamo veramente

Lenin. Il nome me lo mise mio padre eio ne sono orgoglioso. Oppure magarilei appartiene alla stessa categoria diquelli del portone allato?».

«No. E comunque io sono qua soloper servizio. Ripeto: lei conosceva il

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cavalier Misuraca?».«Certo che lo conoscevo. Passava

l'esistenza a tràsiri e a nèsciri da quelportone e a rompermi i cabasisi con lasua scassata Cinquecento».

«Che fastidio le dava, la macchina?».«Che fastidio? La posteggiava sempre

davanti al negozio, lo fece magari ilgiorno stesso che poi andò a sfracellarsicontro il camion».

«L'aveva posteggiata proprio qua?».«E che parlo, turco? Proprio qua. Io

lo pregai di spostarla, ma lui attaccòturilla, si mise a fare voci, disse che nonaveva tempo da perdere con me. Alloraio m'arrabbiai supra u seriu e gliarrisposi malamente. Insomma, a farlabreve, a momenti, ci attaccavamo. Per

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fortuna passò un picciotto, disse allabonarma del cavaleri che la Cinquecentol'avrebbe spostata lui, si fece dare lechiavi».

«Sa dove l'ha posteggiata?».«Nonsi».«Sarebbe in grado di riconoscere

questo picciotto? L'aveva visto qualchiautra volta?».

«Di tanto in tanto l'ho visto chetrasiva nel portone allato. Dev'essereuno della bella comarca».

«Il segretario politico si chiamaBiraghìn, vero?».

«Mi pare di sì. Travaglia all'Istitutodelle case popolari. È uno delle parti diVenezia, a quest'ora è in ufficio. Quaaprono verso le sei del dopopranzo, ora

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è troppo presto».«Dottor Biraghìn? Sono il

commissario Montalbano di Vigàta, miscusi se la disturbo in ufficio».«S'immagini, dica pure».

«Ho bisogno dell'aiuto della suamemoria. L'ultima riunione di partitoalla quale partecipò il povero cavalierMisu+ raca, che tipo di riunione era?».

«Non capisco la domanda».«Mi scusi, non s'inalberi, è solo

un'indagine di routine, per chiarire lecircostanze della morte del cavaliere».

«Perché, c'è qualcosa di pocochiaro?».

Un vero scassacazzo, il dottorFerdinando Biraghìn.

«Tutto lampante, mi creda».

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«E allora?».«Io devo chiudere la pratica, capisce?

Non posso lasciare un iter sospeso».Alle parole iter e pratica

l'atteggiamento di Biraghìn, burocratedell'Istituto case popolari, cangiò dicolpo.

«Eh, sono cose che capiscobenissimo. Si trattava di una riunionedel direttivo, alla quale il cavaliere nonaveva titoli per partecipare, facemmoperò uno strappo».

«Quindi una riunione ristretta?».«Una decina di persone».«Qualcuno venne a cercare il

cavaliere?».«Nessuno, avevamo chiuso la porta a

chiave. Me ne ricorderei. Lo

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chiamarono al telefono, questo sì».«Mi perdoni, certamente lei ignora il

tenore della telefonata».«Non solo non ignoro il tenore, ma

conosco anche il baritono, il basso e lasoprano!».

E rise. Quant'era spiritoso FerdinandoBiraghìn!

«Lei sa come parlava il cavaliere,come se tutti gli altri fossero sordi. Eradifficile non sentirlo, quando parlava. Sifiguri che una volta...».

«Mi scusi, dottore, ho poco tempo.Riuscì a capire il...».

Si fermò, scartò la parola «tenore»per non incappare nel tragico umorismodi Biraghìn.

«...succo della telefonata?».

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«Certo. Era uno che aveva fatto alcavaliere il favore di posteggiargli lamacchina. E il cavaliere, per tuttoringraziamento, lo rimproverò peraverla parcheggiata troppo distante».

«Lei è riuscito a capire chitelefonava?».

«No. Perché?».«Perché due non fa tre» disse

Montalbano. E riattaccò.E dunque il picciotto, dopo avere

allestito il servizietto mortale nel chiusodi qualche garage complice, s'erapigliato pure lo sfizio di far fare unapasseggiatina al cavaliere.

A una cortese impiegata di«Retelibera», Montalbano spiegò comequalmente lui fosse un incapace totale

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davanti a tutto quello che sapevad'elettronico. Era in grado d'accendere iltelevisore, questo sì, di cercare iprogrammi e di spegnere l'apparecchio:per il resto, notte funnuta. Con pacienzae grazia, la ragazza mise la cassetta, fecetornare indietro e stoppare le immaginitutte le volte che Montalbano glielodomandò. Quando se ne niscì da«Rerelibera», il commissario eraconvinto d'avere visto proprio quelloche l'interessava, ma quello chel'interessava pareva non avere sensocomune.

DieciDavanti all'osteria «San Calogero»

restò indeciso: s'era fatta l'ora dimangiare, certo, e lo stimolo se lo

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sentiva, d'altra parte l'idea che gli eravenuta vedendo il filmato e che dovevaessere verificata, lo spingeva aproseguire verso il crasticeddru. Ilsciàuru di triglie fritte che venivadall'osteria vinse il duello. Mangiò unantipasto speciale di frutti di mare, poisi fece portare due spigole così frescheche pareva stessero ancora in acqua anuotare.

«Vossia sta mangiando senzaintinzioni».

«Vero è, il fatto è che ho un pinsèro».«I pinsèri bisogna scordarseli davanti

alla grazia che u Signuri le sta facendocon queste spigole» disse solenneCalogero allontanandosi.

Passò dall'ufficio per vedere se

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c'erano novità.«Ha telefonato diverse volte il dottor

Jacomuzzi» gli comunicò Germanà.«Se richiama, dirgli che più tardi lo

cerco io. Abbiamo una torcia elettricapotente?».

Quando dalla provinciale arrivò nellevicinanze del crasticeddru, abbandonòla macchina e decise di proseguire apiedi, la giornata era bella, appena unfilo di vento che rinfrescava e sollevaval'umore di Montalbano. Il terreno tornotorno al costone ora appariva segnatodalle auto dei curiosi che vi eranopassate sopra, il masso che era servitoda porta era stato spostato a qualchemetro di distanza, l'entrata della cavernaera allo scoperto. Proprio mentre stava

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per trasìri si fermò, appizzò l'orecchio.Dall'interno veniva un mormoriosommesso ogni tanto interrotto da gemitisoffocati. S'appagnò: vuoi vedere chec'era qualcuno che stavano torturando?Non aveva tempo di correre all'auto epigliare la pistola. Balzò dintra,contemporaneamente addrumando lapotente torcia.

«Fermi tutti! Polizia!».I due ch'erano nella grotta

s'immobilizzarono, aggelati, ma adaggelare ancora di più fu proprioMontalbano. Erano due giovanissimi,nudi, che stavano facendo all'amore: leicon le mani appoggiate alla parete e lebraccia tese, lui incollato a lei da dietro.Alla luce della torcia parsero statue,

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bellissime. Il commissario si sentìavvampare per la vrigogna, egoffamente, mentre principiava aritirarsi dopo avere astutato la torcia,mormorò:

«Scusatemi... mi sono sbagliato... fatecon comodo».

Vennero fuori dopo manco un minuto,a rivestirsi coi jeans e con una magliettaci si mette niente. Montalbano erasinceramente dispiaciuto per averliinterrotti, quei giovani stavano a modoloro riconsacrando la caverna ora chenon era più un deposito di morte. Ilpicciotto gli passò davanti con la testavascia e le mani in sacchetta, lei invecelo taliò per un attimo, un sorriso leggero,una luce divertita nello sguardo.

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Al commissario bastò una semplicericognizione superficiale per avere laconferma che quello che aveva notatonella registrazione corrispondeva aquello che stava vedendo nella realtà:mentre le pareti laterali eranorelativamente lisce e compatte, la partepiù bassa della parete di fondo, vale adire quella opposta all'entrata, mostravaasperità, sporgenze, rientranze, a primavista poteva apparire malamentescalpellata. Però non di scalpello sitrattava, ma di pietre messe ora unasull'altra ora una allato all'altra: iltempo aveva poi provveduto a saldarle,cementarle, mimetizzarle con polvere,terriccio, filature d'acqua, salnitro, finoa trasformare il rozzo muro in una parete

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quasi naturale. Continuò a taliare bene, aesplorare centimetro per centimetro, ealla fine non ebbe più dubbio: in fondoalla caverna doveva trovarsi un'aperturadi almeno un metro per un metro, che erastata occultata certo non in anni recenti.

«Jacomuzzi? Montalbano sono. Hobisogno assoluto che tu...».

«Ma si può sapere dove sei andato arasparti i coglioni? Tutta la mattina hopassato a cercarti!».

«Beh, ora sono qua».«Ho trovato un pezzo di cartone, di

quello da pacchi, o meglio, di scatolegrosse da spedizione».

«Confidenza per confidenza: io unavolta ho trovato un bottone rosso».

«Ma quanto sei stronzo! Non parlo

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più».«E dai, cocchetto bello di papà, non

t'offendere».«Su questo pezzo di cartone ci sono

stampate delle lettere. L'ho trovato sottoil piancito che c'era nella grotta, si deveessere infilato in un interstizio tra letavole».

«Qual è la parola che hai detto?».«Piancito?».«No, quella appresso».«Interstizio?».«Quella. Gesù come sei struito, come

parli bene! E non avete trovato altrosotto questa cosa che dici tu?».

«Sì. Chiodi arrugginiti, un bottoneappunto ma nero, un mozzicone di matitae dei pezzi di carta, ma, vedi, l'umidità

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li aveva fatti diventare poltiglia. Quelpezzo di cartone è ancora in buonecondizioni perché stava lì evidentementeda pochi giorni».

«Fammelo avere. Senti, ce l'avete unecoscandaglio e qualcuno che lo sappiausare?».

«Sì, l'abbiamo adoperato a Misilmesi,una settimana fa, per cercare tre mortiche abbiamo poi trovato».

«Puoi farmelo avere qua a Vigàtaverso le cinque?».

«Ma sei pazzo? Sono le quattro emezzo! Facciamo tra due ore. Vengopure io e ti porto il cartone. Ma perché tiserve?».

«Per scandagliarti il sederino».«C'è di là il preside Burgio. Dice se

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lo può ricevere, le deve dire una cosa,questione di cinque minuti».

«Fallo passare».Il preside Burgio era andato in

pensione da una decina d'anni, ma tutti inpaese continuavano a chiamarlo cosìperché per oltre un trentennio era statopreside della scuola d'avviamentocommerciale di Vigàta. Con Montalbanosi conoscevano bene, il preside era unuomo di vasta e viva cultura, interessatoacutamente alla vita malgrado l'età: conlui il commissario aveva qualche voltacondiviso le passeggiate distensivelungo il molo. Gli andò incontro.

«Che piacere! S'accomodi».«Siccome passavo da queste parti, ho

pensato di domandare di lei. Se non

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l'avessi trovata in ufficio, le avreitelefonato».

«Mi dica».«Vorrei farle sapere alcune cose sulla

grotta dove avete trovato le armi. Nonso se sono interessanti, ma...».

«Vuole scherzare? Mi dica tuttoquello che sa».

«Ecco, vorrei premettere che io parloin base a quanto ho sentito dalletelevisioni locali e ho letto dai giornali.Può darsi che invece le cose non stianoin realtà in quei termini. Ad ogni modo,qualcuno ha detto che quel masso checopriva l'entrata era stato adattato aporta dai mafiosi o da chi facevacommercio d'armi. Non è vero. Quel,diciamo, adattamento lo fece il nonno di

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un mio amico carissimo, LilloRizzitano».

«In che epoca, lo sa?».«Certo che lo so. Verso il '41, quando

olio, farina, frumento cominciarono ascarseggiare per colpa della guerra. Inquel tempo tutte le terre attorno alCrasto e al crasticeddru appartenevano aGiacomo Rizzitano, il nonno di Lillo,che s'era fatto i soldi in America consistemi poco leciti, almeno cosìdicevano in paese. Giacomo Rizzitanoebbe l'idea di chiudere la grotta con quelmasso adattato a porta. Dentro la grottaci teneva ogni ben di Dio e ne facevamercato nero coll'aiuto di suo figlioPietro, il padre di Lillo. Erano uomini dipochi scrupoli, implicati in altre vicende

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di cui allora le persone per bene nonparlavano, pare magari fatti di sangue.Lillo invece era venuto fuori diverso.Era una specie di letterato, scrivevabelle poesie, leggeva tanto. Fu lui afarmi conoscere Paesi tuoi di Pavese,Conversazione in Sicilia di Vittorini...L'andavo a trovare, in genere quando isuoi non c'erano, in una villetta proprioai piedi della montagna del Crasto, dallaparte che guarda il mare».

«È stata abbattuta per costruire lagalleria?».

«Sì. O meglio: le ruspe per la galleriahanno fatto scomparire i ruderi e lefondamenta, la villetta era stataletteralmente polverizzata nel corso deibombardamenti che precedettero lo

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sbarco alleato del '43».«Potrei rintracciare questo suo amico

Lillo?».«Non so neppure se è vivo o morto,

nemmeno dove ha abitato. Dico cosìperché deve tener presente che Lillo era,o è, di quattro anni più grande di me».

«Senta, preside, lei è mai stato inquella grotta?».

«No. Una volta glielo domandai aLillo. Ma lui me lo negò, aveva avutoordini tassativi dal nonno e dal padre.Lui di loro ne aveva veramente timore,era già tanto se m'aveva raccontato ilsegreto della grotta».

L'agente Balassone, malgrado ilcognome piemontese, parlava milanese edi suo aveva una faccia stremata da due

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novembre.«L'è el dì di mort, alegher!» aveva

pensato Montalbano: vedendolo, gli erabalzato alla memoria il titolo di unpoemetto di Delio Tessa.

Dopo una mezzorata di mutuperii nelfondo della grotta col suo apparecchio,Balassone si levò dalle grecchie lacuffia, taliò il commissario con unafaccia, se possibile, ancora piùsconsolata.

«Mi sono sbagliato» pensòMontalbano «e ora faccio una figura dimerda davanti a Jacomuzzi».

Il quale Jacomuzzi aveva rivelato,dopo dieci minuti che se ne stava dentrola caverna, di soffrire di claustrofobia ese n'era nisciuto fòra.

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«Forse perché adesso non ci sonotelecamere che ti riprendono» fu ilpinsèro maligno di Montalbano.

«Allora?» si decise a spiare ilcommissario per avere conferma delfallimento.

«De là del mur, c'è» dissesibillinamente Balassone che oltre adessere malinconico era magarimutànghero.

«Mi vuoi dire per cortesia, se non ti ètroppo di peso, che c'è oltre la parete?»spiò Montalbano diventando di unapericolosa gentilezza.

«On sit voeuij».«Vuoi usarmi la cortesia di parlare

italiano?».All'apparenza e al tono pareva un

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gentiluomo di corte del Settecento:Balassone ignorava che da lì a unmomento, se andava avanti di quelpasso, gli sarebbe arrivato un papagnoda scugnargli il naso. Fortunatamenteper lui, obbedì.

«C'è un vuoto» disse «ed è altrettantogrande che questa caverna qua».

Il commissario si racconsolò, avevavisto giusto. In quel momento trasìJacomuzzi.

«Trovato niente?».Col suo superiore, Balassone si fece

loquace, Montalbano lo taliò ditraverso.

«Sissignore. Appresso a questa deveesserci un'altra grotta. E come una cosache ho visto in televisione. C'era una

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casa d'eschimese, come si chiama, ahecco, igloo e proprio accanto ce n'era unaltro. I due igloo erano in comunicazioneper mezzo di una specie di raccordo, uncorridoietto piccolo e basso. Qui lasituazione è la stessa».

«A occhio e croce» disse Jacomuzzi«la chiusura del corridoietto tra le duegrotte deve risalire a parecchi anni fa».

«Sissignore» fece sempre più distruttoBalassone. «Se per caso nell'altra grottasono state nascoste armi, risalirannoalmeno ai tempi della seconda guerramondiale».

La prima cosa che Montalbano notòdel pezzo di cartone, debitamente dallaScientifica infilato in un sacchetto diplastica trasparente, era che aveva la

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forma della Sicilia. Nella parte centralec'erano delle lettere impresse in nero:«ato-Cat».

«Fazio!».«Comandi!».«Fatti ridare dalla ditta Vinti il

gippone e poi pale, pichi, zappuna.Domani torniamo al crasticeddru io, tu,Germanà e Galluzzo».

«Ma allora le pigliò il vizio!» sbottòFazio.

Si sentiva stanco. Nel frigoriferotrovò calamaretti bolliti e una fetta dicaciocavallo ben stagionato. Siorganizzò sulla veranda. Quando ebbeterminato di mangiare, andò a cercarenel freezer. C'era la granita di limoneche la cammarera gli preparava secondo

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la formula uno, due, quattro: unbicchiere di succo di limone, due dizucchero, quattro d'acqua. Da leccarsi ledita. Decise poi di stendersi sul letto edi finire il romanzo di Montalbàn. Nonarriniscì a leggerne manco un capitolo:per quanto interessato, il sonno ebbe lameglio. Si svegliò di colpo manco dopodue ore, taliò il ralogio, erano appena leundici di sera. Nel rimettere il ralogiosul comodino, l'occhio gli cadde sulpezzo di cartone che si era portatoappresso. Lo pigliò e se ne andò inbagno. Assittato sulla tazza, alla lucefredda del neon, continuò a taliarlo. E aun tratto un'idea lo folgorò. Gli parseche per un istante la luce del bagnoaumentasse progressivamente d'intensità

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fino ad esplodere nel lampo di un flash.Gli venne da ridere.

«Possibile che le idee mi venganosolamente quando sto nel cesso?».

Taliò e ritaliò il pezzo di cartone.«Ci ripenso domani matino a mente

fridda».Ma non fu così. Dopo un quarto d'ora

che stava nel letto a votàrisi e arivotàrisi, si susì, cercò nella rubrica ilnumero di telefono del capitano Aliottadella guardia di Finanza di Montelusa,che era suo amico.

«Scusami per l'ora, ma ho veramentebisogno di un'informazione urgente.Avete mai fatto controlli al supermercatodi tale Ingrassia di Vigàta?».

«Il nome non mi dice niente. E se non

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lo ricordo vuol dire che magari uncontrollo ci sarà stato, ma non è venutofuori niente d'irregolare».

«Grazie».«Aspetta. Di queste operazioni si

occupa il maresciallo Laganà. Se vuoi, tifaccio chiamare a casa. Sei a casa,vero?».

«Sì».«Dammi dieci minuti».Ebbe il tempo di andare in cucina e

bersi un bicchiere d'acqua ghiazzata cheil telefonò squillò.

«Sono Laganà, il capitano m'ha detto.Sì, l'ultimo controllo a quelsupermercato risale a due mesi fa, tuttoregolare».

«L'avete fatto di vostra iniziativa?».

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«Normale routine. Abbiamo trovatotutto a posto. Le assicuro che è raroimbattersi in un commerciante che abbiai documenti così in regola. A volerlofregare, non ci sarebbe stato unappiglio».

«Avete controllato tutto? Libricontabili, fatture, ricevute?».

«Scusi, commissario, come crede leiche si facciano i controlli?» spiò ilmaresciallo facendosi tanticchiaaggelato nella voce.

«Per amor del cielo, non volevomettere in dubbio... Lo scopo della miadomanda era altro. Io non conosco certimeccanismi e perciò sto domandando ilsuo aiuto. Questi supermercati comefanno a rifornirsi?».

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«Ci sono i grossisti. Cinque, dieci, asecondo di quello che gli abbisogna».

«Ah. Lei sarebbe in grado di dirmi chisono i fornitori del supermercatod'Ingrassia?».

«Credo di sì. Devo avere qualcheappunto da qualche parte».

«Le sono veramente grato. Letelefonerò domattina in caserma».

«Ma io sono in caserma! Restiall'apparecchio».

Montalbano lo sentì fischiettare.«Pronto, commissario? Ecco, i

grossisti che riforniscono Ingrassia sonotre di Milano, uno di Bergamo, uno diTaranto, uno di Catania. Prenda nota. AMilano...».

«Mi scusi se l'interrompo. Cominci da

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Catania».«La ragione sociale della ditta

catanese è "Pan", come pane senza "e"finale. Proprietario ne è SalvatoreNicosia, abitante...».

Non quatrava.«Grazie, basta così» fece deluso

Montalbano.«Aspetti, m'era sfuggito. Il

supermercato, sempre a Catania, sirifornisce, solo per i casalinghi, daun'altra ditta, la "Brancato"».

«ato-Cat», c'era scritto sul pezzo dicartone. Ditta Brancato-Catania:quatrava, eccome se quatrava! L'urlo digioia di Montalbano rintronò la grecchiadel maresciallo, lo spaventò.

«Dottore? Dottore? Dio mio, che

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successe? Si sentì male, dottore?».Undici

Fresco, sorridente, giacchetta ecravatta, avvolto in una nube di sciàurodi colonia, Montalbano, alle sette delmatino, s'apprisentò a casa del signorFrancesco Lacommare, direttore delsupermercato d'Ingrassia, che l'accolse,oltre che con legittimo stupore, inmutande e con un bicchiere di latte inmano.

«Che fu?» spiò il direttorericonoscendolo e sbiancando.

«Due domandine facili facili e tolgo ildisturbo. Ma devo farle una premessaseria assai: questo incontro deve restaretra lei e me. Se lei ne viene a parlarecon qualcuno, magari col suo principale,

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io, con una scusa o con l'altra, la facciocatafottere in càrzaru, ci può mèttiri lamano sul foco».

Mentre Lacommare si dibatteva neltentativo di ripigliare l'aria che gli eravenuta a mancare, dall'internodell'appartamento esplose una vocefemminile acuta e urtante.

«Ciccino, ma cu è a chist'ura?».«Nenti, nenti, Carmilina, dormi» la

rassicurò Lacommare accostando laporta alle sue spalle.

«Le dispiace, commissario, separliamo qua sul pianerottolo? L'ultimopiano, che è quello proprio sopra achisto, è vacante, non c'è piricolo chequarcuno ci disturba».

«Voi, a Catania, da chi vi servite?».

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«Dalla "Pan" e dalla "Brancato"».«Ci sono tempi prestabiliti per il

rifornimento delle merci?».«Settimanale per la "Pan", mensile

per la "Brancato". L'abbiamoconcordato con gli altri supermercatiche si servono da questi stessigrossisti».

«Benissimo. Quindi, mi pare dicapire, la Brancato carica un camion dimerce e lo manda a fare il giro deisupermercati. Ora, in questo giro, voi ache punto vi venite a trovare? Mi spiegomeglio...».

«Ho capito, commissario. Il camionparte da Catania, si fa la provincia diCaltanissetta, poi quella di Trapani equindi quella di Montelusa. Noi di

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Vigàta siamo gli ultimi toccati dalcamion che se ne ritorna vacante aCatania».

«Un'ultima domanda. La merce che iladri rubarono e poi fecero ritrovare...».

«Lei è molto intelligente,commissario».

«Magari lei lo è, se riesce a darmidelle risposte prima delle domande».

«Il fatto è che proprio su questo ionon ci dormo la notte. Dunque, la mercedella "Brancato" ci venne consegnata inanticipo. L'aspettavamo per la matinatapresto del giorno appresso, invecearrivò la sera avanti, quando stavamoper chiudere. L'autista disse che avevatrovato sbarrato per lutto unsupermercato di Trapani e che perciò

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s'era allestito, aveva fatto presto. Allorail signor Ingrassia, per liberare ilcamion, fece lo scarico, controllò lalista e contò i colli. Ma non li feceaprire, disse che era troppo tardi, nonvoleva pagare gli straordinari, sisarebbe fatto tutto il giorno dopo. Dopoqualche ora successe il furto. Ora midomando e dico: chi aveva avvertito iladri che la merce era arrivata inanticipo?».

Lacommare si stava appassionando alsuo ragionamento. Montalbano decise divestire l'abito del contraddittore: ildirettore non doveva avvicinarsi troppoalla verità, poteva far nascere guai.Oltretutto, era chiaramente all'oscuro deitraffici d'Ingrassia.

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«Non è detto che le due cose siano inrelazione. I ladri possono essere venutiper rubare quello che già c'era nelmagazzino e invece hanno trovato anchemerce appena arrivata».

«Sì, ma perché poi far ritrovaretutto?».

Questo era il busillisi. Montalbanoesitò a dare una risposta in grado disoddisfare la curiosità di Lacommare.

«Ma si può sapiri cu minchia è?»spiò, questa volta arraggiatissima, lavoce femminile.

Doveva essere donna di squisitosentire, la signora Lacommare.Montalbano ne approfittò per andarsene,aveva saputo quello che voleva.

«I miei ossequi alla sua gentile

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consorte» fece, principiando a scenderele scale.

Appena arrivato al portone, tornòindietro come una palla allazzata,risuonò il campanello.

«Ancora lei?». Lacommare s'erabevuto il latte ma era sempre inmutande.

«M'ero scordato, mi perdoni. È sicuroche il camion se ne sia ripartitocompletamente vacante dopo averscaricato?».

«Eh, io questo non l'ho detto. Avevaancora sopra una quindicina di grossicolli, appartenevano - così mi dissel'autista - a quel supermercato diTrapani che avevano trovato chiuso».

«Ma chi è stamatina stu scassamento

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di minchia?» ululò dall'interno lasignora Carmilina e Montalbano se nefuì senza manco salutare.

«Credo di avere capito, con buonaapprossimazione, qual era la strada chele armi percorrevano per arrivare finoalla grotta. Mi segua, signor questore.Dunque, in un modo che dobbiamoancora scoprire, le armi, da qualcheparte del mondo, pervengono alla ditta"Brancato" di Catania che l'immagazzinae le mette in grandi scatoloni col nomestampato sopra, come se contenesseronormali elettrodomestici destinati aisupermercati. Quando arriva l'ordinedella consegna, quelli della "Brancato"caricano gli scatoloni con le armiassieme agli altri. Per precauzione, in

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qualche tratto di strada fra Catania eCaltanissetta, sostituiscono il camiondella ditta con uno in precedenza rubato:se qualcuno scopre le armi, la ditta"Brancato" può sostenere che non c'entraper niente, che non sa nulla di questitraffici, che il camion non è suo e cheanzi essa stessa è vittima di un furto. Ilcamion rubato inizia il suo giro, lasciagli scatoloni, come dire, puliti, nei varisupermarket che deve rifornire, quindi siavvia alla volta di Vigàta. Primad'arrivare però, a notte fonda, si fermaal crasticeddru e scarica le armi nellagrotta. Al mattino presto - così m'hadetto il direttore Lacommare -consegnano gli ultimi colli alsupermercato d'Ingrassia e ripartono.

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Sulla via del ritorno per Catania ilcamion rubato viene sostituito da quelloautentico della ditta, che rientra in sedecome se avesse effettuato il viaggio.Magari ogni volta provvedono adalterare il contachilometri. E questoscherzetto lo fanno da non meno di treanni, perché Jacomuzzi ci ha detto cheappunto a un tre anni risale lasistemazione della grotta».

«Quello che lei mi sta spiegando»fece il questore «sulla loro procedurastandard fila ch'è una bellezza. Peròcontinuo a non capire la messinscena delfalso furto».

«Agirono in stato di necessità. Leiricorda lo scontro a fuoco tra unapattuglia di carabinieri e tre malviventi

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nelle campagne di Santa Lucia? Uncarabiniere rimase ferito».

«Lo ricordo sì, ma che c'entra?».«Le radio locali ne diedero notizia

verso le ventuno, proprio mentre ilcamion era sulla strada per ilcrasticeddru. Santa Lucia dista non piùdi due-tre chilometri dalla meta deicontrabbandieri che devono aver sentitola notizia proprio per radio. Non eraprudente farsi trovare da qualchepattuglia - e sul luogo dello scontro nesono accorse molte - in un luogodeserto. Hanno deciso così diproseguire verso Vigàta. Sarebberocertamente incappati in qualche posto diblocco, ma a questo punto era il maleminore, avevano buone probabilità di

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cavarsela. E così è stato. Arrivanoquindi con molto anticipo e raccontanola storia del supermercato chiuso aTrapani. Ingrassia, avvertito delcontrattempo, fa scaricare e il camionfinge di ripartirsene per Catania. Haancora le armi a bordo, gli scatoloniche, come raccontano al direttoreLacommare, erano quelli destinati alsupermercato di Trapani. Il camionviene nascosto nelle vicinanze di Vigàtanella proprietà d'Ingrassia o di qualchecomplice».

«Torno a ridomandarle: perchésimulare il furto? Da dove l'avevanonascosto, il camion poteva benissimoraggiungere il crasticeddru senzabisogno di ripassare per Vigàta».

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«E invece questo bisogno c'era.Fermati dai carabinieri, dalla guardia diFinanza o da chi vuole con quindici collia bordo senza bolla d'accompagnamento,avrebbero destato sospetti. Costretti adaprire uno scatolone, sarebbe successoil patatrac. Era assoluta la necessità diriprendersi i colli scaricati da Ingrassiae che questi a ragion veduta non avevavoluto far aprire».

«Comincio a comprendere».«A una certa ora della notte, il camion

torna al supermercato. Il guardiano non èin grado di riconoscere né uomini nécamion perché la sera avanti non eraancora montato in servizio. Caricano icolli non ancora aperti, partono allavolta del crasticeddru, scaricano gli

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scatoloni con le armi, tornano indietro,abbandonano il camion nella piazzoladel distributore e il gioco è fatto».

«Mi scusi, ma perché non si sonosbarazzati della merce rubataproseguendo poi per Catania?».

«Questo è il tocco geniale: facendoloritrovare apparentemente con tutta lamerce rubata, depistano l'indagine.Automaticamente noi siamo costretti aipotizzare uno sgarro, una minaccia, unavvertimento per un pizzo non pagato.Insomma ci costringono a indagare a unlivello più basso, quello purtroppoquasi quotidiano dalle parti nostre. EIngrassia recita benissimo la sua parteraccontandoci l'assurda storia dellosgherzo, come dice lui».

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«Geniale veramente» fece il questore.«Sì, ma a ben taliàre, un errore, una

svista si scopre sempre. Non si sonoaccorti, nel caso nostro, che un pezzo dicartone era scivolato sotto le tavole chefacevano da pavimento nella grotta».

«Già, già» fece pensoso il questore.Poi, quasi a se stesso, spiò:

«Chissà dove sono andati a finire gliscatoloni vuoti».

Ogni tanto il questore amminchiava sudettagli da niente.

«Li avranno caricati su qualchemacchina e saranno andati a bruciarli incampagna. Perché al crasticeddruc'erano almeno due macchine dicomplici, magari per portare via l'autistadel camion una volta abbandonatolo

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sulla piazzola».«Quindi, senza quel pezzo di cartone,

non avremmo potuto scoprire niente»concluse il questore.

«Beh, le cose non stanno esattamentecosì» disse Montalbano. «Io stavoseguendo un'altra strada cheinevitabilmente m'avrebbe portato allestesse conclusioni. Vede, sono staticostretti ad ammazzare un poverovecchio».

Il questore sobbalzò, s'infuscò.«Un omicidio? Come mai io non ne ho

saputo niente?».«Perché l'hanno fatto passare per un

incidente. Solo l'altra sera ho avuto lacertezza che gli avevano manomesso ifreni dell'auto».

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«Glielo ha detto Jacomuzzi?».«Per l'amor di Dio! Jacomuzzi è

buono e caro, e molto competente, mametterlo in mezzo sarebbe stato comefare un comunicato stampa».

«Bisogna che un giorno o l'altro glifaccia una solenne cazziata, da levargliil pelo, a Jacomuzzi» disse il questoretirando un sospiro. «Mi racconti tutto,ma in ordine e piano».

Montalbano gli contò la storia diMisuraca e della lettera che gli avevaspedito.

«È stato ammazzato inutilmente»concluse. «I suoi assassini non sapevanoche mi aveva già scritto tutto».

«Senta, mi spieghi che motivo avevaIngrassia di trovarsi nei pressi del suo

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supermercato mentre simulavano il furto,a credere a Misuraca».

«Perché se succedeva qualche altrointoppo, una visita inopportuna, luiusciva fuori pronto a spiegare che tuttoera regolare, che stava rimandandoindietro la merce perché quelli della"Brancato" s'erano sbagliati sugliordinativi».

«E il guardiano notturno nellaghiacciaia?».

«Quello oramai non era un problema.L'avrebbero fatto sparire».

«Come procediamo?» spiò il questoredopo una pausa.

«Il regalo che Tano u grecu ci ha fatto,pur senza fare nomi, è stato grosso»principiò Montalbano «e non dovrebbe

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essere sprecato. Camminando congiudizio, possiamo mettere le mani su ungiro che non sappiamo quanto possaessere grande. Ci vuole cautela. Searrestiamo subito Ingrassia o qualcunodella ditta "Brancato", non abbiamoconcluso niente. Bisogna arrivare aipesci più grossi».

«Sono d'accordo» fece il questore.«Avverto Catania che tenganosotto'stretta sorv...».

S'interruppe, fece una smorfia,dolorosamente gli era tornata in mente latalpa che aveva parlato a Palermoprovocando la morte di Tano. Potevabenissimo essercene magari un'altra aCatania.

«Muoviamoci in piccolo» decise.

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«Teniamo sotto controllo il soloIngrassia».

«Allora andrei dal giudice perottenere le necessarie autorizzazioni»disse il commissario.

Mentre stava per uscire, il questore lorichiamò.

«Ah, senta, mia moglie sta moltomeglio. Le andrebbe bene sabato sera?Abbiamo molte cose da discutere».

Trovò il giudice Lo Biancoinsolitamente di buonumore, gli occhisparlucenti.

«La vedo bene» non poté trattenersidal dirgli il commissario.

«Eh sì eh sì, sto proprio bene».Si taliò torno torno, assunse un'ariata

cospirativa, si sporse verso Montalbano,

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parlò a bassa voce.«Lo sa che Rinaldo aveva sei dita

nella destra?».Montalbano per un momento

ammammalucchì. Poi si ricordò che daanni il giudice si dedicava alla stesurad'una poderosa opera, Vita e imprese diRinaldo e Antonio Lo Bianco, maestrigiurati dell'Università di Girgenti, altempo di re Martino il giovane (1402-1409), perché s'era fissato che fosserosuoi parenti.

«Davvero?» fece Montalbano congioioso stupore. Era meglioassecondarlo.

«Sissignore. Sei dita nella manodestra».

«Doveva spararsi delle seghe

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stupende» stava per dire sacrilegamenteMontalbano, ma arriniscì a trattenersi.

Al giudice contò tutto del trafficod'armi e dell'omicidio di Misuraca. Glispiegò magari la strategia che volevaseguire e gli domandò l'autorizzazione afar mettere sotto controllo i telefonid'Ingrassia.

«Gliela faccio avere subito» disse LoBianco.

In altri momenti avrebbe sollevatodubbi, messo ostacoli, previsto rogne:questa volta, felice della scoperta dellesei dita nella mano destra di Rinaldo, aMontalbano avrebbe concessol'autorizzazione alla tortura,all'impalamento, al rogo.

Andò a casa, si mise il costume da

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bagno, fece una nuotata lunghissima,rientrò, s'asciugò, non si rivestì, nelfrigorifero non c'era niente, nel fornotroneggiava una teglia con quattroenormi porzioni di pasta 'ncasciata,piatto degno dell'Olimpo, se ne mangiòdue porzioni, rimise la teglia nel forno,puntò la sveglia, dormì piombigno perun'ora, si alzò, fece la doccia, si rivestìcoi jeans e la camicia già allordati,arrivò in ufficio.

Fazio, Germanà e Galluzzol'aspettavano vestiti da fatica, appena lovidero impugnarono pale, pichi ezappuna e intonarono il vecchio coro deibraccianti agitando in aria gli attrezzi:

«E ora! E ora! La terra a chi lavora!».«Ma quanto siete stronzi!» fu il

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commento di Montalbano.All'ingresso della grotta del

crasticeddru c'erano già Prestia, ilcognato giornalista di Galluzzo, e unoperatore il quale s'era portato appressodue grandi lampade a batteria.

Montalbano taliò di traversoGalluzzo.

«Sa» disse questi arrossendo «datoche lei l'altra volta gli ha dato ilprimisso...».

«Va bene, va bene» tagliò ilcommissario.

Trasirono nella grotta delle armi equindi, su indicazione di Montalbano,Fazio, Germanà e Galluzzo si misero allavoro per levare le pietre che eranocome saldate l'una all'altra.

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Travagliarono per tre ore buone, magariil commissario, Prestìa e l'operatorefaticarono, dando il cambio ai treuomini. Poi, finalmente, la parete venneabbattuta. Come aveva detto Balassone,videro chiaramente il corridoietto, ilresto si perdeva nello scuro.

«Vai tu» disse Montalbano a Fazio.Questi pigliò una torcia, strisciò

panza a terra, sparì. Pochi secondi dopone sentirono la voce stupita:

«Oh Dio, commissario, venga avedere!».

«Voi entrate quando vi chiamo io»disse Montalbano a tutti, ma in specialmodo al giornalista che a sentire Fazioaveva avuto come uno scatto e stava perbuttarsi panza a terra e strisciare.

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La lunghezza del corridoiettoequivaleva praticamente a quella del suocorpo. In un attimo si ritrovò dall'altraparte, addrumò la sua torcia. La secondagrotta era più piccola della prima e davasubito l'impressione d'essereperfettamente asciutta. Proprio in centroc'era un tappeto ancora in buono stato. Asinistra in alto del tappeto, una ciotola.A destra, in corrispondenza, unbùmmolo. Faceva vertice di triangolorovesciato, nel lato inferiore deltappeto, un cane pastore di terracotta, digrandezza naturale. Sopra il tappeto, duecorpi incartapecoriti, come nei filmdell'orrore, abbracciati.

Montalbano sentì mancargli il respiro,non arriniscì ad aprire bocca. Chissà

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perché gli tornarono a mente i duegiovani che aveva sorpreso nell'altragrotta mentre facevano all'amore. Delsuo silenzio ne approfittarono gli altriche, non resistendo, trasirono l'unoappresso all'altro. L'operatore addrumòle lampade, cominciò una ripresafrenetica. Nessuno parlava. Il primo ariprendersi fu Montalbano.

«Avverti la Scientifica, il giudice e ildottor Pasquano» disse.

Non si voltò manco verso Fazio perdargli l'ordine. Se ne stava lì, comeaffatato, a taliàre la scena, scantato cheun suo minimo gesto lo potesse svegliaredal sogno che stava vivendo.

DodiciArrisbigliatosi dall'incantesimo che

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l'aveva paralizzato, Montalbano si misea fare voci a tutti di starsene con lespalle al muro, di non cataminarsi, dinon calpestare il suolo della grotta cheera cosparso di una rena finissima erossiccia, filtrata chissà da dove, cen'era magari sulle pareti. Di questa renanon esisteva traccia nell'altra grotta eforse questa sabbia aveva in qualchemodo fermato il disfacimento deicadaveri. Erano un uomo e una donna, dietà impossibile da stabilire a vista: chefossero di sesso diverso il commissariose ne fece persuaso dalla conformazionedei corpi, non certo dagli attributisessuali che non esistevano più,cancellati da un processo naturale.L'uomo era coricato di fianco, il suo

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braccio traversava il petto di lei chestava supina. Erano dunque abbracciati,e abbracciati sarebbero rimasti persempre, difatti quella che era stata lacarne del braccio dell'uomo si era comeincollata, fusa con la carne del petto dilei. No, divisi lo sarebbero stati da lì apoco, ad opera del dottor Pasquano.Sotto la pelle raggrinzita eincartapecorita spiccava il bianco delleossa; erano stati prosciugati, ridotti apura forma. I due parevano stesseroridendo, le labbra, che si erano ritirate estirate attorno alla bocca, mettevano inmostra i denti. Allato alla testa delmorto c'era la ciotola con dentro dellecose rotonde, allato a lei invece c'era ilbùmmolo di creta, di quelli che una

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volta i contadini si portavano appressoper mantenere l'acqua fresca. Ai piedidella coppia, il cane di terracotta. Lungocirca un metro, conservava intatti icolori, grigio e bianco. L'artigiano chel'aveva fatto se l'era raffigurato con lezampe anteriori distese, le posterioriraccolte, la bocca semiaperta dallaquale fuoriusciva la lingua rosa, gliocchi vigili: era insomma accucciato main posizione di guardia. Il tappeto avevaqualche buco che mostrava la rena delsuolo, ma poteva darsi che fosseropirtùsa vecchi, che il tappeto fosse giàin quelle condizioni prima di essereposto nella grotta.

«Uscite tutti!» ordinò e rivolto aPrestìa e all'operatore: «Soprattutto

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spegnete le lampade».D'un tratto si era reso conto del danno

che stavano facendo col calore delleluci per la ripresa e con la loro stessaprisenza. Rimase solo dentro la grotta.Facendosi lume con la torcia, taliòattentamente il contenuto della ciotola,le cose rotonde erano monete metalliche,ossidate e ramate. Delicatamente, condue dita, ne prese una che gli parse lameglio conservata, era una moneta daventi centesimi, coniata nel 1941, da unlato raffigurava il re Vittorio EmanueleIII, dall'altro un profilo femminile con ilfascio littorio. Quando diresse la luceverso la testa del morto, s'addunò d'unbuco che aveva nella tempia. Se neintendeva troppo per non capire che si

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trattava di un colpo d'arma da fuoco, o siera suicidato o era stato ammazzato. Mase si era suicidato, dov'era finita l'arma?Sul corpo di lei invece nessuna tracciadi morte violenta, provocata. Arristòpensoso, i due erano nudi e non sivedevano vestiti nella grotta. Chesignificava? Senza essersi primaindebolita, ingiallita, la luce della torciasi spense di colpo, s'era consumata lapila. Montalbano rimasemomentaneamente accecato, non riuscìad orientarsi. Per evitare danni, s'acculòsulla rena aspettando che i suoi occhis'abituassero all'oscurità, a un certomomento avrebbe sicuramente intravistoil tenuissimo chiarore dell'apertura delpassaggio. Però gli bastarono quei pochi

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secondi di scuro assoluto e di silenzioper fargli percepire un odore non usualeche, ne era certo, aveva sentito un'altravolta. Si sforzò di ricordarsi dove,magari se la cosa non aveva importanza.Siccome gli veniva naturale, sin daquando era nicareddru, di dare un colorea ogni odore che lo colpiva, si disse chequesto era di colore verde scuro.Dall'associazione, ricordò dove l'avevapercepito la prima volta: era stato alCairo, dintra la piramide di Cheope, inun corridoio vietato ai visitatori che lacortesia di un amico egiziano avevaconsentito solo a lui di percorrere. E, dicolpo, si sentì un quaquaraquà, un uomoda niente, capace di nessun rispetto.Nella marinata, sorprendendo i due

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picciotti che facevano all'amore, avevaprofanato la vita; adesso, davanti ai duecorpi che per sempre avrebbero dovutorestare ignorati nel loro abbraccio,aveva profanato la morte.

Fu forse per questo senso di colpa chenon volle assistere ai rilevamenti chesubito principiarono a fare Jacomuzzi e isuoi della Scientifica e il medico legale,il dottor Pasquano. S'era fumato cinquesigarette, assittato sopra il masso ch'eraservito da porta alla grotta delle armi,quando si sentì chiamare da Pasquano,agitatissimo e nirbùso.

«Ma che fa il giudice?».«Lo domanda a me?».«Se non arriva presto, qui va tutto a

buttane. Ho bisogno di portarmi i

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cadaveri a Montelusa, metterli infrigorifero. Si decompongono quasi avista d'occhio. Come faccio?».

«Si fumi una sigaretta con me» tentòdi rabbonirlo Montalbano.

Il giudice Lo Bianco arrivò un quartod'ora dopo, quando di sigarette ilcommissario se n'era fumate altre due.

Lo Bianco diede un'occhiata distrattae, considerato che i morti non risalivanoal tempo del re Martino il giovane, dissesbrigativamente al medico legale:

«Faccia quello che vuole, tanto èstoria vecchia».

Il taglio col quale presentare lanotizia, «Televigàta» l'inzertò subito.Nel telegiornale delle venti e trentaspuntò per prima cosa la faccia

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emozionata di Prestìa il quale annunziòuno scoop eccezionale, dovuto, disse,«ad una delle intuizioni geniali chefanno, del commissario SalvoMontalbano di Vigàta, una figura forseunica nel panorama degli investigatoridell'isola e, perché no?, dell'Italia tutta».Proseguì ricordando del commissariol'arresto drammatico del latitante Tano ugrecu, sanguinario boss della mafia, e lascoperta della grotta del crasticeddruadibita a deposito d'armi. Apparve unasequenza della conferenza stampa inoccasione dell'arresto di Tano dove untipo stralunato e balbuziente, cherispondeva al nome e alla funzione dicommissario Montalbano, a faticariusciva a mettere quattro parole in

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croce. Prestìa ripigliò a contare comel'eccezionale investigatore si fosse fattopersuaso che appresso alla grotta dellearmi dovesse esisterne un'altra collegataalla prima.

«Io» disse Prestìa «fiducioso delleintuizioni del commissario, lo seguii conl'assistenza del mio operatore SchiriròGerlando».

A questo punto Prestìa, con tonomisterioso, si pose una pocod'interrogativi: quali segreti poteriparanormali aveva il commissario?Cosa gli aveva fatto pensare che dietroalcune pietre annerite dal tempo sinascondesse un'antica tragedia?Possedeva forse il commissario losguardo a raggi x di un Superman?

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Montalbano, che stava a taliare latrasmissione dalla sua casa e che damezz'ora non arrinisciva a trovare unpaio di mutande pulite che puredovevano da qualche parte esserci, aquest'ultima domanda lo mandò a fare inculo.

Mentre pigliavano a scorrere leimpressionanti immagini dei corpi nellagrotta, Prestìa espose la sua tesi conparole convinte. Ignorava il buco nellatempia dell'uomo, e quindi parlò di unamorte per amore. Secondo lui i dueamanti, contrastati dalle famiglie nellaloro passione, si erano chiusi nellagrotta, avevano murato il passaggio e sierano lasciati morire di fame. Avevanoadattato il loro estremo rifugio con un

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vecchio tappeto, un bùmmolo pienod'acqua e avevano aspettato la morte,abbracciati. Della ciotola piena dimonetine non parlò, avrebbe stonato colquadro che andava dipingendo. I due -proseguì Prestìa - non erano statiidentificati, la storia era successaalmeno una cinquantina d'anni prima.Poi un altro giornalista si mise a parlaredei fatti del giorno: una bambina di seianni violentata e ammazzata a colpi dipietra da uno zio paterno, un cadavererinvenuto in un pozzo, una sparatoria aMerfi con tre morti e quattro feriti, lamorte sul lavoro di un operaio, lasparizione di un dentista, il suicidio diun commerciante soffocato dagli usurai,l'arresto. di un consigliere comunale di

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Montevergine per concussione ecorruzione, il suicidio del presidentedella provincia accusato di ricettazione,il rinvenimento di un cadavere in mare...

Montalbano, davanti al televisore,s'addrummiscì di un sonno profondo.

«Pronto, Salvo? Gegè sono. Lasciamiparlare e nun m'interrumpìri dicendominchiate. Haiu necessità di vidìriti,t'haiu a dire na cosa».

«Va bene, Gegè, stanoti stissa, sevuoi».

«Non mi trovo a Vigàta, a Trapanisono».

«Allora quannu?».«Oggi che jornu è?».«Jovedì».«Ti va beni sabatu a mezzanotti a u

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solitu posto?».«Senti, Gegè, sabatu a sira sono a

mangiari con una pirsona, però pozzuvèniri lo stesso. Si ritardo tanticchia,aspettami».

La telefonata di Gegè, che dalla vocegli era parso preoccupato tanto da nonfargli venire gana di scherzo, l'avevaarrisbigliato a tempo. Erano le dieci, sisintonizzò su «Rete-libera». Nicolò Zito,faccia intelligente, rosso di pelo e dipinsèro, raprì il suo notiziario con lamorte sul lavoro di un operaio a Fela,arrostito vivo da un'esplosione di gas.Fece una serie di esempi per dimostrarecome almeno il novanta per cento degliimprenditori se ne sbattesseroallegramente delle norme di sicurezza.

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Passò quindi all'arresto degliamministratori pubblici accusati dimalversazioni varie e ne approfittò perricordare agli ascoltatori come i variigoverni in carica avessero vanamentetentato di varare leggi che impedisserol'opera di pulizia in corso. Il terzoargomento che trattò fu quello delsuicidio del commerciante soffocato daidebiti con uno strozzino e giudicò iprovvedimenti varati dal governo control'usura assolutamente inadeguati. Perché- si chiese - quelli che investigavano suquesta piaga tenevano accuratamenteseparate usura e mafia? Quanti erano imodi di riciclaggio del denaro sporco?E finalmente venne a parlare dei duecorpi ritrovati nella grotta, ma lo fece in

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una prospettiva particolare,indirettamente polemizzando con Prestìae «Televigàta» per il taglio con il qualela notizia era stata data. Una volta -disse - qualcuno affermò che la religioneera l'oppio dei popoli, ai giorni nostribisognerebbe invece dire che il verooppio è la televisione. Per esempio:qual era il motivo per cui quelritrovamento è stato da parte di qualcunopresentato come il suicidio disperato didue amanti ostacolati nel loro amore?Quali elementi autorizzavanochicchessia a sostenere una tesi simile? Idue sono stati trovati nudi: dove sonoandati a finire gli abiti? Nella grotta nonc'è traccia di qualsiasi arma. Come sisarebbero ammazzati? Lasciandosi

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morire di fame? Eh, via! Perché l'uomoaveva allato una ciotola con dentro deglispiccioli, oggi fuori corso ma alloravalidi: per pagare il pedaggio aCaronte? La verità, sostenne, è che sivuole cangiare un probabile delitto in unsuicidio certo, un suicidio romantico. Enei nostri giorni tanto oscuri e grevi dinubi all'orizzonte - concluse - si montauna storia così per oppiare la gente, perdepistare l'interesse dai problemi gravia una storia alla Romeo e Giulietta,scritta però da uno sceneggiatore ditelenovelas.

«Amore, sono Livia. Ti devo dire cheho prenotato i posti in aereo. Il voloparte da Roma, quindi tu devi farti ilbiglietto da Palermo per Fiumicino, lo

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stesso farò io da Genova. C'incontriamoall'aeroporto e c'imbarchiamo».

«Uuhm».«Ho prenotato pure l'albergo, una mia

amica che c'è stata m'ha detto che èmolto bello senza essere di gran lusso.Credo ti piacerà».

«Uuhm».«Partiamo fra quindici giorni. Sono

felice. Conto i giorni e le ore».«Uuhm».«Salvo, che c'è?».«Niente. Che ci deve essere?»«Non mi sembri entusiasta».«Ma no, ma che dici».«Guarda, Salvo, che se all'ultimo

momento ti tiri indietro, io parto lostesso e ci vado da sola».

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«Dai».«Ma si può sapere che t'ha preso?».

«Niente. Stavo dormendo.».«Commissario Montalbano?

Buonasera. Sono il preside Burgio».«Buonasera, mi dica».«Sono mortificatissimo di doverla

disturbare a casa. Ho appena sentito, intelevisione, del ritrovamento dei duemorti».

«Lei è in grado d'identificarli?».«No. Telefono per una cosa che alla

televisione è stata detta di sfuggita, e cheforse per lei invece può essereinteressante. Si tratta del cane diterracotta. Se non ha nulla in contrario,verrei domattina in ufficio col ragioniereBurruano, lo conosce?».

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«Di vista. Alle dieci le va bene?».«Qui» disse Livia. «Lo voglio fare

qui e senza perdere tempo».Si trovavano in una specie di parco,

denso d'alberi. Ai loro piedistrisciavano centinaia di chioccioledelle specie più diverse, vignarole,attuppateddri, vavaluci, scataddrizzi,crastuna.

«Ma perché proprio qui? Torniamo inmacchina, in cinque minuti siamo a casa,può passare qualcuno da qua».

«Non discutere, stronzo» disse Liviamentre gli afferrava la cintura deipantaloni e maldestramente tentava dislacciarla.

«Faccio io» disse lui.In un attimo Livia si mise nuda,

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mentre lui ancora inciampava neipantaloni, nelle mutande.

«C'è abituata a spogliarsi di prescia»pensò in un impeto di sicula gelosia.

Livia si gettò sull'erba umida, agambe larghe, le mani a carezzarsi iseni, e lui sentì, con disgusto, il rumoredi decine di chiocciole che venivanoschiacciate dal corpo di lei.

«Dai, fai presto».Montalbano finalmente riuscì a

mettersi nudo, rabbrividendo per l'ariafridda. Intanto, due o tre vavaluciavevano pigliato a strisciare sul corpodi Livia.

«E che vuoi fare con quello?» spiòcon tono critico lei taliandogli l'uccello.Con un'ariata di compatimento, si mise

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in ginocchio, glielo pigliò in mano, locarezzò, se l'infilò in bocca. Quando losentì pronto, si rimise nella posizione diprima.

«Scopami con tutti i sacramenti»disse.

«Ma come mai è diventata tantovolgare?» si domandò lui sconcertato.

Mentre stava per penetrarla, vide ilcane a pochi passi. Un cane bianco, lalingua rosea fuori dalla bocca, cheringhiava minaccioso, i denti scoperti,un filo di bava che colava. Quando eraarrivato?

«Che fai? Ti si è ammosciato dinuovo?».

«C'è un cane».«Che te ne fotte del cane? Chiavami».

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In quel preciso momento il canespiccò un balzo e lui s'irrigidì, scantato.Il cane atterrò a pochi centimetri dallasua testa, s'impetri, il suo colore sbiadìleggermente, s'accucciò, le zampedavanti distese, quelle di dietroraccolte, divenne finto, di terracotta. Erail cane della grotta, quello che stava diguardia ai morti.

E tutt'inzèmmula scomparsero cielo,àrboli, erba; pareti e tetto di roccia sicoagularono attorno a loro e lui conorrore capì che i morti nella grotta nonerano due sconosciuti ma lui e Livia.

Dall'incubo s'arrisbigliò ansante,sudato, e subito domandò mentalmenteperdono a Livia per esserselaimmaginata così oscena nel sogno. Che

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significava quel cane? E le chiocciolerepellenti che strisciavano dovunque?

Ma quel cane un senso dovevacertamente averlo.

Prima d'andare in ufficio, passòdall'edicola, accattò i due giornali che sipubblicavano nell'isola. Tutti e duedavano ampio rilievo alla scoperta deicorpi nella grotta, del ritrovamento dellearmi se n'erano invece ampiamentescordati. Il giornale che si stampava aPalermo era certo che si trattava di unsuicidio per amore, quello che sistampava a Catania era aperto magarialla tesi dell'omicidio senza trascurarequella del suicidio, tant'è vero chetitolava: Doppio suicidio o dupliceomicidio?, attribuendo misteriose e

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vaghe distinzioni tra duplice e doppio.D'altra parte, in ogni occasione, ilgiornale usava non pigliare maiposizione, sia che si trattasse di unaguerra o di un terremoto, dava un colpoalla botte e uno al timpagno, e perquesto s'era fatto fama di giornaleindipendente e liberale. Nessuno dei duesi soffermava sul bùmmolo, sulla ciotolae sul cane di terracotta.

Catarella, appena Montalbano varcòla soglia, gli spiò affannato cosa dovevarispondere alle centinaia di telefonate digiornalisti che volevano parlargli.

«Tu dicci che sono andato inmissione».

«E che si fece missionario?» fu lafolgorante battuta di spirito dell'agente

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che si fece una grossa risata solitaria.Montalbano considerò che aveva fatto

bene, la sera avanti, prima d'inserraregli occhi, a staccare la spina deltelefono.

Tredici«Dottor Pasquano? Montalbano sono.

Volevo sapere se ci sono novità».«Sissignore. Mia moglie ha pigliato il

raffreddore e a mia nipote ci cascò undentino».

«Che è incazzato, dottore?».«E sissignore!».«Con chi?».«E dopo che lei mi viene a spiare se

ci sono novità! Io mi domando e dicocon quale faccia lei mi domanda allenove del matino! Che pensa, che ho

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passato la notte ad aprire le panze diquei due morti come se fossi unavvoltoio, un carcarazzo? Io dormo, lanotte! E ora sto travagliando suquell'annegato che hanno trovato a TorreSpaccata. Che poi annegato non è, datoche prima di gettarlo a mare gli hannodato tre coltellate in petto».

«Dottore, la facciamo unascommessa?».

«Su che?».«Sul fatto che lei ha passato la nottata

con quei due morti».«E va bene, c'inzertò».«Che ha trovato?».«Per ora le posso dire picca, devo

taliàre altre cose. E certo che sono mortisparati. Lui con un colpo alla tempia, lei

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con un colpo al cuore. La ferita dellafemmina non si vedeva perché ci stavasopra la mano di lui. Un'esecuzione inpiena regola, mentre dormivano».

«Dentro la grotta?».«Non credo, penso che siano stati

portati lì già cadaveri e quindiricomposti, nudi com'erano».

«È riuscito a stabilirne l'età?».«Non vorrei sbagliarmi, ma dovevano

essere giovani, molto giovani».«Secondo lei a quando risale il

fatto?».«Posso azzardare un'ipotesi, la pigli

col beneficio d'inventario. Su per giù, auna cinquantina d'anni fa».

«Non ci sono per nessuno e nonpassarmi telefonate per un quarto d'ora»

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disse Montalbano a Catarella. Poi serròla porta dell'ufficio, tornò alla scrivania,s'assittò. Mimì Augello se ne stavamagari lui assittato, ma con la schinarigida, impalato.

«Chi attacca per primo?» spiòMontalbano.

«Attacco io» fece Augello «dato chesono stato io a domandare di parlarti.Perché credo che sia arrivata l'ora diparlarti».

«E io sono qua a sentirti».«Si può sapere che t'ho fatto?».«Tu? Tu a me non hai fatto niente.

Perché mi fai questa domanda?».«Perché a me, qua dentro, pare

d'essere diventato stràneo. Non mi diciniente di quello che stai facendo, mi

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tieni alla larga. E io mi sento offìso. Peresempio, secondo te, è giusto avermiammucciata la storia di Tano u grecu? Ionon sono Jacomuzzi che parla e sparla,io una cosa me la so tenere. Quello che èsuccesso nel mio commissariato l'hosaputo dalla conferenza stampa. Ti parecosa fatta bene verso a mia che sono,sino a prova contraria, il tuo vice?».

«Ma tu lo capisci quant'era dilicata lafacenna?».

«Appunto perché lo capisco mi ciarraggio chiussà. Perché questo sta asignificare che pi tia io non sono lapersona giusta per le cose dilicate».

«Questo non l'ho mai pinsàto».«Non l'hai mai pinsàto ma l'hai sempri

fatto. Come la storia delle armi, che l'ho

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saputa per caso».«Sai, Mimì, sono stato pigliato dalla

smania, dalla prescia e non ci ho pinsàtoad avvertirti».

«Non mi contare minchiate, Salvo. Lastoria è un'altra».

«E quale sarebbe?».«Te la dico. Tu ti sei formato un

commissariato a tua immagine esomiglianza. Da Fazio a Germanà aGalluzzo, piglia chi vuoi pigliare, non sitratta che di obbedienti braccia d'unasola testa: la tua. Perché loro noncontraddicono, non mettono dubbi,eseguono e basta. Qua dentro i corpiestranei siamo solo due. Catarella e io.Catarella perché è troppo cretino eio...».

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«...perché sei troppo intelligente».«Vedi? Io non stavo dicendo questo.

Tu mi attribuisci una superbia che nonho e lo fai con malizia».

Montalbano lo taliò, si susì, si mise lemani in sacchetta, girò attorno allaseggia sulla quale stava assittatoAugello, poi si fermò.

«Non c'era malizia, Mimì. Tu seiveramente intelligente».

«Se lo pensi sul serio, perché mi taglifuori? Potrei esserti utile almeno quantogli altri».

«Questo è il punto, Mimì. Non quantogli altri, ma più degli altri. Ti stoparlando col cuore in mano perché mistai facendo ragionare sul mioatteggiamento nei tuoi riguardi. Forse è

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questo che più mi disturba».«Allora, per farti piacere, dovrei

rincoglionire leggermente?».«Se vuoi che ci facciamo una bella

sciarra, facciamola. Non è questo chevolevo dire. Il fatto è che io mi sonoaddunato, col tempo, d'essere una speciedi cacciatore solitario, perdonami lastronzaggine dell'espressione, che èmagari sbagliata, perché mi piacecacciare con gli altri ma voglio esseresolo a organizzare la caccia. Questa è lacondizione indispensabile perché il miociriveddro giri nel verso giusto.Un'osservazione intelligente, fatta da unaltro, m'avvilisce, mi smonta magari peruna jurnata intera, ed è capace che ionon arrinescio più a seguire il filo dei

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miei ragionamenti».«Ho capito» disse Augello. «Anzi,

l'avevo già capito ma te lo volevo sentirdire, confermare. Allora t'avverto senzainimicizia e senza rancore: oggi stessoscrivo al questore per domandargli iltrasferimento».

Montalbano lo considerò, gli siavvicinò, si calò in avanti, gli mise lemani sulle spalle.

«Mi credi se ti dico che se fai questomi dai un vero dolore?».

«E che cazzo!» esplose Augello. «Matu pretendi tutto da tutti? Che razzad'uomo sei? Prima mi tratti come unamerda e ora mi vieni a fare la mozionedegli affetti? Lo sai che sei d'un egoismomostruoso?»

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«Sì, lo so» disse Montalbano.«Mi permetta di presentarle il

ragioniere Burruano che ha gentilmenteacconsentito di venire con me» fece,tutto scocchi e maniglie, il presideBurgio.

«S'accomodino» disse Montalbanoindicando le due vecchie poltroncineche, in un angolo della càmmara, eranodestinate agli ospiti di riguardo. Per sépigliò invece una delle due seggiech'erano davanti alla scrivania, ingenere destinate a gente che di riguardonon era.

«Pare che io in questi giorni abbia ilcompito di correggere o almeno diprecisare quello che dicono intelevisione» esordì il preside.

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«Corregga e precisi» sorriseMontalbano.

«Io e il ragioniere siamo quasicoetanei, lui è più grande di me diquattro anni, ci ricordiamo delle stessecose».

Montalbano sentì un certo orgoglionella voce del preside. E ne avevamotivo: Burruano, tremante, l'occhiotanticchia appannato, pareva più vecchiodell'amico di almeno dieci anni.

«Vede, subito dopo la trasmissione di"Televigàta" che faceva vedere l'internodella grotta dove sono stati trovati i...».

«Scusi se l'interrompo. Lei l'altravolta mi parlò della grotta delle armi,ma di questa seconda non me ne fececenno. Perché?».

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«Semplicemente perché ne ignoravol'esistenza, Lillo non me ne parlò mai.Dunque, subito dopo la trasmissione hotelefonato al ragioniere Burruano,volevo una conferma, perché io la statuadel cane l'avevo già vista in altraoccasione».

Il cane! Ecco perché se l'era sognatonell'incubo, gliene aveva accennato pertelefono il preside. Venne pigliato dauna specie di gratitudine infantile.

«Vogliono un caffè, eh, un caffè? Albar qua vicino lo fanno buono».

Con un movimento simultaneo i duescossero la testa.

«Un'aranciata? Una cocacola? Unabirra?».

Se non lo fermavano, sentiva che da lì

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a poco avrebbe loro offerto diecimilalire a testa.

«No, grazie, non possiamo pigliareniente. L'età» fece il preside.

«Allore mi dicano».«È meglio che parli il ragioniere».«Dal febbraio 1941 al luglio del

1943» attaccò l'altro «sono stato,giovanissimo, podestà di Vigàta. Siaperché il fascismo diceva che i giovanigli piacevano, tant'è vero che se limangiò tutti ora arrosto ora congelati,sia perché in paese erano rimasti solovecchi, fìmmine e picciliddri, gli altristavano al fronte. Io non ci potei andareperché ero, e lo ero per davvero, malatodi petto».

«Io ero troppo picciotto per andare al

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fronte» intervenne il preside a scansod'equivoci.

«Erano tempi terribili. Gli inglesi egli americani ci bombardavano ognigiorno. Una volta ho contato diecibombardamenti in trentasei ore. La genteche era rimasta in paese era poca, lamaggioranza era sfollata, vivevamo neirifugi scavati nella collina di marna chesovrasta il paese. In realtà erano galleriea doppia uscita, molto sicure. Ciavevamo portato dentro magari i letti.Ora Vigàta s'è ingrandita, non è piùcome allora, poche case radunate attornoal porto, una striscia di abitazioni tra ilpiede della collina e il mare. Sullacollina, il Piano Lanterna che ora pareNuovaiorca coi grattacieli, c'erano

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quattro costruzioni disposte ai latidell'unica strada che portava al cimiteroe poi si perdeva nella campagna. Ibersagli degli aerei nemici erano tre: lacentrale elettrica, il porto con le suenavi da guerra e mercantili, le batterieantiaeree e navali che stavano lungo ilciglio della collina. Quando venivanogli inglesi le cose andavano meglio diquando venivano gli americani».

Montalbano era impaziente, volevache quello arrivasse al punto, al fatto delcane, ma non aveva gana d'interromperele sue divagazioni.

«In che senso andavano meglio,ragioniere? Sempre bombe erano».

Per Burruano che adesso taceva,perso dietro un qualche suo ricordo,

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parlò il preside.«Gli inglesi erano, come dire, più

leali, sganciavano le bombe sforzandosidi colpire solo gli obiettivi militari, gliamericani invece sganciavano allasanfasò, a come viene viene».

«Verso la fine del '42» ripigliòBurruano «la situazione peggioròancora. Mancava tutto, dal pane aimedicinali all'acqua ai vestiti. Allorapensai di fare, per Natale, un presepiodavanti al quale tutti potessimo mettercia pregare. Non ci restava altro. Volevoperò un presepio speciale. Miproponevo, così, di distrarre, almenoper qualche giorno, la mente dei vigatèsidalle preoccupazioni, che erano tante, edallo scanto per le bombe. Non c'era

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famiglia che non avesse almeno un uomoa combattere fuori di casa, al gelo dellaRussia o all'inferno dell'Africa.Eravamo addiventati tutti nirbùsi,sconoscenti, sciarrèri, bastava un nientea fare nascere una lite, avevamo i nerviscossi. La notte non arriniscevamo achiudere occhio tra le mitragliatricidella contraerea, lo scoppio dellebombe, il rumore degli aeroplani abassa quota, le cannonate delle navi. Epoi tutti venivano da me o dal parrino adomandare ora una cosa ora un'altra e ionon sapevo dove sbattere la testa. Nonmi pareva d'avere più la gioventù cheavevo, sentivo d'essere, allora, comesono ora».

Si fermò per ripigliare sciato. Né

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Montalbano né il preside se la sentironodi riempire quella pausa.

«Insomma, a farla breve, ne parlai conBallassàro Chiarenza, ch'era un veroartista della terracotta, lo faceva perpiacere suo, perché di mestiere suo eracarrettiere; e fu iddru ad avere l'idea difare le statue a grandezza naturale. Gesùbambino, la Madonna, San Giuseppe, ilbue, l'asinelio, un pecoraro conl'agniddruzzo sulle spalle, una pecora,un cane, e il solito spavintàto delprisèpio, che è un pastore che alza lebraccia in gesto di meraviglia. Lo fece,e venne bellissimo. Allora pensammo dinon metterlo in chiesa, ma di sistemarlosotto l'arcata di una casa bombardata,come se Gesù nascesse in mezzo

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all'affanno della nostra gente».Infilò una mano in sacchetta, tirò fòra

una fotografia, la pruì al commissario.Bellissimo era il presepe, aveva dettogiusto il ragioniere. Un senso di fuga, diprovvisorietà, e nello stesso tempo untepore di conforto, di sovrumanaserenità.

«È stupendo» lo complimentòMontalbano sentendosi commuovere.Ma fu un attimo, lo sbirro in lui prevalsee si mise a osservare attentamente ilcane. Non c'erano dubbi, era proprioquello che stava nella grotta. Ilragioniere si rimise la foto in sacchetta.

«Il presepe fece il miracolo, sa? Perqualche giorno fummo comprensivi gliuni con gli altri».

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«Che fine hanno fatto le statue?».Era quello che interessava a

Montalbano. Il vecchio fece un sorriso.«Le vendetti all'asta, tutte. Ci ricavai

tanto da pagare il travaglio di Chiarenza,che volle solo quello che aveva speso, eda poter fare limòsina a chi più ne avevabisogno. Ed erano tanti».

«Chi accattò le statue?».«Qui sta il busillisi. Io non l'arricordo

più. Avevo le ricevute e tutto, maandarono perse quando una parte delmunicipio pigliò foco durante lo sbarcodegli americani».

«Nel periodo di cui lei mi staparlando, ebbe notizia della sparizionedi una coppia di giovani?».

Il ragioniere sorrise, il preside invece

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scoppiò in un'aperta risata.«Ho detto una cretinata?».«Mi scusi, commissario, l'ha detta

proprio» fece il preside.«Guardi, nel 1939 eravamo a Vigàta

quattordicimila persone. Ho i numerigiusti in testa» spiegò Burruano. «Nel1942 invece eravamo calati a ottomila.La gente che poteva se n'andava, trovavarizzetto provvisorio nei paesidell'interno, i paesi nichi nichi che agliamericani non ci faceva importanza. Nelperiodo che va dal maggio al luglio del'43, ci riducemmo, a occhio e croce, sì eno a quattromila, e fuori del conto tengoi militari italiani e tedeschi, i marinai.Gli altri si erano sparpagliati campagnacampagna, abitavano nelle grotte, nei

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fienili, in ogni pirtùso. Come vuole chesapessimo di qualche sparizione? Eranospariti tutti!».

Risero di nuovo. Montalbano liringraziò per le informazioni.

Bene, qualcosa era riuscito a sapere.Lo slancio di gratitudine che ilcommissario aveva provato verso ilpreside e il ragioniere si cangiò, appenai due se ne furono andati, in unirrefrenabile attacco di generosità di cui,era certo, prima o poi, si sarebbepentito. Chiamò nel suo ufficio MimìAugello, fece ampia ammenda delle suecolpe nei riguardi dell'amico ecollaboratore, gli mise un braccio sullespalle, lo fece passiare torno torno allacàmmara, gli espresse «incondizionata

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fiducia», gli parlò ampiamentedell'indagine che stava svolgendo sultraffico d'armi, gli rivelò l'omicidio diMisuraca, gli comunicò d'averedomandato al giudice il permesso dimettere sotto controllo i telefonid'Ingrassia.

«E io che vuoi che faccia?» spiòAugello pigliato d'entusiasmo.

«Niente. Tu devi solo starmi asentire» disse Montalbano tornato dicolpo in sé. «Perché se fai una minimacosa di tua iniziativa, io ti spacco ilculo, ci puoi giurare».

Squillò il telefono, Montalbanosollevò il ricevitore e sentì la voce diCatarella che fungeva da centralinista.

«Pronti, dottori? Ci sarebbe, come

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diri, il dottori Jacomuzzi».«Passamelo».

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«Parli col dottori, dottori, pertilifono» sentì che Catarella diceva.

«Montalbano? Siccome passavo daqua al ritorno dal crasticeddru...».

«Ma dove sei?».«Come dove sono? Nella stanza

accanto alla tua».Montalbano santiò, si poteva essere

più imbecilli di Catarella?«Vieni da me».La porta si raprì, trasì Jacomuzzi,

allordato di sabbia rossa e dipruvulazzo, spettinato e in disordine.

«Perché il tuo agente voleva farmiparlare con te solo per telefono?».

«Jacomù, chi è più stronzo, carnevaleo chi ci va appresso? Non lo sai com'èfatto Catarella? Gli davi un calcio in

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culo ed entravi».«Ho finito l'esame della grotta. Ho

fatto setacciare la rena: guarda, manco icercatori d'oro delle pellicoleamericane. Non abbiamo trovato nientedi niente. E questo sta a significare unacosa sola, dato che Pasquano m'ha fattosapere che le ferite avevano un forod'entrata e uno d'uscita».

«Che i due sono stati sparati in unaltro posto».

«Giusto. Se fossero stati ammazzatinella grotta avremmo dovuto trovare lepallottole. Ah, una cosa strana. La renadella grotta era frammista a gusci dichiocciole frantumate minutissimamente,devono essercene state a migliaia lìdentro».

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«Gesù!» mormorò Montalbano. Ilsogno, l'incubo, il corpo nudo di Liviasul quale scivolavano i vavaluci. Chesenso aveva? Portò una mano alla fronte,si trovò in un bagno di sudore.

«Stai male?» spiò preoccupatoJacomuzzi.

«Niente, un giramento di testa, misento solo stanco».

«Chiama Catarella e fatti portare uncordiale dal bar».

«Catarella? Vuoi babbiare? Quellouna volta che gli ho detto di portarmi unespresso, se n'è tornato con unfrancobollo».

Jacomuzzi posò sul tavolo tre monete.«Sono di quelle ch'erano nella

ciotola, le altre le ho mandate in

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laboratorio. Non ti serviranno a niente,tienile come ricordo».

QuattordiciCon Adelina capace che stavano una

stagionata intera senza vedersi.Montalbano ogni settimana lasciava sultavolo di cucina i soldi per la spisa,ogni trenta giorni la mesata. Però fra diloro si era stabilito uno spontaneosistema di comunicazione, quandoAdelina voleva più denaro per la spisa,gli faceva trovare sul tavolino il caruso,il salvadanaro di creta che lui avevaaccattato a una fiera e che teneva perbillizza; quando era necessario unrifornimento di calzini o di mutande,gliene metteva un paio sul letto.Naturalmente il sistema non funzionava a

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senso unico., magari Montalbano lediceva cose coi mezzi più strani cheperò l'altra capiva. Da qualche tempo ilcommissario s'era addunato cheAdelina, se lui era teso, turbato, nirbùso.in qualche modo l'intuiva da come lui almatino lasciava la casa e allora glifaceva trovare piatti speciali che glirisollevavano il morale. Quel giornoAdelina era entrata in azione, sicchéMontalbano trovò pronto in frigo il sugodi seppie, stretto e nero, come piaceva alui. C'era o no un sospetto d'origano?L'odorò a lungo, prima di metterlo ascaldare, ma magari questa voltal'indagine non ebbe esito. Finito dimangiare, si mise il costume da bagnocon l'intenzione di farsi una breve

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passiata a ripa di mare. Dopo avere solotanticchia camminato si sentì stanco, glidolevano i polpacci.

«Fùttiri addritta e caminari na rina /portanu l'omu a la ruvina».

Una sola volta aveva fottuto stando inpiedi e dopo non si era sentito cosìdistrutto come affermava il proverbio,mentre era vero che sulla sabbia, anchequella dura più vicina al mare, ci sistancava a camminare. Taliò il ralogio esi meravigliò: ca quale tanticchia!Aveva passeggiato per due ore! Crollòseduto.

«Commissario! Commissario!».La voce veniva da lontano. Si susì

affaticoso, taliò il mare, persuaso chequalcuno stesse chiamandolo da una

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barca o da un gommone. Il mare erainvece vacante fino al filo d'orizzonte.

«Commissario, sono qua!Commissario!».

Si voltò. Era Tortorella che sisbracciava dalla provinciale checorreva per un lungo tratto allato allaspiaggia.

Mentre si lavava e si vestiva diprescia, Tortorella gli disse che alcommissariato avevano ricevuto unatelefonata anonima.

«Chi la pigliò?» spiò Montalbano.Se l'aveva pigliata Catarella chissà

quali minchiate aveva capito e riferito.«Nonsi» disse sorridendo Tortorella

che aveva inteso il pinsèro del suo capo.«Lui era andato un momento al cesso e

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al centralino lo sostituivo io. La voceaveva un accento palermitano, mettevala i al posto della r, ma capace che lofaceva apposta. Ha detto che nellamannara c'era la carogna di un cornuto,dintra una machina verde».

«Chi c'è andato?».«Fazio e Galluzzo, io sono venuto di

corsa a cercare lei. Non so se feci bene,forsi la telefonata è uno sgherzo, unababbiata».

«Ma quanto ci piace babbiare a noisiciliani!».

Arrivò alla mannara alle cinque, orache Gegè chiamava «cangiu di laguardia», il cambio della guardiaconsistendo nel fatto che le coppie nonmercenarie e cioè amanti, adùlteri, ziti,

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se ne andavano dal posto, smontavano(«in tutti i sensi» pensò Montalbano) perlasciare largo al gregge di Gegè, buttanebionde dell'est, travestiti bulgari,nigeriane come l'ebano, viadosbrasiliani, marchettari marocchini e viaprocessionando, una vera e propria Onudella minchia, del culo e della fica. Lamacchina verde c'era, col portabagagliaperto, circondata da tre auto deicarabinieri. Quella di Fazio stava unpoco discosta. Scese e Galluzzo gli sifece incontro.

«Tardu arrivammu».Con quelli dell'Arma c'era un'intesa

non scritta. Chi arrivava per primo sulloco di un delitto, gridava «tana!» e sipigliava il caso. Questo evitava

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interferenze, polemiche, colpi di gomitoe facce lunghe. Magari Fazio erainfuscato:

«Prima loro arrivarono».«Ma che vi piglia? Che avete perso?

Non siamo pagati a un tanto il morto,non travagliamo a cottimo».

Coincidenza curiosa, la macchinaverde stava addossata allo stessocespuglio presso il quale, un annoavanti, era stato trovato un cadavereeccellente, un caso che aveva intrigatoassai Montalbano. Col tenentedell'Arma, ch'era di Bergamo e di nomefaceva Donizetti, si diedero la mano.

«Siamo stati informati da unatelefonata anonima» fece il tenente.

Quandi volevano essere più che sicuri

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che il cadavere venisse ritrovato. Ilcommissario osservò il mortorannicchiato nel portabagagli, parevafosse stato sparato una sola volta, ilproiettile gli era entrato dalla bocca,spaccandogli labbra e denti, ed eranisciùto dalla nuca, facendogli unpirtùso grande quanto un pugno. Non gliera di faccia cògnita.

«Mi dicono che lei conosce iltenutario di questo bordello all'aperto»s'informò con un certo disprezzo iltenente.

«Sì, è mio amico» disse Montalbanocon chiara intenzione polemica.

«Sa dove posso trovarlo?».«A casa sua, credo».«Non c'è».

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«Scusi, ma perché lo vuole sapere dame dove si trova?».

«Perché lei, l'ha detto lei stesso, è suoamico».

«Ah, sì? Il che significa che lei è ingrado di sapere, in questo precisomomento, dove sono e cosa stannofacendo i suoi amici bergamaschi».

Dalla provinciale arrivavanocontinuamente automobili, imboccavanoi vialetti della mannara, vedevano loscarmazzo delle auto dei carabinieri,innestavano la retromarcia erapidamente guadagnavano la stradadalla quale erano venute. Le buttanedell'est, i viados brasiliani, le nigerianee compagnia bella arrivavano sul postodi lavoro, sentivano feto di bruciato e se

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ne scappavano. Quella sarebbe stata unaserata assai tinta, per gli affari di Gegè.

Il tenente se ne tornò nei pressidell'auto verde, Montalbano gli girò lespalle e senza salutarlo montò inmacchina. Disse a Fazio:

«Tu e Galluzzo restate qua. Vedete checosa fanno e cosa scoprono. Io vado inufficio».

Fermò davanti alla cartolibreria diSarcuto, l'unica che a Vigàta tenessefede all'insegna, le altre due nonvendevano libri ma zainetti, quaderni,penne. Si era ricordato che aveva finitoil romanzo di Montalbàn e non avevaaltro da leggere.

«C'è un nuovo libro su Falcone eBorsellino!» gli annunziò la signora

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Sarcuto appena lo vide tràsiri.Non aveva ancora capito che

Montalbano detestava leggere libri cheparlavano di mafia, di assassinii evittime della mafia. Non riusciva acapire perché, non si capacitava, ma nonli accattava, non leggeva manco irisvolti di copertina. Comprò un libro diConsolo, che aveva vinto tempoaddietro un importante premio letterario.Fatti pochi passi sul marciapiede, ilvolume gli scivolò da sotto l'ascella,cadde a terra. Montalbano si chinò araccoglierlo, salì in auto.

In ufficio Catarella gli disse che nonc'erano novità. Montalbano aveva lafissazione di mettere subito la firma suogni libro che comprava. Fece per

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pigliare una delle biro che teneva sullascrivania e l'occhio gli cadde sullemonete che Jacomuzzi gli avevalasciato. La prima, di rame, del 1934, dauna parte aveva il profilo del re e lascritta «Vittorio Emanuele III Red'Italia», dall'altra una spiga di granocon la scritta «C. 5», centesimi cinque;la seconda era pure di rame, tanticchiapiù grande, da un lato la solita faccia delre con la stessa scritta, dall'altro c'eraun'ape posata su un fiore con la lettera«C» e il numero «10», centesimi dieci,del 1936; la terza era di metallo ma dilega leggera, da un lato l'immancabilefaccia del re con la scritta, dall'altroun'aquila ad ali spiegate dietro la quales'intravedeva un fascio littorio. Su

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questo secondo lato le scritte eranoquattro: «L. 1» che significava lire una,«Italia» che significava Italia, «1942»che era l'anno di coniazione e «xx» chestava a dire anno ventesimo dell'erafascista. E fu mentre stava a taliarequest'ultima moneta che Montalbanos'arricordò di quello che aveva vistomentre si calava a raccogliere il librocadutogli davanti alla cartolibreria.Aveva visto la vetrina del negozioallato, una vetrina nella quale eranoesposte monete antiche.

Si susì, avvertì Catarella ches'allontanava e che sarebbe tornato almassimo entro mezz'ora, a piedi sidiresse verso il negozio. Si chiamava«Cose» e cose esponeva: rose del

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deserto, francobolli, candelieri, anelli,spille, monete, pietre dure. Trasì e unapicciotta pulita e carina lo ricevette conun sorriso. Spiaciuto di deluderla, ilcommissario le spiegò che era venutoper non accattare niente, ma siccomeaveva visto esposte in vetrina dellemonete antiche, voleva sapere se nelnegozio, o a Vigàta, ci fosse qualcunoche s'intendeva di numismatica.

«Certo che c'è» disse la picciottacontinuando a sorridere, era una delizia.«C'è mio nonno».

«Dove lo posso disturbare?».«Non lo disturberà per niente, anzi

sarà contento. E nella càmmara didentro, aspetti che glielo dico».

Non ebbe manco il tempo di taliare

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una pistola senza cane di finedell'Ottocento che la picciottariapparve.

«Può accomodarsi».Il retrobottega era un meraviglioso

cafarnao di grammofoni a tromba,macchine da cucire preistoriche, presseda ufficio, quadri, incisioni, vasi danotte, pipe. La camera era tutta unalibreria sulla quale stavano alla rinfusaincunaboli, tomi rilegati in cartapecora,paralumi, ombrelli, gibus. In centro c'erauna scrivania, un vecchio era sedutodietro di essa, una lampada liberty glifaceva luce. Teneva con una pinzetta unfrancobollo e l'esaminava con una lented'ingrandimento.

«Che c'è?» spiò sgarbato senza manco

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isare gli occhi.Montalbano gli mise davanti le tre

monete. Il vecchio distolse un attimo losguardo dal francobollo, le taliòdistrattamente.

«Valgono zero».Tra i vecchi che andava conoscendo

nel corso dell'indagine sui morti delcrasticeddru, questo era il piùscorbutico.

«Bisognerebbe radunarli tutti in unospizio» pensò il commissario «miverrebbe più facile interrogarli».

«Lo so che non valgono».«E allora che vuole sapere?».«Quando sono andate fuori

circolazione».«Provi a sforzarsi».

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«Quando è stata proclamata larepubblica?» azzardò esitanteMontalbano.

Si sentiva come uno studente che nonsi è preparato per l'esame. Il vecchiorise, la sua risata parse il rumore di duescatole di latta vacanti sfregate l'unacontro l'altra.

«Sbagliai?».«Sbagliò, e di grosso. Gli americani

qua da noi sbarcarono nella notte tra ilnove e il dieci luglio del 1943.Nell'ottobre dello stesso anno questemonete andarono fuori corso. Vennerosostituite con le amlire, le monete dicarta che l'Amgot, l'amministrazionemilitare alleata dei territori occupati,fece stampare. E dato che queste

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banconote erano come taglio di una,cinque e dieci lire, i centesimiscomparirono dalla circolazione».

Fazio e Galluzzo tornarono che eragià scuro e il commissario lirimproverò.

«All'anima! Ve la siete pigliatacomoda!».

«Noi?!» ribatté Fazio. «Non lo sacom'è fatto il tenente? Prima di metteremano al morto ha aspettato l'arrivo delgiudice e del dottor Pasquano. Loro sìche se la pigliarono comoda!».

«Allora?».«Si tratta di un morto di giornata,

fresco fresco. Pasquano ha detto che tral'ammazzatina e le telefonate non èpassata manco un'ora. Aveva in

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sacchetta la carta d'identità. Si chiamavaGullo Pietro, di anni quarantadue, occhiazzurri, capelli biondi, colorito roseo,nato a Merfi, abitante a Fela in viaMatteotti 32, coniugato, segni particolarinessuno».

«Perché non t'impieghi allo statocivile?».

Fazio con dignità non raccolse laprovocazione, proseguì.

«Sono andato a Montelusa, hoconsultato l'archivio. Questo Gullo haavuto una giovinezza niented'eccezionale, due furti, una rissa. Poi hamesso la testa a posto, almeno pare.Commerciava in granaglie».

«Le sono veramente grato d'avermivoluto ricevere subito» fece Montalbano

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al preside ch'era venuto ad aprirgli laporta.

«Ma che dice? Non mi fa chepiacere».

Lo fece tràsiri, lo guidò in salotto,l'invitò ad assittarsi, chiamò.

«Angilina!».Si materializzò una vecchietta minuta,

curiosa della visita inattesa, linda,curatissima, occhiali spessi dietro iquali sparluccicavano occhi vivi,attentissimi.

«L'ospizio!» disse a se stessoMontalbano.

«Mi permetta di presentarle Angelina,mia moglie».

Montalbano le fece un inchinoammirativo, sinceramente gli piacevano

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le fìmmine anziane che magari in casatenevano alle apparenze.

«Vorrà perdonarmi se le ho portatoscompiglio all'ora di cena».

«Ma quale scompiglio! Anzi,commissario, ha qualche impegno?».

«Nessuno».«Perché non resta a mangiare con noi?

Abbiamo cose da vecchi, dobbiamotenerci leggeri: tinnirume e triglie discoglio a oglio e limone».

«M'invita a nozze».La signora se n'uscì felice.«Mi dica» disse il preside Burgio.«Sono riuscito a localizzare il

periodo nel quale è avvenuto il doppiodelitto del crasticeddru».

«Ah. E quando è successo?».

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«Sicuramente tra l'inizio del 1943 el'ottobre dello stesso anno».

«Come ha fatto ad arrivarci?».«Semplice. Il cane di terracotta, come

ci ha detto il ragioniere Burruano, vennevenduto dopo il Natale del '42, quindipresumibilmente passata la Befana del'43; le monete trovate nella ciotolaandarono fuori corso nell'ottobre diquell'anno».

Fece una pausa.«E questo significa una sola cosa»

aggiunse.Ma non la disse, la cosa. Aspettò

pazientemente che Burgio siraccogliesse in se stesso, si susisse,facesse qualche passo nella càmmara,parlasse.

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«Ho capito, dottore. Lei mi vuolesignificare che in quel periodo la grottadel crasticeddru era di proprietà delRizzitano».

«Proprio questo. Già da allora, mel'ha detto lei, la grotta era chiusa dalmasso, perché i Rizzitano ci tenevano laroba da vendere al mercato nero. IRizzitano per forza dovevano conoscerel'esistenza dell'altra grotta, quella dovesono stati portati i morti».

Il preside lo taliò imparpagliato.«Perché mi dice portati?».«Perché sono stati ammazzati in un

altro posto, questo è sicuro».«Ma che senso c'è? Perché metterli lì,

composti, come se dormissero, colbùmmolo, la ciotola coi soldi, il cane?».

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«E quello che mi domando magari io.L'unica persona che può dirci qualcosa èforse Lillo Rizzitano, il suo amico».

Trasì la signora Angelina.«È pronto».Il tinnirume, foglie e cime di

cucuzzeddra siciliana, quella lunga,liscia, di un bianco appena allordato diverde, era stato cotto a puntino, eradiventato di una tenerezza, di unadelicatezza che Montalbano trovòaddirittura struggente. Ad ogni bocconesentiva che il suo stomaco si puliziava,diventava specchiato come aveva vistofare a certi fachiri in televisione.

«Come lo trova?» spiò la signoraAngelina*.

«Leggiadro» disse Montalbano. E alla

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sorpresa dei due vecchi arrossì, sispiegò. «Mi perdonino, certe voltepatisco d'aggettivazione imperfetta».

Le triglie di scoglio, bollite e conditecon oglio, limone e pitrosino, avevanola stessa leggerezza del tinnirume. Soloalla frutta il preside ripigliò la questioneche gli aveva posto Montalbano, ma nonprima d'avere terminato di parlare delproblema della scuola, della riforma cheil ministro del nuovo governo avevadeciso d'attuare, abolendo tra l'altro illiceo.

«In Russia» disse il preside «al tempodegli zar il liceo c'era, magari se sichiamava in modo russo. Liceo da noi lochiamò Gentile quando fece la suariforma che idealisticamente metteva

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sopra tutto gli studi umanistici. Bene, icomunisti di Lenin ch'erano i comunistich'erano, il liceo non hanno avuto ilcoraggio d'abolirlo. Solo un arrinanzato,un parvenu, un semianalfabeta e mezzacalzetta come questo ministro puòpensare una cosa simile. Come sichiama, Guastella?».

«No, Vastella» disse la signoraAngelina.

Propriamente si chiamava in un terzomodo, ma il commissario s'astenne dalprecisare.

«Con Lillo eravamo compagni in tutto,non per la scuola però perché lui era piùavanti di me. Quando io facevo il terzoliceo, lui si era appena laureato. Nellanotte dello sbarco la casa di Lillo ch'era

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ai piedi della montagna del Crasto,venne distrutta. Da quanto sono riuscitoa sapere, una volta passata la bufera,quella notte Lillo era solo nella villa erimase gravemente ferito. Un contadinolo vide mentre dei militari italiani lomettevano su un camion, perdeva moltosangue. Questa è l'ultima cosa che so diLillo. Da allora non ne ho avuto piùnotizie e sì che ne ho fatto di ricerche!».

«Possibile che non ci sia un superstitedi quella famiglia?».

«Non lo so».Il preside notò che la moglie s'era

persa darrè un suo pensiero, stava congli occhi socchiusi, assente.

«Angilina!» fece il preside.La vecchia signora si scosse, sorrise a

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Montalbano.«Mi deve perdonare. Mio marito dice

che sono sempre stata una femminafantastica, ma non vuol essere un elogio,vuole significare che ogni tanto milascio pigliare dalla fantasia».

QuindiciDopo la cena coi Burgio si ritrovò a

casa che manco erano le dieci, troppopresto per andare a curcàrisi. Intelevisione c'erano un dibattito sullamafia, uno sulla politica estera italiana,un terzo sulla situazione economica, unatavola rotonda sulle condizioni delmanicomio di Montelusa, unadiscussione sulla libertà d'informazione,un documentario sulla delinquenzaminorile a Mosca, un documentario sulle

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foche, un terzo sulla coltivazione deltabacco, un film di gangster ambientatonella Chicago anni Trenta, la rubricaquotidiana dove un ex critico d'arte, oradeputato e opinionista politico, sbavavacontro magistrati, politici di sinistra eavversari credendosi un piccolo SaintJust e appartenendo invece di diritto allaschiera di venditori di tappeti, callisti,maghi, spogliarelliste che con sempremaggiore frequenza apparivano sulpiccolo schermo. Spento il televisore,andò ad assittarsi sulla panchina dellaveranda, dopo avere acceso la luceesterna, con una rivista alla quale eraabbonato. Stampata bene, con articoliinteressanti, era redatta da un gruppo digiovani ambientalisti della provincia.

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Consultò il sommario e, non trovandoviniente d'interessante, si mise a taliare lefoto che ritraevano spesso fatti dicronaca con l'ambizione, talvoltarealizzata, d'essere emblematiche.

Lo squillo del campanello della portalo sorprese, non aspettava nessuno, sidisse, e invece un attimo dopos'arricordò che nel dopopranzo gliaveva telefonato Anna. Alla suaproposta di venirlo a trovare non avevasaputo rispondere di no, con la ragazzasi sentiva in debito per averla usata,indegnamente, era disposto adammetterlo, nella storia inventata perliberare Ingrid dalla persecuzione delsuocero.

Anna lo baciò sulle guance, gli pruì un

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pacchetto.«Ti ho portato la petrafèrnula».Era un dolce oramai difficile a

trovarsi, a Montalbano piaceva molto,ma chissà perché i pasticceri non lofacevano più.

«Sono andata per lavoro a Mìttica,l'ho visto esposto in una vetrina e te l'hoaccattato. Attento ai denti».

Il dolce più duro era più gustosodiventava.

«Che stavi facendo?».«Niente, leggevo una rivista. Vieni

fuori anche tu».Si sedettero sulla panchina,

Montalbano ripigliò a taliare lefotografie, Anna invece appuiò la testasulle mani e si mise a contemplare il

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mare.«Quant'è bello qua da te!».«Già».«Si sente solo il rumore delle onde»«Già ».«Ti fastidio se parlo?».«No».Anna s'azzittì. Dopo tanticchia parlò

di nuovo.«Io traso dentro, tallo la televisione.

Sento tanticchia di freddo».«Uuhm».Il commissario non voleva

incoraggiarla, Anna desideravachiaramente abbandonarsi a un piaceresolitario, quello di fingere d'essere lasua compagna, d'immaginarsi di starvivendo con lui una serata come le altre.

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Proprio all'ultima pagina della rivistavide una foto che mostrava l'interno diuna grotta, la «grotta di Fragapane», chein realtà era una necropoli, un insieme ditombe cristiane scavate all'interno diantiche cisterne. La foto serviva inqualche modo a illustrare la recensionea un libro appena uscito di tale AlcideMaraventano che s'intitolava Ritifunerari nel territorio di Montelusa. Lapubblicazione di questodocumentatissimo saggio delMaraventano, asseriva il recensore,veniva a colmare una lacuna edacquistava alto valore scientifico perl'acutezza di un'indagine su un argomentoche spaziava dalla preistoria fino alperiodo cristiano-bizantino.

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Stette a lungo a meditare su quantoaveva appena finito di leggere. L'ideache il bùmmolo, la ciotola coi soldi e ilcane facessero parte di un rito diseppellimento non gli era manco passataper l'anticamera del cervello. Ed erastato forse un errore, probabilmentel'inchiesta doveva partire proprio da lì.Gli venne un'incontenibile prescia. Trasìin casa, staccò la spina del telefono,pigliò in mano l'apparecchio.

«Che fai?» spiò Anna che stavataliando il film di gangster.

«Vado in càmmara da letto a faretelefonate, qui ti disturberei».

Formò il numero di «Retelibera»,chiese del suo amico Nicolò Zito.

«Forza, Montalbà, tra pochi secondi

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vado in onda».«Tu lo conosci un certo Maraventano

che ha scritto...».«Alcide? Sì, lo conosco. Che vuoi da

lui?».«Parlargli. Ce l'hai il numero di

telefono?».«Non ha telefono. Tu sei in casa? Te

lo cerco io, ti faccio sapere».«Ho bisogno di parlargli entro

domani».«Tra un'ora al massimo ti richiamo e

ti dico come devi fare».Astutò la luce del comodino, allo

scuro gli veniva meglio a ragionare sulpinsèro che gli era venuto. Si rapprisintòla grotta del crasticeddru così come gliera apparsa appena trasùto. Levando dal

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quadro i due cadaveri, restavano untappeto, una ciotola, un bùmmolo e uncane di terracotta. Tirando una linea tra itre oggetti, ne veniva fòra un triangoloperfetto, ma rovesciato rispettoall'entrata. Al centro del triangoloc'erano i due morti. Aveva un senso?Bisognava magari studiarel'orientamento del triangolo?

Ragionando, divagando,fantasticando, finì con l'appisolarsi.Dopo un tempo che non seppe valutare,lo svegliò lo squillo del telefono.Rispose con voce impastata.

«Ti sei addrummisciùto?».«Sì, appisolato».«E io invece sto a rompermi per te.

Dunque, Alcide t'aspetta domani

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dopopranzo alle cinque e mezzo. Abita aGallona».

Gallotta era un paese a pochichilometri da Montelusa, quattro case dividdràni, una volta famoso per la suairraggiungibilità durante l'inverno,quando l'acqua veniva giù forte.

«Dammi l'indirizzo».«Ma quale indirizzo e indirizzo!

Venendo da Montelusa, è la prima casa amancina. Una grande villa cadente chefarebbe la delizia di un regista di filmhorror. Non ti puoi sbagliare».

Riprecipitò nel sonno appena posatala cornetta. Si svegliò di soprassaltoperché qualcosa gli si muoveva sulpetto. Era Anna, della quale si eracompletamente scordato, che, distesa

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allato a lui sul letto, gli andavasbottonando la camicia. Su ogni pezzettodi pelle che scopriva, posava a lungo lelabbra. Quando arrivò all'ombelico, laragazza rialzò la testa, infilò una manosotto la camicia per carezzargli un seno,e incollò la sua bocca a quella diMontalbano. Dato che l'uomo non davasegno di reazione al suo bacioappassionato, Anna fece scivolare inbasso la mano che gli teneva sul petto.Anche lì carezzò.

Montalbano si decise a parlare.«Vedi, Anna? Non è cosa. Non

succede niente».Con un balzo Anna scese dal letto, si

chiuse nel bagno. Montalbano non sicataminò nemmeno quando la sentì

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singhiozzare, un pianto infantile, dapicciliddra alla quale viene negato undolce o un giocattolo. La vide vestita ditutto punto, nel controluce della portadel bagno lasciata aperta.

«Un armalo sarvaggio ha più cuore dite» disse e se ne andò.

A Montalbano passò il sonno, allequattro di notte stava ancora addrittafacendo un solitario che non c'era versoche gli arriniscìva.

Arrivò in ufficio aggrugnato, trùbbolo,la storia con Anna gli pesava, provavarimorso d'averla trattata così. In più,nella matinata, gli era venuto un dubbio:se al posto di Anna ci fosse stata Ingrid,era certo che si sarebbe comportato allostesso modo?

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«Ti devo parlare d'urgenza». MimìAugello stava sulla porta, parevaparecchio agitato.

«Che vuoi?».«Relazionarti sugli sviluppi

dell'indagine».«Quale indagine?».«Vabbè, ho capito, passo più tardi».«No, ora tu resti qua e mi conti di

quale cazzo d'indagine si tratta».«Ma come?! Quella del traffico

d'armi!».«E io, secondo te, ti ho dato

l'incarico?».«Secondo me? Me ne hai parlato, ti

ricordi? M'è parso implicito».«Mimì, d'implicito c'è solo una cosa e

cioè che sei un grandissimo figlio di

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buttana, salvando tua madre, s'intende».«Facciamo così, io ti dico quello che

ho fatto e poi decidi tu se devocontinuare».

«Avanti, dimmi quello che hai fatto».«Per prima cosa, ho pensato che

Ingrassia non dovesse essere lasciato dicorto, e così ho messo due dei nostri asorvegliarlo giorno e notte, non puòmanco andare a pisciare senza che io losappia».

«Dei nostri? Gli hai messo dei nostriappresso?! Ma non lo sai che quello deinostri conosce persino i peli del culo?».

«Non sono fesso. Non sono dei nostri,di Vigàta voglio dire. Sono agenti diRagòna che il questore, al quale mi sonorivolto, ha distaccato».

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Montalbano lo taliò con ammirazione.«Ti sei rivolto al questore, eh? Bravo

Mimì, come sai allargarti bene!».Augello non rispose a tono, preferì

continuare l'esposizione.«C'è stata magari un'intercettazione

telefonica che forse significa qualchecosa. Nella mia stanza ho latrascrizione, la vado a pigliare».

«Te la ricordi a mente?».«Sì. Ma tu, sentendola, capace che

scopri...».«Mimì, tu a quest'ora hai scoperto

tutto quello che c'era da scoprire. Nonfarmi perdere tempo. Dimmi».

«Dunque, dal supermercato Ingrassiatelefona a Catania, alla ditta Brancato.Domanda di Brancata in persona che

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viene all'apparecchio. Ingrassia lamentaallora i disguidi che sarebbero successidurante l'ultima spedizione, dice che nonsi può fare arrivare il camion con moltoanticipo, che la cosa gli ha creato moltiproblemi. Domanda un incontro perpoter studiare un diverso sistema dispedizione, più sicuro. A questo punto larisposta di Brancato è per lo menostupefacente. Alza la voce, s'incazza,spia a Ingrassia con quale faccia ositelefonargli. Balbettando, Ingrassiadomanda spiegazioni. E Brancato glielefornisce, dice che Ingrassia è insolvente,che le banche gli hanno consigliato dinon avere più rapporti con lui».

«E Ingrassia come ha reagito?».«Niente. Non ha fatto manco biz. Ha

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riattaccato il telefono senza nemmenosalutare».

«Tu hai capito che significa latelefonata?».

«Certo. Che Ingrassia domandavaaiuto e quelli l'hanno scaricato».

«Stai appresso a Ingrassia».«L'ho già fatto, te l'ho detto».Ci fu una pausa.«Che faccio? Continuo a occuparmi

dell'indagine?».Montalbano non arrispunnì.«Ma quanto sei garruso!» commentò

Augello.«Salvo? Sei solo in ufficio? Posso

parlare liberamente?».«Sì. Da dove telefoni?».«Da casa mia, sono a letto con

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qualche linea di febbre».«Mi dispiace».«E invece no, non deve dispiacerti. E

una febbre di crescenza».«Non ho capito, che vuol dire?».«È una febbre che viene ai

picciliddri, ai nicareddri. Gli dura due otre giorni, a trentanove, a quaranta, manon c'è da scantarsi, è naturale, è febbredi crescenza. Quando passa, i nicareddrisono cresciuti di qualche centimetro.Sono sicura che magari io, quando lafebbre mi finirà, sarò crisciuta. Nellatesta, non nel corpo. Ti voglio dire chemai, come fimmina, sono stata offìsacome hai fatto tu».

«Anna...».«Lasciami finire. Offìsa, proprio. Tu

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sei tinto, sei cattivo, Salvo. E io non melo meritavo».

«Anna, ragiona. Quello che èsuccesso stanotte è servito al tuobene...».

Anna riattaccò. Magari se glieloaveva fatto capire in cento modi che nonera questione, Montalbano, capendo chela ragazza soffriva in quel momentodolori da cane, si sentì meno assai di unporco, perché almeno la carne di porcosi mangia.

La villa all'entrata di Gallotta la trovòsubito, ma gli parse impossibile chequalcuno potesse vivere in quel rudere.Si vedeva chiaramente mezzo tettosfondato, al terzo piano doveva perforza pioverci dentro. Il poco vento

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bastava a far sbattere una persiana chenon si capiva come facesse ancora areggersi. Il muro esterno, nella parte altadella facciata, mostrava crepe grandiquanto un pugno. Più in ordineapparivano il secondo piano, il primo eil pianoterra. L'intonaco era scomparsoda anni, le persiane erano tutte rotte escrostate ma almeno chiudevano, siapure squilibrate. C'era un cancello diferro battuto aperto a metà e inclinatoverso l'esterno, da tempo immemorabilein questa posizione, erbe selvatiche eterriccio. Il parco era un ammassoinforme d'alberi contorti e cespuglidensi, un intrico compatto. Avanzò nelvialetto su pietre sconnesse e davantialla porta che aveva perso colore si

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fermò. Già scurava, il passaggio dall'oralegale a quella solare accorciava inrealtà le jurnate. C'era un campanello, losuonò. O meglio, lo pigiò, perché nonsentì nessun suono, nemmeno lontano. Ciprovò un'altra volta prima di capire cheil campanello non funzionava già daitempi della scoperta dell'elettricità.Tuppiò servendosi del batacchio a formadi testa di cavallo e finalmente alla terzatuppiata sentì dei passi strascicati. Laporta si raprì, senza rumorata di scoppoo chiavistello, solo con un lungo lamentod'anima del purgatorio.

«Era aperta, bastava spingerla, trasìrie chiamarmi».

Era uno scheletro a parlare. Mai invita sua Montalbano aveva visto una

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persona tanto sicca. O meglio, le avevaviste sul letto di morte, prosciugate,essiccate dalla malattia. Questo invecestava in piedi, per quanto piegato in due,e pareva vivo. Indossava una tonaca daparrino che da nera ch'era stata oratirava al verde, il colletto duro una voltabianco era d'un grigio spesso. Ai piedi,scarponi chiodati da contadino come nonne vendevano più. Completamentecalvo, la faccia era un teschio sul qualecome per gioco era stato messo un paiod'occhiali d'oro, dalle lenti spessissime,nelle quali lo sguardo naufragava.Montalbano pensò che i due nella grotta,morti da cinquant'anni, avevano addossopiù carne del prete. Manco a dirlo, eravecchissimo.

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Cerimoniosamente l'invitò ad entrare,lo guidò in un salone immenso,letteralmente stipato di libri non solonelle scaffalature, ma per terra a formarepile che a momenti toccavano l'altosoffitto e che si reggevano in unequilibrio impossibile. Dalle finestrenon trasìva luce, i libri ammassati sullebalaustre coprivano interamente i vetri.Di mobili c'erano una scrivania, unaseggia, una poltrona. A Montalbanoparse che il lume sulla scrivania fosseun autentico lume a pitroglio. Il vecchioparrino sbarazzò la poltrona dai libri, vifece accomodare Montalbano.

«Per quanto io non possa immaginarein che modo possa esserle d'utilità, parlipure».

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«Come le avranno detto, io sono uncommissario di polizia che...».

«No, non me lo dissero né io lodomandai. Arrivò aieri a sira tardi unodel paese, mi fece sapere che un tale diVigàta voleva vedermi e io gli arrisposiche venisse pure alle cinque e mezzo. Selei è un commissario, male cascò, staperdendo tempo».

«Perché starei perdendo tempo?».«Perché io non metto pede fòra da

questa casa da trent'anni almeno. Cheesco a fare? Le facce vecchie sonosparite, quelle nuove non mipersuadono. La spesa me la portano ognigiorno, tanto io bevo solo latte e unbrodo di gaddrina una volta la simàna».

«Avrà saputo dalla televisione...».

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Aveva appena cominciato la frase ches interruppe, la parola televisione gli erasuonata stonata.

«In questa casa non c'è luce elettrica»«Bene, avrà letto sui giornali...».«Non accatto giornali».Perché continuava a partire col piede

sbagliato? Pigliò col fiato una specie dirincorsa, e gli raccontò tutto, dal trafficod'armi fino alla scoperta dei morti nelcrasticeddru.

«Aspetti che addrumo il lume, cosìparliamo meglio».

Frugò tra le carte sul tavolo, trovò unascatola di fiammiferi da cucina, neaccese uno con mano tremante.Montalbano si sentì aggelare.

«Se lo lascia cadere» pensò

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«arrostiamo in tre secondi».Invece l'operazione riuscì e tutto

divenne peggio perché il lume mandòuna luce fiacca su mezzo tavolo,sprofondando invece il lato dove stavail vecchio nello scuro più fitto. Constupore Montalbano vide che il parrinoallungava una mano, s'impadroniva diuna piccola bottiglia con uno stranotappo. Sul tavolo ce n'erano altre tre,due vuote e una piena d'un liquidobianco. Non erano bottiglie, eranobiberon, ognuno munito della tettarella.Stupidamente si sentì innervosire, ilvecchio aveva cominciato a ciucciare.

«Mi scusi, ma non ho denti».«Ma perché il latte non se lo beve da

un cicarone, da una tazza, che so, da un

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bicchiere?».«Perché così ci provo più gusto. È

come se mi fumassi la pipa».Montalbano decise di andarsene al

più presto, si susì, cavò dalla sacchettadue foto che si era fatto dare daJacomuzzi, le pruì al parrino.

«Può essere un rituale di sepoltura?».Il vecchio taliò le foto animandosi e

mugolando.«Che c'era dentro la ciotola?».«Monete degli anni Quaranta».«E nel bùmmolo?».«Niente... non c'era traccia... deve

avere contenuto solo acqua».Il vecchio se ne stette un bel pezzo a

ciucciare, meditabondo. Montalbanotornò ad assittarsi.

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«Non ha senso» disse il parrinoposando le foto sul tavolo.

SediciMontalbano era allo stremo, sotto la

caterva di domande del parrino sisentiva la testa confusa e per di più, ognivolta che non sapeva arrispunnìri,Alcide Maraventano faceva una speciedi lamento e tirava per protesta unaciucciata più rumorosa delle altre.Aveva attaccato il secondo biberon.

In che direzione erano orientate leteste dei cadaveri?

Il bùmmolo era fatto di normalissimacreta o d'altro materiale?

Quante erano le monete dentro laciotola?

Qual era la distanza esatta tra il

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bùmmolo, la ciotola e il cane diterracotta rispetto ai due corpi?

Finalmente il terzo grado terminò.«Non ha senso».La conclusione dell'interrogatorio

ribadì esattamente quello che il parrinoaveva di subito anticipato. Ilcommissario, con un certo e poco celatosollievo, credette di potersi susìre,salutare, andarsene.

«Aspetti, che premura ha?».Montalbano si riassittò, rassegnato.«Non è un rito funerario, forse è

qualcosa d'altro».Di colpo, il commissario si sollevò

dalla stanchizza e dallo sprofondo, tornòin possesso di tutta la sua luciditàmentale: Maraventano era una testa che

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pensava.«Mi dica, le sarò grato d'un parere».«Lei ha letto Umberto Eco?».Montalbano principiò a sudare.«Gesù, ora mi fa l'esame di

letteratura» pensò e riuscì a dire: «Holetto il suo primo romanzo e i due diariminimi che mi paiono...».

«Io no, i romanzi non li canuscio. Miriferivo al Trattato di semioticagenerale, alcune citazioni del quale cifarebbero comodo».

«Sono mortificato, non l'ho letto».«Non ha letto manco Semeiotiké della

Kristeva?».«No, e non ho nessuna gana di

leggerlo» fece Montalbano cheprincipiava a incazzarsi, gli era nato il

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sospetto che il vecchio lo stessepigliando per il culo.

«E va bene» si rassegnò AlcideMaraventano. «Allora le faccio unesempio terra terra».

«E quindi al mio livello» disseMontalbano a se stesso.

«Dunque, se lei che è un commissario,trova un morto sparato al quale hannoinfilato un sasso in bocca, che pensa?».

«Sa» fece Montalbano deciso apigliarsi la rivincita «queste sono cosevecchie, adesso ammazzano senza darespiegazioni».

«Ah. Perciò per lei quel sasso messoin bocca significa una spiegazione».

«Certo».«E che vuol dire?».

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«Vuol dire che l'ammazzato avevaparlato troppo, aveva detto cose che nondoveva dire, aveva fatto la spia».

«Esatto. Quindi lei ha capito laspiegazione perché era in possesso delcodice del linguaggio, in quel casometaforico. Ma se lei invece eraall'oscuro del codice, cosa avrebbecapito? Niente. Per lei quello era unpovero morto ammazzato al qualeavevano in-spie-ga-bil-men-te infilatoun sasso in bocca».

«Comincio a capire» disseMontalbano.

«Allora, per tornare al nostrodiscorso: un tale ammazza due giovaniper ragioni che non sappiamo. Può farscomparire i cadaveri in tanti modi, in

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mare, sotto la terra, sotto la sabbia.Invece no, li mette dentro una grotta enon solo, ci dispone allato una ciotola,un bùmmolo e un cane di terracotta. Cheha fatto?».

«Ha mandato una comunicazione, unmessaggio» fece a mezza voceMontalbano.

«E un messaggio, giusto, che lei perònon sa leggere perché non possiede ilcodice» concluse il parrino.

«Mi faccia riflettere» disseMontalbano. «Ma il messaggio dovevaessere diretto a qualcuno, non certo anoi, cinquant'anni dopo il fatto».

«E perché no?».Montalbano ci pensò tanticchia, poi si

susì.

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«Io vado, non voglio rubarle altrotempo. Quello che mi ha detto mi è statopreziosissimo».

«Vorrei esserle ancora più utile».«Come?».«Lei poco fa mi ha detto che adesso

ammazzano senza fornire spiegazioni. Lespiegazioni ci sono sempre e semprevengono date, altrimenti lei non farebbeil mestiere che fa. Solo che i codici sonodiventati tanti e diversi».

«Grazie» disse Montalbano.Avevano mangiato alici all'agretto che

la signora Elisa, la moglie del questore,aveva saputo cucinare con arte e perizia,il segreto della riuscita consistendonell'individuazione della millimetricaquantità di tempo che la teglia doveva

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stare dentro il forno. Poi, dopo la cena,la signora si era ritirata in salone ataliare la televisione, non senza averpreparato prima sulla scrivania dellostudio del marito una bottiglia di Chivas,una d'amaro e due bicchieri.

Mentre mangiavano, Montalbanoaveva parlato con entusiasmo di AlcideMaraventano, del suo singolare modo divita, della sua cultura, della suaintelligenza, il questore però avevamostrato una splàpita curiosità, dettatapiù dalla cortesia verso l'ospite che daun reale interesse.

«Senta, Montalbano» attaccò appenafurono soli «io capisco benissimo lesollecitazioni che a lei possono veniredal ritrovamento dei due assassinati

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nella grotta. Mi consenta: la conosco datroppo tempo per non prevedere che leisi farà affascinare da questo caso per irisvolti inspiegabili che presenta eanche perché, in fondo, se lei trovasse lasoluzione questa si rivelerebbeassolutamente inutile. Inutilità che a leisarebbe piacevolissima e, mi scusi,quasi congeniale».

«Come inutile?».«Inutile, inutile, si lasci pregare.

L'assassino, o gli assassini, a voleressere generosi, dato che sono trascorsicinquant'anni e passa, o sono morti osono, nella migliore delle ipotesi deivecchietti ultrasettantenni. Èd'accordo?».

«D'accordo» ammise di malavoglia

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Montalbano.«Allora, mi perdoni perché quello che

sto per dire non rientra nel miolinguaggio, lei non fa un'indagine, si fauna sega mentale».

Montalbano incassò, non ebbe néforza né argomenti per replicare.

«Ora io questo esercizio potreiconcederglielo se non temessi che leifinisca col dedicare ad esso il megliodel suo cervello, trascurando indagini diben altra pregnanza e portata».

«Eh no! Questo non è vero!»s'inalberò il commissario.

«E invece sì. Guardi che il mio nonvuole essere affatto un richiamo, stiamoparlando a casa mia, tra amici. Perchéha affidato il caso, delicatissimo, del

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traffico d'armi al suo vice, che èfunzionario degnissimo ma non certoalla sua altezza?»

«Io non gli ho affidato niente! È luiche...».

«Non faccia il bambino, Montalbano.Gli sta scaricando addosso una grossaparte dell'indagine. Perché lei sabenissimo di non potersi interamentededicare ad essa, avendo i tre quarti delsuo cervello impegnati nell'altro caso.Mi dica, onestamente, se sbaglio».

«Non sbaglia» fece onestamenteMontalbano dopo una pausa.

«E quindi chiudiamo il discorso.Passiamo ad altro. Perché cavolo nonvuole che io la proponga per lapromozione?».

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«Lei vuole continuare a mettermi incroce».

Niscì contento dalla casa delquestore, sia per le alici all'agretto, siaper essere riuscito ad ottenere unadilazione alla proposta d'avanzamento.Le ragioni che aveva portato nonstavano né in cielo né in terra, magentilmente il suo superiore finse dicrederci: poteva dirgli che la sola ideadi un trasferimento, di un cangiamentod'abitudini, gli faceva venire qualchelinea di febbre?

Era ancora presto, mancavano due oreall'appuntamento con Gegè. Passò da«Retelibera», voleva saperne di più suAlcide Maraventano.

«Straordinario, eh?» fece Nicolò Zito.

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«Si è esibito mentre ciuccia il latte dalbiberon?».

«E come no».«Guarda che non è vero niente, fa solo

teatro».«Ma che dici? Non ha denti!».«Lo sai o no che da tempo hanno

inventato la dentiera? Lui ce l'ha e glifunziona benissimo, dicono che certevolte si pappa un quarto di vitello o uncapretto al forno, quando non c'èqualcuno a taliàrlo».

«Ma perché lo fa?».«Perché è un tragediatore nato. Un

commediante, se preferisci».«Siamo certi che sia un parrino?».«Si è spretato».«Le cose che dice, se l'inventa o no?».

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«Puoi andare tranquillo. E di unsapere sconfinato e quando afferma unacosa è meglio del vangelo. Lo sai cheuna decina d'anni fa ha sparato a uno?».

«Ma va».«Sissignore. Un ladruncolo era trasuto

di notte nella casa, al pianoterra. Urtòcontro una pila di libri e la fece caderecon una rumorata della madonna.Maraventano, che dormiva di sopra,s'arrisbigliò, scinnì e gli sparò con unfucile ad avancarica, una specie dicannone casalingo. Il botto fece saltaredal letto mezzo paìsi. Conclusione: illadro venne ferito a una gamba, unadecina di libri si rovinarono e lui neebbe la spalla fratturata dato che ilrinculo era stato tremendo. Però il ladro

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sostenne che non era entrato in quellavilla perché aveva intenzione dicommettere un furto, ma perché vi erastato invitato dal parrino il quale, a uncerto momento, e senza una ragioneplausibile, gli aveva sparato. Io cicredo».

«A chi?».«Al cosiddetto ladro».«Ma perché gli avrebbe sparato?».«Tu lo sai cosa passa per la testa di

Alcide Maraventano? Magari perprovare se il fucile funzionava ancora. Oper fare scena, che è più probabile».

«Senti, ora che ci penso, tu ce l'hai ilTrattato di semiotica di UmbertoEco?».

«Io?! Che sei nisciuto pazzo?».

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Per pigliare la macchina che avevalasciato al parcheggio di «Retelibera»,s'assuppò. S'era messo a piovereall'improvviso, un'acqua leggera leggerama fitta. Arrivò a casa che ancora avevatempo per l'appuntamento. Si cangiò divestito, poi s'assittò sulla poltrona dellatelevisione, ma si rialzò subito perandare alla scrivania e pigliare unacartolina che gli era arrivata inmattinata.

Era di Livia che, come gli avevaannunziato per telefono, era andata peruna decina di giorni da una sua cuginamilanese. Sulla parte lucida, chemostrava l'immancabile vista delDuomo, c'era una sbavaturaluminescente che traversava a metà

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l'immagine. Montalbano la sfiorò con lapunta dell'indice: era freschissima,leggermente appiccicosa. Taliò megliosulla scrivania. Lo scataddrizzo, unagrossa chiocciola marrone scuro, oraarrancava sopra la copertina del libro diConsolo. Montalbano non ebbeesitazioni, il ribrezzo che provava dopoil sogno che aveva fatto e che continuavaa portarsi appresso, era troppo forte:agguantò il romanzo già letto diMontalbàn e lo sbatté violentemente suquello di Consolo. Pigliato in mezzo, loscataddrizzo venne schiacciato con unsuono che a Montalbano parsenauseante. Poi andò a gettare i dueromanzi nel contenitore della munnizza,se li sarebbe ricomprati il giorno

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appresso.Gegè non c'era, ma il commissario

sapeva che avrebbe avuto poco daaspettare, il suo amico non sgarrava maidi molto. Aveva scampato, finito dichiòviri, ma doveva esserci stata unaforte mareggiata, larghe pozzanghererestavano sulla spiaggia, la sabbiamandava un acuto odore di legnavagnàta. S'addrumò una sigaretta. Etutt'inzèmmula vide, allo scarso lumedella luna improvvisamente comparsa,la sagoma scura d'una automobile ches'avvicinava lentissima, a fari spenti,dalla direzione opposta a quella dallaquale era venuto lui, la stessa da doveGegè doveva arrivare. S'allarmò, raprìil cassetto del cruscotto, pigliò la

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pistola, mise il colpo in canna,socchiuse lo sportello, pronto a balzarefòra. Quando l'altra macchina gli vennea tiro, addrumò di colpo gli abbaglianti.Era l'auto di Gegè, non c'era dubbio, mapoteva darsi benissimo che alla guidanon ci fosse lui.

«Spegni i fari!» sentì gridare dall'altramacchina.

Era sicuramente la voce di Gegè e ilcommissario eseguì. Si parlaronoaffiancati, ognuno dentro la propria auto,attraverso i finestrini abbassati.

«Che minchia fai? A momenti tisparavo» fece rabbioso Montalbano.

«Volevo vedere se ti sono venutiappresso».

«Chi mi deve venire appresso?».

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«Ora te lo dico. Sono arrivato unamezzorata prima e mi sono ammucciatodarrè lo sperone di Punta Rossa».

«Vieni qua» disse il commissario.Gegè scese, salì sull'auto di

Montalbano, quasi gli si rannicchiòcontro.

«Che senti, friddo?».«No, ma tremo lo stissu».Feteva di scanto, di paura. Perché, e

Montalbano lo sapeva per spirenzia, lapaura aveva un odore speciale, acido, dicolore verde-giallo.

«Lo sai chi è quello che hannoammazzato?».

«Gegè, ne ammazzano tanti. Di chistai parlando?».

«Di Petru Gullo sto parlando, quello

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che hanno portato ammazzato allamannara».

«Era tuo cliente?».«Cliente? Semmai ero io cliente so'.

Quello era l'omo di Tano u grecu, il suoesattore. Lo stesso che m'ha detto cheTano ti voleva incontrare».

«Che meraviglia ti fai, Gegè? È lasolita storia: chi vince fa l'assopigliatutto, è un sistema che oraadoperano magari in politica. C'è unpassaggio di mano degli affari ch'eranodi Tano e perciò liquidano tutti quellidella sua parte. Tu di Tano non eri nésocio né dipendente: di che ti scanti?».

«No» fece deciso Gegè «le cose nonstanno così, m'hanno informato mentreero a Trapani».

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«E come stanno?».«Dicono che ci fu accordo».«Accordo?».«Sissignore. Accordo tra te e Tano.

Dicono che la sparatoria è stata unasisiàta, una pigliata pi fissa, un tiatro. Esi sono persuasi che a fabbricare questotiatrino ci stavamo magari io, PetruGullo e un'altra pirsuna che è sicuro cheammazzano uno di questi jorna».

Montalbano si ricordò della telefonataricevuta dopo la conferenza stampa,quando una voce anonima l'avevachiamato «cornuto d'un tragediatore».

«Si sono offìsi» proseguì Gegè. «Nonsopportano che tu e Tano gli avete messola sputazza sul naso, gli avete fatto farela figura di stronzi. Gli fotte più di

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questo che della truvatina delle armi.Ora tu mi dici che devo fare?».

«Sei sicuro che ce l'hanno magari cutia?».

«La mano sul foco. Perché a Gullosono venuti a purtari-mìllo proprio allamannara che è cosa mia? Più chiaro dicosì!».

Il commissario pensò ad AlcideMaraventano e al suo discorso suicodici.

Dovette essere un alterarsi delladensità dello scuro, o un brillìo di uncentesimo di secondo percepito con lacoda dell'occhio, fatto sta che un attimoprima che la raffica esplodesse il corpodi Montalbano obbedì a una seried'impulsi freneticamente trasmessi dal

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cervello: si chinò a mezzo, con lasinistra raprì lo sportello e si gettò fòramentre attorno a lui rimbombavanocolpi, si rompevano vetri, sisquarciavano lamiere, lampatebrevissime arrossavano lo scuro.Montalbano rimase immobile, incastratotra la macchina di Gegè e la sua, e soloallora s'accorse d'avere la pistola inpugno. Quando Gegè era entrato in auto,l'aveva appoggiata sul cruscotto: dovevaaverla pigliata d'istinto. Dopo loscatàscio, scese un silenzio piombigno,niente si cataminò, c'era solo il rumoredel mare mosso. Poi una voce si fecesentire da una ventina di metri didistanza, dalla parte dove finiva laspiaggia e cominciava la collina di

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marna.«Tutto bene?».«Tutto bene» disse un'altra voce,

questa vicinissima.«Vedi se sono astutati tutti e due,

accussì ce ne andiamo». Montalbano sisforzò di rappresentarsi i movimenti chel'altro avrebbe dovuto fare peraccertarsi della loro morte: ciaf, ciaf,faceva distintamente la sabbia vagnàta.L'uomo ora doveva essere arrivatoproprio a ridosso della macchina, tra unistante si sarebbe calato a taliare dentrol'auto.

Scattò in piedi, sparò. Un solo colpo.Nitidamente sentì il rumore di un corpoche s'abbatteva sulla rena, un ansimare,una sorta di gorgoglìo, più niente.

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«Giugiù, tutto a posto?» spiò la vocedistante.

Senza risalire in auto Montalbano,attraverso lo sportello aperto, posò lamano sulla levetta d'accensione degliabbaglianti, aspettò. Non sentivanessuna rumorata. Decise di giocare allafortuna e si mise mentalmente a contare.Quando arrivò a cinquanta, addrumò gliabbaglianti e si susì dritto in piedi.Scolpito dalla luce, a una decina dimetri si materializzò un uomo con unmitra in mano che si fermò, sorpreso.Montalbano sparò, l'uomo reagì prontocon una raffica alla cieca. Ilcommissario sentì come un gran pugnoal fianco sinistro, barcollò, s'appoggiòcon la sinistra all'auto, sparò di nuovo,

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tre colpi in fila. L'uomo alluciato feceuna specie di salto, voltò le spalle e simise a scappari, mentre Montalbanoprincipiava a vedere la luce biancadegli abbaglianti diventare gialla, gliocchi gli facevano pupi pupi, gli firriavala testa. S'assittò sulla rena perché capìche le gambe non potevano più reggerlo,s'appuiò con le spalle alla macchina.

S'aspettava il dolore, ma quandovenne fu così intenso da farlo lamentiaree chiàngiri come un picciliddro.

DiciassetteAppena s'arrisbigliò, immediatamente

capì d'essere dinta una càmmara dispitàli e si ricordò di ogni cosa,minutamente: l'incontro con Gegè, leparole che si erano dette, la sparatoria.

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La memoria gli fagliava dal momento incui si era trovato tra le due macchine,steso sulla rena vagnàta e col fianco chegli faceva un dolore insopportabile.Però non fagliava del tutto, si ricordavaper esempio della faccia stravolta diMimì Augello, della sua voce spezzata.

«Come ti senti? Come ti senti? Oraarriva l'ambulanza, non hai niente, staicalmo».

Come aveva fatto Mimì a trovarlo?Poi, già dintra lo spitàli, uno in

càmmisi bianco:«Ha perso troppo sangue».Dopo, nenti. Cercò di taliàrisi attorno:

la càmmara era bianca e pulita, c'era unagrande finestra dalla quale passava laluce del giorno. Non poteva cataminarsi,

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alle braccia stavano attaccate le flebo, ilfianco però non gli doleva, lo sentivapiuttosto come un pezzo morto del suocorpo. Provò a muovere le gambe, manon ci arriniscì. Lentamente scivolò nelsonno.

S'arrisbigliò di bel nuovo nuovamenteverso sira, dato che le luci eranoaddrumate. Richiuse immediatamente gliocchi perché aveva scorto nellacàmmara delle persone e lui non avevagana di parola. Poi, incuriosito, sollevòle palpebre quel tanto che bastava pervederci a malappena. C'erano Livia,assittata vicino al letto sull'unica seggiadi metallo; darrè di lei, addritta, Anna.Dall'altra parte del letto, magari leiaddritta, Ingrid. Livia aveva gli occhi

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vagnàti di lacrime, Anna chiangiva senzaritegno, Ingrid era pallida e con la facciatirata.

«Gesù!» si disse Montalbano atterrito.Serrò gli occhi e se ne scappò nel

sonno.Alle sei e mezzo di quella che gli

parse la matinata appresso, dueinfermiere lo puliziarono, gli cangiaronola medicazione. Alle sette s'apprisintò ilprimario seguito da cinque assistenti,tutti in càmmisi bianco. Il primarioconsultò la cartella ch'era appizzata aipedi del letto, scostò il lenzuolo,principiò a marnarlo sul fianco ferito.

«Mi pare vada tutto benissimo»sentenziò. «L'operazione è perfettamenteriuscita».

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Operazione? Di quale operazioneparlava? Ah, forse per l'estrazione delproiettile che l'aveva ferito. Ma unproiettile di mitra difficile che restidentro, che non passi da parte a parte.Avrebbe voluto spiare, domandarespiegazioni, ma le parole non gliniscìvano. Però il primario s'addunò delsuo sguardo, delle domande che gliocchi del commissario formulavano.

«L'abbiamo dovuta operare d'urgenza.La pallottola ha traversato il colon».

Il colon? E che minchia ci faceva ilcolon nel suo fianco? Il colon non avevaa che fare coi fianchi, doveva starsenenella panza. Ma se aveva a che fare conla panza, questo stava a significare che -e sobbalzò tanto forte che i medici se ne

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accorsero - da quel momento in poi eper tutto il resto della vita sarebbedovuto andare avanti a pappine?

«...pappine?» fece finalmente la vocedi Montalbano, l'orrore di quellaprospettiva gli aveva riattivato le cordevocali. «Che ha detto?» spiò il primariovolgendosi ai suoi. «Mi pare abbia dettoscarpine» disse uno. «No, no, ha dettorapine» intervenne un altro. Uscironodibattendo la questione.

Alle otto e mezzo la porta si raprì espuntò Catarella.

«Dottori, come è che lei si senti?».Se c'era una persona al mondo con la

quale Montalbano riteneva inutile ildialogo quello era proprio Catarella.Non rispose, mosse la testa come a dire

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che andava alla meno peggio.«Sono qui di guardia a montare la

guardia per lei. Questo spitàli porto dimare è, chi entra chi esce e chi va cheviene. Potrebbe darsi che entrebbequarcheduno animalato da cattiveintinzioni, che voli finire l'opiracominciata. Mi spiegai?».

Si era spiegato benissimo.«Lo sape, dottori? Io il mio sangue ci

desi per la trasposizione».E tornò di guardia a montare la

guardia. Montalbano amaramente pensòche l'aspettavano anni bui,sopravvivendo col sangue di Catarella enutrendosi di pappine di semolino.

I primi della lunga serie di baci cheavrebbe ricevuto nel corso della

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giornata, furono quelli di Fazio.«U sapi, dutturi, che lei spara come un

dio? A uno l'ha pigliato in gola con uncolpo solo, all'altro l'ha ferito».

«Ho ferito magari l'altro?».«Sissignore, non sappiamo in che

parte, ma di ferito l'ha ferito. Se n'èaddunato il dottore Jacomuzzi, a unadecina di metri dalle auto c'era unapozzanghera arrossata, era sangue».

«Avete identificato il morto?».«Certo».Tirò un foglietto dalla sacchetta,

lesse.«Munafò Gerlando, nato a Montelusa

il sei settembre 1970, celibe, abitante aMontelusa in via Crispi 43, segniparticolari nessuno».

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«Il vizio dello stato civile nonl'abbandona» pensò Montalbano.

«E con la legge come stava?».«Niente di niente, dottore.

Incensurato».Fazio rimise il foglietto nella

sacchetta.«Per fare di queste cose, li pagano al

massimo mezzo milione».Fece una pausa, doveva

evidentemente dire qualcosa che nonaveva cuore. Montalbano si decise adargli una mano d'aiuto.

«Gegè è morto sul colpo?».«Non ha sofferto. La raffica gli ha

portato via mezza testa».Trasirono gli altri. E fu un subisso di

baci e abbracci.

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Da Montelusa arrivarono Jacomuzzi eil dottor Pasquano «Tutti i giornaliparlano di te» fece Jacomuzzi. Eracommosso, ma un poco invidioso.

«M'è sinceramente dispiaciuto di nonaverle dovuto fare l'autopsia» dissePasquano. «Sono curioso di saperecom'è fatto dentro».

«Sono stato io il primo ad arrivare sulposto» disse Mimì Augello «e quando tiho visto in quelle condizioni, in quelloscenario, m'è pigliato uno spavento chea momenti mi cacavo sotto».

«Come l'hai saputo?».«Un anonimo ha telefonato in ufficio

dicendo che c'era stata una sparatoria aipiedi della Scala dei Turchi. Di guardiac'era Galluzzo il quale m'ha subito

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chiamato. E m'ha detto una cosa che nonsapevo. E cioè che tu, nel posto doveerano stati segnalati gli spari,t'incontravi abitualmente con Gegè».

«Lo sapeva?!».«Ma lo sapevano tutti, a quanto pare!

Mezzo paese lo sapeva! Allora non misono manco vestito, in pigiama com'erosono nisciùto...».

Montalbano alzò una stanca mano,l'interruppe.

«Tu dormi col pigiama?».«Sì» fece imparpagliato Augello.

«Perché?».«Niente. Vai avanti».«Mentre correvo in macchina, col

telefonino ho chiamato l'ambulanza. Ed èstato un bene, perché perdevi molto

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sangue».«Grazie» disse grato Montalbano.«Che grazie! Tu non avresti fatto lo

stesso per me?».Montalbano si fece un rapido esame

di coscienza, scelse di non rispondere.«Ah, ti volevo dire un fatto curioso»

proseguì Augello. «La prima cosa chemi hai domandato, mentre te ne staviancora stinnuto sulla rena e ti lamentavi,è stata quella di levarti le lumache che tistrisciavano sopra. Eri caduto in unaspecie di delirio e perciò ti ho detto disì, che te le levavo, ma non c'eranessuna lumaca».

Livia arrivò, l'abbracciò forte, si misea piangere, stendendosi per quantopoteva vicino a lui sul letto.

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«Resta così» disse Montalbano.Gli piaceva sentire il sciàuro dei

capelli di lei che teneva la testa sul suopetto.

«Come l'hai saputo?».«Dalla radio. O meglio, è stata mia

cugina a sentire la notizia. È statoproprio un bel risveglio».

«Che hai fatto?».«Per prima cosa ho telefonato

all'Alitalia e ho prenotato per Palermo,poi ho chiamato il tuo ufficio a Vigàta,m'hanno passato Augello che è statogentilissimo, m'ha rassicurata, s'è offertodi venirmi a prendere all'aeroporto.Durante il viaggio in macchina m'haraccontato tutto».

«Livia, come sto?».

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«Stai bene, compatibilmente conquello ch'è successo».

«Sono rovinato per sempre?».«Ma che dici?!».«Mangerò in bianco per tutta la

vita?».«Però lei mi lega le mani» disse

sorridendo il questore.«Perché?».«Perché si mette a fare cose da

sceriffo o se preferisce da vendicatoredella notte e va a finire su tutte letelevisioni e tutti i giornali».

«Non è colpa mia».«No, non lo è, ma non sarà nemmeno

colpa mia se sarò costretto apromuoverla. Dovrebbe starsene buonoper un pochino. Fortunatamente per una

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ventina di giorni non potrà muoversi daqui».

«Tanto?!».«A proposito, a Montelusa c'è il

sottosegretario Licalzi, è venuto, dicelui, per sensibilizzare l'opinionepubblica nella lotta alla mafia, e hamanifestato l'intenzione di venirla avisitare nel pomeriggio».

«Non lo voglio vedere!» gridòMontalbano agitato.

Uno che nella mafia ci avevainzuppato largamente il pane e che ora siriciclava, sempre col consenso dellamafia.

Proprio in quel momento trasì ilprimario. Nella càmmara c'erano seipersone, s'infuscò.

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«Non prendetevela a male, ma viprego di lasciarlo solo, deve riposare».

Cominciarono a congedarsi mentre ilprimario diceva a voce altaall'infermiera:

«E per oggi niente più visite».«Il sottosegretario riparte oggi

pomeriggio alle cinque» disse a bassavoce il questore a Montalbano.«Purtroppo, dato l'ordine del primario,non potrà passare a salutarla».

Si sorrisero.Dopo qualche giorno gli levarono la

flebo dal braccio; gli misero il telefonosul comodino. Quella stessa mattinavenne a trovarlo Nicolò Zito che parevaBabbonatale.

«Ti ho portato un televisore, un

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videoregistratore e una cassetta. Ti homagari portato i giornali che hannoparlato di te».

«Che c'è nella cassetta?».«Ho riversato e montato tutte le

minchiate che io, quelli di "Televigàta" ed'altre televisioni abbiamo detto sulfatto».

«Pronto, Salvo? Sono Mimì. Come tisenti oggi?».

«Meglio, grazie».«Ti telefono per dirti che hanno

ammazzato il nostro amico Ingrassia».«L'avevo previsto. Quand'è stato?».«Stamattina. L'hanno sparato mentre

stava venendo in paese in auto. Duech'erano su una moto potentissima.L'agente che gli stava appresso non ha

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potuto fare altro che tentare disoccorrerlo, ma non c'era più niente dafare. Senti, Salvo, domani a matinapasso da te. Mi devi contare,ufficialmente, tutti i dettagli della tuasparatoria».

Disse a Livia di mettere la cassetta,non è che fosse molto curioso, lo feceper passare tempo. Il cognato diGalluzzo su «Televigàta» siabbandonava a una fantasia degna di unsoggettista di film sul tipo Predatoridell'arca perduta. Secondo lui, lasparatoria era la conseguenza direttadella scoperta dei due cadaverimummificati nella grotta. Quale segretoc'era, terribile e indecifrabile, dietroquel lontano delitto? Il giornalista, sia

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pure di passata, non si vergognò diricordare la triste fine fatta dagliscopritori delle tombe dei faraoni e lacollegò con l'agguato al commissario.

Montalbano rise fino a che gli venneuna fitta nel fianco Poi apparve la facciadi Pippo Ragonese, il notista politicodella stessa rete privata, ex comunista,ex democristiano, ora esponente di puntadel partito del rinnovamento. Senzamezzi termini, Ragonese si pose unadomanda: che ci faceva il commissarioMontalbano con un tenutario espacciatore di droga di cui si vociferavafosse amico? Era consona questafrequentazione al rigore morale al qualeogni pubblico funzionario dovevaattenersi? I tempi sono cambiati,

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concluse severamente il notista, un'ariadi rinnovamento scuote il paese grazie alnuovo governo e bisogna stare al passo.I vecchi atteggiamenti, le antichecollusioni devono finire per sempre.

A Montalbano, per la raggia, venneun'altra fitta al fianco, si lamentò. Livias'alzò di scatto, spense il televisore.

«E tu te la pigli per le parole diquello stronzo?».

Dopo una mezzorata d'insistenze epreghiere, Livia cedette e riaccese iltelevisore. Il commento di Nicolò Zitoera affettuoso, indignato, razionale.Affettuoso per l'amico commissario alquale inviava l'augurio più sincero,indignato perché malgrado tutte lepromesse degli uomini di governo la

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mafia aveva campo libero nell'isola,razionale perché metteva in rapportol'arresto di Tano u grecu con la scopertadelle armi. Di questi due poderosi colpialla criminalità organizzata era statoautore Montalbano, venuto, così, araffigurarsi come un pericolosoavversario da togliere di mezzo ad ognicosto. Irrideva all'ipotesi che l'agguatofosse la vendetta dei morti profanati:con quali denari avevano pagato i sicari,si domandava, forse con gli spicciolifuori corso che c'erano nella ciotola?

La parola quindi tornava al giornalistadi «Televigàta» che presentavaun'intervista ad Alcide Maraventano,definito per l'occasione come«specialista dell'occulto». Il prete

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spretato indossava una tonacarammendata con pezze di varii colori eciucciava dal biberon. Alle insistentidomande che volevano portarlo a fargliammettere un possibile legame tral'agguato al commissario e la cosiddettaprofanazione, Maraventano, con unamaestria d'attore consumato, ammise enon ammise, lasciando tutti in unanebulosa incertezza. Poi, la cassettacurata da Zito si concluse con la sigladella nota politica di Ragonese.Senonché apparve uno sconosciutogiornalista per dire che quella sera ilsuo collega era impossibilitato acomparire, vittima di una brutaleaggressione. Dei malviventi rimastisconosciuti l'avevano malmenato e

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derubato la notte precedente, mentrerincasava dopo aver svolto il suo lavoroa «Televigàta». Il giornalista si lanciavain una violenta accusa alle forzedell'ordine che non erano più in grado digarantire la sicurezza dei cittadini.

«Perché Zito ti ha voluto far vederequesto pezzo che non riguarda te?» spiòcandidamente Livia, ch'era del nord ecerti sottintesi non li capiva.

Augello l'interrogava e Tortorellaverbalizzava. Raccontò che di Gegè erastato compagno di scuola e amico e chel'amicizia era durata nel tempo malgradosi fossero venuti a trovare ai lati oppostidella barricata. Fece mettere a verbaleche quella sera Gegè aveva domandatodi vederlo, ma erano riusciti a

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scambiarsi poche parole, appenaqualcosa di più dei saluti.

«Aveva cominciato ad accennare altraffico d'armi, mi ha detto che avevasaputo in giro qualche cosa che potevainteressarmi. Ma non ebbe il tempo didirmela».

Augello fece finta di crederci eMontalbano poté contaredettagliatamente le varie fasi delloscontro a fuoco.

«E ora dimmi tu» disse a Mimì.«Prima firma il verbale» fece

Augello.Montalbano firmò, Tortorella lo salutò

e se ne tornò in ufficio. C'era poco daraccontare, disse Augello, l'autod'Ingrassia era stata sorpassata dalla

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motocicletta, quello che stava dietros'era voltato, aveva aperto il fuoco ebuonanotte. La macchina d'Ingrassia eraandata a finire in un fosso.

«Hanno voluto tagliare il ramo secco»commentò Montalbano. E poi spiò conuna certa malinconia perché si sentivafòra del gioco:

«Cosa pensate di fare?».«Quelli di Catania, che ho avvertito,

ci hanno promesso che non mollerannoBrancato».

«Speriamo bene» disse Montalbano.Augello non lo sapeva, ma forse,

avvertendo i colleghi di Catania, avevafirmato la condanna a morte di Brancato.

«Chi è stato?» spiò secco Montalbanodopo una pausa.

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«Chi è stato cosa?».«Talia ccà».Azionò il telecomando, gli fece

vedere il brano che dava la notiziadell'aggressione a Ragonese. Mimìrecitò benissimo la parte di chi si sentepigliato dai turchi.

«A me lo vieni a spiare? E poi non ècosa che ci riguarda, Ragonese abita aMontelusa».

«Quanto sei nnuccenti, Mimì! Tiè,mozzica il ditino!».

E gli porse il dito mignolo, come si facoi bambini.

DiciottoPassata una simanata, al posto delle

visite, degli abbracci, delle telefonate,delle congratulazioni, subentrarono la

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solitudine e la noia. Aveva convintoLivia a tornarsene dalla sua cuginamilanese, non c'era motivo chesprecasse le sue ferie, del progettatoviaggio al Cairo non era per il momentoil caso di parlarne. Rimasero d'accordoche Livia sarebbe tornata giù appena ilcommissario nisciva dallo spitàli, soloallora avrebbe stabilito come e dovetrascorrere le due settimane di ferie cheancora le restavano.

Magari la rumorata attorno aMontalbano e ai fatti che gli eranosuccessi, picca a picca divenne comeun'eco, poi scomparse del tutto.Quotidianamente però Augello o Faziovenivano a tenergli compagnia, sitrattenevano poco, il tempo di contargli

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le novità, lo stato di alcune indagini.Ogni matina, raprendo gli occhi,

Montalbano si faceva proposito diragionare, di speculare sul fatto deimorti del crasticeddru, si domandavaquando gli sarebbe capitata di nuovo lapossibilità di starsene in santo silenzio,senza disturbo d'alcun genere, così dapoter svolgere un ragionamento filatodal quale ricevere una luce, unasollecitazione. Bisogna che approfitti diquesta situazione, si diceva, e partiva aripassarsi la vicenna con la stessa fogadi un cavallo al galoppo, dopo tanticchiasi trovava a camminare al piccolo trotto,poi al passo e quindi una specie ditorpore adascio adascio s'impadronivadi lui, corpo e ciriveddro.

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«Dev'essere la convalescenza» sidiceva.

S'assittava sulla poltrona, pigliava ungiornale o una rivista, a metà di unarticolo un pochino più lungo degli altrisi stuffava, gli occhi principiavano afargli pàmpini pàmpini, scivolava in unsonno sudaticcio.

«Il prigattere Fassio mà dito chi ogghivossia sini torna a la casa. Ci pighlioparti e cunsolazione. Il prigattere màdito chi lo deve tiniri leggio. Adellina».Il biglietto della cammarera stava sultavolo di cucina e Montalbano s'affrettòa controllare cosa la criata intendesseper tenerlo leggero: c'era duefreschissimi merluzzi da condire conolio e limone. Staccò la spina del

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telefono, voleva riabituarsi alla casa concalma. C'era molta posta, ma non aprìmanco una lettera o taliò una cartolina.Mangiò, si coricò.

Prima d'addrummiscìrisi si pose unadomanda: se i medici l'avevanorassicurato sul recupero di tutte le forze,perché si sentiva aggroppare la goladalla malinconia?

Per i primi dieci minuti guidò conpreoccupazione, più attento alle reazionidel suo fianco che non alla strata. Poi,visto che sopportava bene gli scossoni,accelerò, traversò Vigàta, pigliò la viaper Montelusa, al bivio di Montapertogirò a mancina, percorse qualchechilometro, imboccò un viottolo sterrato,arrivò a un piccolo spiazzo sul quale

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sorgeva una casa rustica. Scese dallamacchina. Marianna, la sorella di Gegèche era stata sua maestra di scuola, stavaassittata su una seggia di paglia allatoalla porta e aggiustava un canistro.Appena vide il commissario, gli andòincontro.

«Salvù, io lo sapiva che sarestivenuto a trovarmi».

«Vossia è la prima visita che facciodopo lo spitàli» disse Montalbanoabbracciandola.

Mariannina principiò a chiàngiriadasciu, senza lamenti, solo lacrime, e aMontalbano s'inumidirono gli occhi.

«Pigliati una seggia» disseMariannina.

Montalbano s'assittò vicino alla donna

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e lei gli pigliò una mano, gliela carezzò.«Soffrì?».«No. L'ho capito mentre ancora

stavano a sparare che a Gegè l'avevanoastutato sul colpo. Poi me l'hannoconfirmato. Io credo che manco capìquello che stava succedendo».

«È vero che ammazzasti quello cheammazzò a Gegè?».

«Sissi».«Dove si trova si trova, Gegè ne sarà

cuntentu».Mariannina sospirò, strinse più forte

la mano del commissario.«Gegè ti voleva un beni di l'arma».Meu amigo de alma, un titolo passò

per la mente di Montalbano.«Magari io gli volevo beni assai»

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disse.«T'arricordi quanto era tinto?».Tinto, cattivo bambino, discolo.

Perché Mariannina evidentemente non siriferiva agli anni più recenti, ai rapportiproblematici di Gegè con la legge, ma altempo lontano di quando suo fratellominore era piccolo ed era scueto,birbante. Montalbano sorrise.

«Vossia s'arricorda di quella volta chetirò un petardo dintra un calderone dirame che uno stava riparando e quello,per il botto, svenne?».

«E quella volta che svacantò ilcalamaro d'inchiostro copiativo dintra laborsetta della maestra Longo?».

Per circa due ore parlarono di Gegè edelle sue imprese, fermandosi sempre a

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episodi che risalivano al massimoall'adolescenza.

«Si fece tardo, me ne vado» disseMontalbano.

«T'avissi dittu di ristare a mangiare cumia, ma haiu così che forsi pi tia sonopesanti».

«Che preparò?».«Attuppateddri al suco».Attuppateddri, cioè quelle piccole

chiocciole marrone chiaro che quandocadevano in letargo secernevano unumore che solidificava diventando unasfoglia bianca che serviva a chiudere,attuppare appunto, l'entrata del guscio. Ilprimo impulso di Montalbano fu dirifiutare nauseato. Fino a quandosarebbe stato perseguitato da

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quell'ossessione? Poi, freddamente,decise d'accettare per una doppia sfidaalla panza e alla psiche. Davanti alpiatto, che mandava un odore finissimodi colore ocra, dovette farsi forza, madopo aver estratto il primoattuppateddru con una spilla ed averlogustato, di colpo si sentì liberato:scomparsa l'ossessione, esorcizzata lamalinconia, non c'era dubbio che magarila panza si sarebbe adeguata.

In ufficio venne soffocato dagliabbracci, Tortorella addirittura s'asciugòuna lacrima.

«Io lo saccio che significa tornaridoppo che si è stati sparati!».

«Dov'è Augello?».«Nel suo ufficio di lei» disse

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Catarella.Raprì la porta senza tuppiare e Mimì

balzò dalla seggia darrè la scrivaniacome se fosse stato sorpreso adarrubbare, diventò rosso.

«Non ti ho toccato niente. È che daqui le telefonate...».

«Mimì, hai fatto benissimo» tagliòcorto Montalbano reprimendo la vogliache aveva di pigliare a calci in culo chiaveva osato sedersi sulla sua seggia.

«Sarei venuto oggi stesso a casa tua»disse Augello.

«A fare che?».«A organizzare la protezione».«Di chi?».«Come, di chi? La tua. Quelli non è

detto che non ci riprovino, visto che la

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prima volta gli è andata buca».«Ti sbagli, non succederà più niente, a

me. Perché vedi, Mimì, sei stato tu afarmi sparare».

Parse che ad Augello gli avesseroinfilato una spina ad alto voltaggio nelsedere tanto diventò rosso, pigliò atremare. Poi il suo sangue se ne andònon si sa dove, lasciandolo giarno comeun morto.

«Ma che ti passa per la testa?» riuscìad articolare malamente.

Montalbano valutò di essersivendicato abbastanza per lospossessamento della sua scrivania.

«Calmo, Mimì. Mi sono sbagliato diparole. Volevo dire: sei stato tu amettere in moto in meccanismo per cui

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m'hanno sparato».«Spiegati» disse Augello, crollato

sulla seggia, passandosi il fazzolettotorno torno la bocca, la fronte.

«Mio caro, tu, senza consultarmi,senza spiarmi s'ero d'accordo o no, haimesso degli agenti appresso a Ingrassia.Ma che credevi, che quello era cosìfesso da non accorgersene? Ci avràimpiegato sì e no mezza giornata ascoprirlo, che era pedinato. Ha perògiustamente pensato che fossi stato io adare l'ordine. Sapeva di avere fatto unaserie di fesserie per le quali io l'avevomesso sotto tiro e allora, per rifarsi agliocchi di Brancato che intendevaliquidarlo - la telefonata tra loro due mel'hai riferita tu - ha assoldato due stronzi

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per eliminarmi. Senonché il suo progettos'è risolto in un fiasco. A questo puntoBrancato, o chi per lui, s'è rotto le palled'Ingrassia e delle sue alzate d'ingegnopericolose, tra l'altro non è dadimenticare l'inutile ammazzatina delpovero cavaliere Misuraca, haprovveduto e l'ha fatto scomparire dallafaccia della terra. Se tu non avessimesso sull'avviso Ingrassia, Gegèsarebbe ancora vivo e io non avreiquesto dolore al fianco. Tutto qua».

«Se le cose stanno così, hai ragionetu» disse Mimì annientato.

«Stanno così, ti ci puoi giocare ilculo».

L'aereo atterrò vicinissimo allo scalo,i passeggeri non ebbero bisogno di

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trasbordare. Montalbano vide Liviascendere dalla scaletta, avviarsi a testabassa verso l'entrata. Si nascose inmezzo alla folla, taliò Livia che dopouna lunga attesa raccoglieva il suobagaglio dal nastro trasportatore, lometteva sopra un carrello, si avviavaverso il posteggio dei tassì. La seraavanti, per telefono, erano rimastid'accordo che lei avrebbe pigliato iltreno da Palermo a Montelusa e lui sisarebbe limitato ad andare a prenderlaalla stazione. Invece aveva già deciso difarle la sorpresa, presentandosiall'aeroporto di Punta Ràisi.

«E sola? Posso darle un passaggio?».Livia, che stava dirigendosi verso il

tassì di testa, s'arrestò di botto, lanciò un

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grido.«Salvo!».S'abbracciarono, felici.«Ma tu stai da Dio!».«Pure tu» disse Montalbano. «E da

più di mezz'ora che sto a taliàrti, daquando stavi sbarcando».

«Perché non ti sei fatto vedereprima?».

«Mi piace osservarti mentre esistisenza di me».

Salirono in macchina e subitoMontalbano, invece di mettere in moto,l'abbracciò, la baciò, le mise una manosul seno, calò la testa, le carezzò con laguancia le ginocchia, il ventre.

«Andiamo via da qui» disse Livia colfiato grosso «altrimenti ci beccano per

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atti osceni in luogo pubblico».Sulla strada verso Palermo, il

commissario le fece una proposta che gliera solo allora venuta in testa.

«Ci fermiamo in città? Vorrei fartivedere la Vuccirìa».

«L'ho già vista. Guttuso».«Ma quel quadro è una cacata,

credimi. Pigliamo una càmmara inalbergo, tambasiàmo in giro, andiamoalla Vuccirìa, dormiamo, domani mattinapartiamo per Vigàta. Tanto non ho nienteda fare, mi posso considerare unturista».

Arrivati in albergo, tradirono ilproposito di darsi solo una rilavata enèsciri. Non uscirono, fecero all'amore,s'addormentarono. Si svegliarono dopo

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qualche ora e lo rifecero. Vennero fòradall'albergo che quasi era sera,andarono alla Vuccirìa. Livia erastordita e travolta dalle voci, dagliinviti, dalle grida delle mercanzie, dallaparlata, dalle contraddizioni, dallefulminee risse, dai colori così accesi daparere finti, pittati. Il sciàuro del pescefrisco si mescolava a quello deimandarini, delle interiora d'agnellobollite e cosparse di caciocavallo, lacosiddetta mèusa, delle fritture, el'insieme era una fusione irripetibile,quasi magica. Montalbano si fermòdavanti a un negozietto d'abiti usati.

«Quando frequentavo l'università evenivo qui a mangiarmi il pane con lamèusa, che oggi mi farebbe

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semplicemente scoppiare il fegato,questo era un negozio unico al mondo.Ora vendono abiti usati, allora gliscaffali, tutti, erano vuoti; ilproprietario, don Cesarino, se ne stavaassittato darrè il bancone, anche quelloaccuratamente vacante di tutto ericeveva i clienti».

«Se gli scaffali erano vuoti! Qualiclienti?».

«Non erano esattamente vuoti, erano,come dire, colmi d'intenzioni, dirichieste. Quell'uomo vendeva coserubate su ordinazione. Tu andavi da donCesarino e gli facevi: m'occorre unralogio così e così; oppure: m'abbisognaun quadro, che so, una marinadell'Ottocento; oppure: mi necessita un

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anello di questo tipo. Lui pigliava lacommissione, la scriveva su un pezzo dicarta da pasta, di quella gialla e ruvidad'una volta, contrattava il prezzo e tidiceva quando dovevi ripassare. Alladata stabilita, senza sgarrare di ungiorno, lui tirava da sotto il bancone lamerce richiesta e te la consegnava. Nonammetteva reclami».

«Scusa, ma che bisogno aveva ditenere un negozio? Voglio dire: unmestiere così poteva farlo dovunque, inun caffè, all'angolo della strada...».

«Sai come lo chiamavano i suoi amicidella Vuccirìa? Don Cesarino u putiàru,il bottegaio. Perché don Cesarino non sicredeva né un basista, come si dice oggi,né un ricettatore, era un commerciante

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come tanti altri e il negozio, di cuipagava l'affitto e la luce, stava atestimoniarlo. Non era una facciata, unacopertura».

«Siete tutti pazzi».«Come un figlio! Si lasci abbracciare

come un figlio!» fece la moglie delpreside tenendolo per un poco stretto alpetto.

«Lei non ha idea di come ci ha fattostare in pensiero!» rincarò il marito.

Il preside gli aveva telefonato inmattinata invitandolo a cena,Montalbano aveva rifiutato, proponendoun incontro pomeridiano. Lo feceroaccomodare in salotto.

«Veniamo subito al dunque, non lefaremo perdere tempo» attaccò il

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preside Burgio.«Ho tutto il tempo che volete, sono

momentaneamente disoccupato».«Mia moglie le ha contato, quando lei

è rimasto da noi a cena, che io la chiamouna femmina fantastica. Bene, appena leiha lasciato la nostra casa, mia moglie siè messa a fantasticare. Le volevamotelefonare prima, ma è successo quelloche è successo».

«Vogliamo far giudicare al signorcommissario se sono fantasie?» dissetanticchia piccata la signora, e proseguìpolemica: «Parli tu o parlo io?».

«Le fantasie sono cosa tua».«Non so se lo rammenta ancora, ma

quando lei spiò a mio marito dovepoteva trovare Lillo Rizzitano, lui le

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rispose che non aveva più sue notiziedal luglio del 1943. Allora mi tornò amente una cosa. Che pure a me sparìun'amica in quello stesso periodo, omeglio, si fece viva magari dopo, ma inun modo strano che...».

Montalbano avvertì un brivido nellaschiena, i due del crasticeddru eranostati assassinati giovanissimi.

«Che età aveva questa sua amica?».«Diciassette anni. Ma era assai più

matura di me, che ero ancora unapicciliddra. Andavamo a scuolaassieme».

Raprì una busta ch'era sul tavolinetto,tirò fòra una fotografia, la fece vedere aMontalbano.

«Ce la siamo fatta l'ultimo giorno di

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scuola, al terzo liceo. Lei è la prima asinistra dell'ultima fila, allato sono io».

Tutte sorridenti, nella divisa fascistadelle Giovani Italiane, un professorefaceva il saluto romano.

«Data la spaventosa situazione chec'era nell'isola a causa deibombardamenti, le scuole chiuserol'ultimo giorno d'aprile e noi cisparagnammo il terribile esame dimaturità, venimmo promossi o bocciati ascrutinio. Lisetta, questo era il nomedella mia amica, di cognome facevaMoscato, si trasferì con la famiglia in unpaesetto dell'interno. Mi scriveva ungiorno sì e un giorno no, conservo tuttele sue lettere, almeno quelle chearrivarono. Sa, la posta in quei giorni...

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Magari la mia famiglia si trasferì, noiaddirittura andammo in continente, da unfratello di mio padre. Quando la guerrafinì io scrissi alla mia amica, siaall'indirizzo del paesetto sia all'indirizzodi Vigàta. Non ebbi mai risposta, la cosami preoccupò. Finalmente alla fine del'46 tornammo a Vigàta. Andai a trovare igenitori di Lisetta. Sua madre era morta,il padre prima cercò di non incontrarmi,poi mi trattò in malo modo, disse cheLisetta si era innamorata di un soldatoamericano e che l'aveva seguito controla volontà dei familiari. Aggiunse cheper lui la figlia era come morta».

«Sinceramente, mi pare una storiaplausibile» disse Montalbano.

«Che ti dicevo?» intervenne il preside

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pigliandosi la rivincita.«Guardi, dottore, che la cosa era

stramma lo stesso, anche a non calcolarequello che venne dopo. In prìmisi, èstramma perché Lisetta, se si fosseinnamorata di un soldato americano, mel'avrebbe fatto sapere in qualunquemodo. E poi lei, nelle lettere che mispedì da Serradifalco, così si chiamavail paesetto dove si erano rifugiati,continuò a battere e a ribattere sempresullo stesso chiodo: il tormento che glidava la lontananza dal suo travolgenteamore misterioso. Un giovane di cui nonvolle mai dirmi il nome».

«Sei sicura che questo misteriosoamore esistesse veramente? Non potevatrattarsi di una fantasia di gioventù?».

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«Lisetta non era tipo che si perdevanelle fantasie».

«Sa» disse Montalbano «a diciassetteanni, e purtroppo magari dopo, non sipuò giurare sulla costanza deisentimenti».

«Piglia e porta a casa» disse ilpreside.

Senza dire una parola, la signora cavòun'altra foto dalla busta. Rappresentavauna giovane in abito da sposa che davail braccio a un bel ragazzo in divisa disoldato statunitense.

«Questa l'ho ricevuta da New York,così diceva il timbro postale, nei primimesi del '47».

«E questo leva di mezzo ogni dubbio,mi pare» concluse il preside.

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«Eh no, semmai lo fa venire ildubbio».

«In che senso, signora?».«Perché c'era solo questa fotografia

dentro la busta, questa foto di Lisetta colsoldato e basta, non c'era un biglietto,niente. E manco darrè la foto c'è scrittoun rigo d'accompagnamento, puòcontrollare. E allora mi vuole spiegareperché un'amica vera, intima, mi mandasolamente una foto senza una parola?».

«Ha riconosciuto la calligrafia dellasua amica sulla busta?».

«L'indirizzo era scritto a macchina».«Ah» fece Montalbano.«E le voglio dire un'ultima cosa: Elisa

Moscato era cugina prima di LilloRizzitano. E Lillo le voleva bene assai,

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come a una sorella minore».Montalbano taliò il preside.«L'adorava» ammise questi.

DiciannovePiù ci maceriava sopra, più ci firriava

torno torno, più ci passava ranto ranto,sempre più si faceva convinto che s'eramesso sulla strata giusta. Non avevaavuto manco bisogno della solitapassiàta meditativa fino alla cima delmolo, appena nisciùto da casa Burgiocon la fotografia nuziale in sacchettas'era diretto sparato alla volta diMontelusa.

«C'è il dottore?».«Sì, ma sta travagliando, ora

l'avverto» disse il custode.Pasquano e i suoi due assistenti

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stavano attorno al piano di marmo sulquale c'era un cadavere, nudo e con gliocchi sgriddrati. E aveva ragione, ilmorto, a tenere gli occhi spalancaticome per stupore dato che i tre stavanobrindando con bicchieri di carta. Ildottore aveva una bottiglia di spumantein mano.

«Venga, venga, stiamo festeggiando».Montalbano ringraziò un assistente

che gli passava un bicchiere, Pasquanogli versò due dita di spumante.

«Alla salute di chi?» spiò ilcommissario.

«Alla mia. Con questo qua, sonoarrivato al millesimo esame autoptico».

Montalbano bevve, chiamò il dottorein disparte, gli mostrò la foto.

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«La morta del crasticeddru potevaavere una faccia come questa picciottadella foto?».

«Perché non va a cacare? » domandòdolcemente Pasquano.

«Mi scusi» fece il commissario.Girò sui tacchi e uscì. Era uno

stronzo, lui, non il dottore. S'era lasciatopigliare dall'entusiasmo ed era andato afare a Pasquano la domanda più cretinache si potesse concepire.

Non ebbe miglior fortuna allaScientifica.

«C'è Jacomuzzi?».«No, è dal signor questore».«Chi si occupa del laboratorio

fotografico?».«De Francesco, al piano sotterraneo».

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De Francesco taliò la foto come seancora non l'avessero informato dellapossibilità di riprodurre immagini supellicole sensibili alla luce.

«Che vuole da me?».«Sapere se si tratta di un

fotomontaggio».«Ah, non è partita mia. Io ne capisco

solo a fotografare e a sviluppare. Lecose più difficili le mandiamo aPalermo».

Poi la rota firriò nel senso giusto eprincipiò la serie positiva. Telefonò alfotografo della rivista che avevapubblicato la recensione al libro diMaraventano e di cui si ricordava ilcognome.

«Mi perdoni se la disturbo, è lei il

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signor Contino?».«Sì, sono io, chi parla?».«Sono il commissario Montalbano,

avrei bisogno di vederla».«Mi fa piacere conoscerla. Venga

anche ora, se vuole».Il fotografo abitava nella parte

vecchia di Montelusa, in una delle pochecase superstiti di una frana che avevafatto scomparire un intero quartiere dalnome arabo.

«Veramente io di professione nonfaccio il fotografo, insegno storia alliceo, ma mi diletto. Sono a suadisposizione».

«Lei è in grado di dirmi se questafotografia è un fotomontaggio?».

«Posso provarci» disse Contino

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taliando la foto. «Quando è statascattata, lo sa?».

«M'hanno detto verso il '46».«Ripassi dopodomani».Montalbano calò la testa e non disse

niente.«E cosa urgente? Allora facciamo

così, io, tra due ore, mettiamo, possodarle una prima risposta che però habisogno di conferma».

«D'accordo».Le due ore le passò in una galleria

d'arte dove c'era una mostra d'un pittoresiciliano settantenne, ancora legato a unacerta retorica populista ma felice nelcolore, intenso, vivissimo. Comunqueprestò alle tele un occhio distratto,impaziente com'era per la risposta di

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Contino, ogni cinque minuti taliava ilralogio.

«Allora mi dica».«Ho finito ora ora. A mio giudizio, si

tratta proprio di un fotomontaggio. Assaiben fatto».

«Da che lo capisce?».«Dalle ombre sullo sfondo. La testa

della ragazza è stata montata insostituzione della testa della verasposa».

E questo Montalbano non glielo avevadetto. Contino non era stato messosull'avviso, non era stato indotto aquella conclusione dallo stessocommissario.

«Le dirò di più: l'immagine dellaragazza è stata ritoccata».

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«In che senso?».«Nel senso che la si è, come dire, un

pochino invecchiata».«Posso riprendermela?».«Certo, a me non serve più. La cosa la

credevo più difficile, non c'è bisogno diconferma, come le avevo detto».

«Lei mi è stato straordinariamenteutile». «Senta, commissario, il mio è unparere del tutto privato, mi spiego? Nonha nessun valore legale».

Il questore non solo l'accolse subito,ma allargò le braccia con gioia.

«Che bella sorpresa! Ha tempo?Venga con me, andiamo a casa mia,aspetto una telefonata da mio figlio, miamoglie sarà veramente felice divederla».

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Il figlio del questore, Massimo, era unmedico che apparteneva ad unaassociazione di volontari. Si definivanosenza frontiere e andavano nei paesidilaniati dalla guerra, prestavano la loroopera come meglio potevano.

«Mio figlio è pediatra, lo sa?Attualmente si trova in Ruanda. Sonoveramente in pensiero per lui».

«Ci sono ancora scontri?».«Non mi riferivo agli scontri. Ogni

volta che riesce a telefonarci, lo sentosempre più sopraffatto dall'orrore, dallostrazio».

Poi il questore tacque. E fu certo perdistrarlo dai pinsèri in cui si era serratoche Montalbano gli comunicò la notizia.

«Sono al novantanove per cento certo

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di sapere nome e cognome della ragazzatrovata morta al crasticeddru».

Il questore non parlò, lo taliò a boccaaperta.

«Si chiamava Elisa Moscato, avevadiciassette anni».

«Come diavolo ha fatto?».Montalbano gli contò tutto.La moglie del questore gli tenne la

mano come a un picciliddro, se lo feceassittare sul divano. Parlaronotanticchia, poi il commissario si susì,disse che aveva un impegno, che dovevaandare via. Non era vero, solo che nonvoleva esserci quando arrivava latelefonata, il questore e la signoradovevano godersela da soli e in pace lavoce lontana del loro figlio, magari se le

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parole erano carriche d'angoscia, didolore. Niscì dalla casa che squillava iltelefono.

«Sono stato di parola, come vede. Leho riportato la fotografia».

«Trasìssi, trasìssi».La signora Burgio si fece di lato per

lasciarlo passare.«Cu è? » spiò a voce alta dalla

càmmara di mangiare il marito.«Il commissario è».«Ma fallo accomodare!» ruggì il

preside come se sua moglie si fosserifiutata di farlo trasìri.

Stavano cenando.«Metto un piatto?» spiò invitante la

signora. E senza aspettare la risposta, lomise. Montalbano s'assittò, la signora gli

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servì brodo di pesce, ristretto a comevoleva Dio e rianimato dal prezzemolo.

«È riuscito a capirci qualcosa? » spiòla donna senza rilevare l'occhiatacciadel marito che stimava inopportunoquell'assalto.

«Purtroppo sì, signora. Credo che sitratti di un fotomontaggio».

«Dio mio! Allora chi me l'ha mandataha voluto farmi credere una cosa perun'altra!».

«Sì, penso che lo scopo sia statoquesto. Tentare di mettere un puntofermo alle sue domande su Lisetta».

«Lo vedi che avevo ragione?» gridòquasi la signora al marito e si mise achiàngiri.

«Ma perché fai così?» domandò il

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preside.«Perché Lisetta è morta e invece

m'hanno voluto fare credere che fosseviva, felice e maritata!».

«Sai, può essere stata la stessa Lisettaa...».

«Ma non dire cretinate!» disse lasignora buttando il tovagliolo sul tavolo.

Si fece un silenzio imbarazzato. Poi lasignora ripigliò.

«È morta, vero, commissario?».«Temo di sì».La signora si susì, niscì dalla

càmmara di mangiare coprendosi lafaccia con le mani, appena fòra lasentirono abbandonarsi ad una specie dimugolìo lamentioso.

«Mi dispiace» disse il commissario.

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«Se l'è cercata» fece impietoso ilpreside seguendo una sua logica didispute coniugali.

«Mi permetta una domanda. Lei èsicuro che tra Lillo e Lisetta c'era soloquel tipo d'affetto di cui lei e la suasignora m'hanno parlato?».

«Si spieghi meglio».Montalbano decise di parlare papale

papale.«Lei esclude che Lillo e Lisetta

fossero amanti?».Il preside si mise a ridere, spazzò via

l'ipotesi con un gesto della mano.«Guardi, Lillo era innamorato cotto di

una ragazza di Montelusa, la quale nonha più avuto notizie di lui dopo il lugliodel '43. E non può essere il morto del

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crasticeddru per la semplice ragione cheil contadino che lo vide ferito, caricatosu un camion e trasportato non so dovedai soldati, era una persona quatrata,seria».

«Allora» disse Montalbano «il tuttosta a significare una cosa sola, che non èvero che Lisetta se ne sia scappata conun soldato americano. Di conseguenza, ilpadre di Lisetta ha raccontato unafarfanterìa, una menzogna, a sua moglie.Chi era il padre di Lisetta?».

«Mi pare di ricordare che sichiamasse Stefano».

«E ancora vivo?».«No, è morto vecchio almeno cinque

anni fa».«Che faceva?».

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«Commerciava in legname, mi pare.Ma in casa nostra non si parlava diStefano Moscato».

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«Perché?».«Perché magari lui non era una

persona per la quale. Era in combuttacon i suoi parenti Rizzitano, mi spiego?Aveva avuto guai con la giustizia, non sodi che tipo. In quei tempi, nelle famigliedelle persone civili, perbene, non sidiscorreva di questa gente. Era comeparlare della cacca, mi scusi».

Tornò la signora Burgio, gli occhiarrossati, una vecchia lettera in mano.

«Questa è l'ultima che ho ricevuto daLisetta mentre stavo ad Acquapendente,dove mi ero trasferita con i miei».

Serradifalco, 10 giugno 1943Angelina mia cara, come stai? Comestanno quelli della tua famiglia? Tu nonpuoi capire quanto io t'invidii perché la

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tua vita in un paese del nord non puòessere nemmeno lontanamenteparagonabile al carcere in cui passo lemie giornate. Non credere eccessiva laparola carcere. Oltre alla sorveglianzaasfissiante di papà, c'è la vita monotonae stupida di un paese fatto di quattrocase. Pensa che domenica scorsa,all'uscita di chiesa, un ragazzo di qui chemanco conosco m'ha rivolto un saluto.Papà se n'è accorto, l'ha chiamato indisparte e l'ha pigliato a schiaffi. Coseda pazzi! Unico mio svago è la lettura.Ho per amico Andreuccio, un bambinodi dieci anni, figlio dei miei cugini. Eintelligente. Hai mai pensato che ibambini possano essere più spiritosi dinoi?

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Da qualche giorno, Angelina mia,vivo nella disperazione. Ho ricevuto, inun modo tanto avventuroso che sarebbelungo spiegarti, un bigliettino di quattrorighe di Lui, di Lui, di Lui, mi dice che èdisperato, che non regge più a nonvedermi, che hanno ricevuto, dopo tantotempo che stavano fermi a Vigàta,l'ordine di partire a giorni. Io mi sentomorire a non vederlo. Prima che parta,che vada via, devo, devo, devo passarequalche ora con lui, a costo di unapazzia. Ti farò sapere e intanto tiabbraccio forte forte. Tua

Lisetta«Lei dunque non ha mai saputo chi

fosse questo lui» disse il commissario.«No. Non ha mai voluto dirmelo».

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«Dopo questa lettera non ne haricevuto altre?».

«Vuole scherzare? È già un miracoloche l'abbia avuta, in quei giorni loStretto di Messina non eraattraversabile, lo bombardavanocontinuamente. Poi il nove luglio sonosbarcati gli americani e lecomunicazioni si sono interrottedefinitivamente».

«Mi scusi, signora, ma se lo ricordal'indirizzo della sua amica aSerradifalco?».

«Certo. Presso famiglia Sorrentino,via Crispi 18».

Fece per mettere la chiave nellatoppa, ma si fermò allarmato. Da dentrola sua casa venivano voci e rumori.

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Pensò di tornare in macchina e armarsidi pistola, ma non ne fece nulla. Raprì laporta cautamente, senza fare la minimarumorata.

E tutt'inzèmmula si ricordò che s'eracompletamente scordato di Livia chechissà da quanto l'aspettava.

Ci mise mezza nottata a fare la pace.Alle sette del mattino si susì a pedi

lèggio, fece un numero di telefono, parlòa bassa voce.

«Fazio? Mi devi fare un favore, tidevi dare malato».

«Non c'è problema».«Voglio, entro stasera, vita, morte e

miracoli di un tale Stefano Moscato,morto qua a Vigàta un cinque anni fa.Domanda in paese, talìa nello schedario

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e dove ti pare a te. Mi raccomando».«Stia tranquillo».Posò il telefono, pigliò carta e penna,

scrisse.Amore, devo scappare per un

impegno urgente e non voglio svegliarti.Tornerò a casa sicuramente nel primopomeriggio. Perché non ti pigli un tassì ete ne vai a rivedere i templi? Sonosempre splendidi. Un bacio.

Se ne niscì come un ladro, se Liviarapriva l'occhio, sarebbe stato un casinoserio.

Per arrivare a Serradifalco ci miseun'ora e mezza, la giornata era chiara,gli venne magari di fischiettare, sisentiva contento. Gli tornò a menteCaifas, il cane di suo padre che girava

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casa casa stufato e malinconico, ma chesi faceva vispo appena vedeva ilpadrone dedicarsi alla preparazionedelle cartucce e poi si tramutava in unammasso d'energia quando venivaportato sul campo di caccia. Trovòsubito via Crispi, al numero 18corrispondeva un palazzettoottocentesco a due piani. C'era uncampanello con la scritta «Sorrentino».Una ragazza simpatica, d'una ventinad'anni, gli spiò cosa desiderava.

«Vorrei parlare con il signor AndreaSorrentino».

«È mio padre, non è in casa, lo puòtrovare in Comune».

«Lavora lì?».«Sì e no. È il sindaco».

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«Certo che mi ricordo di Lisetta»disse Andrea Sorrentino. Portavabenissimo i suoi sessanta e passa anni,solo qualche capello bianco, l'ariaprestante.

«Ma perché mi domanda di lei?».«È un'indagine molto riservata. Sono

spiacente di non poterle dire nulla. Micreda però, per me è molto importanteavere qualche notizia».

«E va bene, commissario. Guardi, diLisetta ho ricordi bellissimi, facevamolunghe passeggiate in campagna e ioallato a lei mi sentivo orgoglioso, unuomo grande. Mi trattava come se ioavessi avuto la sua stessa età. Dopo chela sua famiglia lasciò Serradifalco e sene tornò a Vigàta, non ebbi più sue

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notizie dirette».«Come mai?».Il sindaco ebbe un momento

d'esitazione.«Beh, glielo dico perché sono storie

ormai passate. Credo che mio padre e ilpadre di Lisetta si siano sciamati amorte, abbiano litigato. Verso la finedell'agosto del '43 mio padre tornò unasera a casa stravolto. Era stato a Vigàta,a trovare u zu Stefanu, come lochiamavo io, per non so quale questione.Era pallido, aveva la febbre, mirammento che mamma si spaventò moltoe anche io, di conseguenza, mispaventai. Non so cosa sia accaduto fra idue, però il giorno dopo, a tavola, miopadre disse che nella nostra casa il

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nome dei Moscato non doveva piùessere detto. Ubbidii, magari se avevoun grande desiderio di spiargli diLisetta. Sa, questi tremendi litigi traparenti...».

«Lei si ricorda del soldato americanoche Lisetta conobbe qua?».

«Qua? Un soldato americano?».«Sì. Almeno così credo d'avere

capito. Conobbe a Serradifalco unsoldato americano, s'innamorarono, leilo seguì e qualche tempo dopo simaritarono in America».

«Di questa storia del matrimonio neho sentito vagamente parlare, perché unamia zia, sorella di mio padre, ricevetteuna foto che ritraeva Lisetta in abito dasposa con un soldato americano».

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«Allora perché si è meravigliato?».«Mi sono meravigliato del fatto che

lei dica che Lisetta l'americano loconobbe qua. Vede, quando gliamericani occuparono Serradifalco,Lisetta era scomparsa da casa nostra daalmeno dieci giorni».

«Ma che dice?».«Sissignore. Un pomeriggio, saranno

state le tre o le quattro, vidi Lisetta chesi preparava a uscire di casa. Le spiaiquale sarebbe stata quel giorno la metadella nostra passeggiata. Mi rispose chenon mi dovevo offendere, ma quelgiorno preferiva andare a spasso dasola. Mi offesi profondamente. La sera,all'ora di cena, Lisetta non tornò. ZioStefano, mio padre, alcuni contadini

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uscirono a cercarla, ma non latrovarono. Passammo ore terribili,c'erano in giro soldati italiani e tedeschi,i grandi pensarono a una violenza... Ilpomeriggio del giorno seguente, u zuStefanu ci salutò e disse che non sarebbetornato se prima non trovava sua figlia.A casa nostra rimase la mamma diLisetta, povera donna, schiantata. Poisuccesse lo sbarco e noi restammodivisi dal fronte. Il giorno stesso che ilfronte passò, tornò Stefano Moscato aripigliarsi la moglie, ci disse che avevaritrovato Lisetta a Vigàta, che la fuga erastata una bambinata. Ora, se lei mi haseguito, avrà capito che Lisetta non puòavere conosciuto il suo futuro marito quaa Serradifalco, ma a Vigàta, al suo

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paese».Venti

I templi lo so che sono splendidi daquando ti conosco sono stata costretta avederli una cinquantina di volte perciòte li puoi ficcare colonna per colonnanel posto che sai me ne vado per i fattimiei non so quando ritorno.

Il biglietto di Livia trasudava raggia.Montalbano incassò, però siccome diritorno da Serradifalco gli era smorcatauna fame lupigna, raprì il frigorifero:niente. Raprì il forno: niente. Il sadismodi Livia, che non voleva la cammareramentre si trovava a Vigàta, s'era spintofino alla pulizia più rigorosa, in giro nonsi vedeva manco una mollichella dipane. Tornò in macchina, arrivò

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all'osteria «San Calogero» che stavanoabbassando le saracinesche.

«Per lei siamo sempre aperti,commissario». Per fame e per vendettaverso Livia, si fece una mangiata dachiamare il medico.

«C'è una frase che mi fa pensare»disse Montalbano.

«Quando dice che vuole fare unapazzia?».

Stavano seduti in salotto a pigliare ilcaffè, il commissario, il preside e lasignora Angelina.

Montalbano teneva in mano la letteradella picciotta Moscato che avevaappena finito di rileggere a voce alta.

«No, signora, la pazzia sappiamo chepoi l'ha fatta, me l'ha detto il signor

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Sorrentino che non aveva ragione dicontarmi una cosa per un'altra. Pochigiorni avanti lo sbarco, dunque, Lisettaha questa bella alzata d'ingegno discapparsene da Serradifalco per venirequa, a Vigàta, per incontrarsi con lapersona che ama».

«Ma come avrà fatto?» spiòangosciata la signora.

«Avrà domandato un passaggio aqualche automezzo militare, in queigiorni doveva esserci un via vaicontinuo d'italiani e tedeschi. Bellaragazza com'era, non avrà dovutofaticare» intervenne il preside che si eradeciso a collaborare, arrendendosi dimalavoglia al fatto che una volta tanto lefantasie della moglie avessero peso

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reale.«E le bombe? E i mitragliamenti?

Dio, che coraggio» fece la signora.«Allora qual è la frase?» spiò

impaziente il preside.«Quando Lisetta scrive alla signora

che lui le ha fatto sapere che, dopo tantotempo che stavano a Vigàta, hannoricevuto l'ordine di partire».

«Non capisco».«Vede, signora, quella frase sta a dirci

che lui si trovava a Vigàta da moltotempo e questo significa, implicitamente,che non era uno del paese. Secondo: fasapere a Lisetta che stava per esserecostretto, obbligato, a lasciare il paese.Terzo: adopera il plurale, e quindi chideve abbandonare Vigàta non è lui

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soltanto, ma un gruppo di persone. Tuttoquesto mi porta a pensare a un militare.Mi sbaglierò, ma mi pare l'indicazionepiù logica».

«Logica» fece il preside.«Mi dica, signora, quando fu che

Lisetta le disse, per la prima volta,d'essersi innamorata, lo ricorda?».

«Sì, perché in questi giorni non hofatto altro che sforzarmi a farmi tornarea mente ogni minuto particolare dei mieiincontri con Lisetta. Fu sicuramenteverso maggio o giugno del '42. Mi sonorinfrescata la memoria con un vecchiodiario che ho ritrovato».

«Ha buttato all'aria la casa» brontolòil marito.

«Bisognerebbe sapere quali presidii

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militari fissi c'erano qui tra l'inizio del'42, e forse anche prima, e il luglio del'43».

«E le pare facile?» fece il preside.«Io, per esempio, me ne ricordo unacaterva, c'erano le batterie contraeree,quelle navali, c'era un treno armato dicannone che stava ammucciato dintrauna galleria, c'erano i militari delquartiere, poi quelli dei bunker... Imarinai no, quelli andavano e venivano.E una ricerca praticamenteimpossibile».

Si sconsolarono. Poi il preside sisusì.

«Vado a telefonare a Burruano. Lui èrimasto sempre a Vigàta, prima, durantee dopo la guerra. Io, invece, a un certo

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momento sfollai».La signora ripigliò a parlare.«Sarà magari stata un'infatuazione, a

quell'età non si sa distinguere, macertamente si è trattato di una cosa seria,tanto seria a costo di farla scappare dacasa, a costo di andare contro suo padreche era un carceriere, almeno così lei micontava».

A Montalbano salì alle labbra unadomanda, non voleva farla, ma l'istintodel cacciatore ebbe la meglio.

«Mi scusi se l'interrompo. Potrebbespecifica... insomma, saprebbe dirmi inche senso Lisetta adoperava questaparola, carceriere? Era gelosia siculaverso la figlia femmina? Ossessiva?».

La signora lo taliò per un attimo,

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abbassò gli occhi.«Guardi, come le dissi, Lisetta era

assai più matura di me, io ero ancorauna bambina. Mi era proibito da miopadre di andare in casa dei Moscato,perciò ci vedevamo a scuola o in chiesa.Lì riuscivamo a stare qualche ora inpace. Parlavamo. E io sto adesso apistiare e ripistiare quello che mi dicevao m'accennava. Credo di non averecapito, allora, parecchie cose...».

«Quali?».«Per esempio, Lisetta, fino a un certo

momento, chiamò suo padre "miopadre", da un certo giorno in poi lochiamò sempre "quell'uomo". Questopuò magari non significare niente.Un'altra volta mi disse: "quell'uomo

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finirà col farmi male, tanto male". Ioallora pensai a un fatto di botte, dilegnate, capisce? Ora mi sorge undubbio terribile sul vero significato diquella frase».

Si fermò, bevve un sorso di tè,ripigliò.

«Coraggiosa, e assai, lo era. Nelricovero, quando cadevano le bombe, etremavamo e piangevamo di scanto, dipaura, era lei che ci faceva coraggio, ciconsolava. Ma per fare quello che hafatto, di coraggio ne avrà avuto bisognoil doppio, sfidare il padre e andarsenesotto i mitragliamenti, arrivare qua efare all'amore con uno che non eramanco il suo zito ufficiale. A quel tempoeravamo diverse dalle diciassettenni

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d'oggi».Il monologo della signora venne

interrotto dal ritorno del preside,agitatissimo.

«Burruano non l'ho trovato, non era incasa. Venga, commissario, andiamo».

«A cercare il ragioniere?».«No, no, m'è venuta un'idea. Se siamo

fortunati, se ci ho inzertato, regalerò aSan Calogero cinquantamila lire allaprossima festa».

San Calogero era un santo nero,adorato dalla gente del paese.

«Se lei ci ha inzertato, altre cinquantace le metto io» fece, pigliatodall'entusiasmo, Montalbano.

«Ma si può sapere dove andate?».«Poi te lo dico» fece il preside.

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«E mi lasciate in trìdici?» insisté lasignora.

Il preside era già fuori della porta,frenetico. Montalbano s'inchinò.

«La terrò io al corrente di tutto».«Ma come cavolo ho fatto a

scordarmi della Pacinotti?» murmuriò ilpreside appena furono in strata.

«Chi è questa signora?» domandòMontalbano. Se l'era raffiguratacinquantenne, tracagnotta. Il preside nonarrispunnì. Montalbano fece un'altradomanda.

«Pigliamo la macchina? Dobbiamoandare lontano?».

«Ca quale lontano? Quattro passi».«Mi vuole spiegare chi è questa

signora Pacinotti?».

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«Ma pirchì la chiama signora? Erauna nave-appoggio, serviva a riparare iguasti che si potevano produrre sullenavi da guerra. Si ancorò al porto versola fine del '40 e non si mosse più. Il suoequipaggio era composto da marinai cheerano magari motoristi, carpentieri,elettricisti, idraulici... Erano tuttipicciotti. Molti di loro, data la lungapermanenza, divennero di casa, finironoper essere come gente del paese. Sifecero le amicizie, si fecero magari lezite. Due si sono sposati con ragazze diqua. Uno è morto, si chiamavaTripcovich, l'altro è Marin, ilproprietario dell'autofficina di piazzaGaribaldi. Lo conosce?».

«È il mio meccanico» disse il

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commissario e amaramente pensò cheripigliava il suo viaggio nella memoriadei vecchi.

Un cinquantino in tuta lordissima,grasso e scorbutico, non salutò ilcommissario e aggredì il preside.

«Che viene a perdere tempo qua? Nonè ancora pronta, glielo ho detto che c'eraun lavoro lungo da fare».

«Non sono venuto per l'auto. C'è suopadre?».

«Certo che c'è! Dove vuole che vada?Sta qua a rompermi, a dire che non solavorare, che i genii meccanici dellafamiglia sono lui e suo nipote».

Un ventino magari lui in tuta, chestava a taliare dentro un cofano, sisollevò e salutò con un sorriso i due.

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Montalbano e il preside traversaronol'officina, che in origine doveva esserestata un magazzino, e arrivarono a unaspecie di tramezzo fatto di tavole.

Dentro, darrè una scrivania, c'eraAntonio Marin.

«Ho sentito tutto» disse. «E se l'artritenon m'avesse fottuto, saprei insegnarglil'arte, a quello lì».

«Siamo venuti per un'informazione».«Mi dica, commissario».«È meglio che parli il preside

Burgio».«Si ricorda quante persone

dell'equipaggio della Pacinotti sonorimaste uccise o ferite oppure sono statedichiarate disperse per cause diguerra?».

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«Noi siamo stati fortunati» disse ilvecchio animandosi, evidentementeparlare di quel tempo eroico gli facevapiacere, in famiglia probabilmente glidicevano di smetterla appena attaccavadiscorso sull'argomento. «Abbiamoavuto un morto per una scheggia dibomba, si chiamava Arturo Rebellato;un ferito, sempre per una scheggia, dinome faceva Silvio Destefano, e undisperso, Mario Cunich. Sa, eravamomolto uniti tra di noi, eravamo in granmaggioranza veneti, triestini...».

«Disperso in mare?» spiò ilcommissario.

«Mare? Quale mare? Noi siamorimasti sempre attraccati. Praticamenteeravamo un prolungamento della

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banchina».«Perché allora è stato ritenuto

disperso?».«Perché la sera del sette luglio del '43

non tornò a bordo. Nel pomeriggio c'erastato un violento bombardamento, lui erain libera uscita. Era di Monfalcone,Cunich, e aveva un amico del suo stessopaese, che era pure amico mio, StefanoPremuda. Bene, la mattina dopoPremuda costrinse tutto l'equipaggio acercare Cunich. Per una giornata interadomandammo di lui casa per casa,niente. Andammo all'ospedale militare,a quello civile, andammo nel posto doveraccoglievano i morti trovati sotto lemacerie... Niente. Anche gli ufficiali siunirono a noi, perché qualche tempo

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prima avevamo avuto un preavviso, unaspecie d'allerta, ci dicevano che neigiorni prossimi saremmo dovutisalpare... Non salpammo mai,arrivarono prima gli americani».

«Non può avere semplicementedisertato?».

«Cunich? Ma no! Ci credeva, lui, allaguerra. Era fascista. Un bravo ragazzo,ma fascista. E poi era cotto».

«Che significa?».«Che era cotto, innamorato. Di una

ragazza di qua. Come me, del resto.Diceva che appena finiva la guerra se lasposava».

«Non ne avete avuto più notizie?».«Sa, quando sbarcarono gli americani,

pensarono che una nave-appoggio come

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la nostra, che era un gioiello, gli tornavacomoda. Ci tennero in servizio, in divisaitaliana, ci diedero una fascia cheportavamo al braccio a scansod'equivoci. Cunich, per ripresentarsi,aveva tutto il tempo che voleva, ma nonlo fece. Si è volatilizzato. Io sonorimasto in corrispondenza con Premuda,ogni tanto gli domandavo se Cunich s'erafatto vivo, se aveva avuto sue notizie...Niente di niente».

«Lei ha detto che sapeva che Cunichaveva qua la ragazza. Lei l'haconosciuta?».

«Mai».C'era ancora una cosa da domandare,

ma Montalbano si fermò, con una taliàtacedette al preside il privilegio.

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«Le disse almeno il nome?» spiò ilpreside accettando la proposta cheMontalbano generosamente gli avevafatto.

«Sa, Cunich era una persona moltoriservata. Solo una volta mi disse che sichiamava Lisetta».

Che fu? Passò l'angelo e fermò iltempo? Montalbano e il presides'immobilizzarono, poi il commissarioportò una mano al fianco, gli era venutauna fitta violenta, il preside si mise unamano sul cuore e s'appoggiò a unavettura per non cadere. Marin siterrorizzò.

«Che ho detto? Dio mio, che hodetto?».

Appena fòra dall'officina, il preside si

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mise a fare voci d'allegria.«Ci abbiamo inzertato!».E accennò dei passi di danza. Due

persone che lo conoscevano, e losapevano severo e pensoso, sifermarono ammammaloccute. Pigliatosilo sfogo, il preside tornò serio.

«Guardi che abbiamo la promessa aSan Calogero di cinquantamila lire atesta. Non se lo scordi».

«Non me lo scorderò».«Lei lo conosce San Calogero?».«Da quando sono a Vigàta, ogni anno

ho visto la festa».«Questo non significa conoscerlo. San

Calogero è, come dire, uno che non lalascia passare liscia. Glielo dico nel suointeresse».

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«Scherza?».«Per niente. È un santo vendicativo,

facile che gli salta la mosca al naso. Seuno gli promette una cosa, la devemantenere. Se lei, per esempio, se lascampa da un incidente automobilisticoe fa una promissa al santo e poi non lamantiene, può metterci la mano sul focoche le capita un altro incidente e comeminimo ci rimette le gambe. Mi sonospiegato?».

«Perfettamente».«Torniamo a casa, così lei racconta

tutto a mia moglie».«Io?».«Sì, perché io la soddisfazione di

dirle che aveva ragione non glielavoglio dare».

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«Riassumendo» disse Montalbano «lecose possono essere andate così».

Gli piaceva quest'indagine inpantofole, in una casa d'altri tempi,davanti a una tazza di caffè.

«Il marinaio Mario Cunich, che aVigàta è diventato quasi un paesano,s'innamora, ricambiato, di LisettaMoscato. Come avranno fatto aincontrarsi, a parlarsi, lo sa solo Dio».

«Ci ho riflettuto a lungo» disse lasignora. «Ci fu un certo periodo ditempo, mi pare tra il '42 e il marzo, oaprile, del '43 che Lisetta ebbe piùlibertà, perché il padre, per affari, eradovuto andare lontano da Vigàta.L'innamoramento, gli incontri clandestinidovettero certamente essersi resi

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possibili in quel periodo».«S'innamorarono, questo è un fatto»

ripigliò Montalbano. «Poi il ritorno delpadre impedì loro di vedersi. Ci si misemagari di mezzo lo sfollamento. Quindiarrivò la notizia della prossima partenzadi lui... Lisetta scappa, viene qua,s'incontra, non sappiamo dove, conCunich. Il marinaio, per stare il più alungo possibile con Lisetta, non siripresenta a bordo. A un certo punto,mentre i due dormono, vengonoammazzati. E fin qui tutto regolare».

«Come regolare?» si stupì la signora.«Mi scusi, volevo dire che fino a qui

la ricostruzione fila. Ad ammazzarli puòessere stato un innamorato respinto, lostesso padre di Lisetta che li avrà

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sorpresi e si sarà sentito disonorato. Vaa sapere».

«Come, va a sapere?» fece la signora.«Non l'interessa scoprire chi haassassinato quei due poveri picciotti?».

Non se la sentì di risponderle chedell'assassino non gliene importavatanto, quello che l'intrigava era perchéqualcuno, l'assassino stesso forse, sifosse dato carico di spostare i cadaverinella grotta e d'allestire la messinscenadella ciotola, del bùmmolo e del cane diterracotta.

Prima di tornarsene a casa passò daun negozio d'alimentari, s'accattò dueetti di cacio col pepe e una scanata dipane di grano duro. Aveva fatto laprovvista perché era sicuro che non

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avrebbe trovato Livia. Difatti non c'era,tutto era rimasto come quando eranisciùto per andare dai Burgio.

Non ebbe il tempo di posare ilsacchetto sul tavolo, squillò il telefono,era il questore.

«Montalbano, le volevo dire che oggim'ha telefonato il sottosegretario Licalzi.Voleva sapere perché non ho ancorainoltrato una richiesta di promozione perlei».

«Ma che cavolo vuole da me,quello?».

«Io mi sono permesso d'inventare unastoria d'amore, misteriosa, ho detto, nondetto, lasciato intendere... Quello haabboccato, pare che sia un appassionatolettore di rotocalchi rosa. Però ha risolto

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la questione. M'ha detto di scrivere a luiper farle ottenere una consistentegratifica. La richiesta l'ho fatta etrasmessa. La vuole sentire?».

«Mi risparmi».«Peccato, credo d'aver fatto un

piccolo capolavoro».Conzò la tavola, tagliò una consistente

fetta di pane, risquillò il telefono. Nonera Livia, come aveva sperato, maFazio.

«Dottore, ho travagliato tutta la santajurnata per lei. Questo Stefano Moscatonon era cosa da spartirci il pane'nzèmmula».

«Mafioso?».«Proprio proprio mafioso non credo.

Un violento, questo sì. Diverse

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condanne per rissa, violenza,aggressione. Non mi paiono cose dimafia, un mafioso non si fa condannareper minchiate».

«A quando risale l'ultima condanna?».«A11'81, pensi. Aveva un piede nella

fossa e pigliò uno a seggiatespaccandogli la testa».

«Sai dirmi se ha passato in carcerequalche periodo tra il '42 e il '43?».

«E come no. Rissa e ferimento. Dalmarzo '42 al 21 aprile del '43 se n'èstato a Palermo, al carceredell'Ucciardone».

Le notizie che gli aveva dato Fazioresero assai più gustoso il cacio con ilpepe che già di per sé non scherzava.

Ventuno

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Il cognato di Galluzzo raprì il suotelegiornale con la notizia di un graveattentato, chiaramente di stampomafioso, avvenuto alla periferia diCatania. Un commerciante noto e stimatoin città, tale Corrado Brancato,proprietario di un grande magazzino cheriforniva supermercati, aveva deciso diregalarsi un pomeriggio di riposo in unasua villetta appena fuori città. Infilata lachiave nella toppa, aveva spalancato laporta praticamente sul nulla;un'esplosione spaventosa, ottenuta conun ingegnoso marchingegno checollegava l'apertura della porta a unacarica d'esplosivo, aveva letteralmentepolverizzato la villetta, il commerciantee la di lui moglie, signora Tagliafico

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Giuseppa. Le indagini - aggiunse ilgiornalista - si presentavano difficili,dato che il Brancato era incensurato enon risultava in nessun modo implicatoin fatti di mafia.

Montalbano spense il televisore, simise a fischiettare la numero otto diSchubert, l'«Incompiuta». Gli vennebenissimo, azzeccò tutti i passaggi.

Compose il numero di Mimì Augello,sicuramente il suo vice doveva sapernedi più del fatto. Non rispose nessuno.

Finito finalmente di mangiare,Montalbano fece sparire ogni traccia delpasto, lavò accuratamente persino ilbicchiere nel quale aveva bevuto tre ditadi vino. Si spogliò, pronto per andare acurcàrisi, quando sentì un'auto che si

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fermava, delle voci, uno sbattere disportelli, l'automobile che ripartiva.Velocissimo, s'infilò tra le lenzuola,astutò la luce, finse un sonno profondo.Sentì raprirsi e chiudersi la porta dicasa, i passi di lei che a un trattocessarono. Montalbano capì che Livias'era fermata sulla soglia della càmmaradi letto e lo taliàva.

«Non fare il buffone».Montalbano s'arrese, addrumò la luce.«Come hai fatto a capire che facevo

finta?».«Dal respiro. Tu lo sai come respiri

mentre dormi? No. Io invece sì.»«Dove sei stata?».«A Eraclea Minoa e a Selinunte».«Da sola?».

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«Signor commissario, le dirò tutto,confesserò ogni cosa, ma sospenda, percarità, questo terzo grado! M'haaccompagnata Mimì Augello».

Montalbano si fece làido in faccia,puntò un dito minaccioso.

«T'avverto, Livia: Augello ha giàoccupato la mia scrivania, non vorreiche occupasse qualche altra cosa dimio».

Livia s'irrigidì.«Faccio finta di non capire, è meglio

per tutti e due. Io comunque non sono unoggetto di tua proprietà, stronzo d'unsiciliano».

«Va bene, scusami».Andarono avanti a discutere, magari

dopo che Livia si spogliò e si mise a

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letto. Ma, a Mimì, Montalbano eradeciso a non fargliela passare. Si susì.

«Dove vai, ora?»«Telefono a Mimì».«Ma lascialo in pace, non si è

nemmeno sognato di fare qualcosa chepotesse offenderti».

«Pronto, Mimì? Montalbano sono. Ah,sei appena arrivato a casa? Bene. No,no, non ti preoccupare, Livia stabenissimo. Ti ringrazia tanto della bellagiornata che le hai fatto godere. Emagari io ti ringrazio. Ah, Mimì, losapevi che a Catania hanno fatto saltarein aria Corrado Brancato? No, nonscherzo, l'ha detto la televisione. Non nesai niente? Come non ne sai niente? Ah,sì, capisco, tu sei stato tutta la giornata

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fuori. E magari i nostri colleghi diCatania stavano a cercarti per mare eper terra. E anche il questore si saràdomandato dov'eri andato a finire. Checi vuoi fare? Cerca di metterci unapezza. Dormi bene, Mimì».

«Dire che sei una vera carogna, è direpoco» fece Livia.

«Va bene» disse Montalbano che giàerano le tre del mattino. «Riconosco cheè tutta colpa mia, che se resto qua ioagisco, come se tu non esistessi, pigliatodai miei pìnseri. Ci sono troppo abituatoa starmene solo. Andiamo via da qua».

«E la testa dove la lasci?» spiò Livia.«Che significa?».«Che tu la tua testa, con tutto quello

che c'è dentro, te la porti appresso. E

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quindi, inevitabilmente, continui apensare ai fatti tuoi anche se ci troviamoa mille chilometri di distanza».

«Giuro che mi svacanto la testa primadi partire».

«E dove andiamo?».Dato che a Livia gli era pigliata la

botta turistico-archeologica, pensò bened'assecondarla.

«Tu non hai mai visto l'isola diMozia, vero? Facciamo così, questamattina stessa, verso le undici, partiamoper Mazara del Vallo. Ho lì un amico, ilvicequestore Valente che non vedo datempo. Poi proseguiamo per Marsala equindi visitiamo Mozia. Quando ce netorniamo qua a Vigàta, organizziamo unaltro giro».

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Fecero la pace.Giulia, la moglie del vicequestore

Valente, non solo aveva la stessa età diLivia, ma per di più era nata a Sestri. Ledue donne simpatizzarono subito. Unpoco meno simpatica la signora riuscì aMontalbano per via della pastaindegnamente scotta, dello stracottoconcepito da una mente chiaramentemalata, del caffè che manco a bordodegli aerei osavano propinare. Altermine del cosiddetto pranzo, Giuliapropose a Livia di restare con lei incasa, sarebbero uscite più tardi.Montalbano invece seguì il suo amico inufficio. Ad aspettare il vicequestorec'era un omo quarantino, con le basettelunghe e la faccia di siciliano cotta dal

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sole.«Ogni giorno, una storia nuova! Mi

perdoni, signor questore, ma devoparlarle. È importante».

«Ti presento il professor FaridRahman, un amico di Tunisi» feceValente, e poi, rivolto al professore: «Ècosa lunga?».

«Un quarto d'ora al massimo».«Io me ne andrei a visitare il quartiere

arabo» fece Montalbano.«Se m'aspetta» intervenne Farid

Rahman «sarei veramente felice di farleda guida».

«Stammi a sentire» suggerì Valente.«Io lo so che mia moglie non sa fare ilcaffè. A trecento metri da qui c'è piazzaMokarta, t'assetti al bar e te ne bevi uno

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buono. Il professore ti verrà a pigliarelì».

Non ordinò subito il caffè, prima sidedicò a un sostanzioso e profumatopiatto di pasta al forno che lo sollevòdalla cupezza in cui l'aveva sprofondatol'arte culinaria della signora Giulia.Quando Rahman arrivò, Montalbanoaveva fatto sparire le tracce della pastae aveva davanti solo un'innocentetazzina di caffè vacante. Si avviaronoverso il quartiere.

«In quanti siete a Mazara?».«Abbiamo superato il terzo della

popolazione locale».«Ci sono spesso incidenti tra voi e i

mazaresi?».«No, poca cosa, addirittura niente in

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confronto ad altre città. Sa, credo chenoi siamo per i mazaresi come unamemoria storica, un fatto quasi genetico.Siamo di casa. Al-Imam al-Mazari, ilfondatore della scuola giuridicamaghrebina, è nato a Mazara, così comeil filologo Ibn al-Birr che venne espulsodalla città nel 1068 perché gli piacevatroppo il vino. Il fatto sostanziale è peròche i mazaresi sono gente di mare. El'uomo di mare ha molto buonsenso,capisce cosa significa tenere i piedi perterra. A proposito di mare: lo sa che imotopescherecci di qua hannoequipaggio misto, siciliani e tunisini?».

«Lei ha un incarico ufficiale?».«No, Dio ci scampi dall'ufficialità.

Qui tutto va nel migliore dei modi

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perché ogni cosa si svolge in formaufficiosa. Io sono un maestro elementare,ma faccio da tramite tra la mia gente e leautorità locali. Ecco un altro esempio dibuonsenso: un preside ci ha concessodelle aule, noi insegnanti siamo arrivatida Tunisi e abbiamo creato la nostrascuola. Ma il provveditorato,ufficialmente, ignora questa situazione».

Il quartiere era un pezzo di Tunisi,pigliato e portato paro paro in Sicilia. Inegozi erano chiusi perché era venerdì,giornata di riposo, ma la vita, nellestraduzze strette, era lo stesso colorata evivace. Per prima cosa, Rahman gli fecevisitare il grande bagno pubblico, dasempre luogo d'incontri sociali per gliarabi, poi lo guidò a una fumeria, a un

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caffè coi narghilè. Passarono davanti auna specie di magazzino spoglio, c'eraun uomo anziano, l'aria grave, assittatoper terra, con le gambe ripiegate, cheleggeva e commentava un libro. Davantia lui, seduti allo stesso modo, unaventina di ragazzi ascoltavaattentamente.

«È un nostro religioso che spiega ilCorano» disse Rahman e fece perproseguire.

Montalbano lo fermò, posandogli unamano sul braccio. Era colpito daquell'attenzione veramente religiosa inpicciotteddri che, una volta fuori delmagazzino, si sarebbero scatenati invociate e zuffe.

«Cosa gli sta leggendo?».

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«La sura diciottesima, quella dellacaverna».

Montalbano, e non seppe spiegarseneil motivo, avvertì una scossa, leggera,alla spina dorsale.

«Caverna?».«Sì, al-kahf, caverna. La sura dice che

Dio, venendo incontro al desiderio dialcuni giovani che non volevanocorrompersi, allontanarsi dalla verareligione, li fece cadere in un sonnoprofondo all'interno di una caverna. Eperché nella caverna ci fosse sempre ilbuio più completo, Dio invertì il corsodel sole. Dormirono per circatrecentonove anni. Con loro, a dormire,c'era pure un cane, davantiall'imboccatura, in posizione di guardia,

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con le zampe anteriori distese...».S'interruppe, s'era addunato che

Montalbano s'era fatto giamo giamo, cherapriva e chiudeva la bocca come se glimancasse l'aria.

«Signore, che le succede? Si sentemale, signore? Vuole che chiami unmedico? Signore!».

Montalbano era scantato dalla suastessa reazione, si sentiva debole, latesta gli firriava, le gambe gli eranodiventate di ricotta, evidentementerisentiva ancora della ferita edell'operazione. Una piccola follaintanto si stava radunando attorno aRahman e al commissario. Il professorediede alcuni ordini, un arabo scattò etornò con un bicchiere d'acqua, un altro

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arrivò con una seggia di paglia sullaquale obbligò Montalbano, che sisentiva ridicolo, ad assittarsi. L'acqua lorinfrancò.

«Come si dice nella vostra lingua:Dio è grande e misericordioso?».

Rahman glielo disse. Montalbano sisforzò d'imitare il suono delle parole, lapiccola folla rise della sua pronunzia,ma le ripeté in coro.

Rahman divideva un appartamentocon un suo collega più anziano, ElMadani, che in quel momento era incasa. Rahman preparò il tè alla mentamentre Montalbano spiegava le ragionidel suo malessere. Del ritrovamento deidue giovani assassinati al crasticeddru,Rahman ignorava tutto mentre El Madani

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ne aveva sentito parlare.«A me interessa sapere dalla vostra

cortesia» disse il commissario «fino ache punto le cose messe nella grottapossano essere ricondotte a quanto dicela sura. Sul cane, non c'è alcun dubbio».

«Il nome del cane è Kytmyr» fece ElMadani «ma lo chiamano ancheQuotmour. Lo sa? Tra i persiani quelcane, quello della caverna, divenne ilcustode della corrispondenza».

«C'è nella sura una ciotola piena didenaro?».

«No, non c'è la ciotola per lasemplice ragione che i dormienti i soldice l'avevano nelle tasche. Quando sirisvegliano, danno a uno di loro deisoldi perché acquisti il cibo migliore

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che c'è. Hanno fame. Ma l'inviato vienetradito dal fatto che quelle monete nonsolo sono fuori corso, ma adessovalgono una fortuna. E la gente l'inseguefin dentro la caverna proprio allaricerca di quel tesoro: ecco come idormienti vengono scoperti».

«La ciotola però nel caso di cui mioccupo si spiega» disse Montalbano aRahman «perché il ragazzo e la ragazzasono stati deposti nudi nella grotta equindi da qualche parte il denarodoveva essere messo».

«D'accordo» fece El Madani «perònel Corano non è scritto che avesserosete. E quindi il recipiente dell'acqua,rispetto alla sura, è un oggettocompletamente estraneo».

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«Io conosco molte leggende suidormienti» rincarò Rahman «ma innessuna si parla d'acqua».

«Quanti erano nella grotta adormire?».

«La sura si mantiene sul vago, forse ilnumero non conta: tre, quattro, cinque,sei, escluso il cane. Ma è diventataconvinzione comune che i dormientifossero sette, e col cane otto».

«Se le può essere utile, sappia che lasura riprende una leggenda cristiana,quella dei dormienti di Efeso» disse ElMadani.

«C'è anche un dramma egizianomoderno, Ahl al-kahf, cioè la gentedella caverna, dello scrittore Taufik al-Hakim. Lì i giovani cristiani,

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perseguitati dall'imperatore Decio,cadono in un sonno profondo e sirisvegliano ai tempi di Teodosiosecondo. Sono in tre, e con loro c'è ilcane».

«Quindi» concluse Montalbano «chiha messo i corpi nella grotta conoscevacertamente il Corano e magari il drammadi questo egiziano».

«Signor preside? Montalbano sono.La chiamo da Mazara del Vallo e stopartendo per Marsala. Mi perdoni laprescia, ho da spiarle una cosa moltoimportante. Lillo Rizzitano sapeval'arabo?».

«Lillo? Ma quando mai!».«Non può darsi che all'università

l'abbia studiato?».

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«L'escludo».«In che cosa si è laureato?».«In italiano, col professor Aurelio

Cotroneo. Forse l'argomento della tesime lo disse, ma me lo sono scordato».

«Aveva qualche amico arabo?».«Ch'io sappia, no».«C'erano arabi a Vigàta tra il '42 e il

'43?».«Commissario, gli arabi ci sono stati

al tempo della loro dominazione e sonotornati ai nostri giorni, poveracci, noncome dominatori. A quell'epoca non cen'erano. Ma che gli hanno fatto gliarabi?».

Partirono alla volta di Marsala ch'eragià scuro. Livia era contenta e animata,l'incontro con la moglie di Valente le

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aveva fatto piacere. Al primo incrocio,invece di svoltare a destra, Montalbanosvoltò a sinistra, Livia se ne addunòsubito e il commissario fu obbligato auna difficile inversione di marcia. Alsecondo incrocio, forse per simmetriacon lo sbaglio precedente, Montalbanofece tutto l'opposto, invece che andare asinistra, girò a destra, senza che Livia,infervorata nei suoi discorsi, se nerendesse conto. Stupitissimi, siritrovarono a Mazara. Livia esplose.

«Ci vuole una pazienza, con te!».«Ma magari tu potevi addunaritìnni!».«Non mi parlare in siciliano! Sei

sleale, m'avevi promesso prima dipartire da Vigàta che ti saresti svuotatodei pensieri, invece continui a perderti

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dietro alle storie tue».«Scusami, scusami».Stette attentissimo alla prima

mezzorata di strata, poi, a tradimento,tornò il pinsèro: il cane quatrava, laciotola coi soldi quatrava, il bùmmolono. Perché?

Non arriniscì manco a principareun'ipotesi, i fari d'un camionl'abbagliarono, capì che si trovavatroppo spostato rispetto alla suacarreggiata e che l'eventuale scontrosarebbe stato spaventoso. Sterzò alladisperata, intronato dall'urlo di Livia edalla suonata rabbiosa del camion.Ballarono sulla terra di un campoappena arato, poi l'auto s'arrestò,affossata. Non parlarono, non avevano

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niente da dire, Livia respiravapesantemente. Montalbano ebbe scantodi quello che sarebbe successo da lì apoco, appena la sua donna si fossetanticchia ripigliata. Vigliaccamente,mise le mani avanti, sollecitandone lacompassione.

«Sai, non ho voluto dirtelo prima pernon spaventarti, ma il fatto è chedopopranzo mi sono sentito male...».

Poi la facenna si mise tra la tragedia euna pellicola di Stanlio e Ollio. Lamacchina non si cataminò manco con lecannonate, Livia si chiuse in unosprezzante mutismo, Montalbano a uncerto punto desistette dai suoi sforzi pernèsciri dal fosso per timore di fondere ilmotore. S'incollò i bagagli, Livia lo

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seguiva a distanza di alcuni passi. Unautomobilista provò pena per i duederelitti sul ciglio della strata, li portò aMarsala. Lasciata Livia in albergo, andòal commissariato, si fece riconoscere,con l'aiuto d'un agente arrisbigliò unocol carro attrezzi. Tra una storia e l'altra,si curcò allato a Livia, che s'agitava nelsonno, ch'erano le quattro del matino.

VentiduePer farsi perdonare, Montalbano si

propose d'essere affettuoso, pazientesorridente e obbediente. Ci arriniscì,tanto che Livia riacquistò il buonumore,Mozia l'ammaliò, la meravigliò la stradaappena sotto il pelo dell'acqua checongiungeva l'isola alla costa di fronte,l'incantò il pavimento a mosaico d'una

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villa, fatto di ciottoli di fiume bianchi eneri.

«Questo è il tophet» disse la guida«l'area sacra dei fenici. Non c'eranocostruzioni, i riti si svolgevanoall'aperto».

«I soliti sacrifici agli dei?» spiòLivia.

«Al dio» corresse la guida «al dioBaal Hammon. Gli sacrificavano ilprimogenito, lo strangolavano, lobruciavano, infilavano i resti in un vasoche conficcavano nella terra e allato cimettevano una stele. Qui ne sono statetrovate oltre settecento».

«Oddio!» esclamò Livia.«Signora mia, in questo posto non

andava bene ai bambini. Quando

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l'ammiraglio Leptine, mandato daDionisio di Siracusa, conquistò l'isola, imoziani, prima d'arrendersi, scannaronoi loro figli. E così, di sicco o di sacco,era destino che i picciliddri di Mozia sela vedessero tinta».

«Andiamo subito via» disse Livia.«Non mi parlate più di questa gente».

Decisero di partire per Pantelleria evi restarono sei giorni, finalmente senzadiscussioni e litigi. Era il posto giustoperché una notte Livia domandasse:

«Perché non ci sposiamo?».«E perché no?».Stabilirono saggiamente di pensarci

sopra con calma, a rimetterci sarebbestata Livia che avrebbe dovutoallontanarsi dalla sua casa di

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Boccadasse, adattarsi a nuovi ritmi divita.

Appena l'aereo decollò portandosi viaLivia, Montalbano si precipitò a untelefono pubblico, telefonò a Montelusaal suo amico Zito, gli spiò un nome,ebbe in risposta un numero telefonico diPalermo che compose subito.

«Il professor Riccardo Lovecchio?».«Sono io».«È stato il comune amico Nicolò Zito

a farmi il suo nome».«Come sta rosso malpelo? È da tanto

che non lo sento».L'altoparlante che invitava i

passeggeri del volo per Roma a recarsiall'uscita, gli diede un'idea per farsiricevere subito.

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«Nicolò sta bene e la saluta. Sentaprofessore, mi chiamo Montalbano, mitrovo all'aeroporto di Punta Ràisi e ho adisposizione sì e no quattro ore prima dipigliare un altro aereo. Ho necessità diparlare con lei». L'altoparlante ripetél'invito, come se si fosse appattato colcommissario, che aveva bisogno dirisposte e subito.

«Senta, lei è il commissarioMontalbano di Vigàta, quello che hatrovato i due giovani assassinati nellagrotta? Sì? Ma guardi che combinazione!Lo sa che l'avrei cercata uno di questigiorni? Venga a casa mia, l'aspetto, sipigli l'indirizzo».

«Io, per esempio, ho dormito quattrogiorni e quattro notti di fila, senza

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mangiari né vìviri. Al sonno concorserouna ventina di spinelli, cinque scopate euna botta in testa dalla polizia. Era il'68. Mia madre si preoccupò, volevachiamare un medico, mi credeva in comaprofondo».

Il professor Lovecchio aveva l'ariatadi un impiegato di banca, nondimostrava i suoi quarantacinque anni,una piccolissima luce di pazzia glibrillava negli occhi. Marciava a whiskyliscio alle undici del matino.

«Nel mio sonno non c'era niente dimiracoloso» proseguì Lovecchio, «perarrivare al miracolo bisogna superarealmeno vent'anni di dormitina. Nellostesso Corano, nella sura seconda, mipare, è scritto che un tale, nel quale i

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commentatori identificano Ezra, dormìper cent'anni. Il profeta Salili invece sifece vent'anni di sonno, pure lui in unaspelonca, che posto comodo per dormirenon è. Gli ebrei non sono da meno,vantano, nel Talmud gerosolimitano, untale Hammaagel che, dentro la solitagrotta, si fece un sonno di settant'anni. Evogliamo scordarci dei greci?Epimenide, in una caverna, s'arrisbigliòdopo cinquant'anni. Insomma, a queitempi bastava una grotta e un morto disonno perché si compisse il miracolo. Idue giovani scoperti da lei quanto hannodormito?».

«Dal '43 al '94, cinquant'anni».«Tempo perfetto per essere svegliati.

Complicherebbe le sue deduzioni se le

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dicessi che in arabo si usa un solo verboper indicare tanto dormire quantomorire? E che sempre uno stesso verboviene adoperato per risvegliarsi e perrisuscitare?».

«Professore, lei m'incanta quandoparla, ma io devo prendere un aereo, hopochissimo tempo. Perché avevapensato di mettersi in contatto con me?».

«Per dirle di non lasciarsi fottere dalcane. Che il cane pare contraddire ilbùmmolo e viceversa. Mi spiego?»

«Per niente».«Vede, la leggenda dei dormienti non

ha origini orientali, ma cristiane. InEuropa l'introdusse Gregorio di Tours.Parla di sette giovani di Efeso che persfuggire alle persecuzioni anticristiane

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di Decio, si rifugiarono in una grotta e ilSignore li addormentò. La grotta diEfeso esiste, la può trovare riprodottaperfino nell'enciclopedia Treccani. Cicostruirono sopra un santuario che poivenne abbattuto. Ora la leggendacristiana narra che nella grotta c'era unasorgente d'acqua. Quindi i dormienti,appena si risvegliarono, prima bevveroe poi mandarono uno di loro in cerca dicibo. Ma in nessun momento dellaleggenda cristiana, e magari nelle sueinfinite varianti europee, si parla dellapresenza di un cane. Il cane, chiamatoKytmyr, è una pura e sempliceinvenzione poetica di Maometto cheamava tanto gli animali al punto ditagliarsi una manica per non svegliare il

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gatto che vi dormiva sopra».«Mi sto perdendo» disse Montalbano.«Ma non c'è niente da perdersi,

commissario! Volevo semplicementedire che il bùmmolo è stato messo comesimbolo della sorgente che c'era nellacaverna di Efeso. Concludendo: ilbùmmolo, che appartiene quindi allaleggenda cristiana, può convivere colcane, che appartiene all'invenzionepoetica del Corano, solo se si ha unavisione globale di tutte le varianti che lediverse culture vi hanno apportato... Amio parere l'autore della messinscenanella grotta non può essere altro che untale che, per ragioni di studio...».

Come nei fumetti, Montalbano vide lalampadina che si era accesa nel suo

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cervello.Frenò di colpo davanti agli uffici

dell'Antimafia, tanto che il piantones'allarmò e alzò il mitra.

«Sono il commissario Montalbano!»gridò esibendo la patente di guida, laprima cosa che gli era capitatasottomano. Col fiato grosso passò dicorsa davanti a un altro agente chefaceva da usciere.

«Avverta il dottor De Dominicis chesta salendo il commissario Montalbano,presto!».

In ascensore, approfittando ch'erasolo, Montalbano si scompigliò icapelli, allentò il nodo della cravatta,aprì il bottone del colletto. Volevatirarsi magari un pochino la camicia

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fuori dai pantaloni, ma gli parveeccessivo.

«De Dominicis, ci sono!» disseleggermente ansante, chiudendosi laporta alle spalle.

«Dove?» domandò De Dominicis,allarmato dall'aspetto del commissario,susendosi dalla poltrona dorata del suodorato ufficio.

«Se lei è disposto a darmi una mano,io la faccio partecipare a un'inchiestache...».

Si fermò. Si portò una mano allabocca come per impedirsi di continuare.

«Di che si tratta? Almeno unaccenno!».

«Non posso, mi creda, non posso».«Che dovrei fare?».

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«Entro stasera al massimo vogliosapere qual è stato il tema della tesi dilaurea in italiano di Calogero Rizzitano.Il suo professore era un tale Cotroneo,mi pare. Si dev'essere laureato verso lafine del '42. L'oggetto di questa tesi è lachiave di tutto, possiamo dare un colpomortale alla...».

S'interruppe di nuovo, sgriddrò gliocchi, si spiò spaventato:

«Non ho detto niente, eh?».L'agitazione di Montalbano si

comunicò a De Dominicis.«Come si può fare? Gli studenti, a

quell'epoca, dovevano essere a migliaia!Sempre che le carte esistano ancora».

«Ma che dice? Non migliaia, madecine. A quell'epoca, appunto, i giovani

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erano tutti sotto le armi. È una cosafacile».

«Perché allora non se la sbriga lei?».«Mi farebbero sicuramente perdere un

sacco di tempo con la loro burocrazia,mentre a voi spalancano tutte le porte».

«Dove la posso trovare?».«Me ne torno a Vigàta di corsa, non

posso perdere di vista certi sviluppi.Appena ha notizie, mi telefoni. A casa,mi raccomando. In ufficio no, potrebbeesserci una talpa».

Aspettò fino a sera la telefonata di DeDominicis che non arrivò. Però la cosanon lo preoccupò, era certo che DeDominicis avesse abboccato.Evidentemente magari lui non avevatrovato la strada facile.

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La matina appresso ebbe il piacere dirivedere Adelina, la cammarera.

«Perché non ti sei fatta viva in questigiorni?».

«Ca pirchì! Ca pirchì a la signurinanun ci piaci di vidìrimi casa casa quannuc'è iddra».

«Come hai saputo che Livia erapartita?».

«Lu seppi in paisi».Tutti, a Vigàta, sapevano tutto di tutti.«Che mi hai accattato?».«Ci faccio la pasta con le sardi e pi

secunnu purpi alla carrettera».Squisiti, ma micidiali. Montalbano

l'abbracciò.Verso mezzogiorno squillò il telefono

e Adelina, che stava puliziando a fondo

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l'appartamento certo per cancellare letracce del passaggio di Livia, andò arispondere.

«Dutturi, lu voli u dutturiDidumminici».

Montalbano, ch'era assittato nellaveranda a rileggersi per la quinta voltaOggi si vola di Faulkner, si precipitò.Prima di pigliare in mano il ricevitore,stabilì rapidamente un piano d'azioneper levarsi dalle palle De Dominicis unavolta avuta l'informazione.

«Sì? Pronto? Chi è che parla? » fececon voce stanca e delusa.

«Avevi ragione tu, è stato facile.Calogero Rizzitano si è laureato concentodieci il tredici novembre del 1942.Pigliati una penna, il titolo è lungo».

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«Aspetta che trovo qualcosa dascrivere. Tanto, per quello che serve...».

De Dominicis avvertì losmosciamento nella voce dell'altro.

«Che hai?».La complicità aveva fatto passare De

Dominicis dal lei al tu.«Come che ho? E me lo domandi!? Ti

avevo detto che questa rispostam'occorreva entro ieri sera! Ora nonm'interessa più! È andato tutto a puttaneper il tuo ritardo!»

«Prima non ce l'ho fatta credimi».«Va bene, detta».«Uso del maccheronico nella sacra

rappresentazione dei Sette Dormientidi anonimo del Cinquecento. Mi spieghiche c'entra con la mafia un titolo...».

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«C'entra! Altro se c'entra! Solo cheadesso, per colpa tua, non mi serve più,certo che non posso ringraziarti».

Riattaccò ed esplose in un nitrito,altissimo, di gioia. Subito, nella cucina,si sentì un rumore di vetri infranti: per lospavento, ad Adelina doveva esserecaduto qualcosa di mano. Pigliò larincorsa, satò dalla veranda sulla rena,fece un primo cazzicatùmmolo, poi unaruota, un secondo capitombolo, unaseconda ruota. Il terzo cazzicatùmmolonon gli arriniscì e crollò senza sciatosulla sabbia. Adelina si precipitò versodi lui dalla veranda facendo voci:

«Madunnuzza beddra! Pazzo niscì!L'osso du coddru si ruppe!».

Montalbano, per scrupolo verso se

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stesso, si mise in màcchina e andò allabiblioteca comunale di Montelusa.«Cerco una sacra rappresentazione»disse alla direttrice.

La direttrice, che lo conosceva comecommissario, rimase leggermentestrammata, ma non disse niente.

«Tutto quello che abbiamo» fece«sono i due volumi del D'Ancona e i duedel De Bartholomaeis. Questi libri perònon possono essere dati in prestito, lidovrà consultare qui».

La Rappresentazione dei SetteDormienti la rintracciò nel secondovolume dell'antologia di D'Ancona. Eraun testo breve, molto ingenuo. La tesi diLillo doveva essersi sviluppata attornoal dialogo di due dottori eretici che si

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esprimevano in un divertente latinomaccheronico. Ma quello che piùinteressò il commissario fu la lungaprefazione scritta da D'Ancona. In essac'era tutto, la citazione della sura delCorano, il cammino della leggenda neipaesi europei e africani con mutazioni evarianti. Il professor Lovecchio avevaavuto ragione: la sura diciotto delCorano, presa a sé stante, avrebbe finitocol rappresentare un vero rompicapo.Bisognava completarla con leacquisizioni dovute ad altre culture.

«Voglio fare un'ipotesi e avere ilvostro conforto» disse Montalbano cheaveva messo Burgio e signora alcorrente delle ultime scoperte. «Voi duem'avete detto, con estrema convinzione,

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che Lillo considerava Lisetta una sorellaminore e per la quale stravedeva.Giusto?».

«Sì» fecero i due vecchi in coro.«Bene. Vi faccio una domanda. Voi

pensate che Lillo sia stato capace diammazzare Lisetta e il suo giovaneamante?».

«No» dissero i due vecchi senzapensarci un momento.

«Magari io sono della stessaopinione» disse Montalbano «proprioperché è stato Lillo a mettere i duemorti, come dire, in condizioned'ipotetica resurrezione. Chi ammazza,non vuole che le sue vittimeresuscitino».

«Allora?» spiò il preside.

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«Nel caso che Lisetta gli avessedomandato d'ospitarla in una situazioned'emergenza assieme al suo fidanzato,nella villa dei Rizzitano, al Crasto,secondo voi Lillo come si sarebbecomportato?».

La signora non stette a pensarci sopra.«Avrebbe fatto tutto quello che gli

domandava Lisetta».«Allora cerchiamo d'immaginarci

quello che successe in quei giorni diluglio. Lisetta scappa da Serradifalco,arriva fortunosamente a Vigàta,s'incontra con Mario Cunich, il fidanzatoche diserta, o meglio, s'allontana dallasua nave. Ora i due non sanno dovenascondersi, a casa di Lisetta è comeandarsi a infilare nella tana del lupo, è il

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primo posto dove andrà a cercare suopadre. Domanda aiuto a Lillo Rizzitano,sa che non le dirà di no. Questi ospita lacoppia nella villa ai piedi del Crasto,dove vive da solo perché i suoi familiarisono tutti sfollati. Chi ammazza i duegiovani e perché, non lo sappiamo eforse non lo sapremo mai. Ma che Lillosia l'autore del seppellimento nellagrotta su questo non può esserci dubbio,perché segue passo passo tanto laversione cristiana quanto quellacoranica. Nei due casi, i dormienti sirisveglieranno. Che vuole significare,che vuole dirci con quella messinscena?Vuol dirci che i due giovani stannodormendo e che un giorno sisveglieranno o saranno svegliati? O

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forse spera proprio in questo, che ci siaqualcuno in futuro che li scopra, lisvegli. Per un caso, a scoprirli, asvegliarli, sono stato io. Ma, micredano, avrei tanto desiderato nonaddunarmi di quella grotta».

Era sincero, e i due vecchi locapirono.

«Io posso fermarmi qua. Le miepersonali curiosità sono riuscito asoddisfarle. Mi mancano certe risposte,è vero, ma quelle che ho possonobastarmi. Mi potrei fermare, come hodetto».

«A lei possono bastare» disse lasignora Angelina «ma io vorreivedermelo davanti, l'assassino diLisetta».

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«Se lo vedrai, lo vedrai in fotografia»disse ironicamente il preside «perché aquest'ora di notte ci sono novantanoveprobabilità su cento che l'assassino siamorto e sepolto per raggiunti limiti dietà».

«Io mi rimetto a voi» feceMontalbano. «Che faccio? Vado avanti?Mi fermo? Decidete voi, questi omicidinon interessano più niente a nessuno, voisiete forse l'unico legame che i mortihanno con questa terra».

«Io le dico di andare avanti» disse lasignora Burgio sempre attrivita.

«Magari io» s'allineò il preside dopouna pausa.

Arrivato all'altezza di Marinella,invece di fermare e andarsene a casa,

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lasciò che la macchina quasi di suavolontà proseguisse lungo la litoranea.C'era scarso traffico, in pochi minutiarrivò ai piedi della montagna delCrasto. Scese, pigliò la salita cheportava al crasticeddru. A tiro dellagrotta delle armi s'assittò sopra l'erba eaddrumò una sigaretta. Arristò assittatoa taliare il tramonto, mentre la testa glitravagliava: sentiva, oscuramente, cheLillo era ancora vivo, ma come fare ascugnarlo, a stanarlo? Cominciato ascendere lo scuro, s'avviò verso lamacchina e allora l'occhio si fermò sulgrande buco che spirtusava la montagna,l'ingresso della galleria inutilizzata, dasempre sbarrato con tavole e assi.Proprio vicino alla trasuta c'era un

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deposito fatto di bandone e allato duepali che reggevano un cartello. Legambe gli partirono di slancio, primaancora di ricevere l'ordine dalciriveddro. Arrivò affannato, col fiancoche gli doleva per la corsa. Il cartellodiceva: «Impresa costruzioni GaetanoNicolosi & figlio - Palermo - ViaLamarmora, 33 - Appalto per lo scavodi una galleria viabile - Direttore deilavori Ing. Cosimo Zirretta - AssistenteSalvatore Perricone». Seguivano altreindicazioni che a Montalbano noninteressarono.

Si fece un'altra curruta fino allamacchina, partì sparato per Vigàta.

VentitréAll'impresa costruzioni Gaetano

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Nicolosi & figlio di Palermo, di cui siera fatto dare il numero dall'ufficioabbonati, non arrisponnì nessuno. Eratroppo tardi, i locali dell'impresadovevano essere deserti. Montalbano ciprovò e riprovò, perdendoci via via laspiranza. Dopo essersi sfogato con unasequela di santioni, si fece dare ilnumero dell'ingegnere Cosimo Zirretta,supponendo che fosse palermitanomagari lui. C'inzertò.

«Senta, sono il commissarioMontalbano di Vigàta. Come avete fattoper l'esproprio?».

«Quale esproprio?».«Quello dei terreni sui quali passano

la strada e la galleria che stavatefacendo dalle nostre parti».

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«Guardi, non è cosa di miacompetenza. Io mi occupo solo deilavori. O meglio, me ne occupavo fino aquando un'ordinanza non ha fermatotutto».

«Allora con chi dovrei parlare?».«Con qualcuno dell'impresa».«Ho telefonato, non risponde

nessuno».«Allora con il commendatore Gaetano

o con suo figlio Arturo. Quando esconodall'Ucciardone».

«Ah, sì?».«Sì. Concussione e corruzione».«Non ho proprio spiranza?».«Nella clemenza dei giudici, che li

facciano uscire almeno tra cinque anni.Sto scherzando. Senta, potrebbe tentare

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con il legale della ditta, l'avvocato DiBartolomeo».

«Guardi, commissario, che non ècompito dell'impresa occuparsi dell'iterdegli espropri. Spetta al Comune nel cuicircondario è compreso il terreno daespropriare».

«E voi allora che ci state a fare?».«Non sono affari suoi».E l'avvocato riattaccò. Era tanticchia

irritato, Di Bartolomeo: forse il suocompito era quello di parare il culo aiNicolosi padre & figlio dagli imbrogliche facevano, ma stavolta non c'eraarrinisciùto.

L'ufficio si era raprùto da mancocinque minuti che il geometraTumminello si vide comparire davanti il

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commissario Montalbano, il quale nonpareva avere un'ariata calma. PerMontalbano difatti era stata una nottataagitata, non era riuscito a pigliare sonnoe l'aveva passata a leggere Faulkner. Ilgeometra, che aveva un figlio squieto,praticante di picciottazzi, di azzuffatinee motociclette, che magari quella nottenon era tornato a casa, aggiarniò, lemani gli pigliarono a tremare.Montalbano notò la reazione dell'altroalla sua comparsa e gli venne malopinsèro: sbirro era malgrado le buoneletture.

«Questo qui ha quarche fattod'ammucciare».

«C'è cosa?» spiò Tumminello pronto asentirsi dire che suo figlio era stato

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arrestato. Che poi era magari una fortunao il meno peggio: poteva essere statoscannato dai suoi cumpareddri.

«Mi necessita un'informazione. Su unesproprio».

La tensione di Tumminello s'allentòvisibilmente.

«Le è passato lo scanto?» Montalbanonon poté trattenersi dallo spiargli.

«Sì» ammise francamente il geometra.«Sto in pensiero per mio figlio. Stanottenon è rientrato».

«Lo fa spesso?».«Sì, vede, lui frequenta...».«Allora non si preoccupi» tagliò

Montalbano che non aveva tempo daperdere col problema dei giovani. «Mioccorre vedere le carte di vendita o

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d'esproprio dei terreni per lacostruzione della galleria del Crasto. Èroba vostra, no?».

«Sissignora, nostra. Ma è inutilepigliare le carte, sono cose che conosco.Lei mi dica in particolare che vuolesapere».

«Voglio sapere delle terre deiRizzitano».

«Me l'immaginavo» disse il geometra.«Quando ho saputo prima della trovatinadelle armi e poi dei due ammazzati, misono spiato: ma questi posti non sonoquelli dei Rizzitano? E sono andato ataliare le carte».

«E che dicono, le carte?».«Devo fare una premessa. I

proprietari dei terreni che sarebbero

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stati, diciamo così, danneggiati dailavori della strata e della galleria, eranoquarantacinque».

«Eh, Madonna!».«Vede, magari c'è un fazzoletto di

terreno di duemila metri quadrati che,per lascito ereditario, ha cinqueproprietari. La notifica non si può fare inblocco agli eredi, bisogna farlapervenire a ogni singolo. Ottenuto ildecreto prefettizio, offrimmo aiproprietari una cifra bassa, trattandosiper la maggior parte di terreno agricolo.Per Calogero Rizzitano, presuntoproprietario, perché non c'è un pezzo dicarta che stia a dimostrarlo, voglio direche non c'è l'atto di successione e ilpadre è morto intestato, dovemmo fare

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ricorso all'articolo 143 del codice diprocedura civile, quello che riguardal'irreperibilità. Come lei saprà, il 143prevede...».

«Non m'interessa. Quanto tempo faavete fatto questa notifica?».

«Dieci anni».«Quindi dieci anni fa Calogero

Rizzitano risultava irreperibile».«Ma magari dopo! Perché dei

quarantacinque proprietari,quarantaquattro fecero ricorso per lacifra che offrivamo. E lo vinsero».

«Il quarantacinquesimo, quello chenon aveva fatto ricorso, era CalogeroRizzitano».

«Certo. Noi abbiamo accantonato isoldi che gli spettano. Perché, a tutti gli

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effetti, è per noi ancora vivo. Nessunoha richiesto una dichiarazione di mortepresunta. Quando ricompare, si piglia isoldi».

Quando ricompare, aveva detto ilgeometra, ma tutto lasciava supporre cheLillo Rizzitano non avesse nessuna ganadi ricomparire. O, ipotesi probabile, nonfosse più in grado di ricomparire. Ilpreside Burgio e lui stesso stavanodando per scontato che Lillo, raccoltoferito da un camion militare e portatochissà dove la notte del nove luglio, sela fosse scapolata. Ma se non sapevanomanco di che gravità fossero le ferite!Poteva magari essere morto durante ilviaggio o all'ospedale, se pure inospedale l'avevano portato. Perché

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ostinarsi a voler dar corpo a un'ùmmira?Capace che i due morti del crasticeddruerano, al momento del ritrovamento, inmigliori condizioni di quanto da temposi trovasse Lillo Rizzitano. In cinquantae passa anni, mai una parola, un rigo.Niente. Niente magari quando glirequisivano la campagna, gliabbattevano i resti della villetta, le cosedi sua proprietà. I meandri del labirintonel quale aveva voluto entrare oraterminavano davanti a un muro, e forse illabirinto gli stava dimostrandogenerosità, proibendogli di proseguire earrestandolo davanti alla soluzione piùlogica, più naturale.

Leggera, la cena, ma tutto cucinatocon quel tocco che il Signore

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rarissimamente concede agli Eletti.Montalbano non ringraziò la moglie delquestore, si limitò a taliarla con gliocchi di un cane randagio al quale vienefatta una carezza. Poi i due uomini siritirarono nello studio a chiacchierare.L'invito del questore gli era parso unsalvagente ittato a chi stava per annegarenon in un mare in tempesta, ma nellacalma piatta della luffìa, della noia.

Per prima cosa parlarono di Catania econvennero che la comunicazionedell'indagine su Brancato alla questuracatanese aveva ottenuto come primoeffetto l'eliminazione dello stessoBrancato.

«Siamo un colabrodo» disseamaramente il questore «non facciamo

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un passo senza che i nostri avversari losappiano. Brancato ha fatto ammazzareIngrassia che si stava agitando troppo,ma quando quelli che tirano i fili hannosaputo che avevamo nel mirinoBrancato, hanno provveduto adeliminarlo e così la traccia che stavamofaticosamente seguendo è stataopportunamente cancellata».

Era nìvuro, questa storia delle talpedisseminate dovunque lo feriva,l'amareggiava più del tradimento fattoda un suo familiare.

Poi, dopo una lunga pausa durante laquale Montalbano non raprì bocca, ilquestore spiò:

«Come vanno le sue indagini per gliammazzati del crasticceddru?».

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Dal tono della voce del suo superioreil commissario si rese conto che questiconsiderava l'indagine come uno svago,un passatempo concessogli prima ditornare a lavorare su cose più serie.

«Sono riuscito a sapere magari ilnome di lui» disse, a pigliarsi unarivincita sul questore. Il quale sobbalzò,stupito e interessato.

«Lei è formidabile! Mi racconti».Montalbano gli raccontò tutto, persino

la tragediata fatta con De Dominicis, e ilquestore si divertì assai. Il commissarioconcluse con una specie di dichiarazionefallimentare: la ricerca oramai nonaveva più senso, disse, magari perchénessuno poteva avere la certezza cheLillo Rizzitano non fosse morto.

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«Però» disse il questore dopo avercipensato sopra «se c'è la volontà disparire, ci si riesce. Quanti casi ci sonocapitati di gente apparentementescomparsa nel nulla e poi,all'improvviso, eccola lì? Non vorreicitare Pirandello, ma almeno Sciascia.Ha letto il libretto sulla scomparsa delfisico Majorana?».

«Certo».«Majorana, io ne sono persuaso così

come in fondo ne era persuaso Sciascia,ha voluto sparire e c'è riuscito. Non èstato un suicidio, era troppo credente».

«Sono d'accordo».«E poi non è recentissimo il caso di

quel professore universitario romanouscito una mattina da casa e mai più

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ritrovato? L'hanno cercato tutti, polizia,carabinieri, persino i suoi allievi chel'amavano. Aveva programmato la suascomparsa e c'è riuscito».

«È vero» fece Montalbano.Poi rifletté su quello che stavano

dicendo e taliò il suo superiore.«Mi pare che lei stia invitandomi a

continuare, mentre in un'altra occasionem'ha rimproverato d'occuparmi troppodi questo caso». •

«Che c'entra. Oggi lei è inconvalescenza, l'altra volta invece era inservizio. C'è una bella differenza, mipare» rispose il questore.

Tornò a casa, passiò di càmmara incàmmara. Dopo l'incontro col geometra,s'era quasi deciso a lasciar fottere tutto,

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fatto persuaso che Rizzitano fosse belloe catàfero. Invece il questore glieloaveva come risuscitato. I primi cristianinon usavano forse «dormitio» perindicare la morte? Poteva darsibenissimo che Rizzitano si fosse messoin sonno, come dicevano i massoni. Sì,ma se le cose stavano così bisognavatrovare il modo di farlo riemergere dalpozzo profondo dentro il quale s'eraacquattato. Occorreva però qualcosa digrosso, che facesse rumorata granniassai, che ne parlassero i giornali, latelevisione di tutt'Italia. Doveva fare unbotto. Ma quale? Necessitava lasciarperdere la logica, inventarsi unafantasia.

Era troppo presto, le undici, per

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andare a curcàrisi. Si stese sul lettovestito, a leggersi Oggi si vola.

«A mezzanotte della notte scorsa laricerca del corpo di Ruggero Shumann,il pilota da corsa che affondò nel lagonel pomeriggio di sabato, è statadefinitivamente abbandonata da unbiplano a tre posti della forza di circaottanta cavalli che manovrò in modo davolare sull'acqua e ritornare senzaincidenti dopo aver lasciato cadere unacorona di fiori nell'acquaapprossimativamente a tre quarti dimiglio di distanza dal luogo dove sisuppone sia il corpo di Shumann...».

Mancavano pochissime righe allaconclusione del romanzo, ma ilcommissario si ritrovò susùto a mezzo

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del letto, gli occhi spiritati.«È una pazzia» si disse «ma io la

faccio».«C'è la signora Ingrid? Lo so che è

tardi, ma devo parlarle».«Non casa signora. Tu dire, io

scribare».I Cardamone pativano la specialità

d'andarsi a cercare le cammarere inposti dove manco Tristan da Cunhaaveva avuto il coraggio di metterepiede.

«Manau tupapau» fece ilcommissario.

«Niente capire».Aveva citato il titolo di un quadro di

Gauguin, era da escludere che lacammarera fosse polinesiana o di quei

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paraggi.«Tu essere pronta scribare? Signora

Ingrid telefonare signor Montalbanoquando lei tornare casa».

Ingrid arrivò a Marinella ch'erano ledue di notte passate, in abito da sera, lospacco fino al culo. Non aveva battutociglio alla richiesta del commissario divederla subito.

«Scusami, ma non ho voluto perderetempo a cambiarmi. Sono stata a unricevimento noiosissimo».

«Che hai? Non mi piaci. E soloperché ti sei annoiata al ricevimento?».

«No, hai indovinato. Mio suocero haripreso a darmi fastidio. L'altra mattinaè piombato in camera mia mentre eroancora a letto. Voleva farmi subito. Sono

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riuscita a convincerlo ad andarseneminacciando di mettermi a gridare».

«Allora bisognerà provvedere» dissesorridendo il commissario.

«E come?».«Gli facciamo una seconda dose

d'urto».Sotto la taliata interrogativa d'Ingrid,

raprì un cassetto della scrivania chiuso achiave, pigliò una busta, la pruì alladonna. Ingrid, a vedere le foto che laritraevano mentre veniva scopata dalsuocero, si fece giarna prima e poirossa.

«Sei stato tu?».Montalbano si tirò il paro e lo sparo,

se le diceva ch'era stata una femmina ascattare, capace che Ingrid

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l'accoltellava.«Sì, sono stato io».La timpùlata violenta della svedese

gli fece rintronare la testa ma sel'aspettava.

«Ne ho già mandate tre a tuo suocero,lui s'è scantato e ha smesso per un pezzod'infastidirti. Ora gliene mando altretre».

Ingrid scattò, il suo corpo s'incollò aquello di Montalbano, le sue labbraforzarono quelle dell'uomo, la sua linguaandò a carezzare l'altra. Montalbanosentì che le ginocchia gli diventavano diricotta, fortunatamente Ingrid si scostò.

«Calmo, calmo» disse «tutto passato.Era solo un ringraziamento».

Dietro a tre foto scelte personalmente

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da Ingrid, Montalbano scrisse:«DIMETTITI DA TUTTO O LAPROSSIMA VOLTACOMPARI INTELEVISIONE».

«Le altre me le tengo qua» fece ilcommissario. «Fammi sapere quando tiservono».

«Spero il più tardi possibile».«Domani matino gliele spedisco e in

più gli faccio una telefonata anonimad'accompagno che gli viene l'infarto.Ora stammi a sentire, ti devo contare unastoria lunga. E alla fine ti domanderò didarmi una mano d'aiuto».

Si susì alle sett'albe, perché, dopo cheIngrid era andata via, non eraarrinisciùto a chiudere un occhio. Sitaliò allo specchio, aveva la faccia

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sbattuta, forse peggio di quandol'avevano sparato. Doveva andare allospitàli per una visita di controllo, lotrovarono perfetto, delle cinquemedicine che gli avevano dato glienelasciarono solo una. Poi andò alla Cassadi Risparmio di Montelusa, dove tenevai pochi soldi che riusciva a mettere daparte, domandò un colloquio privato coldirettore.

«Ho bisogno di dieci milioni».«Ce l'ha in conto o vuole un

prestito?».«Ce l'ho».«Allora, scusi, che problema c'è?».«Il problema è che si tratta di

un'operazione di polizia che voglio farecon i soldi miei, senza rischiare soldi

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dello Stato. Se io adesso vado alla cassae domando dieci milioni in biglietti dacentomila, sarebbe una richiesta strana,perciò deve aiutarmi lei».

Comprensivo, e orgoglioso dipartecipare a un'operazione di polizia, ildirettore si fece in quattro.

Ingrid fermò la sua macchina allato aquella del commissario proprio sotto ilcartello che, appena fòra di Montelusa,indicava la superstrada per Palermo.Montalbano le diede la busta gonfia deidieci milioni, lei l'infilò in una borsa asacco.

«Telefonami a casa, appena haicombinato. E non ti fare scippare, miraccomando».

Lei sorrise, gli mandò un bacio sulla

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punta delle dita, mise in moto.A Vigàta si rifornì di sigarette. Mentre

nìsciva dal tabaccaio, vide un grandemanifesto verde a caratteri neri, frescodi colla. Invitava la cittadinanza adassistere alla grande gara di motocrossche si sarebbe tenuta domenica, a partiredalle ore quindici, nella località detta«piana del crasticeddru».

Su questa coincidenza non ci avevaproprio sperato. Vuoi vedere che illabirinto s'era mosso a compassione egli stava aprendo un'altra strada?

VentiquattroLa «piana del crasticeddru», che si

estendeva a partire dallo sperone diroccia, piana non se lo sognava mancodi essere: avvallamenti, cocuzzoli,

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pantani, ne facevano il posto ideale peruna gara di motociclismo campestre. Lagiornata era decisamente un anticipodell'estate e la gente non aspettò le tredel dopopranzo per andare alla piana;anzi arrivò fin dal mattino, con nonnenonni picciliddri picciottedri e tutti conil proposito di godersi, più che la gara,l'occasione di una scampagnata.

In matinata, Montalbano avevatelefonato a Nicolò Zito.

«Ci vieni alla gara di motocross oggidopopranzo?».

«Io? E perché? Da qui abbiamomandato un cronista sportivo e uncameraman».

«No, io dicevo se ci andavamoassieme, tu e io, per divertimento».

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Arrivarono alla piana verso le tre emezzo, che di cominciare la gara mancose ne parlava, c'era però un frastuonoassordante prodotto principalmente daimotori delle motociclette, unacinquantina, che venivano provati eriscaldati e dagli altoparlanti chetrasmettevano a tutto volume musicafracassona.

«Ma da quand'è che t'interessi disport?» spiò Zito meravigliato.

«Ogni tanto mi piglia».Per parlarsi, malgrado fossero

all'aperto, bisognava alzare la voce.Sicché quando il piccolo aereo daturismo che dispiegava a coda il suostriscione pubblicitario apparve altosulla cima del crasticeddru, furono in

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pochi ad addunarisìnni, il rumoredell'aeroplano, quello che faistintivamente isare gli occhi al cielo,non ce la faceva ad arrivare alleorecchie della gente. Forse il pilota capìche così non avrebbe mai attiratol'attenzione. Allora, dopo tre giri strettiattorno alla cima del crasticeddru, puntòverso la piana, sulla folla, picchiandocon eleganza, volò bassissimo sulla testadelle persone. Praticamente obbligò lagente a leggere lo striscione e poiseguirlo con gli occhi mentre, dopo unaleggera cabrata, risorvolava la cimaaltre tre volte, si abbassava fino a quasitoccare terra davanti all'ingressospalancato della grotta delle armi,lasciava cadere una pioggia di petali di

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rosa. La folla ammutolì, tutti pensaronoai due morti del crasticeddru mentrel'aereo virava, tornava di nuovo, rasoterra, lasciando cadere stavolta unamiriade di bigliettini. Poi puntò versol'orizzonte e sparì. Se la scritta sullostriscione aveva sollevato grandecuriosità, dato che non pubblicizzava néuna bibita né una fabbrica di mobili, maportava solo due nomi, Lisetta e Mario,se il lancio dei petali aveva dato unaspecie di brivido al pubblico, la letturadei bigliettini, tutti eguali, lo feceprecipitare in un intreccio animato disupposizioni, ipotesi, un frenetico tirarea indovinare. Che voleva dire: «Lisettae Mario annunziano il loro risveglio»?Partecipazione di nozze non era e non lo

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era manco di battesimo. Allora? Nellaridda di domande, di una cosa sola lagente si fece certa: che l'aereo, i petali, ibigliettini, lo striscione, avevano a chefare coi morti del crasticeddru.

Poi principiarono le gare e la gente sidistrasse, si mise a taliarle. Nicolò Zito,quando l'aereo aveva gettato i petali,aveva detto a Montalbano di nonmuoversi dal suo posto ed era sparito inmezzo alla folla.

Ritornò dopo un quarto d'ora, seguitodal cameraman di «Retelibera».

«Me la concedi un'intervista?».«Volentieri».Fu proprio questa insperata

remissività di Montalbano a confermareal giornalista il sospetto che aveva in

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mente e cioè che in questa storiadell'aereo Montalbano ci fosse dentrofino al collo.

«Abbiamo assistito poco fa, nel corsodei preparativi della gara di motocrossche si sta svolgendo a Vigàta, a un fattostraordinario. Un piccolo aereopubblicitario...».

E qui fece seguire la descrizione diquello ch'era successo.

«Poiché, per un caso fortunato, erapresente il commissario SalvoMontalbano, vogliamo rivolgergliqualche domanda. Secondo lei, chi sonoLisetta e Mario?».

«Potrei sviare la sua domanda» fecepapale papale il commissario «dicendoche non ne so niente, che può trattarsi di

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una coppia di sposi che hanno volutofesteggiare il loro matrimonio in modooriginale. Ma verrei contraddetto dalcontenuto del bigliettino che non parla dimatrimonio ma di risveglio. Rispondoperciò onestamente alla sua domanda:Lisetta e Mario sono i nomi dei duegiovani trovati assassinati dentro lagrotta del crasticeddru, lo sperone diroccia che ci sta davanti».

«Ma che significa tutto questo?».«Io non glielo so dire, bisognerebbe

domandarlo a chi ha organizzato ilvolo».

«Come ha fatto ad arrivareall'identificazione?».

«Per caso».«Può dirci i cognomi?».

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«No. Li conosco, ma non li dirò.Posso rivelare che lei era una giovane diqueste parti e che lui era un marinaiosettentrionale. Aggiungo che chi havoluto in modo così plateale ricordare ilritrovamento dei due corpi, chedefinisce risveglio, s'è dimenticato delcane che pure lui, poverino, aveva unnome; si chiamava Kytmyr, era un canearabo».

«Ma perché l'assassino avrebbe fattoquesta messinscena?».

«Un momento; chi le dice chel'assassino e chi ha fatto la messinscenasiano la stessa persona? Io, per esempio,non lo credo».

«Vado di corsa a montare il servizio»fece Nicolò Zito dopo avergli lanciato

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una strana taliàta.Poi arrivarono quelli di «Televigàta»,

del notiziario regionale della rai, dialtre tv private. A tutte le domandeMontalbano rispose con cortesia e, datoil personaggio, innaturale scioltezza.

Gli era smorcata una fame violenta,all'osteria «San Calogero» si spanzòd'antipasti di mare e poi corse a casa,addrumò il televisore, lo sintonizzò su«Retelibera». Nicolò Zito, nel dare lanotizia del misterioso volo dell'aereo, lapompò a dovere, la gonfiò in tutti i modipossibili. A metterci il carrico da undicinon fu la sua intervista, mandata in ondaintegralmente, quanto l'intervista,inattesa per il commissario, col direttoredell'agenzia «Publiduemila» di Palermo,

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che Zito aveva facilmente rintracciatodato che era l'unica, nella Siciliaoccidentale, a disporre di un aeroplanoper la pubblicità.

Il direttore, ancora chiaramenteemozionato, disse che una giovanedonna bellissima, Gesù che donna!,pareva finta pareva, una sortad'indossatrice come quelle che sivedono nei rotocalchi, Gesù quant'erabella!, chiaramente straniera perchéparlava un cattivo italiano («Ho dettocattivo? Mi sono sbagliato, sulle suelabbra le nostre parole parevanomiele»), no, sulla nazionalità non potevaessere preciso, tedesca o inglese,quattro giorni avanti s'era presentataall'agenzia («Dio! Un'apparizione!») e

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aveva domandato dell'aereo. Avevaspiegato minutamente cosa dovevaesserci scritto sullo striscione e suibigliettini. Sì, era stata lei a volere ipetali di rosa. Ah, in quanto al posto erastata di una minuzia! Precisissima. Ilpilota, di suo, disse il direttore, avevapigliato un'iniziativa: invece di lanciarei bigliettini a casaccio sulla litoranea,aveva preferito lasciarli cadere su unassembramento di folla che seguiva unagara. La signora («Madonna santa,meglio che non ne parlo più, masannòmia moglie m'ammazza!») aveva pagatoin anticipo e in contanti, la fattura sel'era fatta intestare al nome diRosemarie Antwerpen e l'indirizzo eradi Bruxelles. Lui non aveva domandato

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altro alla sconosciuta («Dio!») e poiperché avrebbe dovuto farlo? La donnanon stava domandando di lanciare unabomba! Era così bella! E delicata! Egentile! E come sorrideva! Un sogno.

Montalbano se la godè. Glielo avevaraccomandato a Ingrid:

«Ti devi fare ancora più bella. Così lepersone, quando ti vedono, noncapiscono più niente».

Sulla misteriosa donna bellissima silanciò «Televigàta», chiamandola«Nefertiti risorta» e costruendo unastoria fantastica che intrecciava lepiramidi al crasticeddru, ma era chiaroche andava a rimorchio delle notiziedate da Nicolò Zito sulla televisioneconcorrente. Magari l'edizione regionale

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della rai s'interessò largamente dellafacenna.

Lo scarmazzo, la rumorata, ilrimbombo che Montalbano avevacercato, lo stava ottenendo, la pinsàtache aveva avuto era risultata giusta.

«Montalbano? Sono il questore. Orora ho appreso la storia dell'aereo. Micongratulo, un'idea geniale».

«Il merito è suo, è stato lei a dirmid'insistere, ricorda? Sto tentando lostanamento del nostro uomo. Se non si favivo entro un tempo ragionevole, vuoldire che non è più tra noi».

«Auguri. Mi tenga informato. Ah,naturalmente ha pagato lei l'aereo?».

«Certo. Confido nella gratificapromessa».

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«Commissario? Sono il presideBurgio. Mia moglie e io siamo ammiratiper la sua iniziativa».

«Speriamo bene».«Ci raccomandiamo, commissario: se

per caso Lillo dovesse farsi vivo, ce lofaccia sapere».

Nel notiziario di mezzanotte, NicolòZito diede più spazio alla notiziafacendo vedere le foto dei due morti delcrasticeddru, zumando e dettagliandosulle immagini.

«Gentilmente concesse dal solerteJacomuzzi» pensò Montalbano.

Zito isolò il corpo del giovane chechiamò Mario, poi quello della giovaneche chiamò Lisetta, mostrò l'aereo chelasciava cadere i petali di rosa e quindi

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fece un primo piano dello scritto suibigliettini. Da qui principiò a tessereuna storia tanto misteriosa quantostrappalacrime, che non appartenevaallo stile di «Retelibera» quantopiuttosto a quello di «Televigàta».Perché i due giovani amanti erano statiammazzati? Quale triste destino li avevacondotti a quella fine? Chi li avevacomposti pietosamente nella grotta?Forse la bellissima donna che si erapresentata all'agenzia di pubblicitàrisorgeva dal passato per domandarevendetta in nome degli uccisi? E qualilegami c'erano tra la bellissima e i dueragazzi di cinquant'anni prima? Chesenso aveva la parola «risvegliati»?Perché il commissario Montalbano era

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stato in grado persino di dare un nome alcane di terracotta? Cosa sapeva delmistero?

«Salvo? Sono Ingrid. Spero che tu nonabbia pensato che io me ne sia scappatacon i tuoi soldi».

«Ma figurati! Perché, te ne sonorimasti?».

«Sì, è costato meno della metà deldenaro che m'avevi dato. Il resto ce l'hoio e te lo restituirò appena torno aMontelusa».

«Da dove telefoni?».«Da Taormina. Ho incontrato uno.

Tornerò tra quattro o cinque giorni. Sonostata brava? È andato tutto come volevitu?».

«Sei stata bravissima. Divertiti».

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«Montalbano? Sono Nicolò. Ti sonopiaciuti i servizi? Ringraziami».

«Di che?».«Ho fatto esattamente quello che

volevi tu».«Io non ti ho domandato niente».«È vero, direttamente no. Solo che

non sono fesso, ho capito che tu voleviche alla storia venisse dato un massimodi pubblicità, presentandola in modo cheappassionasse la gente. Ho detto cose dicui mi vergognerò vita naturai durante».

«Grazie, anche se non so, te lo torno aripetere, il motivo del ringraziamentoche mi domandi».

«Lo sai? Il nostro centralino è statosubissato di telefonate. Il servizioregistrato è stato richiesto dalla RAI,

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dalla Fininvest, dall'Ansa, da tutti igiornali italiani. Hai fatto un bel botto.Ti posso fare una domanda?».

«Certo».«Quanto t'è costato l'affitto

dell'aereo?».Dormì splendidamente, come si dice

dormano gli dei soddisfatti del lorooperato. Aveva fatto il possibile emagari l'impossibile, ora non c'era cheaspettare la risposta, il messaggio erastato lanciato, in modo tale che qualcunone decifrasse il codice, per dirla conAlcide Maraventano. La primatelefonata la ricevette alle sette delmattino. Era Luciano Acquasanta del«Mezzogiorno» che voleva essereconfortato in una sua opinione. Non era

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possibile che i due giovani fossero statisacrificati nel corso di un rito satanico?

«Perché no?» disse cortese epossibilista Montalbano.

La seconda arrivò un quarto d'oradopo. La teoria di Stefania Quattrinidella rivista «Essere donna» era cheMario, mentre faceva all'amore conLisetta, era stato sorpreso da un'altradonna gelosa - si sa come sono imarinai, no? - che aveva fatto fuori tuttie due. Poi se n'era scappata all'estero,ma in punto di morte s'era confidata conla figlia la quale, a sua volta, avevarivelato a sua figlia la colpa dellanonna. La ragazza, per riparare inqualche modo, era andata a Palermo -parlava con accento straniero, no? - e

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aveva combinato la faccenda dell'aereo.«Perché no?» disse cortese e

possibilista Montalbano.L'ipotesi di Cosimo Zappala, del

settimanale «Vivere!» gli vennecomunicata alle sette e venticinque.Lisetta e Mario, ebbri d'amore e digioventù, usavano, nudi come Adamo edEva, passeggiare per la campagnatenendosi per mano. Sorpresi un bruttogiorno da un reparto di tedeschi inritirata, anche loro ebbri di paura e diferocia, erano stati violentati e uccisi. Inpunto di morte, uno dei tedeschi... E quila storia, curiosamente, si riallacciava aquella di Stefania Quattrini.

«Perché no?» disse cortese epossibilista Montalbano.

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Alle otto tuppiò Fazio che, come gliera stato ordinato la sera avanti, gliportò tutti i quotidiani che arrivavano aVigàta. Mentre continuava a risponderealle telefonate, li sfogliò. Tutti, conmaggiore o minore evidenza riportavanola notizia. Il titolo che più lo divertì, eraquello del «Corriere». Diceva così:Commissario identifica cane diterracotta morto cinquant'anni fa. Tuttofaceva brodo, magari l'ironia.

Adelina si meravigliò di non trovarlofòra di casa, come sempre accadeva.

«Adelina, a casa resterò qualchegiorno, aspetto una telefonata importantequindi tu cerca di rendermi confortevolel'assedio».

«Non ci capii niente di quello che

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disse».Montalbano allora le spiegò che

aveva il compito di alleggerirgli lavolontaria reclusione con un soprappiùdi fantasia nella preparazione di pranzoe cena.

Verso le dieci gli telefonò Livia.«Ma che succede? Il telefono dà

sempre occupato!».«Scusami, è che sto ricevendo un

sacco di telefonate per un fatto che...».«Lo conosco, il fatto. Ti ho visto in

televisione. Eri disinvolto, pronto diparola, non parevi tu. Si vede chequando non ci sono stai meglio».

Chiamò Fazio in ufficio per pregarlodi portargli a casa la posta e dicomprare una prolunga per telefono. La

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posta, aggiunse, doveva esserglirecapitata a casa ogni giorno, appenaarrivata. E che passasse parola: a chispiava di lui, dal centralino dell'ufficiodovevano dargli il suo numero privatosenza fare storie.

Non passò un'ora che Fazio arrivò condue cartoline postali senza importanza ela prolunga.

«Che si dice in ufficio?».«Che vuole che si dice? Niente. È lei

che s'attira i fatti grossi, u dutturiAugello invece s'attira minchiate, scippi,piccoli furti, qualche azzuffarina».

«Che significa che m'attiro i fattigrossi?».

«Significa quello che dissi. Memoglieri, presempio, si scanta dei sorci.

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Ebbene, mi deve accrìdiri, se li chiama.Dove va va, arrivano i sorci».

Stava da quarantotto ore alla catenacome un cane, il suo campo d'azione eragrande quanto lo consentiva la lunghezzadella prolunga, perciò non gli eraprimisso né di passiare a ripa di mare nédi farsi una currùta. Il telefono se loportava sempre appresso, magariquando andava nel cesso e ogni tanto,manìa che gli principiò passate leventiquattr'ore, sollevava il ricevitore elo portava all'orecchio per controllarese funzionava. Alla mattina del terzogiorno gli venne un pinsèro:

«Che ti lavi a fare se poi non puoinèsciri?».

Il pinsèro successivo, legato

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strettamente al primo, fu:«E allora che necessità c'è di

radersi?».Alla matina del quarto giorno, lordo,

irsuto, con le ciabatte e la camicia maicangiata, fece scantàre Adelina.

«Maria santissima, dutturi, chi cisuccedi? Chi è, malatu?».

«Sì».«Pirchì 'un chiama u medicu?».«La mia malatia unn'è cosa di

medicu».Era un grandissimo tenore, acclamato

in tutto il mondo. Quella sera dovevacantare al teatro dell'Opera del Cairo,quello vecchio ancora non andato afuoco, sapeva benissimo che da lì aqualche tempo le fiamme se lo

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sarebbero mangiato. Aveva domandato aun inserviente d'informarlo appena ilsignor Gegè avesse occupato il suopalco, quinto da destra del secondoordine. Era in costume, avevano finito didare un ritocco al trucco. Sentì il «Chi èdi scena?». Non si mosse, arrivòtrafelato l'inserviente a dirgli che ilsignor Gegè - che non era morto, questosi sapeva, se n'era scappato al Cairo -ancora non s'era visto. Si precipitò inpalcoscenico, taliò in sala attraverso unapiccola apertura nel sipario: il teatro erastracolmo, l'unico palco vuoto era ilquinto da destra del secondo ordine.Allora pigliò una decisione immediata,tornò in camerino, si spogliò delcostume e si rivestì dei suoi abiti,

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lasciando intatto il trucco, una lungabarba grigia, folte e bianchesopracciglia. Nessuno l'avrebbe piùriconosciuto e quindi non avrebbe piùcantato. Capiva benissimo che la suacarriera era finita, che avrebbe dovutoarrangiarsi per sopravvivere, ma nonsapeva che farci: senza Gegè non potevacantare. Si svegliò in un bagno disudore. Aveva combinato a modo suo unclassico sogno freudiano, quello delpalco vuoto. Che voleva dire? Chel'inutile attesa di Lillo Rizzitano gliavrebbe rovinato l'esistenza?

«Commissario? Sono il presideBurgio. È da un pezzo che non cisentiamo. Ha notizie del comuneamico?».

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«No».Monosillabico, rapido, a costo

d'apparire scortese. Bisognavascoraggiare le lunghe telefonate o quelleinutili, se Rizzitano si decideva,trovando occupato capace che ciripensava.

«Io penso che ormai l'unico modo checi resta per parlare con Lillo, miperdoni la battutaccia, è far ricorso altavolino a tre gambe».

Fece una grande sciarra con Adelina.La cammarera era da poco trasùta nellacucina che la sentì fare voci. Poi se lavide comparire in càmmara di letto.

«Vossia non mangiò né aieri amezzujorno né aieri sira!».

«Non avevo pititto, Adelì».

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«Io m'ammazzo di travaglio a fàriccicose 'nguliate e vossia le sdegna!».

«Non le sdegno, ma te l'ho detto: mifaglia il pititto».

«E po' chista casa diventò un purcile!Vossia 'un voli ca lavo 'n terra, 'un volica lavo i robbi! Havi cinco jorna ca siteni la stissa cammisa e li stessimutanni! Vossia feti!».

«Scusami, Adelina, vedrai ca mipassa».

«E allura mi lu fa sapiri quannu cipassa, e iu tornu. Iu pedi ccà 'un cinnimettu cchiù. Quannu si senti bonu, michiama».

Se ne niscì sulla verandina, s'assittòsulla panca, si mise il telefono allato,pigliò a taliare il mare. Non poteva fare

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altro, leggiri, pinsàri, scrìviri, nenti.Taliare il mare. Stava perdendosi, locapiva, nel pozzo senza fondo diun'ossessione. Gli tornò a mente unapellicola che aveva visto, tratta forse daun romanzo di Dùrrenmatt, dove c'era uncommissario che s'ostinava ad aspettareun assassino che doveva passare da uncerto posto di montagna e invece quellonon ci sarebbe passato mai più, ma ilcommissario non lo sapeva, l'aspettava,continuava ad aspettarlo e intantocorrevano i giorni, i mesi, gli anni...

Verso le undici di quella stessamatinata il telefono squillò. Nessunoaveva ancora chiamato dopo latelefonata matutina del preside.Montalbano non sollevò il ricevitore,

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era rimasto come paralizzato. Sapevacon assoluta certezza - e non arriniscìvaa spiegarsi il perché - chi avrebbesentito all'altro capo del filo.

Si fece forza, sollevò il ricevitore.«Pronto? Il commissario

Montalbano?».Una bella voce profonda, magari se

da vecchio.«Sì, sono io» disse il commissario. E

non poté trattenersi dall'aggiungere:«Finalmente!».«Finalmente» ripeté l'altro.Rimasero un attimo in silenzio, ad

ascutare i loro respiri.«Sono arrivato adesso a Punta Ràisi.

Potrò essere da lei a Vigàta per letredici e trenta al massimo. Se è

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d'accordo, mi spieghi con precisionedove m'aspetta. È da molto che mancodal paese. Da cinquantuno anni».

VenticinqueSpolverò, scopò, lavò per terra con la

velocità di certe comiche del cinemamuto. Dopo andò in bagno e si puliziòcome aveva fatto solo un'altra voltanella vita, quando a sedici anni eraandato al primo appuntamento amoroso.Si fece una doccia interminabile,sciaurandosi le ascelle, la pelle dellebraccia, cospargendosi alla fine, ad ognibuon conto, di colonia. Sapeva d'essereridicolo, ma scelse il vestito migliore, lacravatta più seria, spazzolò le scarpesino a farle apparire come se avesserouna lampadina incorporata. Poi gli

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venne l'idea di preparare la tavola, macon un solo posto, lui era sì adessoassugliato da una fame canina, però eracerto di non essere capace d'inghiottire.

Aspettò, interminabilmente aspettò.L'una e mezzo passò e lui si sentì male,ebbe una specie di mancamento. Siversò tre dita di whishy liscio, l'inghiottìdi colpo. Poi, la liberazione: il rumoredi un'auto lungo il vialetto d'accesso. Siprecipitò a spalancare il portoncino.C'era un tassì targato Palermo, nediscese un vecchio molto ben vestito,con un bastone in una mano e nell'altrauna valigetta ventiquattr'ore. Pagò, ementre il tassì faceva manovra, si taliòattorno. Era dritto, la testa alta, mettevauna certa soggezione. Subito a

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Montalbano gli parse d'averlo visto daqualche parte. Gli si fece incontro.

«Qua è tutto case?» spiò il vecchio.«Sì».«Una volta non c'era niente, solo

cespugli e rena e mare». Non si eranosalutati, non si erano presentati. Siconoscevano.

«Sono quasi cieco, vedo con moltadifficoltà» fece il vecchio assittato sullapanchina della veranda «ma qua mi paremolto bello, fa tranquillità».

Solo in quel momento il commissariocapì dove aveva visto il vecchio, nonera lui precisamente ma un suo sosiaperfetto, ritratto in fotografia su unrisvolto di copertina, Jorge Luis Borges.

«Vuole mangiare qualcosa?».

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«Lei è molto gentile» disse il vecchiodopo un'esitazione. «Ma guardi, soloun'insalatina, un pezzetto di formaggiomagro e un bicchiere di vino».

«Venga di là, ho preparato la tavola».«Lei mangia con me?».Montalbano aveva la vucca dello

stomaco serrata, oltretutto provava unastrana commozione. Mentì.

«Ho già pranzato».«Allora, se non le dispiace, può

conzarmi qui?».Conzare, apparecchiare. Rizzitano

disse quel verbo siciliano come unostraniero che si sforzasse di parlare lalingua del posto.

«Mi sono reso conto che lei avevacapito quasi tutto» disse Rizzitano

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mentre mangiava con lentezza «da unarticolo del "Corriere". Sa, io nonriesco più a guardare la televisione,vedo ombre che mi fanno male allavista».

«Magari a me che ci vedo benissimo»disse Montalbano.

«Sapevo però già che Lisetta e Marioerano stati da lei ritrovati. Ho due figlimàscoli, uno è ingegnere, l'altro èprofessore come me, sposati. Ora unadelle mie nuore è leghista arrabbiata,una cretina insopportabile, mi vuolemolto bene, ma mi consideraun'eccezione perché pensa che tutti imeridionali siano dei delinquenti o,nella migliore delle ipotesi, sfaticati.Perciò non manca mai di dirmi: lo sa,

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papà, dalle parti sue - le parti mie siestendono dalla Sicilia a Romacompresa - hanno ucciso questo, hannosequestrato quello, arrestato quell'altro,messa una bomba, hanno trovato dentrouna grotta, proprio nel suo paese, duegiovani assassinati cinquant'anni fa...».

«Ma come?» intervenne Montalbano.«I suoi familiari sanno che lei è diVigàta?».

«Certo che lo sanno, però io non hodetto a nessuno, manco alla buonanimadi mia moglie che avevo ancora delleproprietà a Vigàta. Ho raccontato che imiei genitori e gran parte dei parentierano stati sterminati dalle bombe. Innessun modo potevano collegarmi coimorti del crasticeddru, ignoravano che

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era un pezzo di terra mia. Io però, aquella notizia, m'ammalai, mi venne lafebbre alta. Tutto tornava violentementead essere presente. Le stavo dicendodell'articolo del "Corriere". C'era scrittoche un commissario di Vigàta, lo stessoche aveva trovato i morti, non solo erariuscito a identificare i due giovaniassassinati, ma aveva anche scopertoche il cane di terracotta si chiamavaKytmyr. Allora ebbi la certezza che leiera riuscito a sapere della mia tesi dilaurea. Quindi lei mi stava inviando unmessaggio. Ho perduto tempo perconvincere i miei figli a venire da solo,ho detto che volevo rivedere, prima dimorire, i posti dov'ero nato e vissuto ingioventù».

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A Montalbano questa cosa non locapacitava, ci tornò sopra.

«Quindi tutti, a casa sua, sapevanoche lei era di Vigàta?».

«Perché avrei dovuto nasconderlo? Enon ho mai cambiato nome, non ho maiavuto carte false».

«Vuol dire che lei è riuscito a spariresenza mai voler sparire?».

«Esattamente. Uno viene trovatoquando gli altri hanno veramentebisogno, o intenzione, di trovarlo... Adogni modo, lei mi deve credere se ledico che sono sempre vissuto col mionome e cognome, ho fatto concorsi, li hovinti, ho insegnato, mi sono sposato, hofatto figli, ho nipoti che portano il miocognome. Sono in pensione e la mia

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pensione è intestata a CalogeroRizzitano nato a Vigàta».

«Ma avrà pur dovuto scrivere, che so,al Comune, all'università, per avere idocumenti necessari!».

«Certo, ho scritto e me li hannoinviati. Commissario, non commetta unerrore di prospettiva storica. Nessuno, aquel tempo, mi cercava».

«Lei non ha ritirato manco i soldi cheil Comune le doveva per l'espropriodelle sue terre».

«Questo è il punto. Da trent'anni nonavevo più contatti con Vigàta. Perché,invecchiando, i documenti del paesenatale servono sempre di meno. Maquelli che occorrevano per ricevere ildenaro dell'esproprio, quelli

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diventavano rischiosi. Poteva darsi chequalcuno si fosse ricordato di me. E ioinvece con la Sicilia avevo chiuso dagran tempo. Non volevo - e non voglio -più averci a che fare. Se con unapparecchio speciale mi levassero ilsangue che mi gira dentro, sarei felice».

«Vuole farsi una passiata a ripa dimare?» spiò Montalbano dopo chel'altro aveva finito di mangiare.

Passiavano da cinque minuti, ilvecchio s'appoggiava al bastone mal'altro braccio lo teneva sopra quello delcommissario, quando Rizzitano spiò:

«Mi vuole dire come ha fatto aidentificare Lisetta e Mario? E come hafatto a capire che io c'ero di mezzo? Miscusi, ma a me camminare e parlare

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costa fatica».Mentre Montalbano gli contava tutto,

ogni tanto il vecchio storceva la bocca,come a significare che le cose non eranoandate così.

Poi Montalbano sentì che il peso delbraccio di Rizzitano sul suo s'era fattopiù forte; pigliato dal discorso, non s'eraaddunato che il vecchio era stanco dellapassiata.

«Vuole che rientriamo?».S'assittarono di nuovo sulla panca

della veranda.«Allora» disse Montalbano. «Vuole

dirmi come sono andate esattamente lecose?».

«Certo, sono qui per questo. Mafaccio molta fatica».

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«Cercherò di risparmiargliela.Facciamo così. Io le dirò quello che hoimmaginato e lei mi correggerà sesbaglio».

«D'accordo».«Dunque, un giorno dei primi di luglio

del '43, Lisetta e Mario vengono atrovarla nella sua villa ai piedi delCrasto, dove abita momentaneamentesolo. Lisetta è scappata da Serradifalcoper raggiungere il suo fidanzato, MarioCunich, un marinaio della nave-appoggio Pacinotti, che fra qualchegiorno dovrà salpare...».

Il vecchio alzò una mano, ilcommissario s'interruppe.

«Mi perdoni, le cose non stavanocosì. E io ricordo tutto nei minimi

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particolari. La memoria dei vecchi, piùpassa il tempo, più si fa nitida. Eimpietosa. La sera del sei luglio, versole nove, sentii bussare disperatamentealla porta. Andai ad aprire e mi trovaidavanti Lisetta che era scappata. Erastata violentata».

«Durante il viaggio da Serradifalco aVigàta?».

«No. Da suo padre, la sera avanti».Montalbano non se la sentì di raprìre

bocca.«E questo è solo l'inizio, ancora il

peggio deve venire. Lisetta mi avevaconfidato che suo padre, zio Stefanocome io lo chiamavo, eravamo parenti,ogni tanto si pigliava con lei certelibertà. Un giorno Stefano Moscato,

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ch'era uscito dal carcere ed era sfollatocoi suoi a Serradifalco, scoprì le letteredi Mario indirizzate alla figlia. Le disseche voleva parlarle di una cosaimportante, se la portò in campagna, legettò le lettere in faccia, la picchiò, laviolentò. Lisetta era... non era mai statacon un uomo. Non diede scandalo, era dinervi saldissimi. Il giorno appresso sene scappò, semplicemente, e venne atrovare me che ero per lei più che unfratello. L'indomani mattina andai inpaese per avvertire Mario dell'arrivo diLisetta. Mario arrivò nel primopomeriggio, li lasciai soli e me ne andaia spasso per la campagna. Rincasaiverso le sette di sera, Lisetta era sola,Mario era tornato sulla Pacinotti.

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Cenammo, e poi ci affacciammo a unafinestra a guardare i fuochi d'artificio,così parevano, d'una incursione suVigàta. Lisetta se n'andò a dormire disopra, nella mia camera da letto. Iorimasi giù, a leggere un libro alla luce diun lume a petrolio. Fu allora che...».

Rizzitano s'interruppe, affaticato, tiròun lungo sospiro.

«Vuole un bicchiere d'acqua?».Il vecchio parse non averlo sentito.«...fu allora che sentii qualcuno che da

lontano gridava qualcosa. O meglio,prima m'era sembrato un animale che silamentasse, un cane che ululava. Inveceera zio Stefano, chiamava la figlia. Erauna voce che mi fece aggricciare lapelle, perché era quella, straziata e

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straziante, di un amante crudelmenteabbandonato che animalescamentepativa e gridava il suo dolore, non eraquella di un padre che cercava la figlia.Mi sconvolse. Aprii la porta, c'era buiofitto. Gridai che in casa c'ero solo io,perché veniva a cercare sua figlia dame? Me lo trovai davanti d'improvviso,una catapulta, entrò in casa, un pazzo,tremava, insultava me e Lisetta. Cercaidi calmarlo, mi avvicinai. Mi colpì conun pugno in faccia, caddi all'indietrostordito. Vidi che ora aveva in mano unrevolver, diceva che m'avrebbeammazzato. Commisi un errore, glirinfacciai che voleva sua figlia perviolentarla di nuovo. Mi sparò,mancandomi, era troppo sconvolto.

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Prese meglio la mira, ma in quelmomento esplose un altro sparo. Io, incamera mia, vicino al letto, tenevo unfucile da caccia carico. Lisetta l'avevapreso e, dall'alto della scala, avevasparato al padre. Zio Stefano vennecolpito a una spalla, barcollò, l'arma glicadde di mano. Freddamente, Lisettagl'intimò d'andarsene o l'avrebbe finito.Fui certo che non avrebbe esitato afarlo. Zio Stefano guardò sua figlia alungo negli occhi, poi cominciò amugolare a labbra chiuse, non credosolo per la ferita, girò le spalle, uscì.Sprangai porte e finestre. Ero atterrito efu Lisetta a rincuorarmi, a darmi forza.Restammo barricati pure la mattinadopo. Verso le tre arrivò Mario, gli

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raccontammo quello che era successocon zio Stefano e allora lui decise dipassare la notte con noi, non volevalasciarci soli, certamente il padre diLisetta ci avrebbe ritentato. Versomezzanotte si scatenò su Vigàta unborbardamento terribile, ma Lisettarimase tranquilla perché il suo Marioera con lei. La mattina del nove luglioandai a Vigàta per vedere se la casa cheavevamo in paese stava ancora in piedi.Raccomandai a Mario di non aprire anessuno e di tenere il fucile a portata dimano».

S'interruppe.«Ho la gola secca».Montalbano corse in cucina, tornò con

un bicchiere e una caraffa d'acqua

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fresca. Il vecchio pigliò il bicchiere conle due mani, era scosso da un tremore. Ilcommissario provò una pena acuta.

«Se vuole smettere per un po',ripigliamo dopo».

Il vecchio fece 'nzinga di no con latesta.

«Se smetto, non riprendo più. Rimasia Vigàta fino al tardo pomeriggio. Lacasa non era stata distrutta, ma c'era ungran disordine, porte e finestre divelteper gli spostamenti d'aria, mobili caduti,vetri rotti. Misi in ordine come megliopotevo, lavorai fin quasi sera. Nelportone, non trovai più la bicicletta, mel'avevano rubata. M'avviai a piedi versoil Crasto, un'ora di strada. Dovevocamminare proprio sul ciglio della

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provinciale perché c'era un granmovimento di mezzi militari, italiani etedeschi, nei due sensi. Proprio quandoero arrivato all'altezza della trazzera cheportava alla villa, sbucarono seicacciabombardieri americani cheiniziarono a mitragliare e a spezzonare.Gli aerei volavano bassissimi, facevanoun rumore di tuono. Mi buttai in un fossoe quasi subito venni colpito con granforza alla schiena da un oggetto che sulleprime credetti una grossa pietrascagliata via dallo scoppio d'una bomba.Era invece uno scarpone militare, condentro il piede tranciato poco sopra ilmalleolo. Scattai in piedi, imboccai latrazzera, mi dovetti fermare per dare distomaco. Le gambe non mi reggevano,

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caddi due o tre volte, mentre alle miespalle il rumore degli aereis'affievoliva, più chiaramente s'udivanourla, lamenti, preghiere, ordini tra icamion che bruciavano. Nell'attimo incui mettevo piede nell'ingresso di casamia, al piano di sopra risuonarono duespari, a brevissima distanza l'unodall'altro. Lo zio Stefano - pensai - èriuscito a entrare in casa e ha portato atermine la sua vendetta. Vicino allaporta c'era una grossa sbarra di ferroche ci serviva per sprangarla. La presi,salii senza far rumore. La porta dellamia camera da letto era aperta, un uomo,poco oltre la soglia, teneva ancora inmano il revolver e mi voltava le spalle».

Il vecchio non aveva mai susùto gli

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occhi sul commissario, ora invece lotaliò dritto.

«Secondo lei, ho la faccia d'unassassino?».

«No» disse Montalbano. «E se siriferisce a quello che stava dentro lacamera con l'arma in pugno, si metta ilcuore in pace, lei ha agito in stato dinecessità, per legittima difesa».

«Uno che ammazza un uomo, è sempreuno che ammazza un uomo, queste chelei mi dice sono formule legali perdopo. Quella che conta è la volontà delmomento. E io quell'uomo volliammazzarlo, qualsiasi cosa avesse fattoa Lisetta e a Mario. Alzai la sbarra e glisferrai un colpo alla nuca, con tutte leforze e con la speranza di sfracellargli

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la testa. Cadendo, l'uomo scoprì la vistadel letto. Sopra c'erano Mario e Lisetta,nudi, avvinghiati, in un mare di sangue.Dovevano essere stati sorpresi dalbombardamento vicinissimo alla casamentre facevano all'amore, e si eranoabbracciati in quel modo per la paura.Per loro non c'era niente da fare. Forsequalcosa c'era da fare per l'uomo ch'eraa terra alle mie spalle, rantolava. Con uncalcio lo girai a faccia in alto, era untirapiedi di zio Stefano, un delinquente.Sistematicamente, con la sbarra, gliridussi la testa in poltiglia. Alloraimpazzii. Cominciai a passare da unastanza all'altra, cantando. Lei ha maiammazzato qualcuno?».

«Sì, purtroppo».

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«Dice purtroppo e quindi non haprovato soddisfazione. Io invece più chesoddisfazione, gioia. Ero felice, le hodetto che cantavo. Poi caddi su unasedia, travolto dall'orrore, orrore di me.Mi odiai. Erano riusciti a farmidiventare un assassino e io non ero statocapace di resistere, anzi, ne ero statocontento. Il sangue dentro di me erainfetto, malgrado io avessi cercato dipurificarlo con la ragione, l'educazione,la cultura e tutto quello che vuole lei.Era il sangue dei Rizzitano, di miononno, di mio padre, di uomini di cui inpaese la gente perbene preferiva nonparlare. Come loro e peggio di loro.Poi, nel mio delirio, apparve unapossibile soluzione. Se Mario e Lisetta

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avessero continuato a dormire, tuttoquell'orrore non era mai accaduto. Unincubo, un cattivo sogno. Allora...».

Il vecchio non ce la faceva propriopiù, Montalbano ebbe scanto che gliveniva un colpo.

«Continuo io. Prese i cadaveri dei duegiovani, li portò nella grotta e liricompose».

«Sì, ma a dirlo è facile. Dovettiportarli dentro a uno a uno. Ero esausto,letteralmente inzuppato di sangue».

«La seconda grotta, quella nella qualelei mise i corpi, magari quella era statautilizzata per tenerci i generi da borsanera?».

«No. Mio padre ne aveva chiusol'entrata con dei sassi, a secco. Io li tolsi

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e alla fine li rimisi al loro posto. Pervederci, usai torce a pila, ne avevamotante in campagna. Ora dovevo trovare isimboli del sonno, quelli della leggenda.Per il bùmmolo e la ciotola coi soldi fufacile, ma il cane? A Vigàta, nell'ultimoNatale...».

«So tutto» fece Montalbano. «Il cane,quando si fece l'asta, lo compròqualcuno dei suoi».

«Mio padre. Ma siccome a mammanon piaceva, venne messo in unripostiglio in cantina. Me ne ricordai.Quando finii e chiusi la grotta grandecon il masso a porta, era notte fonda, emi sentii quasi sereno. Lisetta e Marioora dormivano davvero, non erasuccesso niente. Perciò il cadavere che

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ritrovai al piano di sopra nonm'impressionò più, non esisteva, erafrutto della mia immaginazionesconvolta dalla guerra. Poi si scatenò lafine del mondo. La casa vibrava sotto icolpi che cadevano a pochi metri, manon si sentiva rumore di aerei. Erano lenavi, sparavano dal mare. Uscii dicorsa, temevo di restare sotto le maceriese la casa fosse stata colpita.All'orizzonte, pareva stesse spuntando ilgiorno. Cos'era tutta quella luce? Allemie spalle la villa esplose,letteralmente, venni colpito alla testa dauna scheggia e svenni. Quando riaprii gliocchi, la luce all'orizzonte era piùintensa, si sentiva un rombo continuo elontano. Riuscii a trascinarmi sulla

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strada, facevo cenni, gesti, ma nessunautomezzo si fermava. Scappavano tutti.Rischiai d'essere investito da un camion.Frenarono, un soldato italiano mi issò abordo. Da quello che dicevano, capiiche gli americani stavano sbarcando. Lisupplicai di portarmi con loro,dovunque andassero. Lo fecero. Quelloche è accaduto dopo a me non credo leimporti. Sono sfinito».

«Vuole distendersi un poco?».Montalbano dovette quasi portarlo di

peso, l'aiutò a svestirsi.«Le chiedo perdono» disse «d'aver

risvegliato i dormienti, d'avere riportatolei alla realtà».

«Doveva succedere».«Il suo amico Burgio, che m'ha tanto

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aiutato, sarebbe lieto di vederla».«Io no. E se niente lo contrasta, lei

dovrebbe fare come se io non fossi maivenuto».

«Certo, non c'è niente che locontrasti».

«Vuole altro da me?».«Niente. Solo dirle che le sono

profondamente grato per aver risposto almio richiamo».

Non avevano altro da dirsi. Il vecchiotaliò il ralogio che parse infilarselonegli occhi.

«Facciamo così. Io dormo un'oretta,poi mi sveglia, chiama un tassì e vado aPunta Ràisi».

Montalbano accostò gli scuri dellafinestra, s'avviò alla porta.

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«Scusi un momento, commissario».Il vecchio, dal portafoglio che aveva

messo sul comodino, aveva tirato fuoriuna foto e la pruìva al commissario.

«Questa è la mia ultima nipote, hadiciassette anni, si chiama Lisetta».

Montalbano si avvicinò a unospicchio di luce. Se non fosse stato per ijeans che indossava e il motorino alquale s'appoggiava, questa Lisetta eraidentica, una stampa e una figura,all'altra Lisetta. Ridiede la foto aRizzitano. «Mi perdoni ancora, mi portaun bicchiere d'acqua?».

Assittato nella verandina, Montalbanodiede le risposte alle domande che lasua testa di sbirro formulava. Il corpodel sicario, seppure l'avevano ritrovato

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sotto le macerie, sicuramente non erastato possibile identificarlo. I genitori diLillo o avevano creduto che quei restierano quelli del figlio o, secondo laversione del contadino, questi era statoraccolto in fin di vita dai militari. Perònon avendo più dato notizie, erasicuramente morto da qualche parte. PerStefano Moscato quei restiappartenevano al sicario che, dopo avercompiuto l'opera sua, avere cioèammazzato Lisetta, Mario e Lillo eaverne fatto scomparire i corpi, eratornato nella villa per rubare qualcosama era stato dilaniato dalbombardamento. Certo della morte diLisetta, aveva tirato fuori la storia delsoldato americano. Ma il suo parente di

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Serradifalco, quando era venuto aVigàta, non ci aveva creduto e avevainterrotto i rapporti con lui. Ilfotomontaggio gli fece tornare in mentela fotografia che gli aveva mostrato ilvecchio. Sorrise. Le affinità elettiveerano un gioco rozzo a paro degliinsondabili giri del sangue, capace didare peso, corpo, respiro alla memoria.Taliò il ralogio e sobbalzò. L'ora eraampiamente passata. Trasì nellacàmmara di letto. Il vecchio si stavagodendo un sonno sereno, il respirolèggio, l'ariata distesa, calma. Viaggiavanel paese del sonno senza più ingombrodi bagaglio. Poteva dormire a lungo,tanto sul comodino c'erano il portafogliocoi soldi e un bicchiere d'acqua. Si

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ricordò del cane di peluche che avevacomprato a Livia a Pantelleria. Lo trovòsopra il comò, nascosto dietro unascatola. Lo pigliò, lo mise a terra, aipiedi del letto. Poi chiuse adascioadascio la porta alle sue spalle.

Nota dell'autoreL'idea di scrivere questa storia m'è

venuta mentre, per cortesia verso dueallievi registi egiziani, studiavamo inclasse La gente della caverna di Taufikal-Hakim.

Trovo giusto perciò dedicarlo a tutti imiei allievi dell'Accademia nazionaled'arte drammatica «Silvio d'Amico»,dove insegno regia da oltre ventitré anni.

È noioso ripetere, ad ogni libro che sistampa, che fatti, personaggi e situazioni

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sono inventati. Ma pare sia necessariofarlo. Allora, dato che ci sono, voglioaggiungere che i nomi dei mieipersonaggi nascono per divertiteassonanze, senza nessuna volontà dimalizia.