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Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2015-2016 Prof.ssa Silvia Niccolai Capitolo V. Lo stato liberale in Italia e il Fascismo Sommario del capitolo Premessa: Lo stato liberale e la fondazione della dogmatica del diritto pubblico. A.La dottrina liberale dello stato 1.‘Meno società nello Stato’: i principi del governo rappresentativo. 2. La teoria del governo rappresentativo. 3. La forma di governo tipica della concezione liberale dello stato rappresentativo: la monarchia costituzionale (o limitata, o pura). 4. La monarchia costituzionale pura: uno schema dualista a presidio dei poteri del Monarca-potere esecutivo. 5. La funzione delle elezioni nello stato rappresentativo: associare al governo la ‘pars melior’ della società. 6. La svalutazione delle libertà politiche. 7. ‘Meno stato nella società’: lo stato liberale come stato di diritto amministrativo e non interventista nei rapporti economico-sociali. 8. Le libertà ‘negative’. 8. La separazione dei poteri: alla ricerca di un nuovo sistema di pesi e contrappesi. B.Lo stato liberale in Italia Sezione I. La forma di governo. 1. La particolare piegatura, accentuatamente conservatrice, assunta in Italia dalla teoria del governo rappresentativo. 2. Legicentrismo statualista. 3. La forma di governo descritta dallo Statuto albertino: una forma di governo costituzionale pura fortemente sbilanciata a favore del Monarca. 4. Le ‘modificazioni tacite’ dello Statuto albertino: verso la forma di governo parlamentare? 5. La forma di governo: riflesso delle contraddizioni del periodo statutario. 6. La problematica estensione del suffragio e la nascita dei partiti politici di massa. 7. L’ambiguo lasciato di una ‘parlamentarizzazione’ della forma di governo che condusse effettivamente al rafforzamento dell’Esecutivo e alla delegittimazione del Parlamento. Sezione II. La pubblica amministrazione I. L’organizzazione amministrativa. 1. La struttura dell’amministrazione nel periodo statutario. 2. L’amministrazione statale diretta. L’amministrazione statale indiretta. II. L’attività amministrativa. 1. Le attività dell’amministrazione. 2. Gli atti dell’amministrazione. 3. Attività discrezionale e vincolata. III. La giustizia amministrativa. 1. I Tribunali del Contenzioso. 2. Il sistema dei ricorsi gerarchici. 3. Il problema della giustizia amministrativa all’epoca dell’unificazione. 4. Legalità dell’azione amministrativa e giustiziabilità: le aspirazioni dello stato di diritto. 5. La discussione intorno alla giustizia amministrativa in Italia: giudice unico o giudice speciale? 6. Il primo passo verso l’istituzione della giustizia amministrativa: l’abolizione dei Tribunali del Contenzioso. 7. L’impossibile aspirazione al giudice unico. 8. Il riparto di giurisdizioni e la nascita della giustizia amministrativa italiana. 9. L’interesse legittimo. 10. Il processo amministrativo. 11. I vizi dell’atto amministrativo. 12. Da ieri a oggi: il problema della giustizia amministrativa come grande costante del diritto pubblico italiano. IV. La costruzione dogmatica del diritto amministrativo. 105

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Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2015-2016 Prof.ssa Silvia Niccolai

Capitolo V. Lo stato liberale in Italia e il FascismoSommario del capitolo

Premessa: Lo stato liberale e la fondazione della dogmatica del diritto pubblico.

A.La dottrina liberale dello stato

1.‘Meno società nello Stato’: i principi del governo rappresentativo. 2. La teoria del governo rappresentativo. 3. La forma di governo tipica della concezione liberale dello stato rappresentativo: la monarchia costituzionale (o limitata, o pura). 4. La monarchia costituzionale pura: uno schema dualista a presidio dei poteri del Monarca-potere esecutivo. 5. La funzione delle elezioni nello stato rappresentativo: associare al governo la ‘pars melior’ della società. 6. La svalutazione delle libertà politiche. 7. ‘Meno stato nella società’: lo stato liberale come stato di diritto amministrativo e non interventista nei rapporti economico-sociali. 8. Le libertà ‘negative’. 8. La separazione dei poteri: alla ricerca di un nuovo sistema di pesi e contrappesi.

B.Lo stato liberale in Italia

Sezione I. La forma di governo. 1. La particolare piegatura, accentuatamente conservatrice, assunta in Italia dalla teoria del governo rappresentativo. 2. Legicentrismo statualista. 3. La forma di governo descritta dallo Statuto albertino: una forma di governo costituzionale pura fortemente sbilanciata a favore del Monarca. 4. Le ‘modificazioni tacite’ dello Statuto albertino: verso la forma di governo parlamentare? 5. La forma di governo: riflesso delle contraddizioni del periodo statutario. 6. La problematica estensione del suffragio e la nascita dei partiti politici di massa. 7. L’ambiguo lasciato di una ‘parlamentarizzazione’ della forma di governo che condusse effettivamente al rafforzamento dell’Esecutivo e alla delegittimazione del Parlamento.

Sezione II. La pubblica amministrazione I. L’organizzazione amministrativa. 1. La struttura dell’amministrazione nel periodo statutario. 2. L’amministrazione statale diretta. L’amministrazione statale indiretta. II. L’attività amministrativa. 1. Le attività dell’amministrazione. 2. Gli atti dell’amministrazione. 3. Attività discrezionale e vincolata. III. La giustizia amministrativa. 1. I Tribunali del Contenzioso. 2. Il sistema dei ricorsi gerarchici. 3. Il problema della giustizia amministrativa all’epoca dell’unificazione. 4. Legalità dell’azione amministrativa e giustiziabilità: le aspirazioni dello stato di diritto. 5. La discussione intorno alla giustizia amministrativa in Italia: giudice unico o giudice speciale? 6. Il primo passo verso l’istituzione della giustizia amministrativa: l’abolizione dei Tribunali del Contenzioso. 7. L’impossibile aspirazione al giudice unico. 8. Il riparto di giurisdizioni e la nascita della giustizia amministrativa italiana. 9. L’interesse legittimo. 10. Il processo amministrativo. 11. I vizi dell’atto amministrativo. 12. Da ieri a oggi: il problema della giustizia amministrativa come grande costante del diritto pubblico italiano. IV. La costruzione dogmatica del diritto amministrativo. 1. Il provvedimento amministrativo. 2. Soggetti di diritto, capacità giuridica, capacità d’agire. 3. La nozione di ente e organo.

Sezione III. La magistratura 1.L’attività giurisdizionale come mera esecuzione della legge. 2. La mancanza di indipendenza organizzativa della magistratura ordinaria. 3. La dipendenza dal Governo degli uffici del pubblico ministero. 4. Carattere inquisitorio del processo penale. 5. La mancanza di indipendenza interna. 6. La mancanza di indipendenza culturale. 7. Una educazione giuridica ‘scientista’.

Sezione IV. I diritti 1. Le libertà civili. Libertà civili individuali e collettive. 2. Le libertà civili nello Statuto albertino. 3. Il limitato riconoscimento della libertà di stampa. 4. Il silenzio sulla libertà religiosa. 5. Il modestissimo spazio delle libertà civili collettive. 6. Il trattamento repressivo dello sciopero. 7. Il sistema tributario. 8. La legislazione sociale.

Sezione V. Il rapporto dello stato con l’economia. 1.Il doppio movimento. 2. Primo movimento: lo stato rende possibile l’instaurazione dell’economia capitalistica di mercato. 3. Secondo movimento: lo stato limita le libertà del mercato di attingere ai fattori della produzione. 4. Implicazioni della teoria del doppio movimento: a) il riproporsi della opposizione tra economia e diritto, o della ricerca di autonomia dell’economia dal diritto. 5. (continua) b) La dimensione sociale dello stato. 6. (continua) c) La scoperta della rilevanza del ‘patto sociale tra i sessi’ per il governo dell’economia e della società.

Sezione VI. Un bilancio dell’esperienza liberale in Italia

C.Il fascismo

1. L’avvento del fascismo in Italia: continuità col periodo liberale. 2. Fascismo ‘movimento’ e fascismo ‘regime’. 3. Fascismo giuridico (cenno). 4. La forma di governo durante il fascismo. 5. Accentramento nel Governo, espressione del

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Partito nazionale fascista, dei poteri di indirizzo politico. 6. Trasformazione in senso plebiscitario del sistema elettorale. 7. Trasformazione in senso corporativo della rappresentanza. 8. Il fascismo e la pubblica amministrazione.

Premessa: Lo stato liberale e la fondazione della dogmatica del diritto pubblico

Il secolo che intercorre tra il Congresso di Vienna, che nel 1815 restaurò sui loro troni le monarchie spodestate dal vento napoleonico ( e tornò a restaurarvele dopo il 1848), e la prima guerra mondiale, è ricordato come il secolo ‘borghese’: la classe produttiva, imprenditoriale, acquisisce in questo periodo centralità nella direzione della vita pubblica. Per il diritto pubblico, si tratta di un periodo nodale, nel quale si forma una intera ‘dogmatica’, cioè un insieme di concetti, di definizioni, di categorie, ancora oggi in uso, diventate distintive del diritto pubblico e del diritto amministrativo. Queste due discipline giuridiche in quest’epoca conoscono il massimo sviluppo, in parallelo al loro oggetto, che è appunto lo stato.

Lo stato ottocentesco è un’esperienza nodale specialmente sotto il profilo della definizione delle forme di organizzazione e di azione della pubblica amministrazione e della giurisdizione ( è il secolo in cui nasce la ‘giustizia nell’amministrazione’), dell’organizzazione amministrativa del territorio, del rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, tra stato ed economia.

L’enormità di apporti che l’esperienza liberale dà alla formazione delle categorie del diritto pubblico è segnalato dalla pluralità di definizioni con cui i giuristi descrivono lo stato in questo periodo, e che ne mettono in luce altrettante componenti:

- stato rappresentativo,

- stato ‘liberale’

- stato a diritto amministrativo,

- stato di diritto.

Nel corso di questo capitolo ci accosteremo all’esperienza liberale cercando di precisare il senso di queste definizioni, misurando anche le molte contraddizioni che il modello ha conosciuto, particolarmente nella versione accentuatamente conservatrice che ha assunto nel nostro paese e al cospetto degli innumerevoli problemi, primo tra tutti quello della costruzione della unità nazionale, con cui l’esperienza liberale si è svolta da noi.

A. La dottrina liberale dello Stato

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1.“Meno società nello stato”: i principi del governo rappresentativo

La dottrina liberale dello Stato nasce come riflessione intorno a quelli che vennero individuati come gli errori del periodo rivoluzionario. Questi errori erano principalmente due: primo errore: l’avere scalzato le istituzioni tradizionali (la monarchia), ciò che aveva accusato di aver condotto solo a una terribile instabilità (v. il continuo cambiamento delle forme di governo in Francia durante la rivoluzione, e il quarto di secolo di sconvolgimento portato in Europa dalle guerre napoleoniche), instabilità che era stata sia politica, cioè delle istituzioni, sia sociale, essendo state le società investite da profonde trasformazioni generatrici a loro volta di agitazioni, rivolgimenti, crisi e contestazioni: l’instabilità politica apparve una causa di insicurezza. Secondo errore: l’avere prospettato l’idea che la sovranità appartiene al popolo, il che aveva generato divisione (e dunque, di nuovo, instabilità), perché il popolo si divide in fazioni che non sono in grado di trovare quell’accordo, quell’armonia, che rende possibile l’azione ordinata delle istituzioni.

In reazione a questi errori, o considerati tali, la dottrina liberale dello stato punta a restituire alle istituzioni il loro fondamento tradizionale onde realizzarne la autonomia dalla società, in modo che esse possano procedere nella loro azione senza interferenze e condizionamenti. Meno società nello stato è dunque il primo slogan del pensiero liberale, che sorregge la teoria del governo rappresentativo e giustifica la forma di governo monarchico costituzionale.

2.La teoria del governo rappresentativo

Per realizzare e preservare l’autonomia delle istituzioni dalla società il pensiero politico liberale sviluppa la teoria del governo rappresentativo. Il cuore di questa teoria risiede nella affermazione che le istituzioni rappresentano la Nazione, nel senso che ne sono l’espressione, sono il risultato della sua storia, e ne curano gli interessi; ma non nel senso che le istituzioni derivano la loro ragion d’essere e legittimazione dall’essere scelte e orientate dalla nazione stessa. La teoria dello stato rappresentativo traduce in principi di organizzazione politica le preoccupazioni liberali per la stabilità delle istituzioni e per la ricerca della armonia. Come spiegava nel 1894 ai suoi studenti il maggiore giuspubblicista italiano dell’epoca:

“Il governo rappresentativo moderno si propone di curare e attuare l’armonia esterna e costante fra i due elementi essenziali, cioè la coscienza popolare e la tradizione, per mezzo di istituti determinati.

La coscienza popolare è la coscienza collettiva del popolo, un sentimento uniforme che nasce dall’indole giuridica, dai precedenti storici, dalle attuali influenze dell’ambiente in cui un popolo versa.

Le istituzioni politiche sono la risultanza di un processo di adattamento storico, ed hanno per sé quella forza indiscutibile della tradizione, su cui praticamente si forma l’obbedienza politica delle moltitudini”1.

1 V.E. Orlando, Principi di diritto costituzionale, Barbera Editore, Firenze, 1894, p. 50 ss.107

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Nella visione liberale, dunque, “le istituzioni sono frutto della storia e della esperienza di una certa nazione, non sono illimitatamente modificabili, hanno quei caratteri, e non altri, perché così, e non in altro modo, sono state strutturate dalla storia della nazione, dal succedersi delle generazioni2”.

La teoria del governo rappresentativo tenta di rispondere al problema di come dare legittimazione alle istituzioni, un problema che, da un lato, non poteva più essere risolto nei termini in cui lo faceva l’ordine antico, che presupponevano la rappresentanza per ceti, mentre ormai l’eguaglianza giuridica era considerata un dato acquisito; né, dall’altro lato, si intendeva risolvere quel problema nei termini che la Rivoluzione francese aveva reso pensabili, cioè la rappresentanza elettiva a base universale, che presuppone la sovranità popolare. Nell’ordine antico, come sappiamo, il principio di legittimazione era l’accordo tra il Re e il suo popolo, accordo che veniva rappresentato, fatto vivere e mostrato attraverso le procedure che richiedevano il necessario consenso delle assemblee rappresentative degli Stati (dei ceti) alle norme fiscali, e l’interinazione giudiziaria delle altre norme. Nelle assemblee rappresentative di ordine antico i rappresentanti dei ceti votavano secondo un mandato imperativo ricevuto dai soggetti che rappresentavano, e dal quale non potevano discostarsi. La Rivoluzione francese, e prima ancora l’assolutismo, avevano travolto tutto questo. Era emersa l’idea che il Sovrano non ha bisogno dell’accordo del suo Regno per governare; l’alterativa alle tecniche assolutistiche era apparsa una organizzazione repubblicana composta da organi eletti dal popolo, composto ormai di persone tutte portatrici di uno stesso status. Nel periodo della Restaurazione, le monarchie europee non volevano, né potevano, tornare ai modelli di ordine antico, le cui strutture presupponevano la divisione della società in ceti e si associavano a una idea dei poteri del sovrano come molto limitati: estrarre imposte, chiedere aiuto militare, ma per il resto lasciare la società alla sua autoorganizzazione (feudale, cittadina, ecclesiastica, di villaggio). Ormai, l’uguaglianza di status conviveva con una nozione molto più ampia del governo della sfera pubblica, che includeva lo svolgimento di attività molteplici di concreta amministrazione e un’intensa attività normativa. D’altra parte, è chiaro che le monarchie restaurate erano ostili a idee democratiche, tanto più se repubblicane, che erano a loro radicalmente opposte, premevano nel senso che la sovranità apparteneva al popolo e le istituzioni rappresentassero quest’ultimo. Si trattava però, anche, di immaginare un modello di governo che mostrasse di voler evitare la deriva assolutistica, cioè la concentrazione nel sovrano di un potere esclusivo e illimitato: da questo punto di vista le forme organizzative dell’ordine antico, che prevedevano l’affiancarsi al sovrano di un organo rappresentativo della nazione, fornivano un esempio di equilibrio tra poteri a cui la teoria del governo rappresentativo guardò con molto interesse, pur mantenendo fermo però un principio, quello della separazione dei poteri, estraneo come sappiamo alle concezioni ‘miste’ di ordine antico e il cui scopo era garantire supremazia al governo/pubblica amministrazione e subordinazione della giurisdizione.

La teoria del governo rappresentativo tentò dunque di indicare un fondamento del potere sovrano che evitasse sia il ritorno all’ordine antico quanto le aperture democratiche; e di conservare i meccanismi di limitazione del potere propri delle forme di governo ‘miste’ applicandole però in un contesto di separazione dei poteri. Si sostenne così che la Monarchia era legittima in quanto espressione della storia della Nazione; e quest’ultimo concetto (Nazione) venne preferito a quello di popolo. Mentre il termine ‘popolo’ alludeva a un soggetto politico, quello di Nazione rimandava a una entità astratta, una comunità di storia, cultura, tradizioni. D’altra parte, per dimostrare la volontà di non ricadere nelle modalità assolutistiche, le monarchie restaurate accettarono di limitare i propri poteri affiancandosi organi rappresentativi della Nazione, perché parzialmente elettivi o perché espressivi di strati eminenti della società. In questo modo si realizzava l’equilibrio politico che era alla base del sistema liberale, e

2 M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne, Giappichelli, Torino, p. 109.108

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che prevedeva la conquista da parte dei ceti borghesi imprenditoriali e produttivi di un ruolo influente e condizionante nella vita politica, e l’esclusione dei ceti meno elevati da questa funzione.

3.La forma di governo tipica della concezione liberale dello stato rappresentativo: la monarchia costituzionale (o limitata, o pura)

La forma di governo che corrisponde ai principi liberali .dello stato rappresentativo è la monarchia costituzionale pura, o monarchia costituzionale. Qui al monarca (principio tradizionale) viene affiancato un parlamento, composto di solito da due camere, delle quali una elettiva e che partecipa col sovrano all’esercizio della funzione legislativa. La funzione della elezione della Camera è quella di associare al sovrano nella cura degli interessi dello stato quella porzione della popolazione considerata in grado di capire quali sono gli autentici interessi della nazione: vale a dire gli strati elevati.

4. La monarchia costituzionale pura: uno schema dualista a presidio delle prerogative del Monarca- potere esecutivo

Va notato che la forma di governo costituzionale pura è dualista perché il Governo (composto dal Monarca e dal potere esecutivo) non deriva la sua esistenza e permanenza in carica dal Parlamento, né risponde davanti ad esso del modo in cui esercita i propri poteri. Il Sovrano, Capo dello Stato, ha una legittimazione indipendente da quella, parzialmente elettorale, del Parlamento.

Nella teoria delle forme di governo gli aggettivi monista e dualista si riferiscono alla legittimazione degli organi di indirizzo politico, che è la prima condizione che influisce sui possibili rapporti tra questi organi. La legittimazione di un potere, come ormai sappiamo, è la fonte di esso, la sua ragione, l’insieme di motivi che lo giustificano. Quando in una forma di governo c’è un solo organo che ha la legittimazione più forte (sia essa quella dinastica tradizionale o quella democratica di derivare dal popolo) la forma di governo è detta monista e la conseguenza è che quest’organo ha poteri condizionanti sulla esistenza e permanenza in carica e sull’esercizio dei poteri degli altri. Come vedremo, nella forma di governo parlamentare solo il parlamento è eletto direttamente dal popolo, è l’organo che ha la legittimazione più forte ed è l’organo che condiziona, con la propria ‘fiducia’ la permanenza in carica del governo. Perciò la forma di governo parlamentare rientra tra le forme di governo ‘moniste’. Quando invece in una forma di governo ci sono organi, di solito due, che hanno una fonte di legittimazione pari e diversa, la forma di governo è dualista e ciò significa che nessuno dei due organi può condizionare l’esistenza in carica e il modo di esercizio dei poteri dell’altro (esempio nella forma americana “presidenziale” sia il Presidente che il Congresso, e cioè sia il capo dell’esecutivo sia il vertice del legislativo sono eletti dal popolo, hanno la stessa legittimazione, sono pari, e nessuno dei due può influire in modo ultimativo sulla esistenza, durata in carica e scelte dell’altro). Le forme di governo dualiste sono tutte associate all’esigenza di garantire al potere esecutivo al suo organo di vertice (Monarca, Capo dello Stato) non solo indipendenza, ma anche preminenza, rispetto al potere legislativo. Ciò è particolarmente vero quando la parità tra esecutivo e legislativo non ricorre nemmeno del tutto, come accadeva nello statuto albertino, dove il re, se non altro perché compartecipe della funzione legislativa, aveva una posizione particolarmente importante e condizionante.

5.La funzione delle elezioni nello stato rappresentativo: associare la ‘pars melior’ della società alla cura dello stato

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Nella forma di governo costituzionale pura la presenza di una Camera elettiva sta a significare che le istituzioni sono l’espressione della nazione, ma il modo in cui la Camera elettiva è formata ribadisce anche che la nazione non viene guardata come un soggetto politico composto da una pluralità di portatori di interessi diversi, e che ha il ruolo di guidare l’azione delle istituzioni. Il governo rappresentativo si è generalmente legato a sistemi elettorali non universali (e che infatti vengono detti ‘rappresentativi’), in cui il diritto politico di voto veniva limitato ai ceti abbienti, colti, cioè alle persone, come si diceva all’epoca, in grado di rendersi conto dei problemi, di esprimere un voto “consapevole”, o almeno a coloro che, pur non benestanti, ma pur sempre percettori di un certo reddito, sapessero leggere e scrivere, o avessero conseguito almeno l’istruzione elementare.

“La possibilità di dare rappresentanza a una classe sociale è sempre subordinata alla idoneità delle attitudini politiche di essa (…). Dare la rappresentanza a una classe che non abbia la maturità politica necessaria non gioverà ad essa, poiché non saprà servirsene, e nocerà alla vita pubblica3”

6.La svalutazione delle libertà politiche

Il pensiero liberale toglie infatti dal “catalogo dei diritti primari il diritto degli individui di decidere, insieme con altri, sui caratteri fondamentali delle istituzioni” e sul contenuto della loro azione4. Se lo stato fosse in mano al popolo, se cioè le istituzioni fossero mosse da rappresentanti delle diverse fazioni e interessi in cui questo si articola, non si potrebbe curare il bene comune, dicevano i pensatori liberali, non si potrebbe agire nell’interesse generale, e sarebbe la fine dell’unità statale e della convivenza pacifica. Così, secondo i suoi sostenitori, il governo rappresentativo, che legava le istituzioni al popolo ma non voleva farle dipendere dai mutevoli indirizzi di esso, cercava di garantire l’ideale del governo per il popolo, ma intendeva evitare il governo del popolo. La democrazia veniva svalutata sostenendo che in essa il popolo è solo una massa numerica di individui, destinata a esprimere ondivaghe maggioranze. Le istituzioni del governo rappresentativo, si spiegava, guardavano invece al popolo come a un insieme di armonico e coordinato di parti, ciascuna stabilmente inserita nella società con compiti e ruoli diversi, che dovevano essere rappresentate non tutte allo stesso modo, ma ciascuna secondo il suo valore e secondo la funzione che svolge in seno allo stato5.

7.“Meno stato nella società”: lo stato liberale come stato di diritto amministrativo e ‘non interventista’ sui rapporti economico sociali

L’altro slogan che sintetizza le idee di fondo del periodo liberale è “meno stato nella società”. Come sappiamo, rivoluzione e periodo napoleonico avevano dato un grande sviluppo all’amministrazione, che era stata la realizzatrice del disegno assolutista di svuotamento delle autonomie locali, e di ceto. Il pensiero liberale si accorge dunque che la rivoluzione non aveva affatto distrutto, rispetto allo stato assoluto, ma aveva anzi accresciuto, ‘l’azione capillare e disciplinante di un potere amministrativo esteso’6. Molto pensiero liberale era preoccupato di questo, vedendovi il rischio di uno stato dispotico 3 V.E. Orlando, Principi, cit., p. 75-76.

4 M. Fioravanti, Appunti, cit., p. 109

5 V. Miceli, Diritto costituzionale, 2 ed., Società editrice libraria, Milano, 1913, p. 110.

6 M. Fioravanti, Appunti, cit., p. 102.110

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che schiaccia la sfera privata, che indirizza e condiziona le scelte individuali, che si ingerisce nell’economia limitando la libera iniziativa dei singoli. Una delle preoccupazioni tipiche dello stato liberale è infatti quella di controllare l’azione dell’amministrazione e ridurne le dimensioni e le competenze. Nascono da qui le insistenze verso l’introduzione di un controllo di tipo giudiziario sull’azione amministrativa; e verso la predeterminazione per legge delle competenze e tipi di atti dell’amministrazione, che sono i due contenuti propri dello ‘stato di diritto’.

Nonostante le aspirazioni liberali a diminuire il peso dell’amministrazione, ridurne i poteri e riportarla a ‘parità’ coi privati, lo ‘stato di diritto’ non riuscirà mai, come vedremo, nell’Europa continentale, ad assimilare l’amministrazione a un soggetto privato, e si accontenterà di assicurarle un regime di controlli giurisdizionali e un diritto speciale (la giustizia amministrativa, il diritto amministrativo), fortemente derogatorio rispetto al diritto civile.

Così, la formula meno stato nella società assunse, nei fatti, spesso, e in modo estremamente accentuato in Italia, anziché il significato di “meno spazio e potere all’amministrazione”, quello di “minore o nessun intervento dello stato nei rapporti economici e sociali” a scopo redistributivo, cioè allo scopo di correggere gli squilibri e le differenze sociali generate dai rapporti economici; lasciare liberamente dispiegarsi le libertà economiche, a danno della ricerca di una maggiore giustizia sociale.

8.Le libertà negative

Queste premesse fanno sì che concezioni dominanti nel periodo liberale abbiano svalutato le libertà di partecipazione politica e tutte quelle forme di diritti e libertà che, per essere soddisfatti, richiedono azione pubblica (traducendosi in richieste di servizi come l’istruzione o la sanità, o in richieste di norme sull’orario e l’organizzazione del lavoro). Quelle concezioni hanno invece valorizzato tutte quelle libertà per il cui esercizio il singolo non ha bisogno dell’azione pubblica, e per esercitare le quali esso ha anzi bisogno che lo stato si astenga dall’intervenire (la proprietà privata, la libertà personale e di domicilio). Si tratta delle libertà civili individuali, che, appunto perché non richiedono intervento pubblico ma anzi un non-intervento, sono dette anche libertà negative.

9.La separazione dei poteri: alla ricerca di un nuovo sistema di pesi e contrappesi

Come sappiamo, la separazione dei poteri è una formula che contesta il ‘governo misto’ di ordine antico, e che divenne un cavallo di battaglia della Rivoluzione francese, con una peculiare intonazione: quella di ridurre il ruolo del potere giurisdizionale e di garantire immunità della amministrazione dal controllo dei giudici. Poiché lo stato liberale aveva tra i suoi obiettivi (e tra le sue ragioni di legittimazione) la contestazione del potere dispotico e arbitrario, esso si proponeva, invece, di sottoporre alla legge e al controllo del giudice tutte le manifestazioni del pubblico potere, vale a dire gli atti amministrativi. A questo fine era necessario realizzare l’indipendenza della magistratura dal Governo, vertice del potere esecutivo.

Con la sottolineatura dell’esigenza di indipendenza della magistratura, il principio di separazione dei poteri assume, in questo periodo, nuovi significati. Se questo principio, all’epoca del suo affermarsi, aveva in sostanza significato affermare la supremazia dell’amministrazione, ora esso veniva rideclinato come un meccanismo organizzativo che, assicurando a ciascun potere dello stato (esecutivo, legislativo e giudiziario) reciproca indipendenza e una propria sfera di attribuzioni, poteva offrire prestazioni equivalenti a quel sistema di pesi e contrappesi che il governo misto di ordine antico aveva

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realizzato, invece, attraverso la commistione tra le funzioni pubbliche che gli era caratteristica. Mentre i poteri dell’ordine antico riflettevano altrettanti ceti e la frammentazione della sovranità, i nuovi poteri pubblici legislativo, esecutivo e giudiziario erano intesi come articolazioni funzionali dell’unico sovrano – lo stato – e manifestazioni di un’unica sovranità capace però di autolimitazione e controllo grazie alla divisione delle competenze tra i diversi complessi funzionali.

Nelle concezioni liberali, dunque, la separazione dei poteri era molto importante, e con essa l’indipendenza della magistratura: infatti “la funzione giurisdizionale è concepita come garanzia della giustizia nell’applicazione del diritto nei confronti di qualunque soggetto e di qualunque azione, sia privata che pubblica, e se pubblica in special modo, visto che è proprio l’elemento statale, pubblico, che viene configurato e riflettuto nell’esperienza liberale, mentre che la giustizia operasse tra privati era già acquisito nel periodo assolutista7. (Allegretti, p. 486).

Si tratta di aspirazioni che, nello specifico contesto italiano, hanno trovato, come vedremo, realizzazioni molto limitate e deludenti.

B. Lo stato liberale in Italia

Con un giudizio sintetico ma eloquente, Umberto Allegretti sintetizza il bilancio complessivo dell’esperienza liberale in Italia come quello della prevalenza dell’autorità sulla libertà e dunque sulle garanzie. E’ un tratto che, come vedremo, ricorre sia a livello delle concezioni e del funzionamento della forma di governo, che nella organizzazione e azione amministrativa, che nel funzionamento della giustizia, nell’atteggiamento nei confronti dei diritti, dell’economia e del lavoro.

Sezione ILa forma di governo

1.La particolare piegatura, accentuatamente conservatrice, assunta in Italia dalla teoria del governo rappresentativo

Nella giuspubblicistica ottocentesca italiana la teoria del governo rappresentativo ebbe importanti declinazioni aggiuntive8 rispetto a quelle che quella teoria rivestiva nel resto d’Europa. Da noi, la teoria 7 U. Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana, Individualismo e assolutismo nello stato liberale, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 486-

8 Tra i suoi sostenitori va annoverato il Conte Cesare Balbo, intellettuale e uomo politico piemontese, che alla esaltazione di questa concezione dello stato, e della relativa forma di governo, la monarchia costituzionale, che erano i fondamenti dello Statuto albertino, le sole forme politico-istituzionali adatte a suo giudizio all’Italia, dedicò la sua opera Della monarchia rappresentativa in Italia, pubblicata postuma nel 1857-1860. L’introduzione dei principi del governo rappresentativo nell’Europa della Restaurazione gli appare essere stata accompagnata da “un’ebbrezza, una beatitudine, un’aspettazione quasi d’una età dell’oro novella, che aveva invaso tutti i popoli, tutte le condizioni d’uomini, e soprattutto gli scrittori” (p. 113), turbata, ma poi ripristinata, dalla rivoluzione francese del 1848: “L’anno 1848 fu fatale [ai progressi della libertà ordinata] per colpa dei popoli. La colpa, la spinta a rivoluzione, venne anche questa volta di Francia, da quel

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del governo rappresentativo valse a contrastare, durante il Risorgimento, le tesi che immaginavano per l’Italia indipendente una forma repubblicana e/o federale9, e diventò così la formula di governo naturalmente abbinata alla politica di unificazione sotto il Piemonte Sabaudo10 e quella che sembrava imposta dalla necessità di ‘adeguare’ l’Italia all’Europa11. Lo Statuto albertino, infatti, adottava la monarchia costituzionale pura, la forma di governo corrispondente alle teorie del governo rappresentativo.

Va detto peraltro che, pur mantenendosi relativamente salda per tutto l’Ottocento nelle opinioni dominanti, la convinzione di molti sulla opportunità e pregi della monarchia rappresentativa non sarebbe andata esente dalla consapevolezza che in diversi decenni di esperienza pratica lo stato

popolo il quale, dopo aver preteso al primato di potenza un mezzo secolo fa, pretende ora il primato di libertà, e non lo sa vedere che nella libertà quanto più avanzata possibile, ed oltrepassando poi il possibile cade in licenza, e ha di questa sola allora il primato (…) perché è destino di quella lingua più facile, più scritta, più letta che tutte l’altre, di avere più efficacia, più fecondità di bene e di male, che non le altre nazioni e le altre lingue compagne. Al principio del 1848 la Francia aveva la monarchia rappresentativa più bene ordinata, più liberale, e si può dire anche la più democratica dell’Europa continentale; non v’era motivo di rivoluzioni, non di mutazioni costituzionali; potevasi tutt’al più desiderare un miglior ordinamento amministrativo e un ministero nuovo, più intelligente delle condizioni d’Europa; niuno poi, salvo alcuni scrittori ed alcuni settari vi desiderava una repubblica. Ebbene! In tre giorni, una disputa parlamentare che si mutò in moto di piazza, e questo moto di settari che si mutò in moto popolare, diventò rivoluzione universale, parigina, francese, europea. Erano gli ultimi giorni di febbraio: e prima che finisse marzo, al rimbombo di quella rivoluzione francese, si era sollevata Prussia per conquistare più pronte e più vere libertà, i vari Stati di Germania per conquistare più unità nazionale, Austria, la rocca dell’assolutismo, per conquistare finalmente una libertà qualunque; e l’Italia, la più virtuosa allora nei suoi desideri, per la sua indipendenza. Non sono corsi diciotto mesi da allora in poi, e i desideri scomposti di libertà indeterminate ed eccessive sono bene o male repressi in Prussia, negli Stati Germanici, in Austria e in Italia; ingannati i desideri indeterminati e eccessivi di unità nazionale, ed ingannato pur troppo il desiderio giusto e non perituro dell’indipendenza italiana. Ma che resta in ultimo di tali e tante mutazioni e rivoluzioni e controrivoluzioni buone o cattive? Una grande e vera monarchia rappresentativa nuovamente stabilita in Prussia, una nuova e grande in Austria, non so se una, o due, o tre o anche quattro in Italia. Fra tante buone o ree speranze ingannate, una sembra non ingannarsi mai: quella del progresso delle istituzioni rappresentative.” (p. 113-115).

9 “Il sogno delle repubbliche, che accrebbe e accrescerà sempre i moti, le sollevazioni, le rivoluzioni, le piccole e somme illegalità (…) “ è per Balbo eredità del municipalismo, foriero di divisioni territoriali, di disunioni. “Vero è che i sognatori di repubbliche ci trovano un gran rimedio. Non negano che l’idea delle repubbliche, quando si ponesse in pratica, abbia a trar seco il pericolo di qualche divisione o suddivisione territoriale, anche maggiore della presente. Che anzi io crederei che si adattino volentieri sin d’ora a siffatta eventualità; ed ho ragione di credere ch’ei non ripugnino nemmeno ai municipalismi. Ma a queste divisioni presenti o future, quali che sieno per essere, ci trovano poi un rimedio, una panacea universale, od anzi due: le costituenti nazionali, e le confederazioni. (…) Superba Italia! Impazzita all’idea di far da sé, piglia sempre tutto dagli stranieri; ma da parecchi secoli non aveva pigliato dalla Germania se non principi e nessuna istituzione, quando l’anno scorso si mise a pigliare questa stoltezza dell’unità per mezzo di una confederazione nuova di Stati vecchi” (C. Balbo, op. cit., p. 211). Da legittimista qual era, e scrivendo intorno al 1850, Balbo, certamente per motivi di opportunità politica, ammetteva però a parole l’idea dell’Italia unita come federazione di monarchie rappresentative, purché indipendenti” (p. 224) il che valeva a rincarare il concetto per cui repubblica uguale disunione, anarchia e regresso, monarchia uguale armonia, unità e progresso.

10 “Il Piemonte si terrà stretto ai principi suoi, alla Casa di Savoia; rimarrà il palladio della monarchia rappresentativa; della libertà ordinata in Italia; salverà l’Italia dalla repubblica, dalla libertà appassionata e disordinata, dall’isolamento repubblicano in mezzo alle monarchie europee, ed il Piemonte serberà così all’Italia la capacità, la possibilità di riconquistare la sua indipendenza” (C, Balbo, op. cit., p. 218),

11 Nella sua strenua difesa della monarchia rappresentativa come unica forma politica possibile per l’Italia, Balbo si avvale di un argomento che è anche oggi ricorrentissimo: rispetto alle grandi nazioni (“potenze”) europee l’Italia è ‘indietro’, dunque non può che allinearsi a quello che esse fanno, in particolare, per quanto interessava a Balbo, adottare la forma di stato e di governo che esse adottano, la monarchia rappresentativa, appunto. “Senza ambizioni di far meglio e più che l’altre, famiglia di monarchie rappresentative in mezzo alle simili, questo è il sol modo di posare finalmente dalle rivoluzioni vaganti e senza scopo o con iscopi vari e stolti, questo il solo modo di uscire dal periodo di transizione ove

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rappresentativo in Italia aveva dato adito a diversi problemi. E’ una consapevolezza che si affaccia in modo forte verso la fine di questa stagione, ossia nel primo quindicennio del 1900.

Vi fa una tacita ma eloquente allusione un giurista moderato come Vincenzo Miceli quando scrive:

Per funzionare bene [il governo rappresentativo] richiede nel popolo un grado elevato di educazione politica e un vivo interessamento per la cosa pubblica, e da parte dei pubblici poteri richiede una piena conoscenza e un forte sentimento dei propri doveri. Qualora queste condizioni non esistono, essa facilmente degenera, dando luogo ad abusi e corruzioni, ad ingiustizie, che fanno di questa la peggiore delle forme politiche. Corruptio optimi pessima può essere ripetuto a proposito di essa 12

2.Legicentrismo statualista

Il carattere spiccatamente conservatore che le teorie del governo rappresentativo assunsero in Italia è ben illustrato dalle concezioni della legge che da noi si affermarono. Nel governo rappresentativo la legge è il frutto della cooperazione tra Monarca e Camere, esprime la volontà dello stato, non quella del popolo. I giuristi liberali italiani dopo l’unità approfondirono questa visione dedicando grande attenzione alla dimostrazione della tesi per cui la legge non è espressione della volontà del popolo, ma dello Stato, è espressione della Nazione come unità, non delle maggioranze che governano. Essi volevano impedire che dalla superiorità della legge fosse ricavata la conseguenza, di stampo volontarista, per cui la legge è uno strumento di cambiamento della società secondo gli indirizzi politici espressi dal popolo; volevano far convivere la superiorità della legge con un assetto politico fortemente conservatore.

Per far questo, essi guardarono alla cultura germanica. Questa area fu, nell’Ottocento la culla di concezioni del diritto antitetiche a quelle volontariste francesi, e che puntavano invece su una concezione storicista secondo la quale il diritto è l’espressione spontanea e involontaria (dunque necessaria) della comunità, della società e della sua storia. Questo era anche un modo per giungere alla conclusione che ogni Nazione ha il suo diritto, cui i Francesi erano arrivati tramite la affermazione della superiorità della legge, la codificazione e la nazionalizzazione del diritto. Nell’area germanica,

siamo, questo il solo di confermare la libertà, e il solo di conquistare l’indipendenza” (p. 224). E’ interessante che lo stimolo a fare come le altre Nazioni, che sono ‘grandi’, venisse formulato, dal Balbo, mediante una accentuazione dei limiti, delle carenze, della povertà intellettuale, morale e civile d’Italia, il che implicava una svalutazione della sua storia, delle sue istituzioni politiche, delle sue capacità presenti: di questa intonazione retorica che è rimasta ricorrente, e ancora viene usata tutte le volte in cui l’Italia è chiamata, per crescere, per migliorare, a uniformarsi al modello di altri paesi, l’opera di Balbo ci aiuta a scorgere l’intima e probabilmente connaturata implicazione conservatrice. Nella prima metà del secolo, del resto, la adozione di una costituzione rappresentativa era diventata (un po’ come oggi il taglio della spesa pubblica e del welfare, l’austerità finanziaria e le correlative riforme dei sistemi pensionistici o sanitari) una richiesta che le grandi potenze ponevano alle nazioni messe ‘sotto osservazione’, perché considerate preoccupanti in quanto asimmetriche rispetto all’ordine che oggi chiameremmo ‘globale’, e che allora era europeo. Nel suo La fine di un Regno (1907), dedicato alla minuziosa e penetrante descrizione degli ultimi quattro anni del regno borbonico nelle due Sicilie, Raffaele de Cesare fa più di una annotazione nella quale il lettore contemporaneo riconosce nella posizione del Regno delle due Sicilie di allora, nella sua ‘immagine internazionale’, quella di uno ‘stato canaglia’ di oggi: “Francia e Inghilterra chiedevano un trattamento più umano per i detenuti politici e politica più conforme allo spirito del tempo”; nel 1851 Gladstone pubblica le sue lettere sulle prigioni e i prigionieri politici del Napoletano, che hanno eco in tutta Europa; la sollecitazione a Ferdinando II di concedere la costituzione rappresentativa viene avanzata più volte dall’Inghilterra e la Francia, i detenuti politici condannati per il 1848 ed estradati dietro pressione delle potenze straniere, tra i quali Luigi Settembrini e Silvio Spaventa, sono accolti a Londra e poi a New York tra ovazioni pubbliche.

12 V. Miceli, op.cit., p. 117.114

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invece, la concezione nazionale del diritto fu delineata mettendo l’accento più sugli aspetti tradizionali e culturali, che non sulla volontà del legislatore, sulla unificazione del diritto per mezzo dei codici, sull’attivismo dei governanti.

Nella nostra cultura, che era di impianto codicistico alla francese, che aveva uno stato rigidamente accentrato e governato da pochi, la lezione ‘storicista’ germanica venne ricolata in argomenti che andavano ulteriormente a giustificare la supremazia della legge, e la sua indiscutibilità. Si sostenne così nel tardo Ottocento che la legge è l’espressione del diritto, della nazione, della coscienza sociale, onde sottacere il fatto che essa nasceva nell’accordo tra Sovrano e Parlamento e in vista di ben precisi interessi da favorire o ostacolare.

“Nello stato costituzionale moderno e più particolarmente nelle Costituzioni parlamentari, la dichiarazione di una norma giuridica promana dall’approvazione delle Camere rappresentative e dalla sanzione del Capo dello Stato. Tuttavia, malgrado al volgo apparisca il contrario, pure una tale concentrazione di potere non influisce per nulla sull’essenziale portata di esso, la quale non è di creare, ma di riconoscere il diritto. Postulato fondamentale della scienza odierna è che il Diritto è manifestazione naturale e necessaria, così nelle sue origini come nel suo sviluppo, della vita di un popolo, come la lingua, come il pensiero, come l’indole generale di esso. Dalla coscienza popolare in cui il Diritto immediatamente riposa, esso si trasfonde e si elabora nella scienza giuridica che riceve la sanzione solenne dell’autorità dello Stato, e diventa legge”.

Nel nostro assetto conservatore, questi argomenti suonavano nel senso: non pensi il popolo, e il pensiero andava alle masse popolari, ai ceti meno elevati e colti, che la legge sia strumento per cambiare il diritto in nome di esigenze di parti della società, e che da noi si introducano novità come il suffragio universale, il diritto di sciopero o la limitazione dell’orario di lavoro, sol perché vi è chi fa di queste richieste. Tutte queste cose sono contrarie al nostro spirito nazionale, e il legislatore non può certo andare contro di esso. Esso ‘organo dello spirito pubblico’, ‘trova, non crea il diritto’.

3.La forma di governo disegnata dallo Statuto albertino: una monarchia costituzionale pura e fortemente sbilanciata a favore del potere esecutivo

Lo Statuto albertino fu concesso nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia al Regno di Sardegna e con l’unificazione divenne la legge fondamentale del Regno. Esso adottava, come forma di governo, la monarchia costituzionale pura, articolandola sui seguenti principi:

- Lo Stato è retto da un governo monarchico rappresentativo.

- Il Re, la cui persona è detta ‘sacra e inviolabile’, detiene in esclusiva il potere esecutivo, che esercita per potere proprio (prerogativa regia) insieme al proprio gabinetto, ministri e collaboratori che nomina autonomamente e che rispondono solo a lui (recitava lo Statuto albertino: Al re solo appartiene il potere esecutivo. Il Re nomina e revoca i suoi ministri. I ministri sono responsabili). Egli è il Capo Supremo dello Stato, dispone delle forze armate e del potere estero (dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle camere ove l’interesse e la sicurezza dello Stato lo permettano, cioè senza esservi obbligato) e del potere di scioglimento delle Camere.

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- Affiancano il Re due Camere, di cui una nominata dal re (Senato regio, i cui membri sono nominati a vita) e una (Camera dei deputati) elettiva (da un corpo elettorale inizialmente pari al 2% della popolazione) e di durata quinquennale.

- Mentre la funzione esecutiva è prerogativa del Monarca, la funzione legislativa spetta insieme al Re e al Parlamento. Le leggi, deliberate dalle Camere, possono assumere vigore solo se ricevono la sanzione regia, un atto di approvazione non formale ma sostanziale, nel quale si esprimeva appunto la piena con-titolarità da parte del re della funzione legislativa. Affermava lo statuto: Il potere legislativo sarà esercitato collettivamente dal Re e da due Camere. Il Senato e quella dei Deputati. La proposizione delle leggi apparterrà al Re e a ciascuna delle due Camere. Ogni proposta di legge, discussa ed approvata da una Camera, sarà trasmessa all’altra per la discussione e l’approvazione, e poi presentata alla sanzione del Re. Se un progetto di legge è rigettato da uno dei tre poteri legislativi non potrà più essere ripresentato nella medesima sessione.

- Secondo gli auspici della teoria del governo rappresentativo, le Camere non avevano alcun potere di influire sul governo (Monarca+Ministri), che esisteva e seguiva il proprio progetto politico indipendentemente dal bisogno della approvazione del Parlamento e indipendentemente dagli orientamenti di questo rispetto alla sua politica.

- Anche la funzione giurisdizionale ‘emana dal Re’.

Va altresì notato che il Re disponeva di un potere di emanare regolamenti, norme subordinate alla legge e destinate alla sua applicazione, integrazione, esecuzione. In linea di principio, il potere regolamentare del Re-Governo era subordinato alla legge. Tuttavia, la subordinazione dei poteri dell’esecutivo e del re al legislativo non si estendeva però alla sfera di prerogativa regia, nella quale il sovrano poteva prendere decisioni ed emanare atti senza il consenso delle Camere. Siccome si estendeva a tutto ciò che aveva a che fare con l’interesse e la sicurezza dello stato, questa sfera era molto ampia e dai confini elastici.

Dati gli ampi poteri riservati al monarca, è d’uso definire la forma di governo disegnata dallo statuto albertino come una monarchia limitata ‘fortemente sbilanciata a favore del monarca’. Poiché il monarca era il capo del potere esecutivo, e cioè del governo e dell’amministrazione, si può altrettanto bene dire che si trattava di una forma di governo fortemente sbilanciata a favore del potere esecutivo.

4.Le “modificazioni tacite” dello statuto albertino: verso la forma di governo parlamentare?

Secondo ciò che lo Statuto albertino testualmente prevedeva, le Camere non avevano il potere di influire sul Governo, di determinarne la vita o di condizionarne le scelte, di influenzarne l’indirizzo politico13.

13 Nel Parlamento Statutario quando si apriva la legislatura il Re rivolgeva un discorso alle Camere, nel quale raffigurava la sua visione degli obiettivi cui la legislatura si sarebbe dovuta orientare. Le Camere rispondevano con un ‘indirizzo di risposta’ cioè una mozione che accettava il discorso del Re. Questa è l’origine storica dell’espressione ‘indirizzo politico’, con la quale nel nostro paese si descrive un’attività che è propria del Governo e del Parlamento: dare indirizzi al Paese.

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Tuttavia, nella prassi ( e cioè senza un cambiamento delle regole formali, delle norme scritte, ma sul piano dei comportamenti concreti di fatto) questo modello diventò, con l’unità d’Italia e segnatamente verso la fine dell’ ’800, molto più articolato, e la forma di governo, da monarchico costituzionale che era, si trasformò, sia pure con un processo discontinuo, in una forma di governo che funzionava secondo principi diversi.

Per comprendere queste trasformazioni bisogna tener presente che nell’Italia unita la vita politica diventò ben presto molto più complessa che nel Piemonte sabaudo e anche nella piccola e omogenea (dal punto di vista degli interessi e delle mentalità che vi erano rappresentati) Camera dei deputati dell’epoca cominciavano a prospettarsi visioni diverse, a contrapporsi visioni differenti del modo in cui la nazione avrebbe dovuto essere condotta. Questo consigliò al monarca di distinguersi da coloro che componevano il governo, dai ministri. Il Monarca cessò di andare nelle Camere fisicamente, perché là il Governo poteva ricevere critiche, che erano inadatte alla posizione del Monarca, in quanto ne avrebbero sminuito l’autorità, ma che al Monarca sarebbero inevitabilmente risalite dato che esso era indistinguibile dal Governo. Pur non perdendo alcuno dei suoi poteri formali, il Re uscì dalle dirette dinamiche politiche e questo fece sì che cominciò a succedere che il governo (i ministri del re) oltre a organizzarsi intorno a una figura preminente (il capo del governo) che ne riassumeva le caratteristiche e gli orientamenti, tendesse a dare le dimissioni quando diventava evidente che non disponeva di un sufficiente consenso nelle Camere, e in specie in quella elettiva.

Il governo formalmente non era tenuto a far questo, perché secondo lo Statuto esso rispondeva solo al re; ma nei fatti si affermarono atteggiamenti che corrispondevano all’idea che il governo dovesse rispondere anche al parlamento, nel senso che se i suoi atti non erano condivisi dal parlamento il governo non poteva rimanere in carica.

Nasceva così l’idea di un nesso che legava il governo al parlamento, un nesso che noi chiamiamo di responsabilità politica, per cui il progetto politico che il governo vuole realizzare deve avere una condivisione anche nelle Camere, e quando quel progetto o non viene perseguito come promesso o si dimostra sbagliato, o inopportuno, il governo ne risponde con le sue dimissioni.

Il nesso di responsabilità politica che lega il Governo alle Camere Parlamento prende il nome di rapporto fiduciario: il governo sta in carica in quanto il parlamento gli dimostra fiducia e fintantoché questa fiducia rimane.

La forma di governo nella quale il monarca continua a influire sul governo (perché lo nomina) e sulla legislazione (perché dà la sanzione alle leggi) ma dove comincia ad esistere anche un nesso fiduciario tra governo e parlamento è quello che viene detta monarchia (o governo) parlamentare.

Il processo che vide il trasformarsi della forma di governo da monarchico pura a monarchico parlamentare non fu lineare, non segnò un cambiamento da un giorno all’altro definitivo e chiaro.

“Al contrario (…) fino almeno al trasferimento della Capitale a Roma (1871) non mancarono casi in cui il Re esercitava del tutto autonomamente il proprio potere di revoca delle compagini ministeriali che non gli fossero gradite, indipendentemente dal rapporto tra queste e le Camere; il re mantenne sempre inoltre il comando effettivo dell’esercito e la scelta del ministro della guerra.14”

Si trattò però di un sistema parlamentare che si mantenne ‘dualista’ perché – stando ad analisi importanti, come quella dello studioso di diritto amministrativo e storico del diritto pubblico Umberto

14 Livio Paladin, Diritto costituzionale, Cedam, Padova, p. 78.117

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Allegretti - il ruolo sociale e politico della monarchia non venne mai meno. Il Re continuò a influire sulla politica, da una parte, tramite l’esercizio delle prerogative regie, cioè dei poteri che il sovrano esercitava senza necessità del consenso, e talvolta neppure dell’informazione delle Camere: e tra i quali si segnalò in particolare il potere di ingerenza sulla politica estera e militare; dall’altra parte, il Re influiva sulla politica tramite i contatti diretti che sempre intrattenne con uomini politici e di governo, i quali componevano un autentico “partito di corte”, composto di rappresentanti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia.

Alla base di ciò, vi erano molte ragioni che non è difficile individuare.

5. La forma di governo: riflesso delle contraddizioni del periodo statutario

In primo luogo, per effetto del carattere molto ristretto del suffragio, la classe al potere rimase una ristretta oligarchia, della quale le Camere erano l’espressione. Il fatto che il Parlamento (e tanto meno il Governo) non divenne mai l’espressione di interessi sociali diversi o autonomi da quelli dell’oligarchia dominante, e rimase anzi, per composizione, estrazione e cultura in larga parte assai affine al Monarca, spiega perché i principi del parlamentarismo non si affermarono mai definitivamente nel senso di precludere al Monarca di addivenire alla nomina o revoca del governo sulla base di determinazioni proprie, non nascenti dal rapporto fiduciario tra governo e Camere. Specialmente in situazioni di necessità, quando ragioni di ordine bellico o di ordine pubblico si facevano avanti, era facilmente accettato il “ministero regio”. Così la forma di governo rimase ancorata alla sua radice dualistica, e il governo finì per appoggiarsi sia sulla fiducia parlamentare sia su quella regia, alternativamente, a seconda del contesto politico del momento.

Il carattere oligarchico, quantomeno ristretto ed elitario, della classe politica statutaria, e le regole, trasformistiche, che ne caratterizzarono il funzionamento, ci dice anche che l’evoluzione in senso parlamentare della forma di governo non rispondeva alla intenzione, delle forze politiche presenti in Parlamento, di dare al Paese una organizzazione istituzionale più rappresentativa della società. In teoria, infatti, il fatto che il Parlamento condizioni la vita del Governo significa, siccome il Parlamento è, almeno in parte, elettivo, che gli eletti, ossia i rappresentanti della Nazione, acquistano un peso importante nei confronti  dell’Esecutivo.  Dunque,  a  condizione  che  la  base  elettorale da cui il Parlamento è eletto si allarghi, il maggiore potere acquistato dal Parlamento può significare un maggior potere della società, degli   elettori.   In   teoria,   quindi,   evoluzione   in   senso   parlamentare   può   significare   ‘evoluzione in   senso   democratico’  della  forma  di  governo. Ma le  esigenze  dalle  quali  nasceva il maggior peso acquistato dal Parlamento non erano queste, o non erano soprattutto queste. In realtà, la parlamentarizzazione della forma di governo fu una conseguenza del trasformismo cui i due soggetti  politici    dell’età  statutaria,  ossia   la  Destra  e  la  Sinistra  cd. ‘storiche’  improntarono  i loro  comportamenti  in  Parlamento.  Destra e Sinistra erano due schieramenti in cui si dividevano in parlamento gli eletti, che, come poco sopra ricordato, provenivano però tutti dallo stesso ceto ed erano molto omogenei tra loro, pur ispirandosi, nelle grandi linee, a diverse letture della storia risorgimentale e di quelli che avrebbero dovuto essere i suoi esiti e, in questo senso, idealmente differenziandosi. Ora divenne subito un tratto caratteristico del funzionamento della Camera elettiva che deputati che sedevano a Sinistra poi votassero a favore di provvedimenti di un Governo composto dalla Destra, e viceversa (trasformismo), per effetto di: tensioni interne allo schieramento; risentimento e inimicizia verso il Primo Ministro di turno; previsioni o calcoli di convenienza circa chi sarebbe stato al Governo nel periodo immediatamente successivo. In un quadro di questo genere, in cui cioè gli schieramenti parlamentari, Destra e Sinistra,

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non erano coesi e stabili, un Presidente del Consiglio che apparteneva a uno dei due schieramenti sapeva di poter controbilanciare le lacerazioni   interne   al   suo   partito   appoggiandosi   in   parlamento   al   voto   dell’altro.   Oppure,   i   deputati   del   partito cui il Presidente del Consiglio apparteneva sapevano che potevano controbilanciarne il potere, persino   farlo   cadere,   semplicemente   votando   con   l’altro   schieramento.   In   una   parola:   il peso che la Camera acquista sul Governo è direttamente proporzionale all’interesse che gli schieramenti politici avevano di condizionare quest’ultimo; e anche al Governo conveniva che le Camere avessero influenza perché, nel quadro trasformistico, poteva trovare ora sull’uno ora sull’altro schieramento appoggio per i suoi provvedimenti. L’“evoluzione in senso parlamentare” della forma di governo statutaria risponde cioè non ad alti obiettivi di democratizzazione della direzione politica del Paese, ma, in larga parte, alla ‘tattica’ delle forze politiche di cercare di influenzarsi reciprocamente, tenendosi l’un l’altra sotto scacco15.Certamente, d’altronde, a spingere verso modificazioni del funzionamento della forma di governo rispetto al modo in cui lo statuto la disegnava c’era anche un altro dato. Lo Statuto concesso ai Piemontesi da Carlo Alberto di Savoia nel 1848 era concepito in tutto e per tutto nella luce delle esperienze istituzionali del Piemonte Sabaudo. Quest’ultimo, come abbiamo appreso ripercorrendone nel capitolo precedente la storia, era uno stato precocemente assolutista, dove un Parlamento era sempre esistito, ma aveva ben presto cessato di essere la espressione vitale degli interessi dei ceti e il luogo in cui, su un piano paritetico, re e ceti individuavano accordi. Come Marongiu ci ha insegnato, nel XVIII secolo esistevano due ‘Camere’ (chiamate in realtà Senati, di Chambery e Torino) che condividevano col re il potere legislativo ma l’usanza consolidatissima era che il Sovrano, per rendersi sicuro che i suoi provvedimenti fossero approvati, prima e fuori dalla riunione dei Senati si incontrava coi loro Presidenti e si metteva d’accordo, poi i Presidenti provvedevano a garantire che i Senati votassero come voleva il Re, esautorando le rappresentanze dei ceti. Il modello cui guardava lo Statuto era, insomma, quello di un sovrano legislatore che non era abituato a incontrrare contrappesi: quando Carlo Alberto approvò lo Statuto non poteva nemmeno concepire che le Camere potessero esprimere una reale dialettica sulle proposte del Governo, cioè del Re, perché questo in Piemonte non si era visto né sentito da secoli. Inevitabilmente, come dicevamo all’inizio di questo paragrafo, quel modello istituzionale, tutto concepito con gli occhi del passato, non poteva funzionare, come tale, applicato a un paese grande, impegnato nel processo straordinariamente complesso di riforma economica, sociale, giuridica e istituzionale che l’unità ha rappresentato, dove le Camere, per quanto omogenee e frutto di un suffragio ristretto, erano comunque la sede di dinamiche politiche ben più articolate di quanto potesse accadere nei Senati sabaudi. D’altro canto, quel modello non poteva evolversi fino al punto di accettare la naturale conseguenza della evoluzione in senso parlamentare. Quale è questa conseguenza? E’ presto detto: se il governo per vivere ha bisogno della fiducia delle Camere, è razionale che, quando lo si nomina, si cerchi di formare un Governo che avrà la fiducia delle Camere. In una forma di governo parlamentare, infatti, sebbene le camere non necessariamente nominino il Governo (vi sono state esperienze in cui ciò è stato, peraltro, tentato), tuttavia ne influenzano la scelta: se nella Camera la maggioranza è di Destra, è naturale fare un Governo di Destra. L’indirizzo politico

15 Destra e Sinistra, pur contrapposte, condivisero prassi di (mal)governo e interessi. Allegretti, nel suo Profilo di storia costituzionale italiana, Il Mulino, Bologna, suggerisce che la Sinistra fece peggio della Destra perché, arrivata finalmente al potere nel 1876, trovò in tutte le ‘magagne’ dello stato, dalla magistratura asservita alle finanze in crisi, comodi sistemi per regolare i suoi conti con la destra e installarsi al potere saldamente. Osservando    anche  che  le  tante  critiche  alzate  da uomini  della  Destra  contro  la  Sinistra  sottacevano  ‘quasi  sempre  le  decisive colpe del proprio periodo di amministrazione’  (p.  494)   Allegretti suggerisce  che  si  trattasse,  già  allora,  dell’uso  dei  principi  strumentale  alla lotta   politica (si rimprovera ad altri di non rispettare questa o quella regola o criterio, quando a nostra volta non li si è rispettati e non si intende rispettarli).

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si concentra tra parlamento e governo e il Monarca o capo dello stato assume un ruolo imparziale di garanzia del corretto gioco delle parti, ma non di diretta decisione politica. Seguire questa evoluzione non era possibile, però, senza contraddire il pilastro della forma di governo statutaria, cioè il principio per cui il capo dell’esecutivo è comunque il re, e il governo è il governo del re. L’’evoluzione’ verso la forma parlamentare era possibile, dunque, solo fino a quel certo punto in cui non mettesse in discussione la titolarità nel solo monarca del potere esecutivo. Una riprova del fatto che, nonostante il delinearsi di una specie di rapporto fiduciario tra parlamento e governo, la forma di governo rimase sempre sostanzialmente dualistica, è anche data dal fatto che in quasi nessuna occasione il Governo che era in carica all’atto della convocazione dei comizi elettorali si sia dimesso davanti alle nuove Camere, quelle risultanti dall’elezione, benché i risultati elettorali avessero dato origine, in Parlamento, a una maggioranza diversa da quella precedente.

Il periodo fu dunque segnato da un andamento contraddittorio, che spingeva verso la parlamentarizzazione ma anche contrastava gli esiti ‘naturali’ di quest’ultima, e lungi dall’essere, come piaceva a Cesare Balbo, la migliore per l’Italia, la forma di governo adottata dallo Statuto fu un fattore di difficoltà che dette vita a prassi discontinue e disomogenee; e che non seppe reggere, in particolare, alla più grande sfida che il presente portava con sé, cioè al sorgere di una forma di partito politico del tutto diversa da quella dei partiti parlamentari d’epoca risorgimentale.

6. Il problema dell’estensione del suffragio e la nascita dei partiti politici di massa

La “parlamentarizzazione” della forma di governo si accompagnò anche ad un timido ma continuo allargamento della base elettorale (fino al riconoscimento del suffragio universale maschile, esercitato nelle elezioni del 1921) e questo si accompagnò a sua volta alla formazione di partiti politici di massa (il partito popolare, di ispirazione cattolica, il partito socialista) che si affermavano come rappresentanti dei diversi interessi di cui le diverse parti della società erano portatrici.

Secondo i principi del governo rappresentativo, l’esperienza del Regno d’Italia ha contemplato fin dall’inizio l’elezione dei deputati della Camera elettiva, ma questo non significa che esistessero sin dall’inizio partiti politici di massa nel senso contemporaneo, la cui nascita data in Italia, e in altri paesi europei, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Sino ad allora, gli eletti alla Camera erano personalità eminenti sul piano locale, nobiluomini, professionisti, intellettuali, che si candidavano in un collegio, a titolo individuale, e che poi, una volta eletti, si raggruppavano alla Camera (orientavano cioè le proprie scelte di voto e le proprie iniziative) secondo accordi che si formavano dentro la Camera medesima. Si parlava perciò di partiti parlamentari, cioè il partito era un gruppo di deputati che procedevano d’intesa in relazione ai provvedimenti che erano via via in approvazione o in generale alla politica del Governo di volta in volta attuale. Pertanto erano anche frequenti i cambi di schieramento. Questa natura ebbe lo schieramento liberale.

Il partito politico cambia configurazione quando a richiedere di avere influenza sulla vita pubblica sono ceti o soggetti diversi dalla nobiltà e alta borghesia economica o intellettuale che avevano seduto in parlamento sin dall’inizio del Regno, le quali, per essere portatrici di una estrazione sociale, formazione e visione del mondo assai omogenea, si erano attirate sin troppo facilmente l’accusa di concepire l’interesse generale sullo stampo del proprio punto di vista di élite dominante. I nuovi soggetti cui i partiti politici di massa davano voce erano il proletariato, le classi subalterne dei lavoratori salariati, organizzati nel partito socialista (fondato nel 1892), e i cattolici, che immediatamente dopo la revoca del Non expedit, la bolla papale con cui Pio IX nel 1868 aveva

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dichiarato la estraneità dei cattolici alla vita pubblica del Regno, dettero vita al partito popolare (1919). Tuttavia, il ricambio o almeno una piena reciproca legittimazione tra antichi partiti parlamentari in cui si esprimeva il nucleo di interessi e di poteri fondativi dello stato liberale (la Destra e la Sinistra Storiche) e i nuovi partiti di massa non avvenne mai, e alla resistenza dei primi, e del blocco di mentalità, interessi e prassi che ad essi corrispondeva, nei confronti dei secondi, si deve l’avvento del regime fascista.

Bisogna soffermarsi brevemente a notare che il fenomeno dei partiti politici di massa riflette un dato, che consiste nella esistenza di differenze di fatto, ossia di condizioni economiche e sociali, che intercorre, nella società, tra le sue componenti, nonostante l’uguaglianza giuridica tra i cittadini. Dopo l’abbattimento dei ceti, come sappiamo, grazie all’affermarsi dell’eguaglianza di status, chiunque può salire (o scendere) nella scala sociale, con lo studio, il lavoro, ecc. Tuttavia, per effetto della diversa distribuzione della ricchezza, si determinano ‘naturalmente’ gruppi sociali tra loro differenziati: coloro che vivono vendendo la propria forza-lavoro (proletariato); coloro che possiedono i capitali e i mezzi di produzione (capitalisti), e un ceto intermedio impiegatizio. Sono queste le ‘classi sociali’: che non sono ‘ceti’, perché l’appartenenza ad esse non è determinata da uno status che si acquista con la nascita e che accompagna la persona per tutta la vita, ma che rappresentano gruppi sociali portatori, per effetto delle loro diverse condizioni materiali di esistenza, di condizioni di vita, valori e visioni del mondo tra loro differenziate.

Il partito socialista prima (da cui si scisse, nel 1921, il partito comunista), poi quello popolare, non nacquero in parlamento come articolazioni interne a uno stesso blocco di interessi sociali, come era avvenuto per la Destra e la Sinistra storiche, ma nacquero nella società, come associazioni che si proponevano di rappresentare gli interessi di gruppi sociali diversi da quello espresso dai partiti tradizionali; essi iniziarono a presentare alle elezioni propri candidati, cioè candidati che si impegnavano a proteggere, nel loro lavoro in parlamento, le questioni care al loro elettorato, e a contrastare iniziative che potevano danneggiarlo, a svolgere propaganda, stampare giornali e libri, organizzare comizi e conferenze.

I partiti di massa premevano naturalmente per un allargamento del suffragio; nel nostro paese, la lentezza e limitatezza delle estensioni del suffragio elettorale nascevano proprio dal timore che esso avrebbe portato al ripetersi di quanto si era visto in Francia dopo la prima elezione a suffragio universale maschile, e che qui ricordiamo con le parole con cui ne parlò, nel 1862, il liberale italiano Carlo Cattaneo:

“Il 24 febbraio 1848 fu il primo giorno di un’era nuova. Per la prima volta si vide in Francia un operaio chiamato a sedere tra i governanti, il miglioramento del destino degli operati fu posto tra i doveri della società e dello stato; e fu riconosciuto, in quanti cittadini avessero anni ventuno, il diritto di influire al pari sulla cosa pubblica. E così il quarto ordine, che nel 1789 restava confuso in un comune involucro col terzo stato, cominciò a divenire un principio determinante delle nuove istituzioni. Operai siamo tutti quanti, se prestiamo util opera all’umanità. E se qualcuno promuove l’influenza delle classi laboriose nell’ordine legislativo, egli non fa opera di discordia, ma di giustizia e di benevolenza.16”

Le parole di Carlo Cattaneo rivelano da sole come la questione fosse scottante. Da liberale progressista, Cattaneo sostiene che non si deve avere paura della rappresentanza politica delle classi escluse. Al

16 C. Cattaneo, Le più belle pagine scelte da Gaetano Salvemini, nuova ed. Donzelli editore, 1993, p. 111. Liberale, repubblicano, protagonista delle Cinque giornate di Milano, Cattaneo rifiutò la nomina a Senatore del Regno d’Italia per non dover giurare fedeltà alla monarchia.

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contrario, nei suoi scritti volgeva lo sguardo anche oltre gli “operai propriamente detti, che mostrano di avere acquistato quella chiara coscienza di sé e del loro diritto, cui non si potrebbe senza ingiustizia e senza temerarietà negare una legale espressione”, guardava a chi rimaneva ancora ben lontano da ciò: “l’agricoltore, che giace in negletta e barbara condizione” e più oltre ancora: “gli inabili, i mendicanti, i reietti, tanto più numerosi, in realtà, quanto più le nazioni sono opulente e superbe”. Egli si rendeva conto che un tasso troppo alto di povertà e di ingiustizia sociale nuoce al benessere e genera disordine: il suo era l’atteggiamento di un riformista moderato. Ma molti non la pensavano affatto come lui, e provavano preoccupazione, angoscia e scandalo davanti all’avanzata delle classi subalterne e alla loro pretesa di condizionare l’azione delle istituzioni. Alcuni sinceramente pensavano che se l’idea democratica avesse preso piede questo non avrebbe potuto che significare la fine dell’unità dello stato, la fine dello stato stesso, perché gli interessi competitivi e confliggenti della società non avrebbero mai potuto esprimere indirizzi unitari, garantire la stabilità e la pace.

In effetti, la nascita dei partiti di massa travolgeva l’idea, che aveva improntato di sé i regimi della Restaurazione, che gli interessi dello stato, cioè dei gruppi dominanti, potessero valere come interessi generali; metteva in dubbio la radice stessa dei regimi rappresentativi, che ammettevano la rappresentanza degli interessi della società, ma solo in presenza del postulato che interessi unitari dello Stato esistessero come tali, prevalessero sugli altri, e avessero organi specifici, come il Re, a dar loro espressione e tutela. Con la loro stessa esistenza essi ‘attentavano’ al principio-cardine dello stato liberale, ‘meno società nello stato’, perché quello cui i partiti politici di massa tendevano era che la società contasse nella direzione dello Stato. Perciò i partiti politici di massa furono visti dallo Stato liberale, e in specie da uno conservatore, involuto, quale era il nostro, come una minaccia alla sua stessa esistenza.

Idee cardine del regime ‘rappresentativo’ iniziarono nel corso dell’’800 e ancora più fortemente ai primi del ‘900 a essere fortemente contestate da coloro che erano stati esclusi dalla possibilità di far valere le proprie esigenze, bisogni, punti di vista, e di influire sulla vita pubblica. La borghesia liberale, e lo Stato che ne era l’espressione, videro con grande timore l’emergere di una piccola borghesia scontenta, e di un proletariato organizzato che, reclamando il diritto di votare e di dar vita a proprie organizzazioni politiche (i partiti, appunto), intendeva arrivare a governare lo Stato in modo più sensibile ai propri interessi, se non in nome di essi; ugualmente temuta era la pressione delle forze cattoliche, tradizionalmente ostili allo stato ‘laico’ (il Regno si era pur sempre unificato con la presa militare dello Stato della Chiesa), che chiedevano anch’esse una voce sulla direzione politica del Paese. Preoccupavano le dottrine marxiste, che denunciavano lo Stato come apparato funzionale al dominio di una classe sull’altra.

Non solo nel nostro Paese, questi timori si tradussero nella “crisi del parlamentarismo”, nel risorgere di grosse diffidenze verso specialmente la Camera elettiva, che iniziava a rappresentare in qualche misura il popolo. In Italia:

“Verso la fine del Regno di Umberto I fu rimesso in discussione lo stesso sistema parlamentare già affermatosi in via di prassi, dal momento che si registrò una notevole spinta verso un ‘ritorno’ alla monarchia costituzionale. Ma non era tanto lo Statuto che preoccupava: ciò cui i conservatori, la destra, mirava in quegli anni era un governo ‘forte’, poco importa se guidato dal Re stesso o da un Primo Ministro che fosse in grado di bloccare il naturale sviluppo del sistema in senso democratico e sociale, specialmente per mezzo di leggi restrittive delle libertà (come quella di stampa). Sulla legge limitativa della libertà di stampa che il Governo intendeva introdurre si svolse un enorme contrasto tra Governo e Parlamento, e il tentativo di scavalcamento del Parlamento in questo caso fallì: gli schieramenti parlamentari della “sinistra”

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si opposero con l’ostruzionismo all’approvazione delle misure restrittive della libertà di stampa; e i decreti legge coi i quali il Governo sperava di scavalcare l’ostruzionismo parlamentare furono dichiarati inapplicabili dalla Corte di Cassazione.

“Questa prima crisi della forma di governo parlamentare si avviò a una rapida composizione e nelle elezioni del 1900 la Sinistra si rafforzò, e ne seguirono i governi Zanardelli e Giolitti, accomunati da una comune politica riformista, con l’adozione di misure di diritto del lavoro e di intervento statale a sostegno dell’economia. La riforma più notevole fu quella che investì la base elettorale, con una progressiva estensione del suffragio a tutti i maschi adulti maggiorenni; gli aventi diritto a partecipare alle elezioni del 1913 furono il 23% dei cittadini residenti del Regno contro il 7,5% delle elezioni del 1904 e il 6,9% delle elezioni del 1900. Le elezioni del 1913 sembrarono dunque completare il processo di perfezionamento interno di una evoluzione verso forme più democratiche dello Stato, ma in realtà segnarono l’inizio della fine dell’ordinamento statutario, le cui strutture non si dimostrarono idonee ad assorbire le spinte antitetiche e difficilmente componibili dei partiti di massa che si affacciavano sulla scena politica, profittando del suffragio universale. Se nel 1913 i conservatori ancora ressero e ottennero la maggioranza dei seggi, nel ’19, anche grazie a un cambiamento del sistema elettorale (da maggioritario a proporzionale), essi subirono un vero e proprio tracollo, a vantaggio di partiti relativamente nuovi come i socialisti e i popolari (cattolici).

Gli schieramenti politici tradizionali ne rimasero sconvolti a tal punto che in un breve torno di anni si determina una nuova crisi, questa volta irreversibile. Per quanto la presidenza del consiglio continui ad essere affidata ad esponenti della vecchia classe politica (Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta) la Camera e il corpo elettorale sono sempre meno inclini ad appoggiarla. Fra il 1919 e il 1922 si succedono cinque governi, tutti incapaci di far fronte alla crisi istituzionale e al dissesto dell’economia, seguito alla guerra in egual misura per i vinti come per i vincitori e in questo vuoto di potere si inserisce il fascismo17”.

La nascita dei partiti, dei sindacati, le lotte popolari ed operaie, cui non erano estranee componenti insurrezionali, rivoluzionarie, o accusate di essere tali sfociarono nel biennio 1898-99 in una crisi di particolare gravità (che si ricorda come “crisi di fine secolo”) che ci ha lasciato, tra le tante testimonianze di un conflitto sociale crescente e drammatico, il ricordo delle cannonate sparate contro i manifestanti operai a Milano durante le quattro giornate del 1898 su ordine del Generale Bava Beccaris, poi in premio di ciò insignito dal Re dei più alti onori militari. Il numero dei morti rimase ignoto, ma fu certo superiore a cento persone; Milano e la sua provincia furono poste in stato d’assedio, con la sospensione di tutte le libertà costituzionali e la devoluzione della giustizia ai Tribunali di Guerra, secondo un rimedio che il governo statutario adottava regolarmente durante i ‘disordini’; furono arrestati numerosi esponenti politici, sciolte le relative organizzazioni.

Nonostante nell’immediato si sia dispiegata in seguito la politica distensiva e conciliatrice di Giolitti, molte analisi vedono nei fatti del 1898-99 la premessa dell’onda lunga di reazione che avrebbe portato il paese alla dittatura fascista.

7. L’ambiguo lascito di una ‘parlamentarizzazione’ della forma di governo che condusse effettivamente al rafforzamento dell’Esecutivo e alla delegittimazione del Parlamento

17 Livio Paladin, Diritto Costituzionale, cit., p. 83.123

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Vi è stata allora davvero una trasformazione in senso parlamentare della forma di governo durante il periodo statutario? E quale è stato il lascito dell’oscillazione tra governi regi e governi parlamentari in questo lungo periodo? Il Parlamento si rafforzò veramente? E quanto? L’apparato esecutivo Re e Governo, perse o acquistò poteri?

Per rispondere a queste domande bisogna ripartire dalla considerazione che le trasformazioni che portarono verso una forma di governo di tipo parlamentare erano avvenute senza modificare formalmente lo statuto, che rimase come era: esse avvennero cioè in via di prassi, furono modifiche tacite. Queste modificazioni furono e furono viste come una crescita del potere di influenza del parlamento, che nei fatti poteva condizionare l’esistenza in carica del governo. A sua volta, la crescita di potere del parlamento corrispondeva a uno sforzo, sia pure modesto e titubante, di aggiornare il disegno dello statuto alle esigenze di un paese divenuto più articolato, consapevole di essere composto di soggettività e appartenenze diverse. La crescita dei poteri del parlamento, in cui le modifiche della forma di governo si traducevano, veniva associata, e di fatto in parte almeno si associava, all’affermarsi delle tendenze ‘democratiche’ che a giudizio dei conservatori mettevano a rischio l’ordine costituito. Il fatto che le modifiche dello statuto fossero solo tacite rese allora facile il diffondersi di opinioni che ne disconoscevano la doverosità, e soprattutto la legittimità. Di queste opinioni fu il simbolo lo scritto di Sidney Sonnino, uomo politico della Destra storica, apparso nel 1897 e intitolato Torniamo allo Statuto, e che fu la punta di una letteratura ferocemente antiparlamentare, che fiorì in Italia in quegli anni, rivelando le ansie che la trasformazione della vita pubblica italiana sollevava nell’opinione conservatrice dominante. “Torniamo allo Statuto” voleva dire: ricordiamoci che non esiste alcuna norma che imponga al governo di avere la fiducia delle Camere. Se alle Camere ci sono maggioranze troppo progressiste, troppo democratiche, non pensino di poter condizionare il Governo. Il Governo lo nomina e lo revoca il Re.

La critica del parlamento, che prendeva anche le forme di una ridicolizzazione della lunghezza e dell’inutilità dei dibattiti, di una caricaturizzazione dei comportamenti degli uomini politici, sempre raffigurati come bassi e meschini affaristi di second’ordine, serviva a diffondere la convinzione che fosse assolutamente necessario restaurare il potere del sovrano. L’immagine sovente ripetuta secondo la quale il governo era troppo debole per colpa delle pretese delle ‘consorterie parlamentari’ in parte rifletteva le verità di un sistema politico involuto su se stesso e fragile, in altra parte intendeva squalificare l’importanza e la dignità dei nascenti partiti, e la loro pretesa di influire sulla politica nazionale. La polemica antiparlamentarista e antipartitica che segna il tardo periodo statutario (e prepara il consenso verso un ‘governo forte’ che il fascismo offrirà) conteneva dunque una grossa ed esplicita carica polemica anche, e forse soprattutto, contro l’altro grande fenomeno che stava accompagnando la trasformazione del sistema di governo e della forma di stato, vale a dire la spinta verso la democratizzazione.

Per questo si deve dire che nell’Italia monarchica una vera e propria conquista di centralità del parlamento nelle dinamiche della forma di governo, intesa come legittimazione dell’organo in nome della funzione che esprime, la rappresentanza politica, non si sia instaurata mai con forza. La crescita di ruolo del parlamento fu un evento assistito da scarsissima legittimazione: lo si poteva raffigurare come una violazione dello Statuto, come una scelta inopportuna, rischiosa per gli interessi dello Stato. Così, il Parlamento cresceva di ruolo, ma anche restava debole.

Dall’altro lato, che cosa accadeva al Governo? La formazione di una forma di governo di tipo parlamentare aveva risposto all’esigenza di rendere il governo un organo distinto dal Re, il quale non poteva essere chiamato a rispondere alle Camere. Di fatto, l’esistere del Governo come un collegio composto da un primo ministro e dai ministri, portò a un sicuro rafforzamento dei poteri

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dell’esecutivo. Il “modellino” dello Statuto, pensato per la dimensione proto-ottocentesca del piccolo stato sardo, era adatto a funzionare con un parlamento che insieme al Re fa le poche leggi che servono al governo dello stato. Ma l’Italia unitaria dovette affrontare le esigenze di governo di un paese grande, attraversato da disuguaglianze profonde, sempre sottoposto a enormi sforzi per non “perdere” nella concorrenza economica, politica, militare e diplomatica con le grandi nazioni, percorso da problemi sociali, economici e di ordine molto molto grandi. Nei fatti, il ruolo del governo cambiò moltissimo rispetto a quello che lo Statuto attribuiva al “Gabinetto” del re, ma nel senso che crebbe enormemente, approfondendo quella posizione di maggior forza rispetto a ogni altro potere, che già lo Statuto attribuiva al potere esecutivo.

Il rafforzamento del governo si tradusse, da una parte, nell’allargarsi delle ipotesi in cui il governo emanava regolamenti anche senza l’esistenza di una previa norma di legge che lo autorizzasse; dall’altra parte, nell’acquisto di poteri normativi nuovi. Durante il periodo liberale ebbe infatti inizio una prassi per cui il Governo, quando aveva necessità urgente di emanare un provvedimento con forza di legge, o quando voleva evitare la discussione parlamentare per non misurarsi col dissenso e la critica, anziché ricorrere al procedimento legislativo ordinario adottava un atto d’urgenza (decreto legge) o si faceva dare una delega, una autorizzazione, dal parlamento, per poi deliberare, con ampia libertà di scelta dei contenuti, un decreto (decreto delegato).

Pertanto, lo sviluppo della “monarchia parlamentare” in Italia vede sì l’affermarsi di un nesso tra Parlamento e Governo che vede crescere il ruolo del primo, ma testimonia anche:

a) debolezza dell’immagine, del consenso intorno al parlamento;b) rafforzamento dei poteri dell’esecutivo, specialmente normativi (e in particolare: sviluppo di atti

normativi del Governo capaci di abrogare le leggi);c) perdurante convinzione che il governo, almeno in caso di necessità, e cioè in mancanza del

consenso del parlamento, o al preciso scopo di evitare di chiedere questo consenso, per non dare espressione a forze politiche sgradite, potesse sempre contare sulla fiducia del solo Monarca.

SEZIONE II

La pubblica amministrazione

Premessa. Lo stato liberale come stato a pubblica amministrazione

Lo stato liberale ottocentesco è definito stato a pubblica amministrazione perché segna il momento in cui giunge a piena maturazione e consapevolezza il passaggio dalla ‘autoamministrazione’, affidata ai corpi sociali dell’ordine antico alla cura degli interessi generali assunta dallo stato con un proprio apparato burocratico. Alla preoccupazione di rendere controllabile questo potere e giustiziabili i suoi atti, preoccupazione che il pensiero liberale agita in tutta Europa a difesa delle ‘libertà negative’ dei privati, si reagisce in Italia, e in genere nel continente, con la creazione di forme di giustizia e di regole di diritto speciali per il potere esecutivo. Da qui anche la definizione stato di diritto, che significa propriamente stato di diritto amministrativo, e cioè stato nel quale al diritto e alle forme di giustizia ‘comuni’, che valgono per i privati si affianca un diritto speciale per l’amministrazione, il diritto amministrativo, che diviene anche, nel periodo, materia di studio e insegnamento universitario.

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Questo passaggio ha alcune caratteristiche importanti che consistono:

- nella creazione di specifici apparati burocratici gerarchicamente organizzati e centralizzati, preposti allo svolgimento dei compiti amministrativi;

- nella parallela sottomissione delle antiche forme di autoorganizzazione delle comunità territoriali alla unica amministrazione centrale dello stato, in cui vengono assorbite;

- nella identificazione, da parte della dottrina e della giurisprudenza, di uno specifico tipo di atti (il provvedimento amministrativo) connotato da caratteristiche proprie (esecutorietà – discrezionalità – unilateralità – sindacabilità per soli vizi di legittimità);

- nella creazione della giustizia amministrativa, fondata sulla affermazione che siccome l’amministrazione cura gli interessi generali non può essere sottoposta a giustizia come un qualunque privato, il che conduce in Italia prima alla sottrazione degli atti amministrativi al giudice ordinario, poi, dopo un tentativo non convinto di introduzione della ‘giurisdizione unica’, alla istituzione di un regime di riparto tra la giustizia ordinaria e una nuova ‘giustizia amministrativa’ quale giustizia speciale per l’amministrazione;

- nel coronamento, attraverso tutto questo, del potere amministrativo quale portatore di proprie finalità (gli interessi pubblici) di poteri di valutazione e di una forma di razionalità atta a soddisfarle (poteri discrezionali; razionalità (razionalità rispetto allo scopo), e della distinzione tra sfera privata e sfera pubblica, secondo una intonazione asimmetrica, del rapporto stato-cittadino (principio di autorità vs consenso; capacità di diritto pubblico vs capacità di diritto privato; diritto soggettivo vs interesse legittimo);

- nella identificazione tra stato e pubblica amministrazione (l’amministrazione è portatrice degli interessi generali, cioè degli interessi dello stato: stato e amministrazione si indentificano).

I. L’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA

1.La struttura amministrativa nel periodo statutario

Nel periodo statutario, la struttura della pubblica amministrazione è così composta:

- Amministrazione ministeriale o amministrazione statale diretta.

- Amministrazione locale (Comuni e Province) o amministrazione statale indiretta.

- Alcuni soggetti pubblici, come le Camere di Commercio, i Collegi professionali o le Università, che preesistevano all’unificazione e vennero considerati ‘‘corpi morali’ legalmente riconosciuti.

- Verso la fine del secolo iniziano a essere create nuove figure: gli enti pubblici, strutture composte di mezzi, personale, e un bilancio proprio, dotate di personalità giuridica, guidate da un consiglio di amministrazione presieduto dal Ministro competente per materia, e finalizzate allo svolgimento di una specifica ‘missione’. Gli enti pubblici sono anche detti amministrazione parastatale.

- Nel 1903 con la legge sulle municipalizzazioni fu consentito anche agli enti locali di creare organismi dedicati allo svolgimento di specifici compiti (aziende municipalizzate).

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A livello nazionale, e con competenze riferite a tutto il complesso delle strutture amministrative, e dell’attività del Governo operano inoltre:

- Il Consiglio di Stato, preso dall’ordinamento sardo e da questo a sua volta preso da quello francese, con funzioni consultive e tecniche, di decisione di ricorsi amministrativi gerarchici, e che dal 1889 ha acquisito anche la funzione di organo di vertice della giustizia amministrativa.

- La Corte dei Conti, anch’essa presa dall’ordinamento sardo, organo di controllo preventivo sulle spese dello stato e giurisdizione contenziosa in materia contabile, e revisione dei conti del complesso delle pubbliche amministrazioni.

2. L’amministrazione statale diretta

I ministeri sono nel periodo statutario di numero contenuto, e le loro funzioni sono prevalentemente attinenti alla soddisfazione degli interessi dello Stato come tale (ordine, sicurezza, tributi). L’elenco dei ministeri del periodo è

Esteri – Interno – Grazia e Giustizia – Guerra – Marina – Finanze – Tesoro – Pubblica Istruzione – Lavori Pubblici – Agricoltura Industria e Commercio; nel 1889 si aggiunge il Ministero delle Poste, nel 1912 quello delle Colonie, nel 1916 quello dei Trasporti.

3.L’amministrazione statale indiretta

Togliamocelo di mente, di speranza: lo spirito di municipalismo non è sradicabile del tutto dalla terra

italiana, se non sia per essere coll’opera di secoli e secoli, sotto governi sodi e regolari, sotto l’imperio e quasi io

diceva la tirannia della legalità.

(Cesare Balbo, La monarchia rappresentativa, p. 209)

La Legge 20 marzo 1865 n. 2248 per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia affrontò il problema di come impostare l’amministrazione territoriale del novello stato italiano. Era un problema spinosissimo e assai complesso, dato che gli stati preunitari avevano ciascuno propri modelli ed esperienze di amministrazione locale, e, d’altro canto, le diverse zone del paese presentavano forti diversità di composizione sociale, economica, geografica. In materia vi erano visioni assai divaricate. Marco Minghetti presentò nel 1861 un progetto di riordinamento del nuovo Regno d’Italia nel quale introduceva un elemento nuovo, la Regione18. Minghetti era persuaso:

“che la unificazione amministrativa non doveva farsi affrettatamente, imperocché essa avrebbe ferito, come ferì, molti interessi, offese molte abitudini, suscitò molte avversioni. E perciò la Regione era principalmente [nella visione di Minghetti] un organo transitorio affinché si

18 Nuovo, come egli stesso notava, ‘rispetto all’ordinamento amministrativo vigente, che storicamente la Regione aveva antichissime tradizioni sì nel Medio evo sì presso i Romani”, M. Minghetti, I partiti politici e l’ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, Zanichelli, Bologna, 1884.

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operasse lentamente il trapasso da sette legislazioni ed ordini diversi secondo i diversi stati, a coordinamento ed unità”.

Queste idee erano del tutto divergenti rispetto a quelle preferite dal Governo, il quale intendeva estendere ai nuovi territori il modello di amministrazione locale già adottato dal Piemonte. Per sottrarre il proprio disegno di legge alla discussione parlamentare, in cui avrebbe incontrato una fiera opposizione, il Governo si fece dare dalle Camere una delega, cioè l’autorizzazione a stilare con proprio atto la riforma dell’amministrazione italiana. Ne nacque la legge di unificazione amministrativa. In forza di questa legge il Comune e la Provincia furono i due enti in cui venne organizzato tutto il territorio, e in ciascuna zona d’Italia ebbero le medesime caratteristiche, organizzazione, funzioni. Ritoccata e completata nel 1888, la disciplina degli enti locali li configurava come terminali dell’amministrazione centrale, sottoposti a rigidi controlli e a una assoluta uniformità organizzativa. Oggi si è unanimi nel ritenere che il modello di amministrazione locale prescelto dallo stato liberale italiano era dovuto, e del resto nemmeno velatamente, dal timore che autonomia degli enti locali e differenziazione di funzioni e di dimensioni avrebbero aperto il rischio di spinte centripete pericolose per l’appena raggiunta unità.

Dal punto di vista organizzativo, il Comune era guidato dal Sindaco, di nomina governativa (per la legge del 1865 era nominato con Decreto regio tra i Consiglieri comunali, poi, dal 1889, il Sindaco fu eletto dal Consiglio comunale e quindi nominato dal Governo); il Sindaco è affiancato da un organo deliberativo, il Consiglio comunale, e da una Giunta di assessori con funzioni esecutive. Il Sindaco era, come è ancora oggi, un organo che riunisce due funzioni: quella di capo dell’amministrazione comunale e ufficiale del Governo. L’organizzazione della Provincia prevedeva un organo collegiale, con compiti deliberativi (la Deputazione provinciale) e uno esecutivo, il Governatore, poi Prefetto: quest’ultimo un organo del Ministero dell’Interno, incaricato di compiti di rappresentanza del Governo presso le province e di controllo sulla attività comunale e provinciale.

Tutta l’amministrazione comunale e provinciale sottostava, infatti, al controllo del Prefetto, al quale erano sottoposte, prima di entrare in vigore, le delibere comunali. Il Prefetto poteva sospenderne l’esecuzione o annullarle se le trovava viziate di violazione di legge, non approvate in adunanza legale e con l’osservanza delle forme di legge. Al controllo di regolarità contabile era preposto uno specifico organo, la Giunta provinciale amministrativa, composta dal prefetto, da due consiglieri di prefettura designati dal Ministro dell’Interno, e da quattro membri designati dal Consiglio provinciale.

Contro i provvedimenti dei prefetti e delle giunte i consigli comunali potevano ricorrere al Governo del Re, che provvedeva con decreto reale dietro parere del Consiglio di Stato come giudice del contenzioso.

Comune e Provincia avevano un bilancio, composto da spese obbligatorie e facoltative. Le spese equivalevano ad altrettante competenze dei Comuni e della Provincia. Il fatto che le spese fossero definite dalla legge e uguali per ogni ente locale, era ciò che funzionare questi ultimi come strumenti, o ‘terminali’ dell’amministrazione centrale.

Vediamo esemplificativamente l’elenco delle spese obbligatorie dei comuni: “1. Per l'ufficio e l'archivio comunale. 2. Per gli stipendi al segretario e degli altri impiegati ed agenti. 3. Pel servizio delle riscossioni e dei pagamenti. 4. Per le imposte dovute dal comune. 5. Pel servizio sanitario di medici, chirurghi e levatrici pei poveri in quanto non sia quello provvisto da istituzioni particolari. 6. Per la conservazione del patrimonio comunale e per l'adempimento degli obblighi relativi. 7. Pel pagamento dei debiti esigibili. In caso di liti saranno stanziate nel bilancio le somme relative, da tenersi in deposito fino alla decisione della causa. 8. Per la sistemazione e manutenzione delle strade

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comunali, come per la difesa dell'abitato contro i fiumi ed i torrenti e per le altre opere pubbliche in conformità delle leggi, delle convenzioni e delle consuetudini. 9. Per la costruzione e mantenimento di porti, fari ed altre opere marittime in conformità alle leggi. 10. Pel mantenimento e restauro degli edifizi ed acquedotti comunali, delle vie interne e delle piazze pubbliche, là dove le leggi, i regolamenti e le consuetudini non provvedono diversamente. 11. Pei cimiteri. 12. Per l'istruzione elementare dei due sessi. 13. Per l'illuminazione dove sia stabilita. 14. Per la guardia nazionale. 15. Per i registri dello stato civile. 16. Per l'associazione alla Raccolta ufficiale degli Atti del Governo. 17. Per le elezioni. 18. Per le quote di concorso alle spese consorziali. 19. Per la sala d'arresto presso la giudicatura del mandamento e la custodia dei detenuti. 20. Per la polizia locale". A questo elenco si aggiunge nel 1898 il servizio sanitario a beneficio dei poveri.

Spese facoltative, a cui il Comune poteva procedere solo se in grado di adempiere a quelle obbligatorie: comodo e ornato pubblico, asili e scuole secondarie, bande musicali, teatri, pubblici divertimenti e feste, beneficienza, agricoltura, società di storia patria – illuminazione – accalappiacani.

I Comuni e le Province provvedevano alle spese con le loro entrate, ed erano per questo detti enti autarchici (e cioè “che provvedono a se stessi da sé”). Le entrate erano costituite da sovrimposte, per esempio sui contributi erariali, o da dazi sui consumi, e soprattutto dal ricorso all’indebitamento. La Cassa depositi e prestiti, la ‘banca del settore pubblico’ istituita in Piemonte nel 1850 e poi trasferita a Roma, aveva, ed ha tutt’ora, il compito di prestare agli enti territoriali e pubblici utilizzando a questo scopo somme ad essa stornate dal bilancio dello stato.

Far dipendere le spese comunali e provinciali dalle sovrimposte significava far dipendere la capacità di intervento e di attività di questi enti dalla ricchezza dei loro territori; ciò significò mantenere, ed approfondire, le differenze esistenti tra le diverse aree del paese. In generale, peraltro, il paese era povero, e gli enti locali ancora di più: ne derivò la scarsezza delle opere da essi intraprese, la limitatezza dei servizi da essi realizzati (il che fu causa di ulteriori limiti allo sviluppo produttivo e sociale del Paese) e, come conseguenza dell’inevitabile ricorso al credito, il frequente dissesto finanziario. Oltre a indebolire ulteriormente l’azione di questi organismi, rendendo ancora più ridotta l’esecuzione delle opere pubbliche e l’espletamento dei servizi più basilari, il dissesto dava occasione al ‘commissariamento’ dell’ente locale interessato, che significava assunzione diretta da parte del Governo della sua direzione, rincarando il già notevolissimo accentramento che caratterizzava le amministrazioni locali. Timorosissimo di ampliare il debito pubblico, e impegnato nello sforzo di pareggio del bilancio, il governo non poteva neppure concepire l’idea di partecipare alle spese degli enti locali; e semmai li invitava continuamente, alla contrazione delle spese e alla moderazione nel ricorso all’indebitamento. Non è escluso che, per una parte almeno della classe dirigente piemontese, educata all’idea che l’Italia fosse per destino una nazione povera e secondaria, il destino di sottosviluppo e sperequazione che veniva così impresso alla maggior parte del paese apparisse naturale.

II. L’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA

1. Le attività dell’amministrazione

Quali erano le attività dell’amministrazione nel periodo statutario? Sia che si trattasse di amministrazione diretta, sia indiretta, si trattava prevalentemente di attività di natura regolamentare, o di autorizzazione-ispezione-controllo delle attività private. Solo in una fase tarda del periodo liberale l’amministrazione pubblica, e salvo ciò che riguarda l’istruzione elementare, si assume compiti di servizio (salute, assicurazioni, pensione, istruzione) e compiti di concreta gestione, cioè di svolgimento

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con propri mezzi e risorse di attività economiche (costruzione di infrastrutture). In un secondo tempo, le attività di servizio e di concreta gestione iniziarono ad essere affidate agli enti pubblici, come la Cassa di Previdenza, nel 1898 (dal 1933 divenuta INPS), per l’erogazione delle prestazioni previdenziali e pensionistiche ai lavoratori; l’Istituto Nazionale assicurazioni, ente pubblico per la gestione e l’erogazione delle assicurazioni sulla vita. Nel 1903 fu statizzato il servizio di erogazione dei servizi telefonici, e analogamente accadde in seguito per le ferrovie.

2.Gli atti amministrativi

Si delineò dunque una serie di tipologie di atti amministrativi, che ricorre ancora oggi:

- Contratti e appalti, inizialmente usati anche per la costruzione di opere come le ferrovie o per la concessione di acque e beni demaniali (fino all’istituzione dell’Ente statale per le Ferrovie, per la costruzione di un tratto di ferrovia si individuava un contraente privato che si assumeva le spese di costruzione in cambio dei proventi derivanti dalla gestione della linea);

- autorizzazioni e concessioni: tipicamente utilizzate per concedere a privati lo sfruttamento economico del demanio (lido del mare, foreste, cave torbiere e miniere); questo genere di atti comprende la vasta gamma delle licenze e delle patenti (necessarie per lo svolgimento di attività commerciali e industriali come l’apertura di pubblici esercizi, di tipografie, lo svolgimento del commercio ambulante, ecc.);

- controlli sull’attività di impresa, tra cui si annoverano, verso la fine dell’età liberale, tipicamente i controlli (di igiene e sicurezza, sugli stabilimenti industriali insalubri e pericolosi, ecc.).

- l’attività di ordine pubblico (sequestro di stampati, fermo ed arresto di individui sospetti, ecc.)

3. Attività discrezionale e attività vincolata

L’attività della pubblica amministrazione venne distinta in due grandi tipologie: l’attività vincolata e quella discrezionale.

Nella attività vincolata l’amministrazione si limita a eseguire compiti che la legge puntualmente le rende obbligatorio adottare: come il rilascio di un certificato di nascita o di morte.

Il vero cuore della attività dell’amministrazione è l’attività discrezionale, cioè per l’appunto l’insieme delle attività in cui l’amministrazione fa uso del suo peculiare potere, che è appunto il potere di valutare in modo discrezionale il modo migliore di soddisfare, in un dato contesto concreto, l’interesse pubblico di cui l’amministrazione è portatrice. Attività discrezionale e potere amministrativo sono due facce della stessa medaglia. Prendiamo il caso classico della decisione, affidata all’amministrazione in quanto portatrice del pubblico interesse allo sfruttamento economico delle miniere, cave e torbiere, di affidare a una impresa lo sfruttamento di un certo giacimento. L’amministrazione apre una gara a cui possono partecipare varie imprese, ciascuna delle quali presenta un suo programma di azione, di spese, investimenti, ecc. Scegliendo l’impresa cui affidare l’appalto l’amministrazione fa una scelta discrezionale, cioè valuta quale impresa è la migliore alla luce dell’interesse pubblico (ha fatto l’offerta più conveniente).

In tutti gli atti discrezionali dell’amministrazione si possono distinguere precisamente due profili, uno che attiene alla legittimità e uno che attiene al merito. La legittimità è rappresentata dall’insieme delle

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norme nel cui quadro l’amministrazione deve procedere. Per rimanere nel nostro esempio, quello dell’amministrazione che fa una gara di appalto per concedere lo sfruttamento di una miniera, la legge stabilisce quale tra le amministrazioni dello stato è competente in quel caso e le conferisce il potere di concedere gli appalti; stabilisce con quale forma il bando di appalto deve essere reso pubblico, definisce altri aspetti del procedimento. Il merito è invece la decisione riguardante a chi effettivamente affidare l’appalto, cioè la decisione discrezionale.

Lo spazio della valutazione discrezionale dell’amministrazione è lo spazio che, sin dal suo sorgere, l’amministrazione ha inteso proteggere dal sindacato giurisdizionale, affermando che solo l’amministrazione può valutare il modo in cui l’interesse pubblico si atteggia in singoli casi concreti e il modo migliore per soddisfarlo. Ancora oggi, la valutazione discrezionale dell’amministrazione è insindacabile, e gli atti amministrativi discrezionali sono sindacabili solo sotto il profilo della loro legittimità, non sotto il profilo del merito.

All’epoca dello stato liberale italiano però, questo risultato non era stato ancora raggiunto, e tutto quello che riguardava l’attività discrezionale dell’amministrazione era sottratto al controllo del giudice. Istituire un controllo giudiziario sull’attività discrezionale dell’amministrazione fu uno degli obiettivi più importanti perseguiti dall’esperienza liberale. Vedremo nelle pagine successive come esso fu raggiunto.

III.LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

1.I Tribunali del Contenzioso

La pagina che riguarda la nascita del sistema di giustizia amministrativa è sicuramente la più grande eredità che lo stato liberale ha lasciato: il modello allora impostato è stato accolto senza modificazioni sostanziali in epoca repubblicana.

Per seguire questa importante vicenda, occorre partire ricordando che, sull’esempio della Francia, il Piemonte sabaudo e gli stati preunitari avevano scelto, per il controllo sugli atti della pubblica amministrazione, il sistema c.d. del contenzioso amministrativo: le controversie tra amministrazioni (es. un Comune che agisce contro l’annullamento di un suo atto, deciso dal Prefetto) o tra cittadini e pubbliche amministrazioni (ad esempio tra un cittadino e il comune per la definizione dell’importo di un’imposta) era esercitato anche nell’Italia unitaria dai c.d. tribunali del contenzioso, che erano organi dell’amministrazione stessa (il Consiglio di Stato, la Corte dei conti per il contenzioso patrimoniale, a livello di vertice, e a livello di base, i Consigli di prefettura, organismi collegiali presieduti dal Prefetto e presenti in ogni provincia). Nonostante il nome (“Tribunali”), erano organi che facevano parte dell’amministrazione, non della giurisdizione.

In origine, tutte le controversie nascenti da atti amministrativi erano dunque escluse dalla cognizione del giudice ordinario e rimesse ai tribunali del contenzioso, cioè all’amministrazione stessa, “giudice in causa propria”. Il sindacato dei Tribunali del Contenzioso, però, era ridottissimo. Ne erano esclusi:

- gli atti regolamentari, che per il loro carattere normativo, generale, erano sostanzialmente equiparati alla legge, e pertanto insindacabili;

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- gli atti ‘discrezionali’, ossia tutti quegli atti individuali e concreti, rivolti cioè a singoli o comunque a destinatari individuabili, il cui contenuto, come ricordavamo poco sopra, incorpora una valutazione, fatta nel caso concreto dall’amministrazione circa il modo migliore con cui conseguire la soddisfazione dell’interesse pubblico (ad es., la valutazione circa quale impresa, tra quelle che hanno gareggiato per ottenere un appalto pubblico, è la migliore cui affidarlo; la valutazione circa quali condizioni inserire in una concessione per lo sfruttamento di una miniera, ecc.).

I tribunali del contenzioso operavano, dunque, soltanto con riferimento alla c.d. attività vincolata dell’amministrazione; essi cioè servivano a far riconoscere che l’amministrazione doveva compiere, o non poteva compiere, un certo atto, in quelle sole ipotesi in cui il cittadino vantava davanti ad essa una pretesa nascente dalla legge o da regolamento: (come quando si trattava di iscrivere i nuovi nati nei registri delle nascite o concedere un avanzamento di carriera regolato dalla legge). In questi casi, il tribunale del contenzioso accertava che l’amministrazione doveva rendere l’atto o il provvedimento.

Per il resto, il cuore dell’attività amministrativa, i regolamenti e l’attività discrezionale, rimaneva sostanzialmente insindacabile.

2.Il sistema dei ricorsi gerarchici

E’ vero che, col sistema dei ricorsi gerarchici, i destinatari dell’attività amministrativa potevano presentare reclami per ottenere che un atto emanato nei loro confronti fosse revocato, o per chiedere che nei loro confronti fosse emanato un certo provvedimento. In questi casi il privato si rivolgeva direttamente all’amministrazione, e precisamente un’autorità di grado superiore a quella che aveva emanato l’atto contestato o aveva negato di emanare l’atto richiesto. Questa autorità poteva benignamente prendere in considerazione il reclamo del singolo cittadino, e revocare o modificare un atto in conseguenza di esso. Il sistema dei ricorsi gerarchici però non rappresentava un meccanismo di controllo sulla correttezza, sulla legalità dell’azione dell’amministrazione, ma era sempre un’espressione del potere amministrativo. L’eventuale revoca o modifica (riforma) dell’atto che fosse decisa, infatti, non dipendeva dall’accertamento emanando (o rifiutando) l’emanazione di un certo atto l’amministrazione aveva agito in modo non corretto, ma dipendeva da una nuova, e nel caso diversa, valutazione sulla opportunità, dal punto di vista dell’interesse pubblico, di confermare quell’atto, oppure riformarlo. Nel sistema dei ricorsi gerarchici, in altri termini, quella che veniva esercitata era una valutazione discrezionale dell’amministrazione sull’opportunità di mantenere la decisione presa da un proprio organo, o di modificarla.

3. Il problema della giustizia amministrativa all’epoca dell’unificazione

Dunque, l’ordinamento piemontese aveva un sistema in cui il giudice ordinario non poteva in alcun conoscere l’attività amministrativa, e i tribunali del contenzioso potevano conoscere solo l’attività vincolata. Siccome l’attività vincolata tende a corrispondere ai casi in cui l’amministrazione agisce in carenza di potere, cioè non esercita un potere discrezionale ma si limita ad eseguire una previsione di legge, ciò significava che tutta la sfera del potere amministrativo, che è quella in cui l’amministrazione decide in modo discrezionale in che modo va meglio soddisfatto, in un dato contesto, il pubblico interesse di cui è titolare, era sottratta a ogni forma di sindacato.

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4. Legalità dell’azione amministrativa e giustiziabilità: le aspirazioni dello stato di diritto

Quando, all’atto dell’unificazione, si trattò di decidere se mantenere questo sistema ed estenderlo a tutta l’Italia, o modificarlo, si era ormai oltre la metà del secolo. Nella cultura e nel dibattito istituzionale del tempo era ormai del tutto esplosa l’insostenibilità di questa situazione.

Intellettuali e uomini politici facevano notare che l’assenza di giustizia nell’amministrazione rischiava di minare la credibilità di una delle tesi di fondo su cui la legittimazione dello Stato liberale si basava , e cioè che esso aveva accentrato in sé tutte le funzioni di cura del pubblico interesse, allo scopo di garantire ai singoli una sfera di pace, di tranquillità, in cui svolgere indisturbati i propri affari. Se lo stato poteva agire al di fuori da ogni controllo, non era fin troppo facile prevedere che esso potesse facilmente mettere a rischio la sfera dei privati, il godimento dei loro diritti? Poteri amministrativi come l’esproprio per pubblica utilità, la limitazione della libertà personale o di circolazione dei beni e delle persone avevano una evidente incidenza su quei diritti, per non parlare delle mille forme in cui, con licenze, autorizzazioni o patenti, l’amministrazione condizionava la possibilità dei singoli di svolgere le loro attività.

Dopo avere costruito, nel tornante tra assolutismo e rivoluzione, il pubblico potere, e dopo averlo istituito come potere autonomo grazie alla sottrazione del suo operato alla conoscenza del giudice ordinario, la prima metà dell’Ottocento, in tutta Europa, aveva fatto i conti con le conseguenze di ciò. Intellettuali, pensatori e giuristi elevano una pressante richiesta di controllabilità dell’azione amministrativa. E siccome per controllare un potere occorre, in primo luogo e almeno, che le attribuzioni che esso può esercitare siano previamente definite da qualche parte, l’esigenza di controllabilità era esigenza di legalità: si richiedeva in primo luogo che i poteri che l’amministrazione poteva esercitare fossero tutti definiti da legge o regolamento, onde potesse essere verificato se i singoli atti si erano attenuti ai poteri all’amministrazione conferiti.

L’attuazione del principio di legalità dell’azione amministrativa era una sfida complessa in un sistema come il nostro, dove, grazie alle prerogative dell’esecutivo, una grande parte di quella attività non era oggetto di previa norma.

L’altra condizione che doveva essere soddisfatta per garantire la controllabilità dell’amministrazione era che un giudice potesse svolgere questa verifica. E vi erano molti interrogativi su come configurare questo giudice.

5. La discussione intorno alla giustizia amministrativa in Italia. Giudice unico o giudice speciale?

Quanto a quale giudice sarebbe stato abilitato a conoscere e giudicare la legalità dell’azione amministrativa, le idee principali erano due.

Da un lato vi fu chi sostenne (e uno di essi fu Tocqueville) la tesi del giudice unico: bisognava abolire completamente l’esperienza dei tribunali del contenzioso e attribuire al giudice ordinario la conoscenza completa sia delle controversie tra privati sia delle controversie tra privati e pubblica amministrazione. Trattare nel processo l’amministrazione come un privato pareva a Tocqueville, e pareva a quelli che pensavano come lui, insieme a una delimitazione dei compiti dell’amministrazione che la facesse convivere con un sistema articolato e ricco di autonomie locali, l’unico sistema efficace per contenere l’invadenza dell’amministrazione. Il modello che Tocqueville, e i sostenitori del giudice unico, tenevano presente, era quello anglosassone. Ma se l’Inghilterra e gli Stati Unici non conoscevano il giudice speciale per l’amministrazione, né nel modo più lontano l’idea (dalla quale la

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Francia e gli stati che ne hanno preso le movenze sono partiti) che gli atti dell’amministrazione potessero addirittura essere sottratti a qualunque giudice, era perché in quei sistemi la svolta assolutistica, e la conseguente costruzione dell’amministrazione come titolare del pubblico interesse e della sua realizzazione, non erano avvenuti. Invece:

“In Europa lo Stato c’era: nel continente, le soluzioni per la giustizia dell’amministrazione andranno nel senso di mediare le esigenze di libertà del cittadino e indipendenza del giudice con la libertà e l’indipendenza dell’amministrazione”19.

Vi era infatti l’altra tesi, che fu quella vincente in Francia e in Italia: l’idea di creare per l’amministrazione un giudice speciale, che applicasse nei suoi confronti un diritto a sua volta speciale, capace cioè di tener in considerazione la particolarità della posizione e dei poteri dell’amministrazione stessa. In altri termini, l’esigenza di legalità “avanzò insieme all’esigenza di specialità” (come scrivono Mannori e Sordi): nella dottrina dell’epoca si fa ampiamente strada la convinzione che il controllo giurisdizionale cui l’amministrazione deve essere soggetta non può che essere un controllo che tiene conto della particolare natura dell’amministrazione, che è il soggetto incaricato di tutelare l’interesse pubblico. Un soggetto diverso dai singoli cittadini, dai privati, e dunque che non può essere sottoposto alla stessa forma di giustizia che vale per loro: a quella forma di giustizia, cioè, che presuppone la parità tra le parti, che si basa sul principio del risarcimento del danno dovuto a inadempimento contrattuale o a comportamento doloso o colposo che abbia leso il diritto di altri, e sull’obbligo, per chiunque voglia far valere una pretesa in giudizio, di dimostrare i motivi che pone a fondamento di quella pretesa.

La strada del giudice speciale era stata subito imboccata dalla Francia nel 1814-1830. Quanto a noi, il tratto singolare della storia della giustizia amministrativa in Italia è che in prima battuta, e tutto sommato solo apparentemente, fu scelto il sistema del giudice unico.

La grande di unificazione amministrativa, la n. 2248 del 1865, recava nel suo allegato E la abolizione del contenzioso amministrativo, denunciato nei dibattiti parlamentari come ‘maschera di giustizia’ e ‘istrumento di dispotismo’.

6. Il primo passo verso l’istituzione del giudice amministrativo. L’abolizione dei Tribunali del Contenzioso

Il nuovo principio che fu introdotto era che, come si leggeva nella l. 2248/1865

“Tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo e della autorità amministrativa sono devolute al giudice ordinario.”

“Gli ‘altri affari’ sono affidati a forme di tutela interna all’amministrazione,”

Apparentemente, si trattava dell’introduzione del giudice unico. In realtà, la legge del 1865 cambiò pochissimo rispetto al passato. I tribunali civili si limitarono ad assumere quelle che erano le competenze dei tribunali del contenzioso, perché per ‘materia nelle quale si faccia questione di un diritto civile e politico’ si intesero le materie nelle quali l’amministrazione agiva in modo vincolato, in assenza di potere discrezionale Tutto il resto, tutti i casi in cui l’amministrazione emette un atto discrezionale, emana un regolamento, esercita il pubblico potere, ricadevano negli ‘altri affari’ per 19 Mannori e Sordi, Storia del diritto amministrativo, cit., p. 329.

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essere ‘giudicati’ da organi interni all’amministrazione , e cioè dalla stessa amministrazione ‘giudice in causa propria’20.

7. L’impossibile aspirazione al giudice unico

Il fatto era che la tensione verso il giudice unico era impossibile da soddisfare perché l’unificazione del paese si era affidata a una scelta accentratrice che esaltava la libertà e l’indipendenza dell’amministrazione21. Vi era la convinzione irriducibile che il potere che doveva unificare il paese, addomesticarlo alle leggi e alle autorità nuove, indirizzarlo ai nuovi costumi, non potesse essere ‘intralciato’ dalla giustizia. A questo ordine di idee si acconciarono per primi gli stessi giudici ordinari. Essi, che del resto erano privi di indipendenza e soggetti al controllo del Governo, e che soprattutto erano abituati anch’essi a concepirsi come una branca dell’amministrazione – torneremo a dirlo anche successivamente - non potevano trovare dentro di sé alcuna spinta, alcuna energia che li guidasse ad ampliare la malcerta sfera di cognizione che l’all. E aveva loro affidato.

L’allegato E può senz’altro essere ascritto alla categoria delle leggi “di facciata”: si proclamava di avere dato al giudice ordinario la cognizione sugli atti amministrativi, di avere ampliato la sfera di tutela del cittadino, di essere andati nella direzione della legalità, e in realtà non si cambiava niente, e si sapeva anche di non correre alcun rischio, ben conoscendo il governo la sua magistratura, e potendo del resto controllarla a piacimento.

8. Il riparto di giurisdizioni e la nascita della giustizia amministrativa

Quello che in realtà l’allegato E istituiva, di duraturo, era il sistema del riparto tra giurisdizioni, del quale conteneva lo scheletro, e che resterà caratteristico del nostro paese; cioè il metodo di ripartire la giurisdizione sugli atti amministrativi tra giudice ordinario e giudice amministrativo, anziché affidarla o tutta all’uno o tutta all’altro giudice.

Questo ‘riparto’ si annunciava nell’allegato E laddove esso introduceva il criterio per cui spettano al giudice ordinario le (poche) ipotesi in cui l’amministrazione ha davanti a sé dei diritti; e lasciava “gli altri affari” a “forme di giustizia interne all’amministrazione”. Il riferimento andava al Consiglio di Stato: infatti, il vertice cui giungevano i ricorsi amministrativi gerarchici sugli ‘altri affari’ era appunto l’organo di consulenza giuridico amministrativa, composto sin da epoca piemontese dai grandi consiglieri giuridici del re e del suo governo. Nel modello dell’allegato E, dunque, accanto alla nuova competenza del giudice ordinario si manteneva il sistema dei ricorsi gerarchici, esercitato da un organo interno all’amministrazione, e che dunque non poteva essere considerato giudice di essa (era, al massimo, come si diceva, giudice nell’amministrazione, non dell’amministrazione). Tuttavia, questo

20 Era un metodo che aveva fatto diventare ‘normali’ le più scandalose ingerenze del governo nella vita amministrativa. Eccone un esempio: “In un Comune, in occasione della rinnovazione di un quinto dei consiglieri, nacquero contestazioni, davanti al seggio elettorale; questo, secondo che gliene dà facoltà la legge, decise e proclamò il risultamento dello scrutinio. Fu portato il ricorso al consiglio comunale, e confermò il giudizio del seggio. Fu ricorso in appello, e la deputazione provinciale fu di avviso conforme. La denunzia fu recata al re in Consiglio di Stato, il quale trovò giusto il pronunciamento del seggio elettorale, del consiglio comunale, della deputazione provinciale. Nonostante questi quattro opinamenti concordi, il ministro dell’interno annullò lo scrutinio, introducendo piuttosto uno anziché un altro cittadino nel consiglio comunale.” M. Minghetti, I partiti politici, cit.

21 L. Mannori e B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, cit., p. 133.135

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schema si prestava a essere facilmente modificato, preponendo agli ‘altri affari’ un organo di tipo giurisdizionale.

Questo passo venne compiuto nel 1889, quando venne creata una nuova Sezione, la IV, detta giurisdizionale, del Consiglio di Stato. Veniva così istituito un organo che veniva qualificato come giurisdizionale e a questo nuovo giudice venne affidata la conoscenza di tutte le controversie nascenti dagli atti dell’amministrazione, e che non fossero riservate al giudice ordinario. Ancora oggi il Consiglio di Stato, nelle sue funzioni giurisdizionali, rappresenta l’organo supremo della giustizia amministrativa; nell’Italia statutaria gli organi giurisdizionali amministrativi di primo grado erano le Giunte provinciali amministrative, mentre, nell’Italia repubblicana, come giudici amministrativi di primo grado sono stati istituiti i Tribunali amministrativi regionali.

In questo modo il (del resto mai effettivamente istituito) sistema del giudice unico fu ‘abbandonato’ e nacque il sistema italiano della giustizia amministrativa.

Alla IV Sezione, Giurisdizionale, del Consiglio di Stato, vennero con la legge del 1889 affidate tutte le controversie tra privati e PA (“l’autorità”, come si esprimeva la legge) che consistessero in

“I ricorsi per incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge contro atti e provvedimenti che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali e giuridici quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’Autorità giudiziaria e non si tratti di materia spettante alla giurisdizione contenziosa”22.

Veniva così completato il sistema di giustizia amministrativa che sarebbe giunto fino a noi, dove il riparto di giurisdizioni avviene sulla base delle situazioni soggettive di cui il privato è titolare. Quando, davanti all’amministrazione, il privato vanta un diritto, è competente il giudice ordinario; quando, davanti all’amministrazione, il privato vanta un interesse, è competente il giudice amministrativo.

9.L’interesse legittimo

La situazione giuridica soggettiva la cui titolarità determinava la legittimazione a ricorrere contro un atto della pubblica amministrazione venne dunque definita interesse legittimo. Questa nuova figura, che esiste solo nel diritto italiano), era (così cominciò a insegnare nella sua giurisprudenza il Consiglio di Stato, con l’accordo della Cassazione e col supporto della dottrina del tempo), la situazione di cui il privato rimane titolare dopo che un suo diritto è stato degradato, o affievolito, da un atto discrezionale della pubblica amministrazione. Per esempio: chi è destinatario di un atto di esproprio vede il suo diritto di proprietà ‘degradarsi’ in un interesse legittimo a far valere contro l’amministrazione l’eventuale illegittimità dell’atto che ha subito.

In un certo senso, si restava sempre al punto di partenza, ai tribunali del contenzioso, alle concezioni che avevano accompagnato il sorgere stesso dell’amministrazione con l’assolutismo: l’amministrazione può essere portata davanti al giudice ordinario solo quando agisce in carenza di potere, quando non esercita i suoi peculiari poteri. Quando invece è in gioco il potere discrezionale, si richiede un giudice speciale.

22 Al Consiglio di Stato veniva affidata anche una cognizione detta “esclusiva” in cui, su particolari materie, poteva (e può, sebbene si tratti di un ambito rimasto recessivo) conoscere anche dei diritti soggettivi. Insomma, sotto sotto il giudice unico c’era, ma era il giudice amministrativo.

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E’ per questo che sin dice che, nel nostro Paese, la giustizia amministrativa fu delineata mantenendo fermo il presupposto che, siccome l’amministrazione gode di potere discrezionale, persegue il pubblico interesse, e per perseguirlo non può non agire unilateralmente e autoritativamente, stabilendo il modo in cui l’interesse pubblico nei casi concreti va soddisfatto, ogni situazione giuridica dei privati in linea di principio non può che cedere davanti al potere amministrativo. Se l’autorità decide un esproprio, la proprietà privata ‘degrada’ a interesse, ed ecco che insorge la competenza del giudice amministrativo (e viene meno quella del giudice ordinario).

La definizione dell’interesse legittimo come diritto degradato o affievolito veniva usata in tutti i casi in cui si trattasse di un atto dell’amministrazione che aveva diminuito la sfera giuridica del privato (come nel caso dell’esproprio). Tuttavia vi sono anche i casi in cui il privato entra in rapporto con l’amministrazione per ottenere qualcosa da essa, per esempio una concessione allo sfruttamento economico di un bene demaniale. L’interesse legittimo veniva infatti definito anche come la situazione in cui il privato si trova davanti alla pubblica amministrazione quando le chiede un provvedimento che non ha il diritto di ottenere, perché alla sua emanazione in un senso o in un altro presiede un interesse pubblico, che l’amministrazione valuta discrezionalmente. E’ la situazione, come dicevamo, in cui si trova chi chiede una autorizzazione, licenza, patente, necessaria per svolgere una attività commerciale o professionale o industriale o agricola: non ha diritto a ottenerla, perché l’amministrazione deve valutare se la sua richiesta corrisponde o meno all’interesse pubblico; ha solo un interesse legittimo a che la sua richiesta sia presa in considerazione e valutata in modo corretto.

Ecco perché si dice che la giustizia amministrativa in Italia nasce sul presupposto della specialità dell’amministrazione, e corrobora al rafforzamento di questa specialità, di questa natura derogatoria, rispetto al diritto che vale per i privati, dei suoi poteri e delle sue responsabilità: legata all’interesse legittimo, la giustizia amministrativa sancisce che i rapporti tra privati e amministrazione non sono rapporti tra pari, ma tra due soggetti gerarchicamente ordinati (il potere pubblico, sopra, l’interesse privato, sotto). E, con la sua stessa esistenza, la giustizia amministrativa corrispondente all’intera estensione dell’attività discrezionale dell’amministrazione, conferma la sottrazione dell’attività amministrativa alla conoscenza del giudice ordinario.

Va anche considerato che l’interesse legittimo, secondo un principio che si affermò subito per cadere solo nel 1995 grazie a una importante sentenza della Corte di Cassazione) non è risarcibile: se si accerta che l’atto amministrativo è viziato, nessun risarcimento è dovuto al privato (per esempio, per non aver potuto realizzare i guadagni, che avrebbe realizzato se l’autorizzazione ad aprire il suo pubblico esercizio non gli fosse stata illegittimamente negata).

Un altro aspetto molto significativo del carattere derogatorio rispetto alla giustizia amministrativa rispetto alla giustizia ordinaria emerge se si considera che ciò a cui la posizione di interesse legittimo abilita il privato è soltanto a sollevare un ricorso, nel quale si fa valere un vizio dell’atto amministrativo, e tramite il quale si può ottenere l’annullamento dell’atto. Certo, in alcuni casi l’annullamento dell’atto può essere un risultato utile per il privato, ma in molti casi il privato si lamenta non tanto perché aveva interesse all’annullamento, ma perché aveva interesse a un atto di diverso contenuto. Questa è un’esigenza che non è possibile far valere, perché il contenuto degli atti amministrativi appartiene alla sfera insindacabile dell’amministrazione.

Per spiegare la titolarità in capo al privato di una posizione soggettiva che gli dava azione in giudizio per ottenere, in molti casi, niente, la dottrina teorizzò che l’interesse legittimo era da concepirsi come un interesse necessariamente coordinato all’interesse generale. Poiché è l’ordinamento nel suo complesso ad avere interesse a che è l’amministrazione agisca secondo la legge, legalmente, il privato

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può, facendo valere il suo interesse legittimo, azionare i meccanismi di controllo che sono preposti alla verifica del rispetto di questo interesse. Anziché ricevere tutela e riconoscimento come tale, in altri termini, l’interesse privato veniva subordinato all’interesse pubblico.

10.Il processo amministrativo

Nella legge del 1889 venivano anche contornati i caratteri del processo amministrativo:

- come processo di sola legittimità, che ha ad oggetto l’atto emanato dall’amministrazione, non il rapporto sottostante, cioè non tiene in alcun modo conto di come in concreto si atteggi la posizione del privato, degli elementi di fatto che possono far apprezzare la portata dell’atto nei suoi specifici confronti, tanto meno della ragionevolezza dell’apprezzamento discrezionale fatto dall’amministrazione in rapporto alle concrete circostanze;

- e come processo puramente demolitorio, perché può giungere all’annullamento dell’atto, non alla sua riforma o modifica.

11.I vizi dell’atto amministrativo

La natura e l’estensione cognizione del giudice amministrativo sull’atto dell’amministrazione vennero definite, nella legge del 1889, attraverso tipi di vizi che l’atto poteva soffrire:

- incompetenza: è il vizio dell’atto emanato da autorità diversa da quella che la legge o il regolamento autorizzano;

- violazione di legge; è il vizio dell’atto emanato senza rispetto di norme di procedimento inerenti l’adozione dell’atto, per es., mancata acquisizione di pareri obbligatori;

- eccesso di potere: è il vizio dell’atto che è stato adottato non in vista del fine pubblico che l’amministrazione è incaricata di curare, ma in vista di altro fine. Poiché il sindacato del giudice amministrativo non può però estendersi al merito dell’atto, ossia alla valutazione discrezionale che esso contiene, l’eccesso di potere è dedotto da elementi sintomatici, esterni al merito, che possono rivelare, segnalare, lo sviamento di potere. Gli esempi più immediati di ‘sintomo’ di eccesso di potere sono la carenza contraddittorietà o illogicità della motivazione dell’atto; e poiché l’obbligo generalizzato di motivazione degli atti amministrativi è stato introdotto solo nel 1990, si può comprendere che prima di allora l’eccesso di potere abbia avuto una portata piuttosto limitata.

12. Da ieri a oggi: il problema della giustizia amministrativa come grande costante del diritto pubblico italiano

Il metodo del riparto tra le giurisdizioni basato sulle situazioni giuridiche soggettive, di diritto o interesse, di cui il privato è portatore ha caratterizzato anche larghissima parte dell’esperienza repubblicana, per essere progressivamente affiancato, e oggi si può dire sostituito, da un criterio di riparto per blocchi di materie, che cioè individua la competenza del giudice ordinario o del giudice

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amministrativo a seconda della materia considerata o della provenienza dell’atto (ad es.: pubblico impiego, contratti e appalti, atti delle autorità indipendenti, atti delle amministrazioni pubbliche). Il processo amministrativo rimane un giudizio di mera legittimità e a carattere demolitorio, ma il criterio per scegliere le materie da affidare alla conoscenza del giudice amministrativo non è più fatto consistere nell’interesse legittimo, ma nel carattere delle materie (venendo assegnate, almeno in linea di tendenza, al giudice amministrativo quelle in cui la PA esercita prevalentemente poteri pubblici di tipo autoritativo, e al giudice ordinario quelle in cui essa agisce prevalentemente in moduli contrattuali di tipo privatistico). E’ innegabile peraltro che la nuova concezione ha sicuramente contribuito al maturare, nel giudice amministrativo, di una maggiore alterità rispetto alla pubblica amministrazione, non mancando numerosi esempi di decisioni in cui il giudice amministrativo, specialmente di primo grado, si mostra assai poco deferente verso l’amministrazione. Se il giudice amministrativo ha sicuramente guadagnato una certa indipendenza culturale, di mentalità e di giudizio, anche grazie all’impegno teorico di una parte, peraltro non maggioritaria, della dottrina amministrativistica, resta il gravissimo problema della sua insufficiente indipendenza organizzativa e funzionale, particolarmente debole nel caso del Consiglio di Stato (oltre a essere nominato in parte dal Governo, il Consiglio di Stato può trovarsi a giudicare su atti il cui testo, come avviene per i regolamenti del governo, ha esso stesso stilato; o su provvedimenti di Ministri, dei quali i consiglieri sono stati consulenti fino al giorno prima). Nel fatto che nel nostro paese le discussioni sull’indipendenza, correttezza e professionalità della magistratura ordinaria siano quotidiane, mentre la limitata indipendenza del giudice amministrativo sia un problema denunciato solo da un drappello di esperti, può essere visto un effetto di lungo periodo della separazione, dell’isolamento che, anche rispetto all’opinione pubblica e ai suoi dibattiti, la ‘specialità’ dell’amministrazione e della sua giustizia hanno significato in Italia.Non ci si può d’altronde esimere dal considerare che i grandi problemi che attanagliano l’efficienza e la trasparenza dell’azione amministrativa nel nostro Paese risalgono anche ai limiti che, al tempo dell’unificazione, presiedettero alla costruzione del modello amministrativo italiano, e, questo, sia dal punto di vista della organizzazione amministrativa, sia dal punto di vista della giustizia amministrativa.Si volle costruire un’amministrazione separata dalla società: per esempio, come abbiamo visto, una amministrazione locale controllata dall’alto, dallo stato centrale. L’intenzione, o la speranza, era verosimilmente quella che, in tal modo, l’amministrazione avrebbe agito solo perseguendo il pubblico interesse, senza rimanere impigliata nei particolarismi, o condizionata dalle pressioni di gruppi di interesse. Si costruì un processo amministrativo nel quale le ragioni che avevano condotto l’amministrazione ad adottare un certo atto con un certo contenuto, e non un altro, rimanevano insindacabili. Anche in questo caso l’intenzione era quella di impedire che i punti di vista, gli interessi dei destinatari dell’azione amministrativa, cioè dei privati, influissero su di essa, condizionandola. Si temeva che ciò avrebbe nuociuto alla individuazione e realizzazione dell’interesse pubblico. Una amministrazione così concepita, chiusa, impenetrabile, distante, ma anche autoreferenziale (perché non sottoposta a controlli esterni), finì purtroppo per essere condizionabile solo per vie occulte e trasversali, diventando preda e territorio di pratiche clientelari e corruttive.

Inoltre, assicurare alla amministrazione un suo giudice, ad essa molto simile e completamente compreso nel compito di proteggerne la specialità, ha significato approfondire quella condizione, per cui l’interesse pubblico ha un soggetto deputato a valutarlo, soggetto che è diverso dalla comunità dei cittadini, segue regole diverse, ha una responsabilità diversa, è legittimato, per difendere i suoi atti, ad usare argomenti e modelli di ragionamento del tutto diversi da quelli che si usano tra i comuni cittadini. Questo ha creato un certo solco tra il senso comune e la razionalità amministrativa. In questo dato (che è quello che rileviamo, per esempio, tutte le volte in cui ci chiediamo come mai certi lavori pubblici vengono svolti in un certo modo anziché in uno che sembra più rispondente ai bisogni della gente

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comune, o ci interroghiamo sui motivi di questa o quella scelta dell’amministrazione) consiste è il vero elemento di specialità dell’amministrazione che si mantiene nel tempo, pur nel cambiare delle sue forme d’azione (oggi l’amministrazione preferisce moduli contrattuali e privatistici a quelli autoritativi, peraltro sempre esistenti) e delle sue modalità organizzative

IV. LA COSTRUZIONE DOGMATICA DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO

Con la costruzione dello stato-pubblica amministrazione e il perfezionamento della giustizia amministrativa l’Ottocento costruisce un lessico di diritto pubblico, che descrive la macchina statale e le sue componenti essenziali. Poiché questo lessico è ancora in uso, è bene prendere confidenza con esso, rimettendo qui in ordine una serie di nozioni, alcune delle quali abbiamo via via incontrato nel nostro percorso.

1.Il provvedimento amministrativo

La giustizia amministrativa, costruita intorno all’atto, è stata anche l’ambito in cui si sono progressivamente definite le caratteristiche specifiche e distintive dell’atto amministrativo, intendendosi per tale quella manifestazione della attività amministrativa che contiene valutazioni discrezionali. Ognuno dei tre poteri dello stato, si insegnò, si esprime attraverso atti tipici: il legislatore fa la legge, il giudice la sentenza, l’amministrazione il provvedimento.

I caratteri distintivi del provvedimento amministrativo sono la unilateralità, l’esecutorietà, l’imperatività e la sindacabilità solo per vizi di legittimità.

- Il provvedimento amministrativo è un atto unilaterale, perché l’amministrazione lo adotta senza bisogno del consenso dell’interessato, e qualche volta anche contro la sua volontà (si pensi a una multa, o al provvedimento di diniego) e questo lo differenzia dal contratto.

- Il provvedimento amministrativo è un atto esecutorio perché, per portarlo a esecuzione, la pubblica amministrazione non deve rivolgersi al giudice (come deve fare invece fare il privato23) ma può farlo direttamente: la multa inevasa diventa una cartella esattoriale in seguito al cui inadempimento la pubblica amministrazione può eseguire il pignoramento.

- Il provvedimento amministrativo è un atto discrezionale, perché nel decidere se adottarlo o meno, e con quale contenuto, la pubblica amministrazione deve compiere una valutazione inerente al modo migliore di soddisfare l’interesse pubblico che, con il potere di rilasciare quel provvedimento, le è stato affidato.

- Il provvedimento amministrativo può essere sindacato solo per vizi di legittimità (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere).

2. Soggetto di diritto, capacità giuridica e capacità di agire23 Quando un privato ottiene una sentenza che gli riconosce il diritto di ricevere da altri il pagamento di somme o l’esecuzione di opere, ma poi questa sentenza resta ineseguita, per ottenere l’adempimento forzoso deve rivolgersi un’altra volta al giudice, far accertare l’inadempimento, e ottenere una sentenza esecutiva che lo autorizza ad apprendere quelle somme o imporre quelle opere, tramite gli ufficiali della pubblica amministrazione.

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Altro perno della costruzione dogmatica del diritto pubblico che si definisce nel corso dell’Ottocento è dato dal concetto di ‘soggetto di diritto’, e da quello di capacità giuridica e d’agire, e di personalità giuridica.

Come soggetto di diritto si designano:

- Le persone fisiche e le persone giuridiche private nonché le associazioni e altre formazioni sociali anche prive di personalità giuridica.

- Le persone giuridiche pubbliche territoriali (enti territoriali), altri enti pubblici e forme organizzative dell’apparato pubblico territoriale.

Le persone fisiche sono gli esseri umani. Ognuno, fin dal momento della nascita, acquista la capacità giuridica, cioè la capacità di essere titolare di diritti e doveri (diritto alla vita, diritti ereditari) e, a partire da una certa età (la maggiore età e in casi stabiliti una età inferiore), la capacità d’agire, che è la capacità di compiere atti aventi conseguenze nel mondo giuridico, atti che, per ciò, sono detti ‘atti giuridici’ (conseguenze nel mondo giuridico sono per esempio: il sorgere di una obbligazione: stipulando il contratto di acquisto di un immobile le due parti si obbligano l’una a cedere il bene l’altra a corrispondere il prezzo).

Le persone giuridiche sono complessi di beni, risorse economiche e persone fisiche che, ai fini giuridici, sono considerati come una sola entità (es. una società per azioni, o una fondazione). Esse si distinguono in:

a) persone giuridiche private: sono quelle persone giuridiche che hanno una capacità giuridica e di agire analoga a quella delle persone fisiche (anche se non identica perché, per esempio, le persone giuridiche non possono compiere quegli atti che presuppongono l’esistenza fisica, come il matrimonio);e

b) in persone giuridiche pubbliche. Anche queste ultime sono complessi organizzati di beni, risorse e personale, unificati intorno a una missione, e si differenziano dalle persone private, perché mentre queste ultime hanno solo la capacità di agire di diritto privato, che consiste nella capacità di porre in essere atti volontari che, se hanno influenza sulla sfera giuridica altrui, richiedono il consenso di quest’ultimo (contratto), le persone giuridiche pubbliche hanno anche la capacità di diritto pubblico, che consiste nel potere di porre in essere atti unilaterali, ovverosia che non hanno bisogno del consenso degli interessati per essere efficaci nei loro confronti, come è il caso delle leggi e altri atti normativi, del provvedimento amministrativo e della sentenza giudiziaria.

Le persone giuridiche pubbliche si distinguono a loro volta in:

- Territoriali: lo Stato, e gli enti locali. Lo Stato è l’ente pubblico territoriale maggiore e lo si descrive come il titolare della sovranità su un certo territorio e nei confronti di un popolo. L’ambito spaziale della sovranità è definito dai confini (terrestri marittimi ed aerei); l’ambito personale dalla cittadinanza (lo stato ha la sovranità nei confronti di coloro che ne sono cittadini). Le persone giuridiche pubbliche ‘territoriali’ sono quelle che vedono il campo della loro competenza definito da certi ambiti territoriali o personali.

- Non territoriali. Per lo svolgimento delle loro attività gli enti pubblici territoriali possono dare vita a altre organizzazioni, dotate o meno di personalità giuridica. Se hanno personalità giuridica queste organizzazioni vengono designate come enti pubblici. Gli enti pubblici possono avere poteri normativi ed esecutivi nei limiti in cui lo Stato o l’ente pubblico territoriale di

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riferimento (nel caso di enti pubblici creati da un ente locale) li deleghi loro. L’ente pubblico può essere, e spesso ha avuto, una missione di tipo economico: ente per la costruzione delle strade e autostrade; ente poste; ente ferrovie, ente energia elettrica, ente telecomunicazioni. L’ente è una figura autonoma rispetto al Ministero, ha un bilancio distinto, propri organi, ma è raccordato al Governo in vari modi: dalla composizione degli organi direttivi, di nomina ministeriale, dai regolamenti e leggi che specificano finalità e poteri dell’ente; dagli atti di indirizzo ad esso rivolti dal Governo o dal Ministero competente per materia; dagli stanziamenti di bilancio pubblico che vanno a comporre le risorse materiali dell’ente. Grazie a questi raccordi, l’ente pubblico, pur godendo di autonomia organizzativa, è collocato nell’orbita dell’indirizzo politico, e il Ministro è responsabile della sua azione. Analoghe considerazioni possono valere per la figura dell’ azienda autonoma, utilizzata a livello locale.

-3. La nozione di ente e di organo

Ente è dunque il termine con cui si indica ogni una persona giuridica (privata o pubblica, territoriale o non territoriale). Gli enti agiscono per mezzo di organi, ovverosia di persone o apparati che le rappresentano. Organi di una persona giuridica privata società per azioni sono il consiglio di amministrazione, l’assemblea degli azionisti, l’amministratore delegato. Organi dello Stato sono il Parlamento, che esprime la volontà legislativa, il Governo, titolare del potere esecutivo, la Magistratura, che esercita la funzione giurisdizionale. Il rapporto tra l’organo e l’ente è un rapporto di immedesimazione: l’atto compiuto dall’organo si imputa all’ente cui appartiene.

Sezione III: La magistratura

1. L’attività giurisdizionale come mera applicazione della legge

Nel periodo liberale la giurisdizione (e ci riferiamo qui alla giurisdizione ordinaria, civile e penale) è concepita come una forma di esecuzione della legge, cioè una attività analoga a quella amministrativa ma dotata di minore discrezionalità, consistendo nell’applicazione della legge ai casi concreti, cioè nella specificazione, con riferimento a un singolo caso, delle previsioni e delle conseguenze fissate in generale dalla legge per quel tipo di caso. Accentuare la somiglianza tra amministrazione e giurisdizione è andato per più profili a discapito della indipendenza della magistratura. Quest’ultima, che nello stato liberale (e particolarmente in quello italiano) soffriva di una limitatissima indipendenza organizzativa, perché era molto condizionata dal Governo, aveva una ancor più limitata indipendenza e autonomia di giudizio e di valutazione, proprio perché la si voleva ridotta a una mera attività ‘esecutiva’.

Lo statuto albertino definiva la magistratura un ‘ordine’ e non, a differenza del legislativo e dell’esecutivo, un potere. Così facevano anche altre costituzioni del tempo, in particolare quella belga del 1830. Quella espressione (“ordine”) significava che la magistratura veniva riguardata come consistente nel complesso dei giudici, che compongono una parte dell’organismo statuale, e non dal punto di vista della funzione autonoma che i giudici adempiono nell’organismo statuale (Allegretti, p. 487, citando Racioppi e Brunelli). Oltre a dire che la giustizia ‘emana dal re’ ed è ‘amministrata in suo nome dai giudici che egli istituisce’, lo statuto sminuiva l’indipendenza e l’autonomia del giudiziario in particolare assegnando al re la nomina dei giudici, e cioè consegnando al governo l’intero loro status

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(carriera, promozioni, destinazione, revoca, assegnazioni). Interpreti liberali come Racioppi e Brunelli si sforzarono invano di dimostrare che la formula ‘la giustizia è amministrata in nome del re’ non significava che essa poteva essere esercitata per comando o a norma del re, come le funzioni esecutive; ma le norme dello statuto recavano inequivocabilmente una accezione restrittiva della magistratura, che ne escludeva sia l’autonomia organizzativa, sia l’autonomia di giudizio, e come tali vennero intese e applicate.

Lo statuto, e il modo in cui venne applicato, le ferite che furono inferte all’autonomia del potere giudiziario e alle connesse garanzie dei cittadini, erano

“espressione della tradizione giudiziaria piemontese. Prima dello Statuto non esisteva, nel regno sabaudo, una tradizione di indipendenza sia pur formale della magistratura dalla monarchia e dal potere esecutivo: le nomine avvenivano in base a criteri del tutto arbitrari del governo, non esisteva una progressione di carriera garantita o prevedibile, i giudici erano sempre revocabili da parte del sovrano, gli stipendi, bassissimi, potevano essere dai magistrati integrati esercitando l’avvocatura”24.

In attuazione dello statuto albertino, con la legge Rattazzi n.. 3781 del 1859 lo status della magistratura italiana venne unificato intorno alla tradizione assolutistica piemontese:

“si lasciarono così cadere quelle maggiori garanzie della funzione giudiziaria che provenivano dalle legislazioni lombardo-venete, toscana e napoletana (dalle quali molte procedure riguardanti lo status dei magistrati erano affidate allo stesso ordine giudiziario, e che, particolarmente quella napoletana, erano più complete ed efficienti) e non mancarono infatti polemiche, in varie regioni, all’atto dell’estensione degli ordinamenti più arretrati del Piemonte.”25 (Allegretti, p. 490).

Secondo Allegretti, ricorre nel caso della magistratura quanto lo stesso atteggiamento che aveva presieduto alla strutturazione dell’autonomia locale, dell’azione e organizzazione amministrativa, delle libertà fondamentali e della disciplina dell’economia: un atteggiamento che consisteva nell’attribuire al governo il primato sulle istituzioni italiane. Ciò era dovuto anche alla imperfetta transizione alla forma di governo parlamentare, per cui il governo non fece, nel periodo liberale, che acquistare poteri, anche poteri che sarebbero spettati al re, ma il re non diventò mai organo di garanzia del corretto funzionamento degli altri poteri dello Stato, controllore del governo nell’uso spesso scorretto delle competenze da esso guadagnate (Allegretti, p. 490).

In sostanza, durante lo Statuto la convinzione di fondo fu sempre che

“il magistrato non è che un delegato del potere esecutivo, il potere giudiziario non è che una funzione del governo, a lui spetta bensì il mantenimento dell’ordine e della giustizia ma lo spirito che lo informa è o deve essere quello del governo”

24 U. Allegretti, cit., p. 489, che riferisce da Tranfaglia, 1978, e D’Addio, 1966.

25 Non a caso, osserva nel 1890 Merlino: “i magistrati napoletani conservati nel nuovo ordinamento sono stati di fatto, non fosse che per reazione, i più indipendenti. La Corte di Cassazione di Napoli ha respinto a lungo le più esorbitanti pretese fiscali, ed è per aggirare tale difficoltà che è stata istituita a Roma la sezione fiscale, possiamo chiamarla così, della Corte di Cassazione, e che sono state recentemente soppresse le sezioni di Corte d’Assise di Napoli, Palermo, Firenze e Torino ed è stata concentrata la direzione della giustizia penale in una Corte unica di Cassazione penale a Roma. Gli uomini del potere sono posseduti dalla mania della centralizzazione: vorrebbero stringere l’intera nazione in pugno” (F.S. Merlino, L’Italia qual è, p. 142).

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Riportando queste parole scritte nel 1870 da Brunialti, Allegretti aggiunge che durante lo stato liberale la magistratura aderì “a un ruolo che può definirsi anche se non in maniera esclusiva di custode dell’autoritarismo dell’ordinamento, autoritarismo del quale, per suo conto, il governo era la massima espressione sul piano politico e istituzionale” (p. 496).

2.La mancanza di indipendenza organizzativa della magistratura ordinaria

“La giurisdizione è preposta all’organica attuazione della sovranità dello Stato, in antitesi alla suddivisione delle giurisdizioni, che, parallela al frazionamento della sovranità, costituì una delle caratteristiche dello Stato feudale.”26.

Avendo concepito la magistratura come una branca dell’amministrazione (l’amministrazione della giustizia), lo stato unitario la organizzò come un corpo gerarchicamente strutturato e dipendente dal Ministro di Grazia e Giustizia, e tramite esso dal Governo. Non diversamente dagli altri funzionari, i magistrati erano sottoposti a valutazioni del potere esecutivo, ossia del potere politico, quando si trattava degli avanzamenti di carriera; e soprattutto quando si trattava dei trasferimenti, che venivano usati come premio per magistrati fedeli, o come punizione per quelli i cui orientamenti non erano graditi al governo.

Nel 1873, un decreto governativo27 cercò di porre ordine nella situazione stabilendo che promozioni, nomine e tramutamenti, cioè i cambiamenti di sede, potessero essere fatti dal Ministro solo su proposta di una commissione scelta dalla magistratura stessa, e che in caso di trasferimento di un magistrato senza il suo consenso, l’interessato dovesse essere sentito. Ma nel 1878 questa previsione venne abrogata, in quanto ostacolava il ‘celere e retto andamento dell’amministrazione della giustizia’ e ritardava la “unificazione della magistratura”, per affrettare la quale occorreva la “balìa del ministro”. Così “ad un tratto in sei mesi furono tramutati 122 magistrati, anzi 211 se si contano quelli che furono promossi” , annotò Marco Minghetti (I partiti politici, cit. p. 134), per poi commentare:

“Io non pongo in dubbio le buone intenzioni del Ministro, ma è certo che fu un momento nel quale la magistratura perse quella sicurezza che è la migliore guarentigia della sua indipendenza. Gli animi anche degli onesti ne furono commossi, gli uomini fiacchi di carattere irruppero nella servilità. Anche Mirabelli nel suo libro notava che il prestigio dell’ordine giudiziario era stato mortalmente ferito, ‘né può ritornare al suo stato sano e vigoroso senza togliere di mezzo le cagioni del male’. Imperocché quando la indebita ingerenza della politica nella giustizia si fa sentire, i magistrati come tutti gli altri impiegati dello stato van ricercando il loro patrono, del quale diventano satelliti, e lo spirito di clientela soppianta il dovere dell’ufficio”.

Ancora nel 1913, si poteva scrivere:

“Il Governo può agire sui magistrati sia per mezzo delle nomine, sia per mezzo delle promozioni, sia per mezzo dei trasferimenti, sia con le punizioni vere e proprie. Ma più che con le nomine e i

26 V.E. Orlando, Principi di diritto costituzionale, cit., p. 211.

27 Decreto Vigliani, n. 1515 del 1873, che fu l’unico, temporaneo sbocco di alcuni tentativi di riforma della legge Rattazzi, suscitati da manifestazioni di sdegno nei suoi confronti sollevate da una parte dell’opinione, che pur non mancarono (secondo Musio, Sul riordinamento giudiziario, Ancona, 1862, ‘l’attuale legge giudiziaria è fatta … colla necessaria conseguenza di darci magistrati servi’). Allegretti, ci, p. 493, da cui anche la citazione di Musio, osserva d’altro canto che il decreto Vigliani “con la sua natura regolamentare ribadiva che il governo era dominus dello status dei magistrati come dei pubblici ufficiali”.

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trasferimenti, i magistrati possono essere minacciati nella loro indipendenza dai trasferimenti, che sono spesso vere e proprie punizioni, e più pericolosi delle punizioni manifestamente inflitte, perché mentre queste possono trovare una eco nella pubblica opinione, i trasferimenti o possono passare inosservati, o possono più agevolmente giustificarsi con ragioni di servizio e di opportunità, o magari anche di promozione”.28

L’inamovibilità della magistratura garantita dallo statuto fu intesa perciò, durante sostanzialmente tutto il periodo liberale, come limitata al grado e allo stipendio, non alla sede. Soltanto nel 1908, con una riforma introdotta da V.E. Orlando guardasigilli di Giolitti, il concetto di inamovibilità viene esteso anche alla sede, ma per i pretori, cioè per i giudici inferiori, solo ciò avviene solo nel 1912. Con la riforma del 1908 venne inoltre istituito, per l’amministrazione delle carriere dei magistrati, un Consiglio superiore, con funzioni consultive, composto peraltro di soli magistrati di grado elevato, almeno fino al 1921, in cui il consiglio assunse, per metà, una funzione interamente rappresentativa di tutta la magistratura (Allegretti p. 495).

3.La dipendenza dal Governo degli uffici del pubblico ministero

Un altro carattere dell’organizzazione giudiziaria, che incideva molto negativamente sull’indipendenza dei magistrati dal Governo, era la organizzazione degli uffici del pubblico ministero, a quell’epoca considerati non una parte della magistratura, ma diretta espressione del governo. Osservava Miceli:

“La disposizione del decreto legislativo n. 2626 del 1865 dichiara che il pubblico ministero ‘è il rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria’. E’ vero che questa espressione può essere interpretata in un significato liberale, sostenendo che con essa il legislatore non abbia voluto accennare ad altro che alla principale e fondamentale funzione di quest’organo, che è quella di promuovere la repressione dei reati, ma in pratica non è stato sempre questo il significato che le si è attribuito”.

Il pubblico ministero era (ed è) l’organo che ‘promuove l’azione penale’, cioè, ricevuta notizia di un reato, svolge insieme alla polizia le prime indagini, e poi, a seconda degli esiti di queste ultime, solleva l’azione, cioè apre un processo contro qualcuno. A differenza del processo in materia civile (contratti, famiglia, lavoro) in cui è la persona privata che si ritiene lesa in un suo diritto ad aprire il processo, il processo penale è sempre iniziato29 da una azione pubblica, perché, in quanto titolare della funzione d’ordine pubblico, è lo stato la persona offesa da ogni reato, e, in quanto monopolista dell’uso legittimo della forza, è l’unico titolare della potestà punitiva30. Così lo stato avvia i processi penali tramite il pubblico ministero, che poi vi rappresenta la ‘pubblica accusa’.

La dipendenza del pubblico ministero dal Governo aveva per effetto che l’azione penale fosse esercitata, o non esercitata, secondo le convenienze, e spesso seguendo le implicite indicazioni, del Governo; spettava inoltre al pubblico ministero il potere di decidere promozioni e trasferimenti della

28 Diritto costituzionale, cit., p. 924.

29 Ad eccezione delle limitate ipotesi di ‘querela di parte’, in cui l’apertura del processo penale è rimessa alla volontà della persona offesa, vuoi perché si tratta di processi che riguardano aspetti intimi della vita, che la persona potrebbe non volere rendere pubblici tramite il processo, vuoi perché si tratta di offese penali di ritenuta lieve gravità, alla cui repressione lo Stato ha minore interesse.

30 Mentre le persone offese dal reato, per esempio i parenti della vittima di un omicidio, si costituiscono come parti private, per chiedere per esempio il ristoro dei danni, morali o economici, loro derivati dal delitto.

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magistratura giudicante, e di iniziare l’azione disciplinare (Allegretti, p. 491) con evidenti effetti di condizionamento sul merito delle decisioni.

Agli aspetti organizzativi e istituzionali, si legavano quelli antropologici o sociali. Si pensi al legame tra politica e magistratura rappresentato dai numerosi deputati-avvocati e deputati-magistrati, da cui una diffusa corruzione della magistratura. In larghe aree del paese, infatti, gli gli eletti dovevano alla camorra la propria elezione, ma ogni camorrista elettore ‘è di conseguenza intoccabile”.

“Con queste premesse, si capisce come non ci sia nulla che il Governo, per amore o per forza, non abbia ottenuto dalla Magistratura: condanne, assoluzioni, favoritismi in materia civile, gli uni più scandalosi degli altri”, osservava Francesco Saverio Merlino (p. 135).

A questo riguardo, una pagina di Minghetti mette molto bene in evidenza come la mancanza di indipendenza della magistratura sia al tempo stesso un male in sé, e un male in quanto genera nella società sfiducia e disincanto verso la giustizia:

“Il procuratore del re non procede per azione pubblica con norme costanti, ma ha mestieri di esservi eccitato dal governo. Laonde si vedono atti e trattamenti disformi, e a sbalzi: e talora tradursi innanzi ai tribunali associazioni sovversive e comunistiche, talora lasciarle fondare e liberamente e apertamente dilatarsi; e in simil modo in qualche caso perseguiti i giornali, in altri identici casi non darsene per inteso. Non di rado ancora sulle stampe si fa spregio dei buoni costumi, senza che le regie procure vi pongano attenzione. E poi a un tratto ecco una specie di foga per la quale da un capo all’altro della penisola le regie procure si agitano, denunziano, sequestrano. Di che la opinione popolare fa questo giudizio, senza pur avvertirne la gravità, che l’azione loro non è spontanea ma ordinata dal Ministero centrale. La quale differenza nel modo di procedere in circostanze identiche perturba il senso morale, e non è senza scapito del rispetto dovuto alla legge.31”

4.Carattere inquisitorio del processo penale

Il sentimento della magistratura di essere ‘dalla parte del potere’ e non dei cittadini era alimentato anche dalle regole che disciplinavano il processo, in particolare quello penale. Si trattava di un processo ‘inquisitorio’ cioè che attribuiva alla parte pubblica, al pubblico ministero, enormi poteri nella raccolta delle prove e di condizionamento nell’iter del processo, del tutto squilibrati rispetto a quelli attribuiti alla difesa. Le ricadute culturali di questo tipo di processo32 sono chiaramente percepite da Miceli:

31 Minghetti, op. cit., il quale elenca numerosi esempi di ingerenza della politica nella giurisdizione. Per esempio, tra i deputati vi fossero molti avvocati di grido, dava luogo ad abusi come ‘interpellanze circa l’interpretazione di una legge sollevate in seguito a una sentenza proferita contro i suoi clienti in primo grado, e mentre pendeva l’appello”. Molte cause ‘vinte da deputati eminenti in onta all’opinione e all’aspettativa universale’ in prossimità di ‘avanzamenti’ nelle carriere dei magistrati dettero ‘spazio a sospetti, che sempre tornano in detrimento del prestigio onde la magistratura deve sempre essere adorna”. Minghetti concludeva che “Tutto ciò fa sì che uomini d’età e ragguardevoli temono forte, e taluni osano affermare, che sotto i governi che dominarono l’Italia dal 1815 al 1860 la giustizia fosse meglio amministrata, e il ceto dei magistrati più rispettabile e più rispettato di quello che sia oggidì”.

32 In Italia si è adottato un modello ‘accusatorio’ di processo solo nel 1987. Il modello accusatorio mette sullo stesso piano accusa pubblica e difesa, e risponde al principio per cui la prova si forma nel contraddittorio, cioè ogni prova raggiunta dal pubblico ministero nella fase preliminare delle indagini, deve essere fatta conoscere alle altre parti, e confermata davanti al giudice.

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“Esiste una connessione tra i sistemi processuali e le forme di regime politico. La tendenza propria dei governi dispotici di accentrare il potere in poche mani e di mantenere assai alto il principio di autorità, porta a considerare le perturbazioni dell’ordine pubblico e le violazioni del diritto, di qualunque genere esse siano, quali offese apportate ai detentori del potere. Il sentimento di sospetto, onde allora i governanti sono dominati, induce a riguardare l’imputato come un colpevole, a conferire al giudice poteri inconciliabili con l’imparzialità del suo ufficio e col suo compito giudicante, come anche ad escludere il contraddittorio, a ridurre i diritti della difesa, a mantenere segreti non solo gli atti istruttori ma anche il dibattimento. E’ così che i governi dispotici tendono per la loro psicologica natura verso il sistema inquisitorio. Si capisce che un ordine di idee di sentimenti del tutto opposto debba produrre nei governi liberi la tendenza verso l’opposto sistema.33”

Caratteristica del processo penale italiano è sempre stata inoltre una notevole squalificazione del ruolo della giuria popolare, altrimenti da considerarsi il vero e proprio ‘giudice naturale’ del processo penale. Nel 1874 le categorie dei sorteggiabili vennero ristrette a cittadini dotati di istruzione, particolare esperienza, e proprietari paganti da 100 a 300 lire di imposta (Allegretti, p. 492); dalle giurie popolari vennero ‘sistematicamente esclusi tutti coloro che sono considerati di idee democratiche, sostituiti con un ragguardevole numero di agenti di polizia e funzionari” (F.S. Merlino, p. 129).

Le figure di reato vaghe, i reati di opinione che permettevano di perseguire i socialisti con imputazioni come ‘cospirazione, istigazione alla guerra civile e associazione per delinquere’, il ricorso a misure di sicurezza come l’ammonizione, il foglio di via o il domicilio coatto inflitti su denuncia segreta della polizia e senza prove (reati di sospetto) (Merlino, p. 121) aumentavano le possibilità per la magistratura di porsi al servizio degli interessi del potere politico. Alla polizia venivano lasciati larghissimi poteri; non era rara la connivenza tra la polizia e la mafia e la camorra, o con il gioco del lotto clandestino; spesso gli agenti erano reclutati tra i reduci del bagno penale o del domicilio coatto (Merlino, p. 117, che così la descrive: “l’intangibilità della polizia è divenuta un canone di diritto costituzionale. Protetta nella persona dei suoi capi, per uno speciale privilegio, da ogni intervento della giustizia, difesa continuamente alla Camera da ministri pieni di zelo, non a favore della libertà e dell’inviolabilità degli individui, ma a favore del prestigio dell’autorità, la polizia gode di totale impunità per tutti gli abusi e i crimini che commette con il pretesto di difendere la vita e la libertà dei cittadini”). I numerosi casi di misure di sicurezza facevano inoltre sì che il lavoro del magistrato si confondesse spesso con quello di un poliziotto: “sbrigando ogni giorno i casi di parecchie dozzine di ammoniti, colpevoli soltanto di una infrazione o di aver dimenticato qualche insignificante formalità, il giudice finisce per confondere il suo compito con quello del poliziotto. Ne risulta un’evidente decadenza del corpo giudiziario, colpito non più dall’esterno ma dall’interno, nello stesso criterio che deve reggere l’amministrazione della giustizia” (Merlino, p. 141). Di analogo schiacciamento sulle modalità di coloro che avrebbero dovuto controllare furono accusati i magistrati di sorveglianza nelle prigioni dove, veniva lasciato dominare l’arbitrio e la violenza: “Le nostre prigioni, preventive o correzionali, sono forse le peggiori che esistano nei paesi civili. (…) Ed in queste prigioni, abbandonate al vergognoso affarismo dei direttori, degli appaltatori e dei fornitori, regna l’arbitrio sfrontato di carcerieri senza cuore e senza intelligenza, arbitrio permesso, voluto, garantito nelle sue criminali conseguenze non soltanto dai superiori gerarchici degli stessi carcerieri, ma da quei magistrati, più crudeli degli stessi carcerieri, e più incuranti dei propri doveri, che la legge incarica di visitare le prigioni e di ascoltare i reclami dei detenuti” (Merlino, p. 130).

33 V. Miceli, Diritto costituzionale, cit., p. 936-937.147

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5.La mancanza di indipendenza interna

Oltre che fortemente dipendenti dal Governo, i magistrati erano privi di indipendenza interna, cioè verso gli altri magistrati.

La magistratura era organizzata gerarchicamente, secondo un sistema di progressioni in carriera decise in base ai pareri dati dai magistrati di grado elevato dei singoli distretti, nei confronti dei magistrati di grado inferiore. Inevitabilmente, un giovane magistrato che volesse far carriera era portato a uniformarsi alle tipologie di giudizio, agli stili interpretativi, e agli orientamenti di merito, di cui erano portatori i giudizi anziani e di alto grado; inutile dire che se, nelle condizioni di dipendenza verso il governo appena descritte, un giudice anziano aveva anche un alto grado, era perché si era dimostrato sufficientemente conformista e docile ai condizionamenti, attitudine che poteva trasmettere ai giovani mediante i giudizi sul loro operato.

In questo contesto, la funzione di ‘nomofilachia’ affidata alla Corte di cassazione quale supremo giudice di legittimità fungeva anch’essa da motore di condizionamento culturale. Come torneremo a precisare, in questa funzione la Cassazione pronuncia la interpretazione corretta della legge con riferimento a singoli casi, potendo ‘cassare’ le sentenze di merito difformi dal suo orientamento. A titolo di commistioni tra politica e magistratura, che di quest’ultima inquinavano l’indipendenza, merita menzione il fatto che, a tenore dello Statuto, la carica di primo presidente, presidente e consigliere di Corte di cassazione, e di primo presidente di corte d’appello apriva le porte alla nomina, vitalizia, a membro del Senato.

La Cassazione inoltre disponeva del potere di ‘avocazione’ dei processi, che le permetteva di spostare da una sede all’altra i processi di merito; potere che all’epoca veniva manifestamente esercitato allo scopo di assegnare a certi collegi determinati processi in funzione del loro contenuto, o della persona degli imputati, e per ottenere una decisione considerata politicamente preferibile.

6. La mancanza di indipendenza culturale

Nel senso di educare i magistrati a un accentuato conformismo andava la formazione giuridica dominante al tempo, improntata al ‘positivismo statualista’, cioè all’idea che il diritto è solo quello posto dallo stato con suoi atti normativi, e che il giudice è tenuto, nell’interpretare la legge, a una pretesa “neutralità”, intesa come astensione da ogni considerazione circa la giustizia, la proporzione, tra la legge e il caso regolato; così come da ogni considerazione circa la contraddittorietà o meno tra la legge che deve applicare e altre. I giudici erano abituati al ‘sillogismo deduttivo’: se la legge in generale e in astratto che nella fattispecie A si applica la conseguenza B, una volta stabilito che il caso in esame corrisponde alla fattispecie A, si applica la conseguenza B.

I giudici erano educati a un’interpretazione molto rispettosa del dato testuale della legge, e assolutamente scoraggiati a porsi domande sull’adeguatezza della legge al caso regolato, ai principi del diritto, o a norme fondamentali del diritto (come lo stesso Statuto avrebbe potuto essere considerato).

Lo spiega molto orgogliosamente questo passo da Vittorio Emanuele Orlando:

“Nel Medio Evo il giudice non di rado doveva trovare il diritto da applicare al caso singolo, onde può dirsi che partecipasse al potere legislativo, nel senso che oggidì vi si dà. Ma il sistema dei codici, in questo secolo prevalso e di cui l’Italia usa, suppone invece una rigorosa separazione della funzione legislativa dalla giudiziaria, e quindi l’obbligo strettissimo di applicare il testo legislativo, senza eluderlo né per ragioni di equità né col pretesto di far prevalere un preteso spirito della legge alla chiara espressione di essa”.

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Orlando si faceva qui portatore di una falsa concettualizzazione che si è affermata ed è durata molto nel tempo. Questa falsa concettualizzazione dice che ciò che tipicamente appartiene alla funzione giurisdizionale, cioè l’attività interpretativa, che naturalmente può richiedere, sia per colmare lacune della legge, sia per mitigarne gli abusi e le conseguenze inique, l’uso di criteri basati sull’analogia e sull’apprezzamento equitativo sarebbe invece, sempre e inevitabilmente, creazione di diritto nuovo e dunque usurpazione, da parte del giudice, della funzione propria del legislatore. Nella versione che ne dà Orlando, e tutta l’epoca liberale italiana, la separazione dei poteri diventa un dogma che serve a svalutare, squalificare e anche cancellare dal senso comune il fatto che l’esercizio della giurisdizione esprime una forma di ragione e di conoscenza alimentata, nei secoli, da un sapere professionale che si forma autonomamente, e il cui esercizio permette una dialettica con il legislatore che può contribuire a una espressione ragionevole e non arbitraria del suo potere. Impegnato invece nel garantire al legislatore supremazia e autonomia, il pensiero giuridico ‘ufficiale’ del periodo liberale si sforzò invece in tutti i modi di dimostrare che lo spazio interpretativo del giudice doveva assolutamente limitarsi a quanto necessario per realizzare nel modo migliore la volontà e le intenzioni della legge.

Il principio di separazione dei poteri veniva dunque utilizzato come la giustificazione per imporre al giudice una neutralità ammantata di tecnicismo che lo trasformava in uno strumento di rafforzamento degli indirizzi politici.

Le conseguenze durevoli di ciò, cioè di un giudiziario educato a farsi strumento passivo del legislatore, non avrebbero mancato a manifestarsi. Per esempio, per un giudice così abituato a ‘applicare la legge’ per come è, senza discutere, ci sarebbe stato poco da obiettare, e poco ci fu, nel 1938, alle leggi fasciste sulla razza, nonostante astrattamente vigesse ancora l’eguaglianza giuridica dei ‘regnicoli’ sancita dallo Statuto albertino. Tantomeno, davanti a leggi retroattive, come avvenne durante il fascismo, che sequestravano i patrimoni degli oppositori politici, o ne impedivano la carriera professionale, il giudice-funzionario poteva opporsi chiamando in ballo antichi principi del diritto come quello del legittimo affidamento, il principio antichissimo che assicura a ciascuno di continuare a godere dei propri diritti acquisiti a meno che un atto generale e valido solo per il futuro modifichi quei diritti per tutti gli appartenenti a una stessa categoria.

Molto negativo è poi il bilancio della capacità della magistratura ordinaria di sfruttare gli spazi di sindacato nei confronti della pubblica amministrazione, lasciati dalla legge del 1865. Allo stesso V.E. Orlando, che vi rifletteva nel 1907 come Ministro della Giustizia, la magistratura italiana appare ‘autoritaria’ e priva di uno spirito di corpo in grado di renderla autonoma rispetto alla amministrazione, con cui, abituata a considerarsi un mero corpo di funzionari, si identifica, e dunque più portata alla ‘solidarietà’ che non all’”antagonismo’ verso l’amministrazione, e priva comunque della sufficiente autorità (cit. in Allegretti, p. 498).

Non si rifletteva su quanto proprio l’educazione che pretendeva dal giudice l’atteggiamento di un mero esecutore della legge avesse influito nel disegnare questo quadro.

In particolare, la dottrina giuridica italiana negò sempre la possibilità di un controllo, da parte dei giudici, sulla legittimità della legge, cioè sulla sua conformità o a principi fondamentali del diritto, o alla legge suprema dello stato (lo Statuto), sul modello di quanto sin dagli inizi del 1800 la Corte suprema americana aveva iniziato a fare, rivendicando a se stessa, e proprio facendo appello direttamente e solo alla natura della funzione giurisdizionale, il potere di annullare le leggi contrastanti con la Costituzione. Tuttavia va a merito della giurisprudenza della Corte di Cassazione quello di avere sempre ammesso che un certo sindacato del giudice fosse possibile con riguardo ai requisiti formali degli atti normativi: l’annullamento, da parte della Corte di cassazione, di decreti legge per vizi del

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procedimento di approvazione (come l’entrata in vigore prima dell’apposizione del sigillo dello stato, il difetto della formula di promulgazione) è stato una evenienza rara ma non estranea alla esperienza statutaria.

Questo, come qualche altro non rarissimo esempio di autonomia di giudizio dei magistrati giudicanti rispetto alle politiche del processo portate avanti, per il governo, dai pubblici ministeri34, potrebbe ascriversi anche a una irriducibile tendenza del mestiere di giudice, anche se esercitato in condizioni molto sfavorevoli per l’indipendenza di giudizio, a costruire in chi lo esercita un habitus mentale tale, per cui resiste a diventare solo un ‘conduttore di decisionalità’, un ‘esecutore’ della volontà del legislatore. Si tratta di un habitus mentale che abitua a tenere in considerazione le ragioni dell’uno e dell’altro, e la natura dei fatti considerati, la proporzione tra una regola e il fatto cui va applicata e un patrimonio di principi, a partire da quello del contraddittorio, che il potere facilmente tende a calpestare.

E’ verosimilmente perché consapevole di ciò – in cui vedeva, anziché un valore, un rischio - che il periodo statutario mantenne sempre, come visto nei paragrafi precedenti, molto ristretti i limiti del sindacato del giudice sull’attività dell’amministrazione35, creò spesso e volentieri giudici speciali (cioè collegi giudicanti non formati da giudici ordinari civili e penali) cui deferì la decisione di materie politicamente delicate; tenne sempre in attività la giustizia militare (devolvendo spesso e volentieri di Tribunali di Guerra la cognizione di processi, ancorché implicanti civili inerenti fatti accaduti durante la sottoposizione di un territorio allo stato d’assedio).

7. Una educazione giuridica ‘scientista’

Le mentalità e le pratiche di cui i giudici e i giuristi si fanno portatori sono profondamente influenzate da ciò che viene loro insegnato. La ‘dottrina giuridica’, cioè l’insegnamento universitario del diritto, gioca in questo un ruolo centrale, e soprattutto lo giocò durante il Regno d’Italia. La maggior parte dei giuristi che si occupavano del diritto pubblico scelsero di conferire allo studio della materia un atteggiamento ‘scientista’, assumendo nel loro insegnamento il tono per cui una certa tesi è ‘falsa’ e un’altra tesi è ‘vera’ in forza di pretese dimostrazioni logico deduttive, che peraltro tiravano spesso in ballo argomenti ben poco scientifici come la ‘coscienza del popolo’ o il ‘naturale sviluppo delle istituzioni’.

Vittorio Emanuele Orlando fu il principe di questa cultura, la cui influenza in Italia è andata ben oltre il periodo statutario. Egli insegnava il ‘diritto scientifico’ che gli permetteva generalmente, di dichiarare ‘false’ tutte le tesi progressiste; era una ‘falsa teoria’ la sovranità popolare, era un ‘errore’ pensare che il giudice potesse interpretare la legge discostandosi pur motivatamente dal suo tenore letterale, eccetera.

34 Negli anni ’70 e ’80 si hanno anche delle sentenze ‘isolate e coraggiose, memorabile, tra tutte, l’assoluzione a Venezia dei molti arrestati per gli scioperi nel mantovano’, Galante Garrone cit. da Allegretti p. 497.

35 Restando eloquente l’esempio di quanto accadde nel 1863 a Pietrarsa, una località vicino Napoli dove gli operai di un opificio, per protesta contro il padrone, un settentrionale, che imponeva più ore di lavoro senza aumentare i salari, si chiusero dentro la fabbrica sollevando grida e mugugni. Erano però inermi e disarmati. Il padrone tornò ai cancelli della fabbrica accompagnato dalla polizia; che sparò sugli operai, e sulla folla che si era accalcata intorno, uccidendo sul colpo 7 persone e causando la morte di altre 20. Nei confronti dell’ufficiale che dirigeva il plotone fu aperta una inchiesta amministrativa, ritenendo evidentemente che egli, ordinando di sparare, avesse esercitato una insindacabile discrezionalità.

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Abituandosi a ragionare in termini di ‘vero’ e ‘falso’ il giurista si disabituava a praticare la ragione probabilista e problematica, l’attitudine alla ponderazione, la ricerca del bilanciamento e del giusto mezzo, a cui erano stati educati i giuristi del passato.

Veniva così veicolata nella coscienza del giurista un’attitudine autoritaria, che ha portato molti giuristi a schierarsi dalla parte del potere, delle istituzioni; a intendere il loro lavoro come giustificazione di ciò che le istituzioni facciano, e a mettersi più al servizio di esse, che della società civile. Le istituzioni, i concetti e le categorie che le descrivevano, tendevano ad essere rappresentati come necessità naturali che obbedivano a logiche neutrali e che dovevano durare per sempre.

Le teorie dell’epoca, che descrivano la decisione giudiziaria come un sillogismo in cui l’apprezzamento di colui che la pronunzia non ha parte alcuna (Racioppi e Brunelli) e neutralizzavano l’attività giudiziaria come attività logica, non politica, imparziale, “non valevano se non a celare la neutralità di una attività gravata da preoccupazioni politiche e che fa (in parte) politica sotto veste tecnica, cioè con l’uso di procedimenti tecnici o apparentemente tecnicizzati” e che si muoveva in un continuità con le forze politiche dominanti (Allegretti, p. 499-500).

SEZIONE IV: I DIRITTI

1.Le libertà civili. Libertà civili individuali e collettive

Lo statuto albertino conteneva un molto piccolo elenco di libertà e di diritti a favore dei” regnicoli”. A questi ultimi, in armonia con la ideologia dello stato liberale, erano riconosciute le sole libertà c.d. civili, o negative. Come detto in precedenza, nella concezione liberale lo stato deve ingerirsi il meno possibile nella sfera privata, a cui d’altro canto esso, con le sue funzioni d’ordine, garantisce la possibilità di pacifico svolgimento. Il risvolto, era anche la previsione del minimo possibile di influenza dei privati cittadini sulla direzione dello stato: meno stato nella società, meno società nello stato.

I diritti o libertà civili o ‘negativi’ sono infatti i diritti e le libertà che proteggono l’individuo e la sfera privata davanti ad arbitrarie ingerenze del potere pubblico: vi rientrano la libertà personale (o da arresti arbitrari), la proprietà privata, la libertà di domicilio, la libertà di pensiero, di coscienza e di credo religioso, la libertà di comunicazione (libertà civili individuali).

Oltre a garantire l’individuo, le libertà civili garantiscono anche l’esistenza e il libero svolgimento della società civile, cioè l’autonomia della società rispetto al potere pubblico. Sotto questo profilo, esse assumono spesso carattere collettivo, e le si chiama perciò libertà civili collettive, come la libertà di riunione, di associazione, o di stampa, che è una libertà individuale, se la considera dal punto di vista materiale, in quanto espressione del pensiero di una persona determinata, o diffusione di notizie e informazioni da parte di una persona privata; ma è collettiva quanto agli effetti perché, a differenza della comunicazioni (di cui è esempio la missiva, la lettera indirizzata a un altro) non si dirige a singoli destinatari ma a destinatari indeterminati. Attraverso l’esercizio delle libertà civili collettive la società civile esprime i suoi (vari e diversi) orientamenti, e gusti, che nascono spontaneamente dentro di essa. Una delle primarie finalità delle libertà civili collettive è evitare che la vita della società sia assorbita dallo stato, da esso organizzata e indirizzata. Questo è, invece, ciò che avverrà in Italia col fascismo e che avviene in ogni esperienza totalitaria. Nel fascismo, le uniche associazioni ammesse erano quelle gestite o approvate dallo stato, e mediante le quali si dette un “tono fascista” al modo in cui le persone

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passavano il tempo libero (compreso come praticavano lo sport) così controllando ogni momento della vita civile e assorbendolo nella sfera statale.

Dirette a evitare “l’organamento’ della società nello stato, le libertà civili collettive tendono a che sia semmai la pubblica opinione a esprimere un orientamento nei confronti delle autorità, potendo essa esprimere giudizi e valutazioni dirette a influire sul comportamento delle istituzioni (ad esempio, quando la stampa critica un orientamento del Governo; quando i singoli, associandosi, danno vita a un partito o un sindacato).

2.Le libertà civili nello Statuto albertino

Coerentemente con la piegatura conservatrice che le concezioni liberali avevano preso da noi, e cioè coerentemente con l’ostilità verso l’idea che l’azione dei pubblici poteri potesse essere condizionata dagli orientamenti dell’opinione pubblica, lo Statuto albertino contemplava principalmente libertà civili individuali: la libertà personale, la libertà di domicilio, la proprietà privata. La portata concreta delle garanzie assicurate a queste libertà era d’altronde molto ristretta, perché ciascuna di queste libertà poteva essere limitata solo nei casi previsti dalla legge, ma non era mai richiesto l’intervento dell’autorità giudiziaria a circoscrivere la discrezionalità dell’amministrazione nella attuazione delle previsioni di legge. In altri termini, la pratica estensione delle garanzie delle libertà civili era rimessa alla valutazione discrezionale dell’amministrazione, chiamata ad attuare le previsioni di legge nel caso concreto: quando la polizia decideva di arrestare qualcuno, non doveva chiedere al giudice il mandato, poteva farlo sulla base dei poteri di mantenimento dell’ordine pubblico che la legge le conferiva. Riporto l’art. 26, sulla libertà personale: “Niuno può essere arrestato, o tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge e nelle forme che essa prescrive”. L’art. 27, sul domicilio: “Il domicilio è inviolabile. Niuna visita domiciliare può aver luogo se non in forza della legge, e nelle forme che essa prescrive”. La stessa proprietà ‘inviolabile’ (art. 29) poteva dover essere ceduta, salvo indennità, ‘quando l’interesse pubblico legalmente accertato lo esiga”.

3. Il limitato riconoscimento della libertà di stampa

La libertà di stampa era contemplata in questi termini: “La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi” (art. 28). Mettendo immediatamente in collegamento il riconoscimento della libertà di stampa con la possibilità che essa si renda responsabile di abusi, lo statuto dimostrava un approccio molto cauto e diffidente nei confronti di questa libertà così decisiva nel costruire un’opinione pubblica libera, consapevole, articolata e critica. Nell’esperienza statutaria le attività di stampa (gestione delle tipografie, affissioni degli stampati) erano sottoposte ad autorizzazione preventiva di polizia; gli stampati erano sottoponibili a sequestro di polizia per violazione del buon costume, nel quale non si facevano rientrare solo le offese al pudore sessuale, ma l’indeterminata gamma dei “pericoli per l’ordine pubblico”; nel 1899 con una iniziativa che sollevò discussioni enormi il governo cercò di introdurre la censura preventiva dei giornali. L’iniziativa fu bloccata, ma allo stesso risultato si arrivò nel 1915 quando, col pretesto della guerra, si dette al prefetto il potere di disporre il sequestro degli stampati per ragioni inerenti la ‘sicurezza nazionale’. Di fatto, il periodo liberale in Italia assistette a

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una repressione sistematica della stampa di opinione36 e registrò una debolezza strutturale della libertà di stampa, e dunque della pubblica opinione, che dava motivo di osservare che “ il giornalismo italiano non sussiste al di fuori delle consorterie politiche”.

4.Il silenzio sulla libertà religiosa

Quanto alla libertà religiosa, lo Statuto non si pronunciava in materia di libertà di opinioni religiose (tanto meno di opinioni politiche), ma conteneva la disposizione, relativa al culto, e cioè alle manifestazioni esteriori e collettive di religiosità, secondo cui “La religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”, disposizione che istituiva una differenza di valore tra la religione cattolica e i culti ‘ammessi’. Di fatto, dall’unificazione in poi i rapporti con la Chiesa cattolica furono i rapporti tra due nemici, lo Stato temeva che la Chiesa manovrasse contro la nuova condizione politica dell’Italia, e la Chiesa si sentiva spodestata, situazione che si accentuò come noto dopo la Presa di Porta Pia. Alla decisione del Papa di imporre ai cattolici di astenersi dal partecipare alla vita pubblica e politica, che espose le nuove istituzioni ad una gravissima delegittimazione, corrisposero le notevoli limitazioni alla validità civile del diritto canonico (il matrimonio religioso, per esempio, non valeva civilmente), nonostante alla chiesa fossero state riconosciute cospicue guarentigie sotto il profilo economico e dello status degli ecclesiastici. Come abbiamo altrove ricordato, la revoca del Non expedit, la bolla che vietava ai cattolici la partecipazione politica, rese possibile la nascita del partito popolare, di ispirazione cattolica, nel 1919.

5. Il modestissimo spazio delle libertà civili collettive

Quanto alle libertà civili collettive, lo statuto annovera la sola libertà di riunione, ma in luogo privato. Le adunanze in luoghi pubblici o aperti al pubblico (le piazze, le strade, un ristorante, una sala da congressi) erano ‘interamente soggette alle leggi di polizia” (art. 32). Si ricordi che le riunioni sono gli assembramenti di persone, spontanei o provocati, che oggi chiamiamo ‘manifestazioni’, sit-in, cortei (che sono ‘riunioni in movimento’).

La libertà di associazione non era menzionata dallo Statuto albertino: lo scioglimento delle associazioni poteva pertanto essere deciso dai prefetti o dal governo centrale per motivi di ordine pubblico (come avvenne nel 1898-99 quando furono sciolti tutti i Sindacati e le Camere del lavoro). (Ecco alcuni esempi di attività amministrativa ‘discrezionale’ che restava fuori da ogni controllo giurisdizionale).

6. Il trattamento repressivo dello sciopero.

Lo sciopero era considerato reato dal codice albertino (1859); il codice penale Zanardelli (1889) lo puniva in quanto realizzato con l’impiego di ‘violenza o minaccia’. La magistratura dell’epoca utilizzò 36 Denunciava Merlino: “numero dopo numero, i giornali socialisti sono stati sequestrati, a volte prima della pubblicazione, e perseguiti nelle persone dei direttori responsabili, che poi vengono regolarmente gettati in prigione. Il direttore della ‘questione sociale’ di Firenze è ora al carcere delle murate per otto anni – dico otto anni di prigione. Il suo predecessore, più fortunato di lui, se la cavò con tre anni, e così via. Di un giornale si proibisce il titolo (“Il Ribelle”, di Milano) di un altro, il sottotitolo (“comunista anarchico”: la Questione sociale di Firenze). E la mano della legge non è pesante solo con i giornali socialisti, anche alcuni giornali repubblicani, come “L’Emancipazione” o semplicemente democratici, come “Il Messaggero” ne ricevono spesso le carezze” (p. 1379.

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molto ampiamente questi limiti, rinvenendo esempi di ‘violenza o minaccia’ “nel semplice contegno o sembiante degli scioperanti, o nel canto dell’Inno dell’Internazionale, o in grida ‘sovversive’, sicché “divenne incriminabile pressoché abitualmente lo sciopero in se e per sé” (Allegretti, p. 499); lo sciopero, inoltre, veniva considerato inadempimento della prestazione lavorativa e giustificava l’impiego dei mezzi disciplinari da parte del datore di lavoro (come in primo luogo il licenziamento).

7. Il sistema tributario

Quanto ai doveri, lo statuto contemplava il dovere di ciascuno di pagare i tributi, “in proporzione agli averi”. Il sistema tributario di tipo proporzionale incide sui redditi sempre nella stessa proporzione, però ovviamente con un peso diverso a seconda che il reddito sia basso o alto: una imposizione del 10% lascia in tasca 90 lire a chi guadagna 100 e lascia 900 lire a chi guadagna 1000. Il sistema tributario di tipo proporzionale è, in linea con le concezioni liberali, armonico con l’idea che lo stato deve essere indifferente ai rapporti sociali, non interessato a riequilibrare le differenze sociali ed economiche.

8.La legislazione sociale

Peraltro, lo stato liberale viene ricordato anche per aver introdotto i primi elementi di una legislazione sociale, con la legge del 1902 che vietò il lavoro dei fanciulli fino a 12 anni e stabilì alcune tutele a favore delle donne lavoratrici. Nel 1904 l’obbligo scolastico fu elevato a 12 anni, e le spese relative vennero addossate allo stato.

Lo Stato italiano rispose con queste leggi alle gravissime tensioni in cui la profonda diseguaglianza sociale che esisteva nel paese era sfociata, culminando nella grave crisi del 1898-99. Il fatto che gli spargimenti di sangue del terribile biennio fossero stati atrocemente ‘vendicati’ dal regicidio37 avvertiva che una concezione puramente repressiva del problema sociale aveva raggiunto un punto di non ritorno.

Nonostante essa rispondesse anche a precise motivazioni interne, con la legislazione sociale degli inizi del ‘900 lo stato italiano intraprendeva una scelta che si era imposta a tutti gli stati industrializzati, e alle quali paesi con economie capitalistiche più avanzate della nostra erano già arrivati da tempo.

Già nel 1860 in Inghilterra era stata introdotta una legislazione che considerava come reato l’impiego nelle miniere di ragazzi sotto i 12 anni che non frequentassero le scuole o non fossero in grado di leggere e scrivere; e introduceva misure volte a impedire la sofferenza e la morte di bambini messi a spazzare condutture troppo strette; prevedeva forme obbligatorie di vaccinazione; dichiarava illegali le miniere con un unico pozzo di ventilazione; istituiva ispettori per il controllo della salubrità degli alimenti.

La legislazione ‘sociale’ che in tutta Europa si avvia con la seconda rivoluzione e che prende forma nei vari paesi in tempi diversi a seconda del loro diverso grado di sviluppo economico in senso capitalistico, è infatti una legislazione che protegge la società davanti all’economia, allo sfruttamento economico, e alle sperequazioni che possono derivare dalle differenze di condizioni economiche. E’ un tema che ci introduce al rapporto dello stato liberale con l’economia.

37 Nel 1901 Umberto I fu assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci.154

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Sezione V – Il rapporto dello stato con l’economia

1.Il doppio movimento

Come mai, e con quali esiti, lo stato liberale intraprende la via della legislazione sociale è un problema su cui ha scritto cose illuminanti lo studioso di economia Karl Polanyi, nella sua opera “La grande trasformazione”, pubblicata nel 1944. Secondo Polanyi lo stato liberale è, dal punto di vista del rapporto con l’economia, il teatro di un doppio movimento. La legislazione sociale è una pagina che va compresa all’interno di questo più ampio quadro, quello dei rapporti tra lo stato liberale e l’economia (capitalistica).

2.Primo movimento: lo Stato rende possibile l’economia capitalistica di mercato autoregolato

Da una parte (primo movimento) lo stato, liberando le terre e il lavoro dai vincoli che ne limitavano la circolazione rende possibile una piena capitalista di mercato basata, su tre principi:

a) tutto è commerciabile, tutto può essere messo sul mercato come merce;

b) sono merci, che si comprano e si vendono, non solo i prodotti, le cose prodotte per essere messe sul mercato (gli ortaggi, la frutta, i tessuti o le scarpe o le energie) ma anche i fattori della produzione, il lavoro e la terra (cioè la vita umana e l’ambiente naturale), oltre alla moneta;

c) il mercato deve potersi autoregolare, deve poter attingere liberamente ai fattori della produzione quando la domanda di prodotti è alta, e deve potersi liberare dei fattori della produzione quando la domanda di prodotti è bassa38.

Dopo avere reso possibile il realizzarsi di queste condizioni dell’economia, lo stato, assistette alle loro conseguenze socialmente distruttive, che furono spesso registrate dall’opinione pubblica borghese, conservatrice, oltre che dagli osservatori critici come i pensatori marxisti. L’economia di mercato, che aveva travolto le strutture non contrattuali, cioè solidaristiche, della convivenza tradizionale, come il villaggio39, stava ora per travolgere anche la cellula più elementare ed essenziale della società, la famiglia. Affamato di forza lavoro, il mercato metteva al lavoro (quando servivano) donne e bambini; 38 Scrive Polanyi: “Una volta che macchine e imponenti complessi venivano impiegati per la produzione in una società commerciale, l’idea di un mercato autoregolato doveva necessariamente prendere forma. (…) Poiché le macchine complesse sono costose esse non rendono a meno che non vengano prodotte grandi quantità di merci. Esse possono essere fatte funzionare senza che si abbia una perdita soltanto se lo sbocco delle merci è ragionevolmente assicurato e se la produzione non deve essere interrotta per mancanza delle materie prime necessarie ad alimentare le macchine. Per il commerciante questo significa che tutti i fattori implicati devono essere in vendita, cioè che essi debbono essere disponibili nelle quantità necessarie a chiunque sia disposto a pagarle”.

39 “Il mercato capitalista autoregolato fu la liquidazione delle “organizzazioni non contrattuali della parentela, del vicinato, della professione e del credo”. Esso le travolgeva in due modi: facendo venir meno il senso e l’esistenza stessa di quegli ambiti sociali (il villaggio, la piccola comunità che si sostiene della terra e della pastorizia) che li rendevano possibili; e spingendo di conseguenza uomini, donne e bambini verso il lavoro salariato nella città. “Gli effetti sulla vita della gente erano tremendi al di là di ogni descrizione. La società umana sarebbe stata annientata se non fossero esistite contromisure protettive che attutivano l’azione di questo meccanismo autodistruttivo. “ (K. Polanyi, La grande trasfromazione, trad. it. Einaudi, Torino, 1946, p.98).

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le donne assumevano modi di vivere ritenuti discutibili dalle classi borghesi (uscire di notte, dividere la camera con altre operaie, bere e fumare), le famiglie non erano in grado di occuparsi dei figli (quando entrambi i genitori inseguono il lavoro a giornata, e i figli pure, nessuno si cura della vita familiare, l’educazione è trascurata, i costumi, come si diceva, degenerano); gli uomini non contenuti da una struttura famigliare solida si davano all’ubriachezza e alla violenza.

3.Secondo movimento: lo Stato limita la libertà del mercato di attingere ai fattori della produzione

Le conseguenze socialmente distruttive del mercato autoregolato sono una conseguenza della mercificazione della vita e dell’ambiente naturale40, che è consustanziale alle logiche del economia capitalistica. Osservando quelle conseguenze, lo Stato in Europa ha reagito, secondo Polanyi, nella seconda metà dell’Ottocento e nel primo Novecento adottando una legislazione sociale, il cui scopo è proteggere la coesione sociale, attraverso l’esclusione o la limitazione dell’accesso al mercato del lavoro di alcune categorie (le donne e i bambini). E’ questo il secondo movimento intrapreso dallo Stato nei confronti dell’economia capitalistica.

La tesi del “doppio movimento” descrive dunque l’azione dello stato in rapporto all’economia di mercato. Da una parte, col primo movimento, lo stato rende possibile l’instaurazione dell’economia di mercato, creando quei meccanismi che consentono la liberalizzazione del lavoro e della terra, dall’altra parte, col secondo movimento, in reazione all’azione distruttiva sui legami sociali che è propria del mercato, lo stato opera in controtendenza rispetto al mercato. Anche, ma non solo, sotto la spinta delle nuove classi sociali (il proletariato) in cui “gli sradicati urbani” avevano cercato di ricostituire una propria identità sociale, lo stato sviluppa politiche di intervento sociale che si rivolgono a rispondere, o ad arginare, le più vistose e perturbanti aberrazioni del mercato.

I sostenitori del libero mercato ne trassero argomenti per accusare lo stato di mettere intralci al libero mercato; e il fallimento globale dell’economia degli anni ’30 del secolo XX fu spesso attribuito anche al fatto che il libero mercato non aveva mai potuto funzionare veramente come libero a causa dei “lacci” protezionistici, delle limitazioni alla libertà degli imprenditori derivanti dalla legislazione sociale.

4.Implicazioni della tesi del doppio movimento. a) Il riproporsi dell’opposizione tra economia e diritto, o della ricerca di autonomia dell’economia dal diritto

La tesi del doppio movimento è interessante per vari motivi. Intanto ci fa capire la radice di una distinzione, in seguito diventata parte cospicua del senso comune, che contrappone le leggi dell’economia e leggi dello stato, e che, rappresentandole come tra loro antagoniste e alternative, rende possibile immaginare solo uno scontro tra esse: o vince l’una, o vince l’altra. Questa visione dicotomica dimentica che il capitalismo in Europa è sorto grazie allo Stato (il cui processo di

40 “Si confrontino ad esempio le attività di vendita del mercante-produttore con le sue attività di acquisto; le sue vendite riguardano soltanto prodotti elaborati e sia che egli riesca o meno a trovare gli acquirenti il tessuto sociale non ne viene necessariamente influenzato. Ma ciò che egli compra sono materie prime e lavoro, natura e uomo. La produzione per mezzo della macchina in una società commerciale implica in realtà una trasformazione che può essere paragonata a quella della sostanza umana e naturale della società, in merci. La conclusione per quanto macabra è inevitabile: niente di meno potrà bastare allo scopo: ovviamente lo sconvolgimento causato da questi strumenti spezzerà i rapporti dell’uomo e minaccerà di annientamento il suo ambiente naturale” (K. Polanyi, op. cit., p. 55-56).

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formazione, dall’assolutismo in poi, tende alla creazione delle precondizioni del capitalismo, cioè la libera circolazione dei mezzi della produzione).

In questa visione dicotomica che rappresenta le leggi dell’economia come opposte a quelle dello stato, risalta la tesi secondo cui l’economia ha le sue leggi: perché ci sia sviluppo si deve produrre di più, l’offerta crea la domanda, il lavoro non deve costare più del profitto ecc.; queste leggi, si afferma, sono oggettive, razionali (mentre le leggi dello stato rispondono a finalità elettoralistiche, concessioni alla pubblica opinione, sono irrazionali): lo stato pone delle leggi, che rispondono a una opportunità politica e qualche volta incoraggiano e rafforzano il mercato, qualche volta lo disciplinano e lo vincolano, ma sono il frutto di orientamenti opinabili e irrazionali.

Il costo di queste rappresentazioni è che esse inscenano una lotta sotterranea e perpetua tra l’economia e lo stato. Siccome, nello stesso torno di tempo e culturale in cui queste concezioni si sono formate, veniva anche istituita l’idea che Stato e diritto coincidessero (positivismo statualista), la contrapposizione tra economia e stato agita una più profonda contrapposizione tra economia e il diritto, o l’economia riesce a imporre le sue leggi allo stato, oppure il contrario, ma, di per sé, l’economia non ha bisogno del diritto per sapere ciò che deve fare. Queste visuali coltivano concezioni nelle quali le leggi dell’economia appaiono come necessariamente del tutto separate da valutazioni che non siano quelle inerenti la razionalità economica e il profitto, e orgogliosamente lo rivendicano, tendendo a rappresentare vincoli limiti e regole posti dal diritto come ostacoli al dispiegamento della razionalità economica e del profitto.

5. (continua) b) La dimensione ‘sociale’ dello Stato

La liberalizzazione della terra e del lavoro, con cui lo stato rende possibile l’avvio del capitalismo autoregolato, furono il punto di arrivo di un processo che abbiamo visto iniziare con l’assolutismo, e culminare con la Rivoluzione francese: lo stato, istituendosi, abbatte l’antico ordine sociale di tipo cetuale e rende possibile l’istituzione di rapporti giuridici basati sulla commercializzazione delle risorse della produzione, che sono alla base del modo di produzione capitalistico. Una cosa molto importante che la teoria del doppio movimento evidenzia, è che, ciononostante, lo stato non si risolve nei meri rapporti economici, non è solo una struttura o un insieme di apparati e di regolamentazioni che servono alla accumulazione della ricchezza. La tesi di Polanyi spiega infatti che, da un punto di vista storico, lo Stato ha – per controbilanciare gli effetti distruttivi della economia capitalistica – assunto una funzione di difesa, conservazione e ricostituzione della società. Si pensi al nucleo fondamentale della società rappresentato dalla famiglia. Che la classe operaia potesse avere una vita familiare (anziché limitarsi a passare le ore di riposo gettandosi sui pagliericci di stanzoni comuni) richiedeva politiche ben precise, e che mirassero, in particolare, a garantire retribuzioni sufficienti a mantenere i figli, a pagare un affitto, orari di lavoro compatibili con la vita familiare, giorni di riposo, rimedi per i periodi in cui per malattia o vecchiaia non si è in grado di lavorare.

Col suo sorgere dunque, lo stato travolge le istituzioni antiche che, a modo loro, proteggevano la vita umana e rispondevano ai bisogni basilari di solidarietà (la solidarietà di villaggio, le corporazioni professionali, le responsabilità che obbligavano i ceti privilegiati verso i poveri) e ne diventa, però, in parte, un sostituto per equivalente. Lo stato organizza direttamente i sistemi pensionistici o assicurativi, o consente l’operare di forme associative e di cooperazione tra i lavoratori volte a predisporre queste forme di tutela; fornisce servizi come l’istruzione e la sanità.

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Valori estranei alla mera logica di mercato, come la solidarietà, che richiedono una limitazione delle logiche di solo profitto, hanno trovato così, storicamente, in Europa, il loro punto di riferimento nella sfera pubblica, e il loro strumento di espressione nelle leggi e nei diritti istituiti dallo Stato.

Anche per questa via ritorniamo a una osservazione fatta in precedenza: lo Stato, che col suo sorgere favorisce il capitalismo, poi finisce per essere percepito da quest’ultimo come un ostacolo. La polemica tra un capitalismo che ha bisogno di più libertà e uno stato ‘sociale’ costoso (per i servizi che offre alla comunità) e che ‘limita’ le libertà dell’economia ha accompagnato tutta la seconda metà del Novecento. Finché si è aperto, con la globalizzazione, un nuovo scenario, quello che vede le strutture statali cedere al capitalismo, alla logica del profitto, alla pretesa delle forze economiche di avere nelle strutture statali solo uno strumento al propri servizio; lo stato viene chiamato così ad abdicare alle funzioni ‘sociali’ che aveva guadagnato sin dalla fine dell’Ottocento. Sono considerazioni che riprenderemo più avanti, per soffermarci ora su un terzo elemento che la tesi del doppio movimento ci permette di mettere a fuoco.

6.(continua) c) La scoperta della rilevanza del ‘patto sociale tra i sessi’ per il governo dell’economia e della società

La tesi del doppio movimento ci fa percepire che, a partire dalle prime legislazioni sociali, il patto sociale tra i sessi, cioè il modo in cui le attività economiche e sociali sono distribuite tra uomini e donne, è diventato oggetto di attenzione da parte dei governi, diventando uno snodo centrale delle politiche in materia sociale (ed economica).

Quando compie il suo movimento di protezione della società, lo stato lo compie proteggendo alcuni soggetti in modo speciale: i bambini e le donne. La protezione di questi soggetti dal mercato equivale spesso a una loro esclusione dal mercato del lavoro, una loro non impiegabilità in certi settori o in certi lavori o in certi periodi (classico per le donne il divieto di lavorare di notte). Bambini e donne vengono identificati come ‘ soggetti deboli’ che devono specialmente essere difesi dal mercato. Questo significava la creazione di un reticolato di norme che, a ragione o a torto, rendevano per le donne più difficile che per gli uomini l’accesso al lavoro; rendeva più difficile per la donna che per l’uomo morire schiacciata sotto il torchio quanto guadagnarsi da vivere in modo indipendente, vale a dire contribuiva a tenere le donne a casa.

Il doppio movimento di cui parla Polanyi (azione del mercato – difesa dello stato, due movimenti che hanno per teatro la società, i modi di essere, di vivere, di pensarsi, di stare in relazione che le persone considerano normali) ha avuto così come risultato la codificazione di un patto sociale tra i sessi che prevede una divisione di genere delle attività produttive (lavoro salariato, attività che producono un reddito economicamente valutabile) e delle attività riproduttive (cura della casa e della famiglia), e che, con ciò stesso, istituisce anche una separazione netta tra le due, in cui vero lavoro è solo quello ‘produttivo’, e, alla fine, quello prioritario, cui l’altro è subordinato. Questo assetto si è rivelato ben funzionale a quella che di lì a poco sarebbe stata definita l’economia ‘fordista’, basata sul lavoro in fabbrica o su impieghi stabili, ben distinti dalla sfera domestica e dotati di propri tempi e organizzazione separati dalla casa.

La lotta dello stato contro le conseguenze socialmente distruttive del mercato fu, così, anche protezione e riaffermazione della famiglia come legame sociale fondamentale, che fu realizzata mediante la tendenziale esclusione delle donne dal mercato del lavoro; l’equilibrio che la prima legislazione sociale dettò tra vita familiare e vita lavorativa, che correva su una separazione dei ruoli di

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genere, tra le attività produttive e quelle riproduttive, si tradusse in una codificazione di questa separazione come naturale: il nucleo sociale normale ed essenziale diventava la famiglia fondata sul modello del maschio che porta lo stipendio (breadwinner) e della donna casalinga.

Una delle eredità che l’Ottocento liberale ci ha lasciato è, dunque, la costruzione dei ruoli sociali degli uomini e nelle donne, la costruzione di “stereotipi di genere” che assegnano l’uomo alla vita pubblica e al lavoro e la donna alla sfera privata della riproduzione e della cura ; molto più importante ancora è tener presente che quel periodo ha lasciato la acquisita consapevolezza dei governi, che disciplinare i ruoli di genere è un modo per governare il rapporto tra economia e società. Quelli che un tempo furono codificati come modi normali, ‘naturali’, di vivere sono oggi chiamati ‘stereotipi di genere’, e, nello sforzo di incoraggiare le donne a entrare di più nel mondo del lavoro, onde aumentare la complessiva produttività dei sistemi economici nazionali, la lotta agli stereotipi è un ingrediente centrale delle politiche europee e nazionali del lavoro. Ma, per quanto diverse siano o appaiano le odierne politiche sociali rispetto a quelle del passato, esse nascono dalla stessa radice, cioè dalla presa d’atto che il modo in cui donne e uomini interpretano la propria vita è una scelta influentissima per l’economia e dunque di rilevantissimo interesse per il governo. Molti infatti osservano che le odierne politiche pubbliche, orientate a favorire l’ingresso nel mondo produttivo delle donne, in nome della ‘lotta agli stereotipi di genere’ tendono invece a realizzare la trasformazione dell’intera società in una mera ‘risorsa per l’economia’. Anche su questo, torneremo più avanti.

Sez. V. Un bilancio dell’esperienza liberale in Italia

Io guardavo a uno stato morboso d’Italia, e ne facevo la diagnosi. E il morbo è questo, che abbiamo l’audacia e la violenza dei pochi e l’indifferenza dei molti, questo è lo spettacolo che ci danno i popoli nei tempi della decadenza o della stanchezza. Gli onesti si disgustano. I patrioti si ritirano. La fede nelle patrie sorti si indebolisce. E in mezzo all’accasciamento e all’apatia elettorale assisti al tripudio osceno delle passioni e degli interessi più volgari (Marco Minghetti).

Nel 1894, Marco Minghetti, uomo della Destra storica, già presidente del Consiglio, intellettuale raffinatissimo e cosmopolita, consegnò una analisi lucidissima e sconsolata del male che corrodeva la Nazione: l’uso strumentale dello stato da parte dei ‘politici’, dei partiti, che subordinano alla conservazione del potere la gestione della cosa pubblica.

“Ministri, Senatori, Deputati e uomini politici di ogni sorte” egli osserva, “hanno una tendenza a insinuarsi nella giustizia e nell’amministrazione e farvi penetrare spiriti partigiani per trarlo a profitto di sé medesimo o degli aderenti loro o almeno per conservare forte vigoroso il partito, diffonderlo coi benefici e con le minacce, e mantenere il governo nelle proprie mani”.

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Pur ritenendo l’immischiarsi di interessi di parte nella gestione della cosa pubblica un male inevitabile di ogni governo di partito, Minghetti riconosceva per il nostro paese una gravità del male particolarmente forte, e dovuta a due cause precise: una magistratura e una amministrazione non indipendenti, perché non cresciute culturalmente nel senso del rispetto delle proprie funzioni, perciò servili, e corrotte.

“Non è più nell’interesse generale ma in quello del partito o di singoli individui che si fanno gli atti amministrativi. Il favore e l’avversione, l’indugio e il diniego di provvedere, l’abuso e il sopruso diventano consuetudine, e quindi poi nasce quella irrequietezza, e quello scontento che rende ai popoli le istituzioni discare. E’ questo il male sul quale abbiamo invocato le meditazioni e gli studi degli uomini desiderosi del pubblico bene. E mi sia lecito ancora a questo proposito di peccare di ripetizione lo insistervi. Perché l’amministrazione sia retta e ottenga il fine suo che è l’utilità generale è necessario che sia imparziale. Ora poniamo che lo spirito di parte s’insinui in essa, che i suoi atti siano regolati dall’intento di giovare al partito, di assicurarne il trionfo, di mantenere la potestà pubblica nelle sue mani, di spegnere e menomare le forze del partito opposto, di esercitare vendetta contro gli avversari, chi non vede la lunga serie di guai e la corruzione che da questo stato di cose derivano?”

Per Minghetti, i rimedi a questo stato di cose erano una giustizia liberata dalla subordinazione al Governo e una amministrazione decentrata, e soprattutto restituita alla società civile, che avrebbe dovuto essere incoraggiata, secondo lui, a dare vita a istituzioni autonome formanti enti morali (cioè associazioni autonome).

“Finché lo stato avrà a che fare con cittadini disgregati, finché gli atomi disciolti si troveranno contro quel oltrapotente corpo che si chiama lo Stato, ogni conato di resistenza anche giusta sarà vano. Ed è perciò che le democrazie sgranate (per servirmi di questa metafora introdotta dal Romagnosi) si acconciano facilmente a un padrone, e, purché egli rispetti l’eguaglianza, calpesti a suo talento la libertà”.

Ma sfortunatamente fu proprio questa seconda la direzione intrapresa. Senza mai abrogare formalmente l’ eguaglianza dei regnicoli davanti alla legge, il fascismo poté facilmente calpestare le loro libertà.

C.Il Fascismo

1.L’avvento del fascismo in Italia: continuità col regime liberale

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Secondo il giuspubblicista Allegretti “la monarchia sabauda e una classe dirigente oligarchica dominante sul piano politico, economico e culturale durarono fino al momento in cui, sotto la paura del socialismo, passano alla diversa forma dello stato fascista”. In altri termini: l’avvento del fascismo al potere segna in Italia sì un cambio di regime, ma non un cambio di classe dominante, ed anzi è voluto dalle classi dominanti per non perdere la loro egemonia.

La nomina di Mussolini a capo del Governo, nel 1922, fu un esempio di ricorso del re alla propria prerogativa di nominare il Governo senza tenere in considerazione gli orientamenti delle Camere e gli schieramenti in esse presenti41. L’insediamento del regime fascista avviene cioè grazie alla debolissima instaurazione in Italia di una forma di governo parlamentare, che esige che il Governo sia l’espressione della maggioranza delle forze politiche presenti in Parlamento.

In effetti, la piegatura autoritaria di molti regimi europei tra le due guerre si spiega probabilmente proprio con il timore delle classi che erano state egemoni di condividere il potere, o vederselo portar via, dalle classi emergenti. Di fatto, e certamente non a caso, la dittatura fascista e quella nazista hanno compiuto ben presto cosa l’azzeramento delle elezioni e la messa al bando dei partiti politici.

L’identificazione col capo e col partito unico, i bagni di folla, le esibizioni ginniche, le parole d’ordine, il mito della razza, la sostituzione di appartenenze corporative alle appartenenze ideologiche e partitiche, furono le pratiche e le teorie “narcotizzanti” che presero piede nel nostro Paese, come nella Germania nazista. Questi furono i modi con cui le dittature europee della prima metà del Novecento intesero ricostruire un senso di identificazione tra il popolo e lo Stato, sapendo che le persone non credevano più nelle ideologie liberali dell’ “armonia” e volendo evitare che, al posto di quelle ideologie, prendessero piede altri modi di appartenenza, quelli pluralistici che fanno capo al partito, al sindacato, agli interessi comuni di diversi gruppi sociali.

2. Fascismo ‘movimento’ e fascismo ‘regime’

Si deve certamente distinguere un fascismo ‘movimento’ da un fascismo ‘regime’. Il fascismo ‘movimento’ fu uno dei molteplici fenomeni di contestazione e di crisi dello stato liberale, della sua politica di ingiustizia sociale, privilegio e immobilismo, che segnarono gli inizi del Novecento e gli anni tra le due guerre. Il fascismo fu vicino al sindacalismo rivoluzionario e anarchico, a movimenti

41 Circa l’avvento del fascismo, occorre tener presente che nel 1919 si erano svolte le elezioni politiche, con metodo proporzionale, che avevano dato la maggioranza ai popolari (cattolici) e ai socialisti. Tuttavia, nonostante il loro schieramento parlamentare fosse minoritario, il Re aveva dato l’incarico di nuovo ai liberali (Giolitti). Nel 1920 scoppiò in tutta Italia una serie clamorosa di scioperi, innescati dallo ‘sciopero delle lancette’ con cui gli operai della Fiat di Torino si erano ribellati al rifiuto della direzione della fabbrica di modificare l’orario di ingresso degli operai dopo l’entrata in vigore dell’ora legale. I socialisti e i maggiori sindacati detterò però agli scioperanti un appoggio molto debole, temendo altrimenti di perdere le proprie già deboli chances di essere considerati forza politica idonea a esprimere il governo. Di qui, nel 1921, la scissione all’interno del partito socialista, da cui nacque il Partito comunista (tra i cui fondatori Antonio Gramsci). Tra le gravi agitazioni del paese e la situazione di paralisi in cui il governo, che era in minoranza, si trovava, vennero sciolte le Camere e indette nuove elezioni: erano le prime elezioni a suffragio universale maschile, e le prime cui partecipavano i fascisti. Il partito che li esprimeva, ossia i Blocchi nazionali fascisti, ottenne 105 seggi contro i 123 dei socialisti e i 108 dei popolari. Venne di nuovo nominato un nuovo governo liberale (Bonomi), nonostante il partito liberale fosse stato sconfitto alle elezioni. Mussolini decretò la marcia su Roma. Il Ministro dell’Interno, Facta, presentò al Re un decreto per porre Roma in stato d’assedio, onde isolare e respingere i drappelli fascisti. Il Re rifiutò di firmare e dette l’incarico a Mussolini. Il re ricorrerà alla prerogativa regia una seconda volta: quando il 25 luglio del 1943 convocherà al Quirinale Mussolini ‘sfiduciato’ dal Gran Consiglio del Fascismo, per revocarlo (all’uscita dal palazzo Mussolini sarà arrestato), verosimilmente nell’intento di affermare l’autonomia delle sorti della Monarchia da quelle del Fascismo, in quel momento ormai travolte dal declino, e in vista delle scelte future sull’assetto istituzionale del Paese.

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artistici d’avanguardia; espresse un’ansia di rinnovamento, di trasformazione e anche una rivendicazione di originalità nazionale: denunciando i limiti e i fallimenti dello stato liberale, lo contestava anche come copia modestissima di forme politiche che avevano la loro origine nella storia di altri paesi, da cui le avevamo importate. Opposto al comunismo, esso aveva però un messaggio sociale analogamente forte, che si rivolgeva, più che agli operai, ai contadini, agli sradicati, ai reduci della guerra, ai piccoli imprenditori rovinati dalla speculazione economica: a tutti coloro che soffrivano ingiustizie e non le razionalizzavano nelle concezioni marxiste del conflitto di classe, ma non per questo le sentivano meno profondamente e drammaticamente. Il fascismo ‘regime’ fu altra cosa, il frutto di un accordo tra un blocco conservatore decisissimo a evitare la rivoluzione socialista e Mussolini, che si era ben presto rivelato disponibile a mettere le sue squadre armate a servizio degli interessi conservatori.

3. Fascismo giuridico (cenno)

Il fascismo sviluppò un complesso di importanti teorie giuridiche, imperniate sulla critica alle concezioni liberali ‘positiviste’, della quale qualche frutto interessante è trapassato nelle concezioni adottate dalla Costituzione repubblicana. Per esempio, il fascismo negava che il diritto si riducesse al diritto positivo dello stato, e affiancò alla legge numerose nuove fonti, dette ‘corporative’ (come gli accordi sindacali), che dovevano esprimere la capacità creativa di diritto della società.

Una importante creazione giuridica del fascismo, che riformò tutti i codici, fu in particolare il codice civile del 1942, tuttora vigente. La maggiore innovazione fu l’introduzione di una parte dedicata al lavoro (il libro V). In questa parte, oggi ampiamente abrogata, il fascismo esponeva la propria concezione del lavoro, opposta alla concezione marxista. Mentre il marxismo vede datore di lavoro e lavoratore come portatori di interessi in conflitto, il fascismo teorizzò la loro comune cooperazione nel superiore interesse dell’impresa, al cui sviluppo entrambi, in modi diversi, collaborano. La particolare responsabilità sociale attribuita dal fascismo all’imprenditore spiega il severissimo regime del fallimento che da allora, e fino a recenti modifiche, ha rappresentato una specifica caratteristica dell’ordinamento italiano, nel quale l’imprenditore fallito era fino a poco tempo fa ridotto praticamente a un ‘paria’ la cui stessa corrispondenza privata doveva essere sottoposta all’esame del curatore fallimentare.

4. La forma di governo durante il fascismo

I provvedimenti che, in Italia, la dittatura fascista adottò circa la forma di governo sono tutti leggibili come risposte, in chiave autoritaria, ai problemi che avevano agitato la nostra società tra la fine dell’800 e l’inizio dell’800. Essi sono altrettante reazioni contrarie sia alla “parlamentarizzazione” del governo sia alla democratizzazione della vita pubblica che stava seguendo la via della nascita e diffusione dei partiti e dei sindacati.

5. Accentramento nel Governo, espressione del partito nazionale fascista, dei poteri normativi e di indirizzo

Si deve ricordare in particolar modo la legge n. 100 del 1926, la quale trasformò il Primo Ministro in “Capo del Governo”, eliminando ogni forma di rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento e

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rafforzò il potere normativo del governo consentendo a quest’ultimo l’adozione, in sostanza priva di limiti, di atti normativi con forza di legge (decreti legge e decreti delegati) e di una ampia gamma di poteri regolamentari che potevano essere adottati in mancanza di previa legge.

Il Parlamento veniva così escluso sostanzialmente dalla funzione normativa.

Come sappiamo, lo Statuto rendeva il Re parte del potere legislativo, ma gli negava il potere di “dispensare dalle leggi o sospenderne l’osservanza”. Il Monarca, o meglio l’Esecutivo, non aveva il potere di porre nel nulla, con propri provvedimenti o atti normativi, i deliberati parlamentari. Nella prassi, specialmente tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento, in Italia come altrove, erano però invalsi i decreti legge, provvedimenti emanati d’urgenza dal Governo e capaci di sospendere l’efficacia delle leggi, sia pure sottoposti alla conversione in legge come condizione per divenire definitivi, e altresì era invalsa la prassi che vedeva la Camera delegare al Governo l’esercizio di poteri legislativi su singole materie. Il fascismo si appropria di questi strumenti, e, avendo eliminato la natura rappresentativa della Camera e il rapporto fiduciario tra essa e il Governo, fa di quest’ultimo, e dunque di se stesso, il centro normativo del sistema. La legge n. 100 del 1926 prevede che il Governo possa emanare decreti con forza di legge destinati a una vigenza provvisoria di due anni e rinnovabili; prevede inoltre che la Camera possa delegare poteri legislativi al Governo “in bianco” cioè senza bisogno di definire l’oggetto, i tempi e modi in cui il Governo eserciterà questa prerogativa.

In più, la legge n. 100 del 1926 disciplinò i poteri normativi secondari, o regolamentari, del Governo. La legge n. 100 autorizzò il Governo a emanare regolamenti, oltre che per dare esecuzione alle leggi (e cioè, ormai, agli atti normativi che esso stesso emanava: regolamenti esecutivi), per regolare materie per le quali non esistesse ancora una disciplina legislativa (regolamenti indipendenti), nonché per disciplinare l’organizzazione amministrativa, quand’anche già regolata con legge, in modo nuovo, cioè difforme dalle leggi previgenti (regolamenti delegati). Questa tipologia dei regolamenti del Governo, che li distingue in esecutivi, indipendenti e delegati, sarebbe rimasta vigente in Italia fino al 1988, anno in cui la legge n. 400 ha riordinato le attribuzioni regolamentari del Governo (nei modi che vedremo).

Con una legge del 1925 il fascismo revisionò la struttura del Governo. La legge istituì la figura del Capo del Governo, Duce del Fascismo: si voleva evitare che, come era accaduto nel periodo precedente (nonostante le contrarie previsioni dello Statuto) il Governo fosse attirato nell’orbita del Parlamento, cioè condizionato da quest’ultimo. La legge del 1925 volle evitare questa eventualità che il Governo ha una sua identità e un suo capo; la fiducia parlamentare, cui per prassi i governi statutari ogni tanto guardavano, venne abolita. Il Governo è l’espressione di una sola parte, che è poi l’unico partito legittimo. I Ministri sono ancora nominati dal Re, come vuole lo Statuto, ma la proposta è riservata al Capo del Governo, che sarà anche Segretario del Partito nazionale fascista: il tratto totalitario del partito unico che occupa lo stato è qui manifesto.

Con questi interventi il fascismo costruisce il Governo come istituzione forte, ben contornata di poteri utili a garantire l’efficacia e l’effettività della realizzazione del suo disegno, verso il quale può procedere autonoma, cioè senza venire influenzata dal basso, dalle opinioni, dai bisogni, dagli interessi nascenti nella società. Agli italiani era stato ripetuto talmente tante volte che i problemi della Nazione nascevano dal fatto che il Governo era ‘debole’ (non dotato di sufficienti poteri) e in mano alle ‘consorterie parlamentari’, ‘vittima’ delle pressioni dei partiti, che essi accettarono facilmente una dittatura la quale, mentre aboliva le elezioni e criminalizzava il dissenso, diceva di agire nel bene della Nazione e per le sue sorti trionfanti e ‘progressive’.

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6.Trasformazione in senso plebiscitario del sistema elettorale

Nel 1928 il sistema elettorale fu trasformato in senso plebiscitario: la lista dei candidati alle elezioni era unica, e veniva formata da un organo del Partito nazionale fascista, il Gran Consiglio del Fascismo, che fu trasformato nel 1928 nell’organo di coordinamento e integrazione di tutte le attività del fascismo. Il Gran Consiglio, presieduto dal Capo del Governo, sceglieva i candidati sulla base delle indicazioni delle associazioni fasciste. Al corpo elettorale non restava che suffragare in blocco la lista (elezioni del 1929 e del 1934).

7.Trasformazione in senso corporativo della rappresentanza

Nel 1939, con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, venne a cessare ogni parvenza di rappresentatività del Corpo elettorale nel Parlamento: mentre il Senato rimaneva composto di membri nominati e non eletti (e nominati sulla base di scelte del regime), la Camera non era più elettiva, ma veniva composta, oltre che dal Duce del Fascismo, dai componenti dei Consigli nazionali del Partito nazionale fascista e delle Corporazioni, organismi espressivi dei datori di lavoro e dei lavoratori, controllati dal Governo e dal PNF.

8. Il fascismo e la pubblica amministrazione

L’apparato ministeriale, intanto, sopravvisse abbastanza uguale a sé stesso. Una riforma del 1923 (la riforma de Stefani), accorpò e riorganizzò i Ministeri, che, nell’ultima fase dello stato liberale, erano cresciuti per numero e dimensioni (per l’urgenza di affrontare i compiti legati alla guerra e alla ricostruzione). Attribuendo ai dipendenti dello stato uno statuto giuridico particolare, incentrato sulla stabilità dell’impiego, ma anche sull’organizzazione gerarchica delle mansioni e delle responsabilità, la legge De Stefani volle rafforzare lo spirito di corpo dell’amministrazione, legando allo stato i suoi dipendenti e funzionari grazie a un regime del lavoro differenziato da quello privato. Tuttavia, il fascismo concentrò il massimo dei suoi sforzi, ed espresse la sua maggiore forza innovativa, fuori dall’ambito dell’amministrazione ministeriale. Esso preferì sviluppare un nuovo modello organizzativo, l’ente pubblico, destinato a consentire l’intervento statale nell’economia e nella società, i compiti degli enti andando dalla ricostruzione e riconversione industriale alla ricerca di idrocarburi, al contingentamento della produzione agricola all’autarchia, all’organizzazione del tempo libero dei lavoratori (secondo il carattere ‘totalitario’ del regime, orientato all’assorbimento della società civile nello stato).

Il modello dell’ente pubblico, che sarebbe rimasto caratteristico dell’organizzazione amministrativa italiana repubblicana e che è del tutto originale della nostra esperienza, si forgia in questa fase come alternativa alle amministrazioni ministeriali, strumento di attuazione del programma del regime e di ‘infeudamento’ di settori di intervento sotto il controllo di persone fedeli al regime. Politiche come l’intervento nelle Regioni del Mezzogiorno, la ricostruzione di Messina, la creazione di un sistema nazionale di assicurazioni erano già state affrontate, negli anni ’910 e ’920, con la creazione di apposite strutture (Commissariati, Istituti); ora il modello diviene assolutamente preminente, perché l’ente pubblico offre al fascismo la risorsa di una struttura organizzativa più flessibile del Ministero, più sensibile al suo indirizzo politico, e utile ad allocare il suo personale politico.

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Il significato strutturale che l’amministrazione per enti edificata dal fascismo non deve sfuggire. L’ente pubblico realizza una modalità di intervento dello stato nell’economia, e di gestione delle politiche sociali, che sarebbe rimasto tal quale nella esperienza repubblicana, sino alle ‘privatizzazioni’ iniziate negli anni 1992, e che sono state altrettanti interventi su enti pubblici o società da essi partecipate, onde trasferirne la proprietà in tutto o in parte a società private o a partecipazione pubblica. In particolare, la creazione dell’Iri (Istituto di riconversione industriale) nel 1933, fu una risposta al rischio di fallimento delle banche italiane, sull’onda della crisi finanziaria del 1929. Lo Stato acquistò partecipazioni azionarie di maggioranza nelle banche italiane e ne affidò la gestione all’Iri, la cui missione era utilizzare la liquidità di cui diventava così titolare per finanziare l’acquisto o il salvataggio di imprese industriali. Attraverso l’Iri, che è stato liquidato nel 2000, lo stato ha sostenuto in Italia, come proprietario o azionista di maggioranza, pressoché per intero il settore siderurgico e dell’acciaio, navale, energetico e delle comunicazioni.

Se Inail, Inps, e Ina, operavano nel campo delle assicurazioni sociali e del lavoro, ossia previdenziale, costruendo l’ossatura del sistema di protezione sociale ancora oggi operante, l’IRI è stato il motore di una via italiana al capitalismo che ha visto i maggiori settori industriali italiani svilupparsi grazie al sostegno statale.

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