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Cesare Guaita I PIANETI E LA VITA I PIANETI E LA VITA ultime scoperte ultime scoperte Cesare Guaita I PIANETI E LA VITA I PIANETI E LA VITA ultime scoperte ultime scoperte

I PIANETI E LA VITA - Astronomia News · Dal punto di vista chimico, le molecole della vita (amminoacidi e proteine, basi nucleiche e DNA) sono incredibilmente complesse. Ciononostante,

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Cesare Guaita

I PIANETIE LA VITAI PIANETIE LA VITA

ultime scoperteultime scoperte

Cesare Guaita

I PIANETIE LA VITAI PIANETIE LA VITA

ultime scoperteultime scoperte

Presentazione .................................................................................................................................... pag. 3

Capitolo 1 - PIANETI EXTRASOLARI ABITABILI ................................................................... pag. 5 1.1. Pianeti extrasolari in transito pag. 9

1.2. Microlenti planetarie pag. 15 1.3. Le prime immagini di pianeti extrasolari pag. 18

Capitolo 2 - LA RICERCA DELLA VITA NELLE COMETE ..................................................... pag. 37 2.1. Un missile contro la cometa pag. 38 2.2. Le molecole di Stardust pag. 50 2.3. Comete “accese” dal freddo pag. 61

Capitolo 3 - ENIGMATICI MESSAGGI DA MARTE ................................................................... pag. 71 3.1. La scoperta del metano pag. 74 3.2. Il passato di Marte dopo Spirit e Opportunity pag. 82 3.3. La vita su Marte dopo Phoenix pag. 90

Capitolo 4 - LA RICERCA DELLA VITA SUI SATELLITI DI SATURNO .............................. pag. 105 4.1. Dischi volanti attorno a Saturno! pag. 110

4.2. I geyser di Encelado pag. 117 4.3. I laghi di Titano pag. 125

Sommario

Presentazione

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ll primo decennio del 21° secolo si è rivelato di fondamentale importanza per la ricerca di possibili forme di vita extraterrestri: • sono stati scoperti e fotografati i primi pianeti di taglia

terrestre, situati nella fascia di abitabilità della loro stella (ossia a una distanza tale da rendere possibile la presenza di acqua liquida),

• sono state fatte analisi dirette su materiale cometario, che hanno confermato una abbondante presenza di molecole carboniose prebiologiche,

• è proseguita con nuove strategie e con risultati inaspettati la ricerca di tracce di vita presente o passata su Marte,

• la sonda Cassini, entrata in orbita attorno a Saturno nel luglio 2004, ha scoperto che in quell’ambiente gelido e inospitale esistono due “oasi” di straordinario interesse come i satelliti Encelado e Titano.

In un precedente volume del 2005 (Cesare Guaita, La

ricerca della vita nel Sistema Solare, Sirio Ed.), di importanza basilare per comprendere lo scopo e gli argomenti di questo libro, veniva rivendicata come altamente probabile l’esistenza, nel Cosmo, di forme semplici o complesse di vita basate sul carbonio, per la diffusione generalizzata dei due componenti fondamentali per la vita, il carbonio e l’acqua liquida. Basti pensare che il carbonio (prodotto dal metabolismo stellare e iniettato nello spazio dalle esplosioni di supernovae) è uno degli atomi più diffusi dopo idrogeno ed elio; mentre l’acqua (sottoprodotto della formazione stellare) è la molecola più abbondante del Cosmo dopo il CO (ossido di carbonio). Dal punto di vista chimico, le molecole della vita (amminoacidi e proteine, basi nucleiche e DNA) sono incredibilmente complesse. Ciononostante, la vita si deve essere formata molto “velocemente” sulla Terra: le prime testimonianze risalgono infatti a circa 3,9 miliardi di anni fa, quando era passato poco più di mezzo miliardo di anni dalla formazione del Sistema Solare e dei pianeti. Il fatto che, proprio in quel momento, la Terra sia stata anche

colpita da una grandinata di oggetti cometari (il cosiddetto “Grande Bombardamento Tardivo”) può non essere un caso. Le comete, infatti, sono degli autentici concentrati di molecole organiche, assorbite nei loro ghiacci dagli spazi interstellari: è plausibile pensare che, dissolvendosi negli oceani primordiali, li abbiano trasformati in una calda “brodaglia”, adatta a far emergere i primi organismi viventi. Le sorgenti idrotermali di acqua bollente (i “fumatori neri”), che ancora oggi accompagnano sistematicamente le dorsali oceaniche, dovettero avere un ruolo importante, forse decisivo, nella nascita della vita. La ricerca della vita fuori dalla Terra diventa quindi la ricerca di materiale organico (cometario e non), assieme ad acqua liquida (non importa se acida o alcalina, se calda o salata), indipendentemente dal corpo su cui quest’acqua liquida sia, o sia stata, presente. Questo volume vuol fare il punto sulle scoperte più recenti in questo senso, sulle metodologie che hanno permesso di realizzare queste scoperte e sulle loro conseguenze in un prossimo futuro. Da questo punto di vista, la ricerca di pianeti extrasolari è ormai arrivata a un’autentica svolta: il metodo dei transiti (fotometria del passaggio di un pianeta davanti alla sua stella) sia da Terra che dallo spazio (con la missione Kepler) non solo ha rintracciato i primi pianeti di taglia terrestre, ma ha anche permesso, in certi casi, di analizzarne indirettamente le atmosfere. Non è lontano il giorno in cui certi pianeti extrasolari potranno essere così ben separati fotografi camente dalla loro stella da poter poi fare un’indagine spettroscopica diretta della loro atmosfera. Non è neanche lontano il giorno in cui verranno scoperti i primi pianeti lontanissimi, addirittura extra-galattici. Questa possibilità è offerta dal metodo di microlensing che - secondo una ricerca pubblicata a metà del 2009 - potrebbe addirittura aver già individuato un pianeta (PA-99-N2) in M31, la Galassia di Andromeda. Tornando però con i piedi per… terra (ossia all’interno del Sistema Solare), possiamo dire che la ricerca della vita ha avuto nel primo decennio del 21° secolo una svolta epocale,

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nel senso che certe indagini, che prima venivano fatte da lontano e per via indiretta, adesso sono state condotte direttamente a contatto con il materiale da analizzare, prelevandolo in loco e, addirittura, portandolo in laboratorio. La storia di Stardust è meravigliosa e fantastica: la navicella ha infatti catturato un migliaio di piccoli frammenti della cometa Wild-2, riuscendo a riportarli indenni a terra il 4 gennaio 2005. I risultati analitici si sono rivelati di una importanza senza precedenti e questo volume ne fa per la prima volta una sintesi completa e coerente. Anche la storia di Deep Impact è straordinaria: un missile staccatosi dalla nave madre ha perforato la crosta superfi ciale della cometa Tempel-1 il 4 luglio 2005, facendone uscire per alcuni giorni una valanga di acqua e materiale organico. La sintesi dei risultati analitici che ne sono conseguiti costituisce un altro dei momenti salienti di questo volume. Pensare, però, che le comete ci abbiano ormai dispensato tutti i loro segreti sarebbe un grave errore. Il caso più eclatante è quello della cometa 17P/Holmes, che - a somiglianza di quanto fece la Halley nel febbraio 1991 - esplose improvvisamente il 23 ottobre 2007, diventando un milione di volte più luminosa, nonostante si trovasse tra Marte e Giove, a 350 milioni di km dal Sole. Un vero mistero, cui il libro offre una spiegazione a dir poco sorprendente.Non c’è dubbio, comunque, che il fascino del pianeta Marte rimane imbattibile, e il libro ne dà una chiara dimostrazione. L’avventura “infi nita” di Spirit e Opportunity, i due rover scesi sul Pianeta Rosso nel gennaio 2004 e ancora operativi dopo cinque anni, viene descritta più come un romanzo d’avventura che come una esplorazione scientifi ca. Opportunity, disceso all’interno del cratere Victoria, ha scoperto depositi salini ricchi di solfati in superfi cie e ricchi di cloruri in profondità: un chiaro indizio di un antico oceano marziano, tanto più simile a quelli terrestri con più si retrocede indietro nel tempo. Fondamentale anche il contributo di Spirit, che si è imbattuto in depositi idrotermali (tipo silice pura) nei dintorni di un probabile vulcano sottomarino, denominato Home Plate. C’era, dunque, tanta acqua su Marte nel passato. Ma come fare a dimostrare se c’erano anche forme di vita? Su questo punto, la missione Phoenix (maggio-ottobre 2008), cui il libro dedica un’ampia disamina dei risultati, ha dato forse una risposta fondamentale dal punto di vista della strategia di questa ricerca. Sì, perché, Phoenix ha scoperto che le sabbie che circondano il polo Nord di Marte sono ricche di ghiaccio, ma anche di composti (sali dell’acido perclorico) in grado di distruggere qualunque sostanza organica venga ricercata con metodi termici.

Da qui una clamorosa revisione dei risultati ottenuti dalle sonde Viking degli Anni 70. Forse, i Viking scoprirono la vita su Marte, ma non riuscirono a rintracciare molecole carboniose nel terreno, perché - ricercandole mediante riscaldamento ad alta temperatura - le distrussero nel momento stesso in cui tentarono di individuarle. Forse, la vita su Marte esiste attualmente in certe regioni ricche di ghiaccio, argille e carbonati: una dimostrazione potrebbe essere la scoperta che da queste regioni emergono d’estate grandi quantità di metano, un gas che sulla Terra viene prodotto quasi sempre da microrganismi anche e soprattutto in ambienti estremi, come quelli marziani. Ci sono però, al di fuori della Terra, ambienti ancora più estremi di quello marziano. Uno di questi è il sistema di Saturno e dei suoi satelliti. Il libro vi dedica l’ultimo e più lungo capitolo, facendo una sintesi completa e precisa delle scoperte effettuate dalla sonda Cassini nei cinque anni successivi alla sua entrata in orbita (luglio 2004). Ancora una volta, il libro diventa un romanzo, soprattutto laddove la realtà supera largamente la fantasia. La scoperta che dal polo Sud del piccolo Encelado trasudano immensi geyser di vapor d’acqua, provenienti da un profondo oceano caldo e salino ha dell’incredibile. Soprattutto, è incredibile che la Cassini sia entrata direttamente in questi geyser, trovandovi gran parte delle stesse molecole organiche presenti nelle comete. Poi c’è Titano, dotato di un’atmosfera densa e opaca, simile a quella della Terra primordiale. Il radar della Cassini è riuscito a perforare una cinquantina di volte questa misteriosa nuvolaglia rossiccia, rivelandoci un mondo incredibile e fantastico, costituito da una crosta ghiacciata ricoperta da melme organiche di provenienza atmosferica e intaccata da piogge, fi umi, laghi e mari di metano liquido e idrocarburi. Saltuarie fusioni del ghiaccio superfi ciale (impatti meteorici, calore geotermico) avrebbero effetti esobiologici inimmaginabili anche in un ambiente così gelido. Tutto questo è chiaramente scritto nelle straordinarie immagini radar della Cassini: uno dei grandi pregi di questo libro è quello di averne selezionato un gran numero, rendendole per la prima volta disponibili anche al pubblico dei non specialisti. In generale, la ricchezza di immagini, quasi tutte inedite e mai banali, è una delle caratteristiche fondamentali e più allettanti dell’intero libro. Un’autentica gioia per gli occhi che ripete e migliora l’impostazione del volume che l’ha preceduto, di cui il presente lavoro vuol essere un’indispensabile prosecuzione e completamento.

Cesare Guaita

Presentaziome

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Capitolo 1

Il 7 marzo 2009, alle 4.51 (ora italiana), un missile Delta 2 lanciava nello spazio la sonda Kepler (10a e ultima del programma Discovery). Poco più di un’ora dopo, la navicella si era correttamente in-serita in un’orbita solare praticamente coincidente con quella della Terra (il periodo di rivoluzione

solare di 372,5 giorni ne provoca, ogni anno, un piccolo arretramento rispetto alla Terra). Durante i 3,5 anni della missione primaria, il compito di Kepler è quello di scrutare con continuità un campo di 105° quadrati, contenente qualcosa come 100.000 stelle distanti fi no a 3000 a.l., situato in una regione di cielo centrata a AR 19h45m e Dec. +35° (quindi tra le costellazioni del Cigno e della Lira) (Fig. 1.1). Obiettivo: cercare pianeti extrasolari con il metodo dei transiti, sfruttando una sensibilità fotometrica 100 volte migliore dei migliori fotometri terrestri, quindi adeguata alla ricerca di vere e proprie terre extrasolari abitabili (ricordiamo che per “terra extrasolare abitabile” si intende un pianeta di massa ter-restre situato nella fascia di abitabilità della sua stella, ossia a una distanza che ne permetta l’esistenza di acqua liquida). Dal punto di vista ottico, Kepler è una specie di gigantesca camera Schmidt, costituita da uno specchio primario di 1,3 metri più una lastra correttrice di 0,95 metri, in grado di inquadrare un campo di ben 12° di diagonale! Il sensore fotometrico è un impressionate complesso di 42 CCD di 50x25 mm (2200x4024 pixel), sensibile dal blu fi no al vici-no infrarosso (0,85 micron). In realtà, Kepler non è il primo cercatore spaziale di pianeti ex-trasolari. È stato infatti preceduto dal piccolo satellite francese Co-

rot (specchio di 27 cm), che - lan-ciato in orbita polare di 900 km il 27 dicembre 2006 - ha scoperto il suo primo pianeta in transito il 3 maggio 2007 (1,3 masse gioviane in orbita con periodo di 1,5 giorni attorno a una stella solare situata a 15.000 a.l. nell’Unicorno). Il settimo “centro” di Corot (Co-rot-Exo-7), acquisito all’inizio del 2009, pur ruotando vicinissimo at-torno a una stella anonima dell’Uni-corno (periodo di 20 ore), suscitò molto interesse, avendo una massa di sole due masse terrestri.

Alla fi ne del

2008, erano

stati scoperti

quasi 350 pianeti

extrasolari. In

alcuni casi sono

stati individuati

anche sistemi

multipli, con

pianeti situati

nella fascia

di abitabilità

della loro stella,

laddove la

temperatura

permette

l’esistenza di

acqua liquida.

Il numero di

pianeti adatti

a sviluppare

forme di vita

sembrerebbe

quindi

aumentare a

dismisura.

Pianeti

extrasolari abitabili

Fig. 1.1. Il campo di 100.000 stelle che verrà tenuto sotto controllo continuo per circa quattro anni dal telescopio Kepler, alla ricerca di pianeti extrasolari con il metodo dei transiti. Lanciato il 7 marzo 2009, Kepler è dotato di un fenomenale sensore fotometrico, in grado di misurare il calo di luce di stelle distanti fi no a 3000 a.l., quando sul loro disco transitino pianetidi ogni dimensione, anche di taglia terrestre.

Capitolo 1

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La tecnologia spaziale, dunque, appare assai promettente nella ri-cerca di pianeti extrasolari e in particolare di pianeti extrasolari abitabili di taglia terrestre. Per capirne appieno l’importanza e le potenzialità, è però necessario fare una disamina dello stato dell’ar-te di questa che, ormai, è diventata una delle branchie più affasci-nanti della moderna ricerca astronomica. All’inizio del 2009 erano state scoperte circa 330 stelle normali circondate da almeno un pianeta. Considerando che un 10% di queste stelle possiede sistemi planetari multipli, il numero totale di pianeti extrasolari conosciuto rasentava le 400 unità. È evi-dente che si tratta già di un numero suffi cientemente consistente per iniziare a fare qualche ragionamento statistico e, comunque, per ritrovarvi pianeti con caratteristiche molto diverse e spesso davvero peculiari. Le masse vanno da poche masse terrestri a molte masse gioviane, i periodi da pochi giorni a molti anni, le eccentricità possono essere anche molto alte. Uno studio pubblicato a metà del 2007 da Luca Pasquini (ESO) sembra anche sconfessare l’idea che siano le stel-le ricche di metalli (non solo ferro, ma tutti gli elementi più pesanti dell’elio) quelle con la massima tendenza a formare pianeti. In sostan-za, Pasquini ha studiato una quindicina di giganti rosse con pianeti al seguito, scoprendo che non mostrano alcun arricchimento di metalli. Questo porta a una completa inversione del problema: sarebbero i pianeti a inquinare le loro stelle e non le stelle ricche di metalli a favorire la formazione di pianeti. Inquinamento che diviene vistoso in stelle di tipo solare, nelle quali la regione convettiva superfi ciale è solo del 2% del totale, mentre invece si dissolve nelle giganti rosse, perché qui la zona convettiva raggiunge il 35% del totale. Quasi l’80% di queste scoperte è stato effettuato con il cosiddet-to “metodo spettroscopico”, introdotto nel 1995 dallo svizzero M. Mayor sulla stella 51 Pegasi e subito dopo adottato dal team ame-ricano di G. Marcy, il più prolifi co a livello mondiale. In sostanza, questo metodo misura (mediante spostamento Doppler delle righe spettrali) le variazioni di velocità che un pianeta induce sul moto della stella, rivoluzionando attorno a essa. Per queste misure sono necessari spettrometri sensibilissimi, capaci di percepire differenze di velocità di pochi metri al secondo. All’inizio del 2009, il più raffi nato di questi spettrometri era HARPS (High Accuracy Radial velocity Planetary Search project), che - applicato al telescopio di 3,6 m di La Silla - ha permesso nel giugno 2007 al gruppo di M. Mayor di fare una scoperta davvero notevole: quella di tre pianeti attorno alla stella Gliese 581, uno dei quali dotato di condizioni di abitabilità simili a quelle della Terra. Gliese 581 è una stellina di mag. 10,56, situata nella costella-zione della Bilancia, circa 2° a Nord di Beta Librae. Denominata anche OH Librae, è in realtà una stella variabile del tipo BY Dra-

conis, vecchia di 4,3 miliardi di anni: presenta minime variazioni fotosferiche di luminosità (0,006 mag.) a corto periodo (ore) e va-riazioni più spinte (0,5 mag.) a lungo periodo (mesi). Gliese 581 è una stella di classe M2, ossia è una nana rossa con una massa che è solo un terzo rispetto a quella del Sole: questo fa sì che la sua luminosità sia 80 volte inferiore a quella del Sole e che la sua temperatura superfi ciale non superi i 2500 °C. Da questo punto di vista, assomiglia a Proxima Centauri, una nana rossa di classe M5 e mag. 11, nota per essere la più vicina al Sole (4,2 anni luce). È importante aggiungere che le nane M (massa compresa tra l’8%

e il 50% rispetto al Sole) hanno, a causa della piccola massa, quindi della lentezza della fusione interna dell’idrogeno, una vita estremamente lunga, di decine di miliardi di anni. Aver scoperto oggetti planetari attorno a una nana rossa è un fatto molto importante: siccome queste stelle costituiscono il 70% del-la popolazione stellare della Via Lattea, si irrobustisce ancor più l’idea dell’estrema diffusione dei sistemi planetari extrasolari. E c’è di più. A causa della loro bassa temperatura superfi ciale, la distan-za alla quale la temperatura è compatibile con la presenza di acqua liquida (CHZ, Circumstellar Habitable Zone, ovvero fascia di abi-tabilità) è 10 volte più prossima che nel caso del Sole: diciamo che mentre per il Sole si può parlare di una CHZ tra 140 e 200 milioni di km (è la posizione della Terra con tutta la sua acqua liquida), la CHZ di Gliese 581 si colloca a una distanza di 10-15 milioni di km. Si tratta anche di una distanza alla quale è massima la probabilità di scoprire pianeti extrasolari per via spettroscopica, perché qui è maggiore il loro effetto perturbativo sulla stella centrale. Senza trascurare il fatto che, essendo le nane M di massa modesta, di-venta consistente anche l’effetto perturbatore di pianeti di massa terrestre. Questi ragionamenti stanno alla base di un grosso sforzo osser-vativo che Mayor e il suo gruppo, utilizzando lo spettrometro HARPS, hanno dedicato alle 100 nane M più vicine al Sole. Sco-po dichiarato: andare alla ricerca di “super-Terre’, ossia di pianeti con masse comprese tra due e dieci masse terrestri. Il primo risultato relativo alla stella Gliese 581 venne raggiunto nel 2005, quando 20 misure spettrali HARPS ad alta risoluzione permisero di scoprirne il primo pianeta (denominato Gliese 581b): si trattava anche del primo pianeta di taglia nettuniana (17 masse terrestri), situato a 6 milioni di km dalla stella, su un’orbita quasi circolare percorsa in 5,4 giorni. In questa posizione, nettamen-te più interna della fascia di abitabilità, il pianeta gode di una temperatura torrida, non inferiore a quella di Mercurio: diciamo almeno 150-200 °C (quindi è da escludere qualunque abitabilità). C’erano però alcune irregolarità nella forma della sinusoide rap-presentativa delle oscillazioni di velocità radiale indotte da Gliese 581b sulla sua stella. Da qui la decisione di raffi nare la ricer-ca con altre 30 misure di HARPS ad alta risoluzione, effettuate all’inizio del 2007. Le nuove misure hanno evidenziato, attorno a Gliese 581, la presenza di altri due pianeti, uno dei quali dotato di una straordinaria peculiarità: quella di orbitare per la prima volta all’interno della CHZ, ossia della fascia di abitabilità (Fig. 1.2). Ma procediamo con ordine.Il primo dei nuovi pianeti, denominato Gliese 581d, è piuttosto “normale”: ha una massa di otto volte quella della Terra e pre-senta un’orbita piuttosto eccentrica, percorsa in 84 giorni a una distanza media di 37,5 milioni di km. Trovandosi al di fuori della fascia di abitabilità, si tratta di un oggetto gelido, con una tempe-ratura forse non dissimile da quella di Marte. Ben più interessante il secondo pianeta (Gliese 581c): ha infatti una massa minima di cinque masse terrestri (ovvero un diametro di 1,5 volte quello terrestre nell’ipotesi che abbia una composizio-ne rocciosa) e ruota attorno alla stella centrale in 13 giorni da una distanza media di circa 11 milioni di km, quindi ben all’interno della fascia di abitabilità. La massa e le dimensioni di Gliese 581c generano in superfi cie

Pianeti extrasolari abitabili

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una gravità di 2,1 volte quella terrestre, quindi permettono l’esi-stenza di una buona atmosfera: a seconda che questa sia densa (albedo = 0,64 come Venere) o meno densa (albedo = 0,35 come la Terra), se ne deduce una temperatura superfi ciale che va da -3 °C a 40 °C, ovvero una temperatura media di 20 °C. Questo signifi ca che l’eventuale acqua di quel pianeta si conserverebbe indefi nitamente in forma liquida, rendendo l’ambiente particolar-mente adatto alla nascita di qualche forma di vita. Anche perché la stabilità del sistema è assicurata dalla longevità (molto superio-re a quella del Sole) della stella centrale. Non bisogna però dimenticare un fatto: a causa dell’estrema vici-nanza, la stella centrale esercita su Gliese 581b un’azione di ma-rea almeno 400 volte maggiore di quella del sistema Terra-Luna. Con l’inevitabile conseguenza di una sincronizzazione del periodo di rotazione e di rivoluzione. In altre parole, Gliese 581c dovrebbe rivolgere sempre la stessa faccia alla sua stella, con effetti assai vistosi sulle sue condizioni climatiche superfi ciali. Si avrebbe infatti un emisfero perennemente illuminato e molto caldo, e l’altro emisfero perennemente in ombra e molto freddo. Solo sul confi ne tra i due emisferi, ossia sul terminatore, le con-dizioni ambientali sarebbero suffi cientemente sopportabili per al-bergare forme di vita. A meno che lo squilibrio termico tra i due emisferi non stimoli una circolazione di venti impetuosi, in grado di ripristinare periodicamente un certo equilibrio.Al momento, nessuno può dire se la vita si sia veramente svilup-pata su Gliese 581c, anche perché l’idea che sia presente acqua liquida è solo ipotetica e non supportata da prove spettroscopiche

(toccherà a future missioni spaziali dedicate - come la Darwin

dell’ESA o la TPF della NASA - tentare questa ricerca). Una cosa, però, è certa: questo oggetto diventa uno degli obiettivi più ambiti del progetto SETI (Search for Extraterrestrial Intelligence). Come tale, Gliese 581 (essendo una delle 100 stelle più vicine al Sole) era già stata “ascoltata” due volte nel passato alla ricerca di even-tuali segnali intelligenti: la prima volta fu nel 1995 con radiote-lescopio di Parks, in Australia; la seconda volta fu nel 1997 con il radiotelescopio di Greenbank in Virginia (USA). In entrambi i casi, il risultato fu deludente, ma adesso, dopo le ultime scoper-te, tutti i massimi radiotelescopi del progetto SETI torneranno ad ascoltare con più attenzione quella piccola nana rossa nascosta nella Bilancia.Le nane rosse sembrano avere una certa predisposizione a produr-re pianeti multipli di massa “terrestre”. Un altro esempio è quello di Gliese 876, una stellina di 0,3 masse solari, situata a 15 a.l. nella costellazione dell’Acquario. Ben 150 osservazioni spettrali di velocità radiale, effettuate in otto anni al telescopio Keck II, hanno permesso a Marcy di scoprire nel 2001 due pianeti gioviani risonanti: uno più esterno di due masse gioviane, con periodo di 60 giorni, e uno più interno di 0,5 masse gioviane, con periodo di 30 giorni. Poi, dall’analisi di alcune residue irregolarità spettrali, a metà del 2005, E. Rivera (un dottorando dell’Università della California) è riuscito a scoprire un terzo pianeta, questa volta di sole 7,5 masse terrestri, orbitante in due giorni a 8 milioni di km di distanza dalla stella. Una distanza compatibile con un piane-ta roccioso dalla superfi cie non propriamente infuocata (massimo 200 °C). Ma, a quanto sembra, anche stelle evolute come le giganti ros-se possono produrre e conservare pianeti multipli. Lo dimostra il caso di HD 102272, una gigante rossa di due masse solari situata a 1200 a.l. nel Leone. Alla fi ne del 2008, Alex Wolszczan (che all’inizio degli Anni 90 aveva scoperto alcuni pianeti “impos-sibili” attorno a una pulsar), grazie a uno spettrografo di nuova generazione applicato al telescopio segmentato da 11 mi Hobby-Eberly nel Texas, ha scoperto un pianeta di sei masse gioviane a 0,6 UA dalla stella (periodo = 127 giorni) e un probabile secondo pianeta di tre masse gioviane a distanza tripla ma su un’orbita molto ellittica (e = 0,68), percorsa in circa 520 giorni. Ricordiamo che 1 UA = Unità Astronomica = distanza media Terra-Sole = 149,5 milioni di km.Alla fi ne del 2008, con il metodo Doppler, erano stati scoperti 31 sistemi planetari multipli. Tra essi, una menzione particolare va data sicuramente alle stelle HD 69830 (a 41 a.l. nella Poppa), HD 40307 (a 40 a.l. nel Pittore) e 55 Cnc (a 1000 a.l. nel Cancro). HD 69830 è una stella di 0,86 masse solari piuttosto evoluta (2 miliardi di anni). Nell’aprile 2004, il telescopio spaziale Spitzer trovò, nella regione a 8-35 micron, un forte assorbimento dei si-licati cristallini, compatibile con una fascia di corpi asteroidici situata a 1 UA dalla stella. Formidabile, nel giugno 2005, il lavoro del gruppo di M. Mayor (Università di Ginevra) con lo spettrome-tro HARPS applicato al telescopio da 3,6 metri di La Silla: ven-nero scoperti tre pianeti “nettuniani” (10, 12 e 18 masse terrestri) situati a 0,078 UA (periodo = 8,7 giorni), 0,186 UA (periodo = 32 giorni) e 0,63 UA (periodo 197 giorni); una distanza, quest’ultima, nel pieno della fascia di abitabilità della stella centrale!

Fig. 1.2. Attorno alla stella Gliese 581 (nana rossa della costellazione della Bilancia, con una massa di 1/3 rispetto a quella del Sole), sono state condotte, dal 2005 al 2007, misure sempre più accurate di oscillazione radiale delle linee spettrali, mediante lo spettrometro HARPS applicato al rifl ettore da 3,6 m di La Silla. L’analisi della complessa curva di luce ha permesso di scoprire che la stella è circondata da almeno tre pianeti (581b, 581c, 581d): tra questi, 581c ha una massa di cinque volte la Terra e si colloca nella fascia di abitabilità della stella.

Capitolo 1

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HD 40307 è una stella di 0,77 masse solari, di metallicità (rap-porto Fe/H) inferiore a quella solare. Su di essa, HRPS ha lavorato per 4,5 anni, effettuando 130 misure di oscillazione radiale, per produrre una curva di oscillazione radiale estremamente com-plessa (Fig. 1.3). Da questa si è potuto dedurre (giugno 2008) la presenza di tre torride super-Terre (4,2, 6,9 e 9,2 masse terrestri), a una distanza inferiore a quella di Mercurio, quindi completa-mente al di fuori della fascia di abitabilità. Nell’ottobre 1998, il telescopio IRTF da 2,2 m delle Hawaii rile-vò, attorno a 55 Cnc, un disco di polvere inclinato di 27°, fornendo anche un punto di riferimento fondamentale per l’inclinazione or-bitale (quindi per la massa assoluta) di eventuali pianeti. La cosa straordinaria è che 55 Cnc è una stella doppia, costituita da due componenti (A e B) distanti circa 1000 a.l. Ebbene, attorno alla componente primaria A, praticamente simi-le al Sole, sono stati scoperti con il metodo Doppler ben cinque pianeti: tra questi, il penultimo (55 Cnc f), distante 0,78 UA, con massa di 0,14 masse gioviane e periodo di rivoluzione di 260 gior-ni, si trova in piena zona di abitabilità, quindi potrebbe godere di condizioni climatiche simili a quelle della Terra (Fig. 1.4). Il caso di 55 Cnc è importante in generale. Dimostra infatti che an-che le stelle multiple (lo sono il 60% delle stelle della Via Lattea) possono essere circondate da pianeti. Per esempio, nel marzo 2005, M. Konacki ha scovato, con il sen-sibilissimo spettrografo HIRES applicato al telescopio Keck II

delle Hawaii, un pianeta davvero incredibile attorno alla stella HD188753, situata a 149 a.l. nella costellazione del Cigno. Il pianeta, di massa gioviana, fa parte della classe degli hot Jupiter

(“Giovi caldi”), dal momento che orbita in 3,35 giorni a 8 milioni di km da una stella di massa solare. Quest’ultima, però, è a sua volta multipla: è infatti accompagnata da una coppia stretta di due stelle, una rossa e una arancione, la cui massa globale è di 1,6 masse solari. La coppia si muove a due passi dalla stella centrale, su un’orbita molto ellittica (e = 0,5), percorsa in 26 anni tra 6 e 18 UA di distan-za. Di conseguenza, il cielo infuocato di HD188753b deve apparire davvero surreale, per il sorgere e il tramontare continuo non di uno, ma di tre Soli. Ci si chiede come mai l’orbita di questo pianeta non sia stata mo-difi cata e distrutta in pochi milioni di anni dalla presenza della coppia di stelle satelliti. Addirittura, un pianeta simile non do-vrebbe neanche riuscire a formarsi, perché, secondo le teorie più accreditate, i pianeti di massa gioviana devono nascere a debita distanza dalle stelle dove il materiale protoplanetario è abbondan-te, per poi “scendere” per attrito verso la stella centrale, una volta raggiunta una massa signifi cativa. Il problema è che, nel sistema studiato da Konaki, gran parte dei materiali protoplanetari dovreb-be essere stata risucchiata dalle due stelle minori (non solo per la loro vicinanza, ma anche per la grande ellitticità della loro orbita). Il pianeta con tre Soli, quindi, non dovrebbe esistere. Il fatto che, invece, esista, ha spinto Konacki a una nuova ipotesi: forse HD188753b, pur avendo la massa di un pianeta, è una stella man-cata, che non si è accesa solo perché si è formata in un ambiente estremamente impoverito di materia prima. La Tabella 1 riporta i dati principali dei pianeti extrasolari sco-perti con il metodo spettroscopico fi no all’inizio del 2009.

Fig. 1.3. Questa complicata curva di oscillazione radiale delle linee spettrali è stata realizzata dallo spettrometro HARPS (applicato al telescopio da 3,6 m di La Silla) sulla stella HD 40307 nel giugno 2008. La sua analisi ha rivelato la presenza di tre torride super-Terre (4,2, 6,9 e 9,2 masse terrestri) a distanze dalla stella inferiori a quella di Mercurio, quindi completamente al di fuori della fascia di abitabilità.

Fig. 1.4. La stella 55 Cnc è una doppia davvero straordinaria. Attorno alla componente primaria A, praticamente simile al Sole, sono stati scoperti col metodo Doppler ben cinque pianeti. Il più interessante è il penultimo (55 Cnc f), scoperto nel 2005 con lo spettrografo HRS applicato al telescopio HET (Hobby-Eberly Telescope): la sua massa è di 0,14 masse gioviane, dista dalla stella 0,78 UA e ha un periodo di rivoluzione di 260 giorni, quindi si trova in piena zona di abitabilità.

Pianeti extrasolari abitabili

9

1.1. Pianeti extrasolari in transito

Per quanto il metodo spettroscopico rimanga quello principale per la ricerca di pianeti extrasolari, esso mantiene alcuni difetti di fondo. Intanto, per un evidente effetto di selezione, permette di scoprire facilmente soprattutto pianeti di massa gioviana orbitanti molto vicino alla stella centrale (si tratta dei cosiddetti hot Jupiter, così defi niti per l’inevitabile alta temperatura superfi ciale). Soprat-tutto, è possibile fare una stima corretta della massa del pianeta in questione solo se il piano orbitale di quest’ultimo viene visto esattamente di taglio. Essendo questa eventualità molto rara sta-tisticamente (1% in media), ne deriva che le stime di massa spet-troscopiche sono sempre approssimate. L’ideale sarebbe quindi utilizzare il metodo spettroscopico su pia-neti extrasolari per i quali si abbia preventivamente la certezza di un piano orbitale visto di taglio dalla Terra. Esiste un approc-cio sicuro per capire se l’orbita di un pianeta extrasolare è vista di taglio. Denominato “metodo dei transiti”, è immediatamente comprensibile se si pensa al passaggio sul Sole di Mercurio del 7 maggio 2003, oppure a quello molto più spettacolare di Venere dell’8 giugno 2004: in sostanza, si tratta di misurare il minuscolo calo di luminosità di una stella (0,01% per pianeti terrestri, fi no al 2% per pianeti gioviani), in conseguenza del passaggio sul suo disco di uno dei suoi pianeti.Siccome gli attuali sistemi fotometrici non hanno grossi problemi a misurare cali di luce di questa entità, il metodo dei transiti ha assunto, a partire dal 2006-2007, una diffusione sempre maggio-re, anche perché ha saputo coinvolgere pesantemente il mondo degli astrofi li. Due, in particolare, gli episodi che hanno visto protagonisti astrofi li di casa nostra nel 2007. Nel primo caso, si tratta della scoperta originale di due nuovi pianeti (XO-2b e XO-3b), realizzata all’inizio del 2007 dal team del progetto XO, che comprende anche gli italiani Franco Mallia e Gianluca Masi (Fig.

1.1.1). La cosa interessante è che i due pianeti sono stati scoper-ti direttamente con il metodo dei transiti e solo successivamente confermati con quello spettroscopico. Nel secondo caso, le cose sono andate più o meno in senso oppo-sto. Nella primavera 2007, l’americano D. Fisher scoprì col me-todo spettroscopico un pianeta molto “strano” attorno alla stella HD 17156, situata a 255 a.l. in Cassiopea: la sua massa (minima) era tre volte quella di Giove e ruotava in 21 giorni (un periodo “lunghissimo” tra gli extrasolari scoperti), lungo un’orbita estre-mamente ellittica (e = 0,7), che portava il pianeta a una distanza dalla stella variabile da 7 a 40 milioni di km. Grande merito di un folto team di osservatori di varie nazioni (tra cui gli italiani D. Gasparri, E. Guido, C. Lopresti, F. Manzini e C. Sostero), guidati da Mauro Barbieri (che lavora all’Università di Marsiglia nell’ambito del progetto Corot), è stato quello di cogliere fotometricamente un transito di HD 17156b (durata = 3,1 h) du-rante la notte del 9-10 settembre 2007, nonostante che il relativo calo di luminosità fosse quasi al limite delle possibilità tecnologi-che di fi ne 2007 (0,006%) (Fig. 1.1.2). Oltre a rendere assoluta la massa di un pianeta determinata per via spettroscopica, il metodo dei transiti ha anche altri vantaggi. Intanto, si possono individuare pianeti di qualunque taglia (com-presa quella terrestre, inaccessibile col metodo Doppler). Inoltre,

dal rapporto massa/volume (la prima determinata per via spet-troscopica, il secondo dal calo della luce stellare in transito), si possono determinare le densità dei vari pianeti. Con la scoperta, da parte di Sara Seager (MIT), che a seconda della composizione locale della nebulosa protoplanetaria in cui un piane-

Fig. 1.1.1. Sopra: la curva fotometrica di luce di XO-2b, il secondo pianeta transitante scoperto nella primavera 2007 dal Progetto XO (comprendente anche gli italiani Franco Mallia e Gianluca Masi). Sotto: la conferma spettroscopica della natura planetaria di XO-2b, realizzata dal telescopio HET: si tratta di un pianeta di 0,6 masse gioviane che ruota in 2,6 giorni a 6 milioni di km dalla componente Nord della stella doppia GSC 34130-0005, situata a 560 a.l. nella costellazione della Lince.

Fig. 1.1.2. Nella notte del 9-10 settembre 2007, un folto gruppo di osservatori (tra cui molti astrofi li italiani), guidato da Mauro Barbieri, è riuscito nella diffi cilissima impresa di cogliere il transito di un pianeta di tre masse gioviane, ruotante attorno alla stella HD17156 (situata a 255 a.l. in Cassiopea) con un periodo di 21 giorni, il più lungo tra tutti i pianeti transitanti fi no ad allora conosciuti. Qualche mese prima, l’americano D. Fisher aveva scoperto il pianeta con il metodo spettroscopico lungo un’orbita estremamente ellittica (e = 0,7), che lo portava a una distanza dalla stella variabile da 7 a 40 milioni di km.

Capitolo 1

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ta di massa terrestre si forma, sono possibili almeno 14 tipologie dif-ferenti di pianeti, da minuscoli corpi di puro ferro, a pianeti di pura acqua, di puro carbonio e così via (Fig. 1.1.3). Altra cosa impor-tantissima è la possibilità di eseguire misure dirette sul pianeta tran-sitante per via differenziale (sottraendo al contributo stella+pianeta quello della sola stella, quando il pianeta le passa dietro). Il primo pianeta a essere stato colto mentre transitava sul disco della sua stella fu HD 209458b (Osiris), un pianeta della taglia di Giove, che rivoluziona in soli 3,5 giorni a 6,7 milioni di km da una stella simile al Sole, situata a 150 a.l. nella costellazione di Pega-so. Accadde il 7 novembre 1999, quando Greg Henry (Università del Tennessee) riuscì a misurare con un fotometro sensibilissimo un calo della luminosità della stella centrale dell’1,7% che si ri-peteva periodicamente ogni 3,5 giorni. Dal calo di luminosità che il pianeta produceva passando sopra la sua stella, fu possibile defi nirne un diametro del 70% rispetto a Giove. Siccome già nel 1999 Geoff Marcy ne aveva determinato la massa dall’entità delle oscillazioni che il pianeta produceva sulla sua stella, fu facile risalire alla densità (massa/volume), che risultò molto bassa (0,37 kg/dm3): Osiris quindi aveva una compo-sizione completamente gassosa. Nel dicembre 2004, D. Deming (Goddard Space Flight Center) ha ottenuto una prima assoluta per un pianeta extrasolare: la deter-minazione della sua temperatura superfi ciale. Utilizzando il tele-scopio spaziale infrarosso Spitzer, Deming ha misurato la diffe-renza (0,25%) tra l’emissione a 24 micron della stella più pianeta e l’emissione della sola stella (pianeta eclissato). Siccome a 24 micron la stella è solo 400 volte più luminosa del suo pianeta, è stato possibile risalire all’energia infrarossa emessa dal pianeta, quindi alla sua temperatura. Quest’ultima è risultata prossima a 900 °C, in fondo compatibile con la distanza dalla stella centrale che è di soli 6,7 milioni di km. Analizzando, con lo spettrografo STIS dello Space Telescope, l’at-tenuazione della luce UV della stella centrale durante i transiti del pianeta (alle lunghezze d’onda di 118-170 nm), Gilda Balle-ster (Università dell’Arizona) e Alfred Vidal-Madjar (Università di Parigi) hanno scoperto a metà del 2006 che Osiris possiede una estesa atmosfera di idrogeno atomico “inquinato” da sodio, ossigeno e carbonio, che si perde di continuo nello spazio al tasso di circa mezzo milione di tonnellate al secondo. Nel febbraio 2007, J. Richardson (Goddard Space Flight Center), utilizzando il telescopio spaziale Spitzer in maniera differenzia-le (ovvero con sottrazione dello spettro infrarosso della stella da quello cumulativo di pianeta+stella), ha scoperto che nella roven-te atmosfera di Osiris erano presenti le bande del metano a 7,78 micron e dei silicati a 9,65 micron (Fig. 1.1.4). Ma Richardson non si accorse che nei pressi delle bande sili-catiche c’era qualcosa di ancora più interessante. Si trattava di un assorbimento centrato attorno a 10 micron, che nessun piane-ta extrasolare aveva mostrato in precedenza. La disamina (molto complessa) di questo assorbimento ha permesso a Travis Barman (Lowell Observatory) di pubblicare a metà del 2007 una scoperta assai rilevante: la possibile presenza di vapor d’acqua. Era la pri-ma volta che dell’acqua veniva scoperta su un pianeta extrasolare, anche se - considerando la torrida temperatura - Osiris non ha proprio nulla di affi ne con condizioni terrestri.

Ancor più interessante il caso di HD 189733b, un pianeta di mas-sa e dimensioni gioviane, che ruota in 2,2 giorni a 4,8 milioni di km dalla sua stella, situata a 60 a.l. nella Volpetta. In queste con-dizioni, è inevitabile che la stella abbia sincronizzato rotazione e rivoluzione del pianeta, facendo sì che esso (come la nostra Luna)

Fig. 1.1.4. Il primo spettro del pianeta HD 209458b (Osiris), ottenuto nel febbraio 2007 dal telescopio spaziale infrarosso Spitzer in maniera differenziale (sottraendo lo spettro infrarosso della stella da quello cumulativo di pianeta+stella). Osiris è un pianeta di massa gioviana che dista solo 6,7 milioni di km dalla sua stella, quindi ha un’atmosfera rovente che tende continuamente a evaporare. In questa atmosfera, Spitzer ha scoperto le bande del metano a 7,78 micron e dei silicati a 9,65 micron. La realtà della banda a 7,78 micron è dimostrata dal fatto che il pianeta mostra la diminuzione fotometrica del transito anche con un fi ltro esattamente centrato a questa lunghezza d’onda (vedi grafi co inferiore).

Fig. 1.1.3. Secondo un lavoro pubblicato a metà del 2007 da Sara Seager, la composizione locale della nebulosa protoplanetaria è decisiva sulla tipologia di eventuali pianeti terrestri: si andrebbe da minuscole “Terre” di puro ferro (Fe), a “Terre” di puro silicio (Si), di puro carbonio (C), di pura acqua (H

2O), di puro ossido di

carbonio (CO), di puro idrogeno (H).

Pianeti extrasolari abitabili

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rivolga alla sua stella sempre la stessa faccia. Si tratta dunque di un corpo con un emisfero torrido e l’altro emisfero gelido? Non proprio. Su questo oggetto, un team guidato da H. Kuntson (Harvard) ha puntato nella primavera 2007 il telescopio Spitzer

per 33 ore, realizzando 4 milioni di misure di emissione termica a 8 micron in ogni punto dell’orbita. Si è visto che le temperatu-re vanno dai 950 °C diurni ai 650 °C notturni e che il massimo di temperatura diurna si raggiunge su una macchia termica delle dimensioni della Macchia Rossa di Giove, situata a 30° di longi-tudine dal punto subsolare. Queste misure hanno suggerito che su quel mondo lontanissimo debbano spirare venti fortissimi, con velocità fi no a 950 km/h (Fig. 1.1.5).HD189733b sarà però ricordato come il primo pianeta extraso-lare del quale sia stata non solo scoperta ma anche studiata in dettaglio l’atmosfera. Il merito principale va a una geniale serie di osservazioni condotte dall’italiana Giovanna Tinetti (ESA, Uni-

versity College di Londra), che ha utilizzato entrambi i telescopi spaziali della NASA (Spitzer e Hubble) nella primavera 2007. Le prime osservazioni vennero fatte con il pianeta in transito sulla stella (eclisse primaria): in questo caso, ovviamente, viene indaga-ta la porzione del pianeta costantemente in ombra. Utilizzando il telescopio spaziale Spitzer, la Tinetti si è dapprima accorta che le eclissi primarie, che nel visibile producevano sulla stella una dimi-nuzione di luce del 2,48%, sembravano più “trasparenti” nel vicino infrarosso: probabilmente, HD189733 aveva un’atmosfera opaca in ottico (un po’ come Venere o Titano) e più trasparente in infrarosso. Quando la Tinetti si è accorta che l’opacità infrarossa del pianeta era maggiore a 5,8 micron (2,43%) che a 3,6 micron (2,36%) e interme-dia a 8 micron (2,39%), ne è venuta fuori una prima grande scoperta: era esattamente quando ci si doveva aspettare da un’atmosfera ricca di vapor d’acqua! Ma non può essere solo il vapor d’acqua la causa della maggiore opacità nel visibile rispetto al vicino infrarosso. Per questo, la Tinetti ha voluto misurare con la stessa tecnica (questa volta con lo spettrometro NICMOS dello Space Telescope)

anche le sottili differenze di opacità che il pianeta mostrava in varie bande tra 1,4 e 2,5 micron. Con un risultato eclatante: non solo la scoperta dell’acqua era confermata, ma era chiara anche la presenza di metano e (forse) di ammoniaca (Fig. 1.1.6). Da qui una possibile spiegazione dell’estrema opacità dell’atmo-sfera del pianeta in ottico: forse metano e ammoniaca, investiti dalla violenta radiazione della stella centrale, producono uno smog di idrocarburi complessi (“toline”), rossiccio e opaco come quello che avvolge l’atmosfera di Titano. Non bisogna dimenticare che tutte queste misure, essendo state fatte con il pianeta in transito (eclisse primaria), si riferiscono al suo emisfero perennemente in ombra, quindi meno caldo. Ma anche l’emisfero di HD189733b sempre affacciato alla sua stella è di estremo interesse. Per questo era necessario utilizzare le eclissi secondarie (ossia le situazioni in cui la stella occulta il pianeta). In sostanza, si trattava di riprende-re degli spettri differenziali, togliendo alla componente della stella più pianeta (poco prima dell’eclisse secondaria) la componente re-lativa alla sola stella (quando il pianeta le è dietro). Uno spettro di questo tipo (quindi relativo al lato illuminato del pianeta), ottenuto alla fi ne di aprile 2007 dalla Tinetti tra 1,5 e 2,15 micron con lo spettrometro NICMOS, ha fornito risultati spettacolari (Fig. 1.1.7): oltre all’acqua, sono stati infatti per la prima volta evidenziati assorbimenti molto intensi dovuti a CO (ossido di carbonio) e CO

2 (anidride carbonica). Evidentemente,

sul lato più caldo del pianeta la stabilità del metano (CH4) è molto

scarsa, a favore della sua decomposizione in CO e CO2 per reazio-

ne con il vapore d’acqua. Un’importante conferma della presenza, sul lato illuminato di HD189733b, sia di acqua che di composti ossidati del carbonio, è stata ottenuta nel dicembre 2007 da C. Grillmair (Università della California), che ha utilizzato il telescopio spaziale Spitzer per ot-tenere spettri differenziali (stella+pianeta meno sola stella) in una regione infrarossa molto più estesa (tra 2 e 30 micron).

Fig. 1.1.5. Il pianeta HD 189733b, di massa e dimensioni gioviane, ruota in 2,2 giorni a 4,8 milioni di km dalla sua stella, situata a 60 a.l. nella Volpetta. Si tratta quindi di un oggetto torrido, la cui temperatura fu valutata per la prima volta nella primavera 2007 dal telescopio Spitzer, mediante misure di emissione termica a 8 micron in ogni punto dell’orbita. Si è visto che le temperature vanno dai 950 °C diurni ai 650 °C notturni e che il massimo di temperatura diurna si raggiunge a 30° di longitudine dal punto subsolare. Questo signifi ca che su quel mondo lontanissimo devono spirare venti fortissimi, che raggiungono i 950 km/h.

Fig. 1.1.6. Questo spettro dell’atmosfera del pianeta HD 189733b è di importanza storica: è il primo che sia stato ripreso a un pianeta extrasolare. Il merito va all’italiana Giovanna Tinetti, che, nella primavera 2007, ha utilizzato lo spettrometro NICMOS dello Space Telescope, per scrutare l’emisfero oscuro del pianeta in fase di transito primario (nel corso di tale processo, i gas presenti nella sua atmosfera assorbono piccole, ma misurabili frazioni della luce della stella): ne sono emerse le bande dell’acqua “inquinate” dalla presenza di metano e (forse) di ammoniaca.

Capitolo 1

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Un pianeta gioviano transitante davvero speciale ruota attorno a HD 80606, una stella di massa solare situata a 190 a.l. nell’Orsa Maggiore, che possiede una compagna di massa analoga a 2000 UA di distanza. Nel 2001, D. Naef (Università di Ginevra), me-diante misure di oscillazione radiale effettuate al telescopio Keck

I delle Hawaii, scoprì che attorno a una delle componenti di HD 80606 ruotava in 111 giorni, un pianeta (HD 80606b) di quattro masse gioviane su un’orbita estremamente ellittica (e = 0,93), che lo allontanava dalla stella fi no a 0,85 UA (128 milioni di km) e che lo avvicinava ad appena 0,03 UA (4,5 milioni di km). Essendo l’energia ricevuta dal pianeta al periastro circa 800 volte maggiore che all’apoastro, si potevano prevedere delle “stagioni”, caratterizzate da un fortissimo squilibrio termico. Una conferma è venuta nel novembre 2007, grazie a una serie di misure realiz-zate da G. Laughlin (Lick Observatory) con il telescopio spaziale Spitzer. Laughlin raccolse l’emissione a 8 micron del sistema nelle 30 ore prossime al periastro, scoprendo che per un paio d’ore il pianeta veniva occultato dalla stella, scomparendogli dietro. Que-sto evento, insperato e fortunato, permise di risalire all’emissione termica a 8 micron della sola stella e di sottrarla all’emissione combinata di stella+pianeta (Fig. 1.1.8). Risultato: la temperatura del pianeta al periastro (1250 °C) prati-camente si raddoppiava rispetto all’apoastro (650 °C), innescan-do dei fenomeni vorticosi tanto rilevanti da coinvolgerne l’intera atmosfera (con venti di 5 km/s!). Era nata una nuova scienza: la meteorologia extrasolare (Fig. 1.1.9). Poi, nella notte del 13-14 febbraio 2009, l’ennesimo colpo di scena, con la scoperta (davve-ro eccezionale, in quanto realizzata da un folto gruppo di astrofi li italiani guidati dal prof. Mauro Barbieri) che HD 80606b è anche transitante davanti alla sua stella. È stato così possibile stabilire che il diametro del pianeta è simile a quello di Giove, quindi che la sua densità è di tipo terrestre (circa 4,5 kg/dm3). Per completezza, aggiungiamo che si conoscono pianeti transitan-ti anche di massa molto inferiore a quella gioviana. Per esempio, HD149026b ruota in 2,9 giorni a 6 milioni di km dalla sua stella, situata a 256 a.l. di distanza in Ercole. Su questo oggetto di massa e dimensioni saturniane (90 masse terrestri), un team guidato da J. Hurrington (Università della Florida) ha puntato Spitzer il 24 agosto 2005, misurando con la camera IRAC (Infrared Array Ca-

mera) la diminuzione dell’emissione a 8 micron nel momento in cui il pianeta passava dietro la stella. Ne è risultato il pianeta extrasolare più caldo fi nora conosciuto, con una temperatura vicina ai 2000 °C. Un valore davvero esage-rato, anche per un oggetto così vicino alla stella centrale. Da qui l’idea che la colpa risieda in un’atmosfera resa scura e assorbente da un’anomala quantità di ossidi metallici (TiO

2, VO, forse sili-

cati), mandati in fase vapore dalle torride condizioni ambientali. Il primo pianeta transitante di massa nettuniana venne scoperto al telescopio Keck I delle Hawaii con il metodo spettroscopico nel 2004: ruota in 2,6 giorni attorno alla stella Gliese 436, una nana rossa distante 33 a.l. nel Leone. L’orbita altamente ellitti-ca fa supporre la presenza di un secondo pianeta invisibile. Che Gliese 436b fosse pianeta transitante vicino al bordo della stella venne scoperto tramite osservazioni fotometriche condotte in mag-gio 2007 dal belga M. Gillon (Università di Liegi) con il rifl ettore Eulero da 1,2 m di La Silla.

Fig. 1.1.7. Alla fi ne di aprile 2007, Giovanna Tinetti ha completato il suo straordinario lavoro spettroscopico sull’atmosfera del pianeta transitante HD 189733b, realizzando (NICMOS-Space Telescope) spettri dell’emisfero illuminato, con il metodo differenziale, ossia togliendo alla componente della stella+pianeta (poco prima dell’eclisse secondaria) la componente relativa alla sola stella (quando il pianeta le era dietro). Ancora una volta, il risultato è stato spettacolare: oltre all’acqua, sono stati infatti per la prima volta evidenziati assorbimenti molto intensi dovuti a CO (ossido di carbonio) e CO

2 (anidride carbonica).

Fig. 1.1.8. Attorno alla stella binaria HD 80606 (a 190 a.l. nell’Orsa Maggiore) rivoluziona uno dei pianeti extrasolari più bizzarri che si conoscano. Misure di oscillazione radiale effettuate al Keck nel 2001 ne determinarono una massa quattro volte maggiore di Giove e un’orbita incredibilmente ellittica: in 111 giorni, il pianeta passava da 4,5 milioni a 128 milioni di km di distanza dalla sua stella, subendo un fortissimo squilibrio termico. Nel novembre 2007, il telescopio spaziale infrarosso Spitzer riuscì, con il metodo differenziale (emissione infrarossa della sola stella sottratta all’emissione infrarossa della stella+pianeta) a determinare le variazioni di temperatura di HD 80606 nei giorni precedenti e seguenti il periastro. Nella notte del 13-14 febbraio 2009, un folto gruppo di astrofi li italiani guidati da Mauro Barbieri scoprì che il pianeta era anche transitante: questo permise di calcolarne il volume e quindi una densità decisamente alta per un pianeta di massa gioviana.

Pianeti extrasolari abitabili

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Il transito diede la conferma che la massa di 22 masse terrestri de-dotta dalle misure spettroscopiche era corretta, quindi che Gliese 436b è un pianeta di massa nettuniana con densità di 2 kg/dm3 (50% roccia + 50% ghiaccio). Un secondo pianeta di massa nettuniana è stato annunciato nel gennaio 2009 da G.A. Bakos (collaborazione HAT, presso l’Har-

vard Smithsonian Center for Astrophysics). Denominato HAT-P-11b, questo pianeta orbita in 4,88 giorni attorno a una stella di 0,81 masse solari, situata a 120 a.l. nella costellazione del Cigno (mag. 9,6, età = 6,5 miliardi di anni). Dall’entità del transito (calo di luce della stella dello 0,42%), il diametro di HAT-P-11b risul-ta 4,7 volte quello terrestre. Dalle misure di oscillazione radiale effettuate al Keck II delle Hawaii per conferma nel 2007-2008, la massa risulta 25 volte quella terrestre. Il metodo dei transiti, dunque, appare molto effi cace e promet-tente, anche se non perfetto in assoluto. Intanto, da Terra, risulta impossibile cogliere pianeti di taglia terrestre. Soprattutto, rimane l’estrema rarità degli eventi, che solo per pianeti molto prossimi alla stella raggiunge a mala pena l’1% di probabilità. Quindi, è indispensabile che il numero di stelle controllate sia suffi cien-temente alto (diciamo qualche migliaio), per avere la ragionevo-le certezza di incorrere in molti eventi favorevoli. Un concetto, questo, dell’estrema numerosità delle stelle da testare, che si sta rivelando vincente per tutti i programmi di ricerca di pianeti in transito, sia da Terra che dallo spazio. Un esempio molto interessante e innovativo è il cosiddetto pro-

getto SWEEPS (Sagittarius Window Eclipsing Extrasolar Planet

Search), cui si è dedicato lo Space Telescope (HST) dal 22 al 29 febbraio 2004. In sostanza, un team guidato da Koilash Sahu ha utilizzato la camera ACS di HST per riprendere 520 immagini in un campo di 4° vicino al centro galattico, popolato da 245.000 stelle, distanti fi no a 26.000 a.l. Oltre a 180 binarie a eclisse, HST ha scoperto 16 possibili pianeti in transito con periodi compresi tra 0,4 e 4 giorni, quindi con distanze che vanno da 7 a meno di 1 milione di km (!). Solo due di questi eventi hanno avuto una conferma indipendente per via spettroscopica (oscillazione radiale delle linee spettrali) da par-te del VLT nel giugno 2004: le masse dei rispettivi pianeti sono risultate di 3,8 e 9,7 masse gioviane. Per gli altri 14 candidati, non è stato possibile ottenere spettri di conferma, a causa della debolezza delle stelle coinvolte (16-19 mag.). È comunque inte-ressante ricordare che cinque di questi potenziali pianeti sono del tipo USPP (Ultra Short Period Planet), avendo un periodo minore di 1,2 giorni. Il che signifi ca che, per non disgregarsi o essere de-moliti dalla loro stella, devono ruotare attorno a nane rosse e avere una massa almeno 1,6 volte maggiore di quella gioviana.Un’altra peculiarità del metodo dei transiti è che non richiede l’utilizzo di grandi telescopi, ma può essere praticato anche con strumenti di 10-20 cm di diametro, a disposizione di moltissimi astrofi li. La dimostrazione è il successo di due progetti con ampia partecipazione di astrofi li. Uno è il programma TrES (Trans-atlantic Exoplanet Survey), una rete iniziale di tre piccoli rifl ettori da 10 cm organizzata nel 2004 presso l’Osservatorio di Monte Palomar (telescopio Sleuth), presso il Lowell Observatory (PSST, Planet Search Survey Telescope) e a La Palma nelle Canarie (STARE, Stellar Astrophysics and Reserch

on Exoplanets). Alla fi ne del 2008, il programma TrES aveva al suo attivo la scoperta di quattro pianeti transitanti. L’altro è il pro-getto XO (un doppio teleobiettivo da 200 mm alle Hawaii, più varie collaborazioni di astrofi li), che ha scoperto cinque transiti positivi tra la metà del 2005 e la fi ne del 2008Il primo “centro” di TrES, denominato TrES-1, venne annunciato nell’estate 2004: si tratta di un pianeta grande come Giove, ma con massa circa dimezzata (0,6 masse giovane), orbitante in 3,03 giorni a 6 milioni di km dalla stella GSC 02652-01324, situata a 512 a.l. di distanza nella Lira. L’importante conferma che il calo periodico di luce della stella era veramente causato da un pianeta in transito è venuto da misure di velocità radiale effettuate al Keck II (Hawaii) nell’agosto 2004. Poi, il 22 maggio 2005, TrES-1 è stato oggetto della prima deter-minazione di una temperatura superfi ciale, risultata nel caso spe-cifi co di 850 °C: merito del telescopio spaziale infrarosso Spitzer, che ha sottratto l’emissione infrarossa della sola stella (con il pia-neta eclissato) dall’emissione della stella+pianeta fuori eclisse. A TrES-1 è seguito, nel settembre 2006, TrES-2, un pianeta di 1,28 masse gioviane, orbitante in 2,5 giorni attorno alla stella GSC03549-02811 di mag. 11,4, situata a 500 a.l. nel Sagittario (entro il campo che verrà esplorato dalla sonda Kepler il prossimo anno). È del settembre 2006 la scoperta di TrES-3, un oggetto che determina, ogni 1,3 giorni (un record!), un calo periodico del 2,5% nella luminosità della stella GSC 03089-00929, situata a 800 a.l. in Ercole. La conferma che si tratta davvero di un pianeta

Fig. 1.1.9. Questa simulazione delle perturbazioni atmosferiche del pianeta HD80606b, realizzata a metà del 2008 da Daniel Kasen (Università della California), è relativa agli otto giorni a cavallo del periastro: in pochi giorni, la temperatura si triplica, raggiungendo i 1250 °C e innescando fenomeni vorticosi (venti di 18.000 km/h!) tanto rilevanti da coinvolgerne l’intera atmosfera.

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è stata ottenuta il 27 marzo 2007 da misure spettroscopiche al Keck I: la massa è risultata di 1,92 masse gioviane e la distanza dalla stella di soli 3,4 milioni di km, il che implica una tempera-tura superfi ciale di almeno 1250 °C. Infi ne, risale all’agosto 2007 l’annuncio della scoperta di TrES-4, il pianeta extrasolare più “voluminoso” (1,7 diametri gioviani), ma anche il più “leggero” conosciuto (densità di solo 0,2 kg/dm3!). Ruota in 3,5 giorni a 7,4 milioni di km dalla stella GSC02620-00648, una sub-gigante dell’età del Sole situata a ben 1400 a.l. nella costellazione di Ercole. È estremamente interessante aggiungere che la buona visibilità dei quattro pianeti TrES dall’emisfero boreale estivo e il fatto che alcuni transitano sul disco della loro stella in posizione prossima al bordo, creando delle eclissi molto veloci (per esempio, il transi-to di TrES-2 dura solo 1h 23m) ne ha permesso l’osservazione fo-tometrica anche da parte di astrofi li di mezzo mondo. Eccezionali, in particolare, le curve di luce ottenute da molti astrofi li italiani a partire dall’estate 2007, sotto la guida professionale di Mauro Barbieri (Università di Marsiglia) (Fig. 1.1.10). Il progetto XO (il nome XO deriva da eXOplanet) nacque nel 2003, quando Peter McCullough (Space Telescope Science Institu-

te) allestì sul vulcano Haleakala nell’Isola di Maui (Hawaii) una coppia di teleobiettivi da 200 mm, il cui campo relativamente grande permise di monitorare in due anni migliaia di stelle, in cerca di possibili transiti. L’idea vincente di McCullough fu quella di affi dare a una estesa rete mondiale di osservatori professionisti e dilettanti (il cosiddetto ET, Extended Team) il controllo fotome-trico dei candidati più promettenti. La prima di queste stelle, denominata GSC 02041-01657 e situata a 750 a.l. nella Corona Boreale, fu seguita da maggio a settembre 2004 dalla collaborazione WASP (Wide Angle Search for Planets), una rete inglese di otto teleobiettivi da 200 mm, posizionati per metà alle Canarie e per metà in Sud Africa): vennero colti ben 11 transiti, che permisero di attribuire al pianeta responsabile (deno-minato XO-1b) una dimensione di 1,3 diametri gioviani (ricordia-mo che, alla fi ne del 2008, WAPS aveva al suo attivo la scoperta di 15 transiti) (Fig. 1.1.11). Da giugno a luglio 2005, XO-1b venne accuratamente seguito an-che dal gruppo ET del progetto XO (allora composto da tre osser-vatori europei e uno americano): oltre alla conferma del diametro, ne uscì una misura molto precisa del periodo di rivoluzione (3,03 giorni da una distanza di circa 7,5 milioni di km). Misure Dop-pler di oscillazione della velocità radiale, condotte subito dopo con lo spettrografo ad alta risoluzione HRS del telescopio HET da 11 metri del McDonald Observatory, determinarono una massa del pianeta orbitante di 0,9 masse gioviane. Tenendo presente il diametro, ne risulta una densità di soli 0,54 kg/dm3, ovvero una consistenza fondamentalmente gassosa. La successiva attività del progetto XO, che ha portato alla sco-perta originale di altri due pianeti transitanti (OX-2b e OX-3b), è molto interessante, perché ha coinvolto pesantemente anche gli italiani Franco Mallia (Osservatorio di Campo Catino) e G. Masi (Virtual Telescope Project), che - nel frattempo - erano entrati a far parte del gruppo ET assieme a un’altra ventina di componenti. Entrambi questi nuovi pianeti vennero annunciati alla fi ne di maggio 2007 a Honolulu, durante l’annuale Congresso dell’AAS

Fig. 1.1.10. Dal momento che il metodo dei transiti non esige grossi telescopi, è diventato uno dei campi di indagine preferiti di molti astrofi li evoluti a partire dall’estate 2007, quando vennero colti in transito (in Italia e fuori) alcuni pianeti scoperti dal programma TrES (Trans-atlantic Exoplanet Survey), nato nel 2004 da una rete di tre piccoli rifl ettori da 10 cm, cui poi si sono aggiunti decine di altri dilettanti e professionisti. Qui vediamo il primo transito di un pianeta extrasolare in Italia (TrES-2), in una curva di luce realizzata da F. Manzini alla SAS (Stazione Astronomica di Sozzago).

Fig. 1.1.11. Un’altra prolifi ca collaborazione per la ricerca di pianeti in transiti è WAPS, una rete inglese di otto teleobiettivi da 200 mm, posizionati per metà alle Canarie e per metà in Sud Africa. Qui vediamo i primi cinque centri di WAPS nel 2007.Altri dieci centri sarebbero seguiti nel 2008.

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(American Astronomic Society). La candidatura di XO-2b come pianeta è stata confermata per via spettroscopica dal telescopio HET nel gennaio 2007: si tratta di un pianeta di 0,6 masse gio-viane che ruota in 2,6 giorni a 6 milioni di km dalla componente Nord della stella doppia GSC 34130-0005, situata a 560 a.l. nella costellazione della Lince (Fig. 1.1.1). Ancora più interessante il caso di XO-3b, scoperto transitare da-vanti a una stella di 10 mag. della costellazione della Giraffa in un’orbita molto ellittica (e = 0,2), percorsa in 3,19 giorni. La gran-de peculiarità di XO-3b è la sua massa, che - determinata come sempre per via spettroscopica - risulta essere di ben 12 masse gioviane, quindi la maggiore tra tutti i pianeti transitanti fi nora scoperti. Siccome il confi ne tra pianeta e nana bruna (ossia il limite di mas-sa minima perché in un oggetto gassoso si inneschino le reazioni di fusione nucleare) si colloca a 13 masse gioviane, è evidente che il sospetto che XO-3b sia in realtà una nana bruna (quindi che sia nato con la stella primaria e non da un suo anello di gas e di polvere) è forte. Sospetto che l’orbita estremamente ellittica tende ad aggravare. Un’altra prolifi ca rete di piccoli telescopi è la collaborazione HAT (Hungarian Automated Telescope), costituita da sei rifl ettori robo-tizzati da 11 cm dello Smithsonian Center for Astrophysics, quat-tro dei quali sono situati presso il Whipple Observatory e due alle Hawaii. Il primo “centro” di HAT è stato annunciato nel settembre 2006. Denominato HAT-P-1, si tratta di un pianeta 1,38 volte più grande di Giove ma di metà massa (quindi con una densità di soli 0,25 kg/dm3). I transiti durano in media un paio d’ore e producono un calo dell’1,5% della luce della stella centrale. La cosa interessan-te (e in un certo senso sorprendente) è il fatto che il pianeta ruota (ogni 4,5 giorni, a 7,5 milioni di km di distanza), attorno a uno dei due componenti di un sistema stellare doppio (ADS 16402), situato a 450 a.l. nella Lucertola. Nel maggio 2007, la rete HAT ha annunciato il pianeta transitante più massiccio fi no ad allora conosciuto (otto masse gioviane da misure di oscillazione radiale fatte al Keck I). Denominato HAT-P-2, ruota attorno alla stella HD 147506 di mag. 8,7 (età di 3 mi-liardi di anni, situata a 440 a.l. nella costellazione di Ercole), con un periodo di 5,63 giorni (il maggiore per un pianeta transitante). A causa di una elevata ellitticità dell’orbita (e = 0,5!), la sua di-stanza dalla stella centrale va da 5 a 15 milioni di km. Una cosa molto strana, se si pensa che le forze di marea della stella centrale avrebbero dovuto circolarizzarlo da un pezzo. Da qui l’idea che sia presente un secondo pianeta, che rende stabile l’ellitticità orbitale di HAT-P-2. Risale infi ne al luglio 2007 l’annuncio di HAT-P-3, uno dei pia-neti transitanti di diametro minore (90% di Giove), di 0,6 masse gioviane e densità = 1,06 kg/dm3 (secondo misure di oscillazione radiale effettuate al Keck nel giugno 2007). Orbita in 2,6 giorni a 6 milioni di km dalla stella GSC 03466-00819, una nana K di mag. 11,56, situata a 140 a.l. di distanza. Ormai HAT procede alla me-dia di quattro-cinque scoperte all’anno, tanto è vero che all’inizio del 2009 i transiti positivi erano già una dozzina. La Tabella 2 riporta i dati principali dei pianeti extrasolari sco-perti con il metodo dei transiti fi no all’inizio del 2009.

1.2. Microlenti planetarie

Un enorme impulso al metodo dei transiti è venuto anche dal pro-gramma OGLE III (Optical Gravitational Lensing Experiment), che un folto gruppo guidato da A. Udalsky (Università di Varsa-via) ha lanciato nel 2001 presso il telescopio cileno da 1,3 m di Las Campanas. Lo scopo dichiarato era quello di monitorare con un sensibilissimo sistema fotometrico alcune decine di migliaia di stelle del centro galattico, per ricercare piccoli incrementi di luminosità dovuti all’effetto gravitazionale di reciproci transiti stellari (gravitational microlensing). Ben presto, però, ci si accorse che lo studio dei microlensing pla-netari offriva una straordinario possibilità collaterale: quella di misurare piccolissimi (millesimi di magnitudine!) cali periodici di luminosità di qualche stella in conseguenza del transito su di essa di qualche pianeta. Nei primi due anni (2001-2002), il controllo di 155.000 stelle in direzione del centro galattico fornì 137 potenziali candidati. Sic-come però sono molteplici le ragioni per cui la luminosità di una stella può variare, fu indispensabile cercare una conferma della presenza di pianeti con il metodo spettroscopico dell’oscillazione Doppler della velocità radiale. La prima di queste conferme, mol-to importante dal punto di vista storico, venne annunciata da M. Konacki (Caltech) durante l’annuale convegno della AAS (Socie-tà Astronomica Americana), tenutosi a Seattle nel gennaio 2003: essa riguarda una stellina di mag. 15,3, situata nella costellazione del Sagittario a 5000 a.l. di distanza. Denominata OGLE-TR-56, questa stellina ha mostrato un calo periodico (1,2 giorni) di luminosità di circa 0,015 magnitudini e un’oscillazione della velocità radiale di 160 m/s (Keck II, luglio 2002). Da qui la deduzione della presenza di un pianeta caldissi-mo (1500 °C), di massa gioviana (ma densità di soli 0,5 kg/dm3), in orbita circolare a soli 3,5 milioni di km dalla stella. Due altre conferme, relative alle stelle OGLE-TR-113 e OGLE-TR-132, sono arrivate nel marzo 2004, grazie a misure di velocità radiale effettuate con lo spettrometro FRAMES collegato a uno dei quattro telescopi da 8,2 metri dell’ESO sul Cerro Paranal (il VLT-Kueyen). OGLE-TR-113 è una stella di tipo F, situata a 6000 a.l.: a 3,4 milioni di km di distanza, c’è un pianeta di 1,4 masse gioviane, che rivoluziona con periodo di 1,43 giorni. OGLE-TR-132 è una stella di classe K situata a 1200 a.l.: a 4,6 milioni di km c’è un pianeta della massa di Giove, che rivoluzio-na con periodo di 1,69 giorni. Si tratta, assieme al caso di OGL-TR-56, dei primi tre pianeti di nuovo tipo, caratterizzati da un periodo di rivoluzione non superiore a tre giorni, quindi assai vi-cini alla stella centrale (e per questo defi niti “Giovi caldissimi”, ovvero USPP, Ultra Short Period Planet)). In agosto e in ottobre 2004 è venuta, da parte del team di M. Mayor, la conferma Dop-pler dell’esistenza di un Giove caldissimo anche attorno a ciascu-na delle due stelle di tipo solare OGLE 10 e OGLE 111, entrambe situate a 4900 a.l. di distanza. Ma torniamo agli effetti di microlensing veri e propri. Nel caso in cui l’oggetto che fa da lente (a un astro molto lontano) sia una stel-la circondata da uno o più pianeti, è teoricamente possibile che all’effetto lente primario (ossia all’aumento gaussiano di luminosi-tà che può durare anche molte settimane) si sovrappongano repen-

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tini massimi secondari (poche ore o pochi giorni), dovuti all’azio-ne di un pianeta. Si tratta di una possibilità molto importante, perché, durante un microlensing planetario, un eventuale pianeta è ben evidenziabile, anche se la sua massa è di taglia terrestre.Il primo possibile esempio di un microlensing planetario fu dav-vero unico nel suo genere e, per questo, rimane tuttora molto controverso. A scoprirlo fu la cosiddetta collaborazione MACHO (Massive Astrophysical Compact Halo Objects), un team allestito nel 1991 da Kim Griest, nell’intento di percepire microlensing di oggetti galattici su qualcuna delle stelle della Grande Nube di Magellano. Denominato MACHO-97-BLG-41, il controverso evento venne colto da P. Bennet (Università dell’Indiana) il 19 giugno 1997, al rifl ettore di 1,9 m di Monte Stromlo. A far da lente su un oggetto lontanissimo fu una stella doppia (due componenti di classe K e M separate da 1,8 UA) distante almeno 30.000 a.l. Quella notte, du-rante la fase ascendente iniziale di un evento di microlensing che avrebbe raggiunto il massimo il 15 luglio 1997, venne evidenziato un improvviso aumento secondario, interpretabile con la presenza di un pianeta di tre masse gioviane, orbitante a 7 UA dal baricen-tro della coppia. Se questa spiegazione è corretta, si tratterebbe del primo pianeta extrasolare scoperto attorno a una stella binaria.La scoperta di un pianeta tramite microlensing gode di bassissima probabilità statistica (già un microlensing generico è molto raro, fi gurarsi un microlensing con pianeta!). Per questo, si è cercato di fare di tutto per aumentare al massimo l’effi cienza osservativa di questa tecnica. In sostanza, oltre a un numero di misure sem-pre maggiore (centinaia di migliaia tra centro galattico e Nubi di Magellano), si è aggiunta a MACHO e OGLE una capillare rete mondiale di siti osservativi che, nel caso della scoperta di un qua-lunque microlensing, ne riuscisse a seguire l’andamento senza in-terruzione dall’inizio alla fi ne, in modo che non andassero perduti eventuali repentini segnali planetari. Il gruppo più organizzato è PLANET (Probing Lensing Anomalies

NETwork) che dal 1995 utilizza, per 24 ore al giorno, una rete mondiale di telescopi di diametro attorno al metro: si va dal tele-scopio danese da 1,54 m di La Silla (Cile), ai Telescopio Canopus da 1 m di Hobart e da 0,6 m di Perth (Australia), ai telescopi sudafricani Boyden da 1,5 m e SAAO da 1 m. A partire dal 2005, PLANET lavora assieme a RoboNET, una rete inglese di tre telescopi da 2 m completamente robotizzati, che l’Università di Liverpool ha collocato a La Palma (Canarie), a Maui (Hawaii) e a Siding Spring (Australia). Inoltre, c’è micro-FUN (Microlensing Follow-up Network), che è il gruppo più nume-roso, essendo costituito da una trentina di telescopi professionali e amatoriali da 0,25 a 2,5 m, distribuiti in ogni continente. Un’altra collaborazione è MOA (Microlensing Observations in

Astrophysics), che dal 1° dicembre 2005 utilizza dalla Nuova Ze-landa un telescopio da 1,8 m, situato sul Monte John. Assieme, le collaborazioni OGLE e MOA identifi cano ogni anno almeno 700 principi di microlensing: tocca poi alle altre collaborazioni minori (PLANET, RoboNET e microFUN) farne una disamina completa, alla ricerca di possibili pianeti. Questo spiegamento di forze ha prodotto oltre 4000 casi di micro-

lensing fi no alla fi ne del 2008. Tra questi, un centinaio di eventi suffi cientemente complessi e sospetti da meritare un approfondi-

mento speciale. Si trattava, in generale, di microlensing multipli, dovuti al fatto che le stelle che facevano da lenti erano doppie o multiple. Normalmente, però, i rapporti di massa tra queste com-ponenti erano molto simili, ovvero si trattava di stelle binarie e ternarie. Ma tra giugno e settembre 2003, un folto team di ricercatori dei gruppi OGLE e MOA (da qui il nome di BLG-235/M53), guidato da Ian Bond (Università di Edimburgo), seguì un evento multi-plo di interesse assolutamente straordinario: il rapporto di massa della coppia di oggetti che facevano da lente era almeno di 250 contro 1! Tutto iniziò nel giugno 2003, quando la luminosità di una debole stella di classe G (mag. 20) - situata a 24.000 anni luce di distanza in direzione del centro galattico - cominciò a salire per opera del transito di una nana rossa di classe M di 0,3 masse solari, situata a 17.000 anni luce. A sorpresa, tra il 15 e il 20 luglio 2003, quando si era ancora in fase di salita, si è osservato un improvviso e strettissimo raddop-pio di luminosità, ripetutosi a distanza di cinque giorni: l’inter-pretazione più logica era quella della presenza (in orbita a 2-3 UA dalla nana rossa) di un pianeta di 1-1,5 masse gioviane, che - distorcendo ad anello la stella lontana - veniva poi evidenziato in doppio, in corrispondenza del passaggio sulla linea visuale dei due bordi dell’anello stesso. Si trattava del secondo caso di un pianeta extrasolare scoperto mediante un effetto di microlensing gravitazionale e del primo caso assolutamente indiscutibile.Ormai, questa nuova affascinante tecnica di ricerca di pianeti ex-trasolari era diventata adulta, tant’è vero che nel 2005 il team di OGLE ha realizzato altre tre scoperte (OGLE-05 169L, 071L e 390L). A parte il caso piuttosto discusso di OGLE-05 169L (pianeta “net-tuniano” che ruota in circa dieci anni attorno a una stellina di 0,5 masse solari), vediamo di approfondire gli altri due casi. Alla fi ne del 2005, un foltissimo gruppo di ricercatori guidati da A. Udalsky (Università di Varsavia) ha pubblicato i dati del mi-

crolensing planetario, OGLE-2005-BLG-071, evidenziato tra il 19 e il 21 aprile 2005 grazie a una splendida collaborazione tra astronomi professionisti (OGLE, MOA, PLANET) e astrofi li neo-zelandesi (microμFUN Collaboration). Fu l’équipe OGLE, con il rifl ettore da 1,3 metri di Las Campa-nas, a cogliere il 2 marzo 2005 l’inizio di un micro lensing su una lontanissima stella del centro galattico, da parte di una stellina di mag. 20 e circa 0,5 masse solari, situata a circa 15.000 anni luce di distanza. Poco prima che la salita di luminosità della stella lontanissima raggiungesse il massimo, un subitaneo ulteriore au-mento di magnitudine indicò la possibile esistenza di un pianeta (attorno alla stella-lente). Essendo i microlensing planetari di durata molto breve, era a questo punto assolutamente indispensabile avere una copertura fotometrica completa, nelle ore immediatamente successive. Eb-bene, questo è stato possibile grazie all’intervento di due astrofi li neozelandesi: Grant Christie di Auckland, che lavora con un Ce-lestron 11 equipaggiato con una camera CCD Apogee AP8p, e Jennie McCormik di Pokurange, che utilizza un Meade 10, cui è applicata una camera CCD SBIG ST-7. Con queste strumentazioni per nulla eccezionali, Grane e Jennie

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hanno realizzato sei ore continue di osservazioni fotometriche. Si è trattato di un contributo decisivo, perché queste misure hanno coperto la fase discendente di una perfetta doppia cuspide plane-taria, esattamente sovrapposta al massimo del microlensing prin-cipale. I due componenti del doppietto planetario hanno evidenziato una durata di circa 24 ore e una separazione reciproca di tre giorni: da qui la deduzione della presenza di un pianeta con massa ap-prossimativa di 7/100 rispetto quella della stella-lente (diciamo di circa tre masse gioviane), a una distanza dalla stella centrale di almeno 3 UA. Il ruolo essenziale di due astrofi li in una scoperta di simile portata è un insegnamento per tutti, nel senso che è evidente che lo studio dei fenomeni di microlensing, o - se vogliamo - più in generale dei transiti, sta ormai diventando un campo di punta, non solo dei professionisti, ma anche degli astrofi li più evoluti di questa generazione. Nel gennaio 2006, un team di ben 73 autori di 12 nazioni (OGLE, MOA, MicroFUN, PLANET) ha pubblicato il resoconto del terzo microlensing del 2005, sicuramente quello più interessante. L’11 luglio 2005 gli scienziati di OGLE individuarono l’inizio di un evento di microlensing prodotto, su un astro del lontano centro galattico, da una stella nana di 0,22 masse solari, distante 20.000 anni luce nella costellazione del Sagittario (trattandosi del 390° evento relativo al centro galattico, ne è derivata la denominazione di OGLE-2005-BLG-390). L’immediata allerta lanciata a tutti gli altri gruppi nel mondo ha permesso di avere una copertura totale del fenomeno, che ha rag-giunto il massimo (luminosità triplicata) il 31 luglio 2005, senza apparenti irregolarità. Ben diversa è stata invece la fase discen-dente. Il 9 agosto 2005, quando l’intero microlensing stava quasi terminando, il telescopio danese da 1,54 m della coordinazione PLANET a La Silla ha percepito un improvviso aumento secon-dario di luce. Dodici ore dopo, il picco secondario era arrivato al massimo, ma ormai si stava facendo alba su La Silla. Così, il testimone è passato immediatamente al telescopio australiano di 0,6 m di Perth, che è riuscito a registrare la fi ne del fenomeno, defi nendone una durata complessiva di circa un giorno. Le deduzioni tratte da questi dati osservativi sono state di enorme interesse: si è potuto concludere che attorno a quella stellina di 0,22 masse solari ruota un pianeta di 5,5 masse terrestri a una distanza media di 2,5 UA (circa 380 milioni di km). Un pianeta che - considerando il raggio orbitale e la piccola massa della stel-la centrale - dovrebbe avere una temperatura superfi ciale davvero gelida, dell’ordine di -220 °C. Ma c’è da considerare che un pia-neta di 5,5 masse terrestri deve avere anche una composizione terrestre (deve essere cioè un corpo roccioso e non certo gassoso). Di conseguenza, al suo interno deve esserci una quantità notevole di calore geotermico primordiale, tanto notevole da rendere la sua superfi cie estremamente attiva dal punto di vista geologico. Così, è possibile che su quel lontano pianeta la temperatura sia alla fi n fi ne più che sopportabile, che il vulcanesimo riversi in su-perfi cie una densa atmosfera ricca di anidride carbonica e vapor d’acqua, che, addirittura, la crosta sia ricoperta da abbondanti depositi di acqua liquida. Con le conseguenze che è facile imma-ginare…

Il 2008 ha visto la pubblicazione di altri tre casi di microlensing

planetario, due da parte del team MOA (relativi a osservazioni del 2007) e uno da parte del team OGLE (relativo a osservazioni del 2006). Uno dei due microlensing MOA (MOA-2007-BLG- 400L) è piuttosto discusso (pianeta di massa gioviana a 0,85 UA da stella di 0,35 masse solari); l’altro, invece (MOA-2007-BLG-400L), è del tutto peculiare, perché relativo alla stella più piccola (0,06 masse solari, mag. 19,8 a 3200 a.l. di distanza), attorno a cui ruoterebbe (a 0,62 UA di distanza) il pianeta più piccolo (3,3 masse terrestri). Straordinario è infi ne il caso del microlensing OGLE-2006-BLG-109L (Fig. 1.2.1), reso noto a febbraio 2008 da un folto team di 70 ricercatori di 11 nazioni guidati da S. Gaudi e relativo a misure sincronizzate effettuate da 12 osservatori in tutto il mondo, tra il 28 marzo e il 6 aprile 2006. La cosa interessante è che, per la prima volta, la disamina della complessa curva di luce di questo microlensing ha permesso di scoprire due pianeti attorno a una stella con massa di 0,5 masse solari: il primo, di tipo gioviano (0,71 masse gioviane) dista dalla stella centrale 2,3 UA; il secondo, di tipo saturniano (0,27 masse gioviane), dista dalla stella centrale 4,6 UA e ha un’orbita molto ellittica (e = 0,11) e inclinata (i = 59°). Come dire che, ormai,

Fig. 1.2.1. Tra tutti gli esempi di microlensing planetario noti fi no alla fi ne del 2008 (in realtà molto pochi a causa della loro intrinseca rarità), il caso di OGLE-2006-BLG-109L è imbattibile. La curva fotometrica di microlensing è stata seguita dalla bellezza di 70 ricercatori di 11 nazioni nella prima settimana di aprile 2006. Ne è uscito un andamento fotometrico straordinariamente complesso, dal quale è stato possibile dedurre la presenza di due pianeti attorno alla stella-lente: il primo, di tipo gioviano (0,71 masse gioviane) distante dalla stella 2,3 UA; il secondo, di tipo saturniano (0,27 masse gioviane), distante dalla stella 4,6 UA e caratterizzato da un’orbita molto ellittica (e = 0,11) e inclinata (i = 59°).

Capitolo 1

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anche il microlensing permette di scoprire veri sistemi planetari, oltre che pianeti singoli di massa (anche) terrestre. Con risvolti futuri sempre più imprevedibili e interessanti.La Tabella 3 riporta i dati dei pianeti extrasolari scoperti per effetto di microlensing fi no all’inizio del 2009.

1.3. Le prime immagini di pianeti extrasolari

Tutti i metodi indiretti di ricerca di pianeti extrasolari hanno no-tevoli limiti di fondo. Il limite del microlensing è l’estrema rarità degli eventi, mentre i transiti e le oscillazioni radiali possono evi-denziare facilmente solo pianeti di massa gioviana, orbitanti molto vicini alla stella centrale, su un piano poco inclinato rispetto alla linea visuale. In sostanza, è assai diffi cile rintracciare pianeti che distano dalla stella centrale più di 5 UA ed è impossibile eviden-ziare pianeti di qualunque massa orbitanti su un piano perpen-dicolare alla linea di vista (ossia con l’orbita sul piano del cielo).Ebbene, quelli che sono grossi problemi per i metodi indiretti, diventano un grosso vantaggio quando si voglia riprendere imma-gini dirette di pianeti extrasolari: infatti, più un pianeta è distante dalla sua stella, più c’è la speranza di poterlo distinguere fotogra-fi camente dalla luce di quest’ultima. Non bisogna comunque dimenticare che in ottico qualunque stella ha una luminosità milioni di volte superiore a quella di un normale pianeta come Giove. Da qui la necessità di diminuire di 100-1000 volte questo rapporto così sfavorevole, riprendendo immagini in infrarosso (una lunghezza d’onda a cui la luminosità della stella diminuisce, mentre quella del pianeta aumenta, tanto più quanto più il pianeta è giovane, quindi caldo). Inoltre, è indispensabile occultare la luce della stella con un co-ronografo e limitare al massimo la turbolenza atmosferica, lavo-rando nello spazio (come possono fare i telescopi Hubble e Spitzer, o satelliti some Corot e Kepler), oppure utilizzando i sistemi più evoluti di ottiche attive o adattive, ormai operative sui massimi strumenti terrestri, come il Keck da 10 metri alle Hawaii, i quattro VLT da 8,5 metri sul Cerro Paranal in Cile, i due Gemini da 8 metri (il Nord alle Hawaii e il Sud sul Cerro Pachon in Cile). Il problema principale era su quale tipo di stelle tentare questa ricerca. La scelta è caduta su stelle molto giovani (in modo che gli eventuali pianeti fossero più brillanti perché ancora in fase di contrazione) e sicuramente circondate da dischi di polvere.Quest’ultimo punto, molto importante, può essere ormai facilmen-te indagato per via spettroscopica: è una regola, infatti, che lo spettro delle stelle circondate da polveri presentano un eccesso anomalo di emissione infrarossa (si era nel lontano 1983, quando il satellite IRAS scoprì i primi casi di eccesso infrarosso attorno alle stelle VEGA e Beta Pictoris). Attualmente sono un centinaio le stelle con questa caratteristica spettroscopica. Ma non basta. È ben noto (dallo studio dei satelliti che perturbano gli anelli di Saturno) che la presenza di pianeti possa “scavare” dei vuoti in un disco di polvere, ovvero possa trasformarlo in anel-lo (semplice o multiplo) dai bordi molto ben defi niti. Dal punto di vista spettroscopico, questo si rifl ette in una netta e inconfondi-bile lacuna nell’eccesso di assorbimento infrarosso, come si può capire dagli schemi riportati in Fig. 1.3.1.

A partire dalla metà degli Anni 80, le indagini spettroscopiche, che sono comunque sempre di tipo indiretto, hanno cominciato a essere supportate da immagini vere e proprie di dischi protopla-netari. Era la prova diretta che almeno una stella su quattro era in grado di produrre sistemi planetari. Era anche l’inizio di una serie continua di nuove scoperte, tanto più raffi nate quanto più miglioravano le caratteristiche tecniche degli strumenti ottici di osservazione. Scoperte che, nella seconda metà del 2008, avreb-bero condotto a un risultato di portata storica: le prime immagini dirette di pianeti extrasolari. Ma procediamo con ordine.Uno studio dell’emissione infrarossa (satellite ISO), condotto nel 1999 da H.J. Hobing (Leiden Observatory) su un campione di 84 stelle di diversa età, ha mostrato chiaramente che dischi di pol-vere estesi per 50-100 UA sono tipici del 70-80% delle stelle di pochi milioni di anni e tendono a dissolversi quando l’età della stella centrale supera i 400 milioni di anni. I dischi contengono tipicamente 1/100 di massa solare sotto forma di gas (H e He), con al massimo 1% di polvere. Polvere che, co-munque, è responsabile al 100% dell’emissione tra 2-10 micron (disco interno molto caldo) a 1 mm (disco esterno freddo). Questo fatto è molto importante, perché permette di indagare meglio sulla struttura dei dischi di polvere: in particolare, l’emissione millime-trica determina le dimensioni massime del disco, mentre un disco privo di materia entro 1-2 UA deve presentare in questa zona una bassa emissione a 2-10 micron. Osservazioni condotte sempre da ISO a metà del 2000, alla lun-ghezza d’onda di 28,2 micron dell’idrogeno molecolare, hanno mostrato che il gas scompare completamente dai dischi dopo 10-20 milioni di anni, lasciando solo polvere silicatica e ghiaccio d’acqua. A sua volta, secondo uno studio condotto nel 2004 da

Fig. 1.3.1. Dall’andamento dello spettro, è possibile prevedere se una stella è circondata o no da materiale proto-planetario. In particolare, la presenza di un disco compatto di polvere introduce nello spettro un eccesso di assorbimento nel vicino infrarosso al di là di 10 micron. Quando invece un disco di polvere è più evoluto, per la presenza interna di lacune (ovvero è spezzato in uno o più anelli concentrici), l’eccesso infrarosso mostra una netta discontinuità (ovvero attenuazione di assorbimento) tra 10 e 100 micron.

Pianeti extrasolari abitabili

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R. van Boekel (Università di Amsterdam) con l’interferometro in-frarosso MIDI applicato al VLT 1 del Cerro Paranal, la polvere evolve fi sicamente in funzione della distanza dalla stella centra-le. Così, i silicati tendono a cristallizzare integralmente in olivina fi no a una distanza di 2 UA (dove la temperatura può arrivare a 2000 °C), mentre la porzione cristallina si riduce di molto tra 2 e 20 UA (dove la temperatura può scendere a -200 °C). Per contro, l’acqua tende a evaporare dalle regioni più interne a quelle più esterne del disco. Lo dimostra uno studio condotto nel novembre 2006 da Roy van Boekel al Keck II (Hawaii), relativo alla giovane stella MWC 480 (2,3 masse solari, età 8 milioni di anni), nei pressi della quale è stata colta l’emissione a 2,165 mi-cron del vapore d’acqua a 2000 °C. Questi dischi di polvere e gas si evolvono naturalmente, in pochi milioni di anni, dando origine a oggetti di massa planetaria, che fi niscono col perturbare pesantemente i dischi stessi, rivelandone indirettamente la presenza (un po’ come le modifi cazioni prodotte da certi satelliti sugli anelli di Saturno, splendidamente evidenzia-te dalla sonda Cassini). Le azioni più vistose sono costituite dalla creazione di lacune all’interno dei dischi, dalla trasformazione dei dischi in anelli dai bordi molto ben defi niti, dalla scoperta di asim-metrie (dinamiche o di concentrazione) all’interno dei dischi. Per esempio, B. Oppeneimer (Museo di Storia Naturale di New York), con un polarimetro applicato al telescopio di 3,6 metri sull’Isola di Maui, ha scoperto che il disco di 130 UA visibile di piatto attorno stella AB Aurigae (giovanissima stella di 2,1 masse solari a 450 a.l.) mostra, a circa 102 UA, una netta interruzione, interpretata come indizio della formazione di un pianeta di qual-che massa gioviana (Fig. 1.3.2). Più complessa la situazione della stella AU Microscopi (0,5 masse solari, 12 milioni di anni) distante 32,4 a.l. Nel febbraio 2004, P. Kolas (Università della California) scoprì al telescopio IRTF da 2,2 metri della Hawaii un disco visibile esattamente di taglio di circa 200 UA. Nell’agosto 2004, M. Lin (Università delle Hawaii) scoprì con il telescopio Keck II (più ottica adattiva) che tra 25 e 40 UA il disco mostrava, su entrambi i lati, una serie di condensazio-ni orizzontali e irregolarità verticali, spiegabili ammettendo che si stessero formando pianeti di taglia gioviana. Ideale (ma raro) è il caso di stelle con dischi di polvere evoluti e con documentate oscillazioni radiali delle righe spettrali (tipo 55 Cnc). Esemplare il caso di Epsilon Eridani, una stella di 0,85 masse solari (età di 1 miliardo di anni), situata a 10,5 a.l. di di-stanza. Nel 1998, Jane Greaves (Università delle Hawaii) riprese per la prima volta questa stella a 850 micron, con il rivelatore SCUBA applicato al telescopio submillimetrico James Clerk Max-

well (JCMT) da 15 metri delle Hawaii: ne venne fuori uno spetta-colare anello situato fra 35 e 100 UA e inclinato di circa 25° (una specie di fascia di Kuiper), con all’interno un’enigmatica conden-sazione che poteva far pensare alla presenza di un grosso corpo planetario (Fig. 1.3.3). Tra il 2002 e il 2006, W. Cochram (Mc Donald Observatory), grazie a una lunga serie di misure di oscillazione radiale, evidenziò la presenza di un pianeta di 1,5 masse gioviane in orbita fortemen-te ellittica (e = 0,7 e periodo = 6,85 anni da 2,4 a 5,8 UA) e un possibile pianeta tre volte più massiccio a circa 40 UA (periodo = 280 anni).

Non è fi nita. Una serie di immagini effettuate fra 3,5 e 350 mi-cron nel 2004-05 (e pubblicate alla fi ne del 2008) da D. Backman (SETI Institute), con il telescopio spaziale infrarosso Spitzer, ha permesso di evidenziare (a 20 e 60 micron) due ulteriori anelli di polvere attorno a Epsilon Eridani: uno a 3 UA e l’altro visibile a 20 UA. Data l’età della stella (1 miliardo di anni), non è pensa-bile che si tratti di materiale protoplanetario (la cui persistenza,

Fig. 1.3.2. Questa immagine del disco di 130 UA che circonda la giovane stella AB Aurigae, è stata ottenuta all’inizio del 2008 con un polarimetro applicato al telescopio di 3,6 m sull’Isola di Maui: la netta discontinuità nella parte superiore del disco, a circa 100 UA dalla stella centrale, potrebbe essere indizio della formazione di un pianeta di qualche massa gioviana.

Fig. 1.3.3. L’anello di polvere che circonda la stella Epsilon Eridani, ripreso nel 1998, a 850 micron, dal telescopio millimetrico JCMT delle Hawaii. Le condensazioni all’interno fanno pensare a possibili pianeti in formazione. In effetti, tra il 2002 e il 2006, W. Cochram, grazie a una lunga serie di misure di oscillazione radiale, evidenziò la presenza di un pianeta di 1,5 masse gioviane in orbita fortemente ellittica (e = 0,7, periodo = 6,85 anni da 2,4 a 5,8 UA) e un possibile pianeta tre volte più massiccio a circa 40 UA (periodo = 280 anni).

Capitolo 1

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secondo quanto dimostrato nel 2003 da M.C. Wyatt, non supera i 10 milioni di anni): bisogna quindi pensare a polvere di “seconda generazione”, ossia derivante dalla collisione di oggetti di dimen-sioni consistenti (qualche metro o qualche km). In parole povere, quelle scoperte da Spitzer sono due fasce asteroidiche, simili alla ben nota fascia degli asteroidi solare. Era un po’ come la chiusura del cerchio: due anelli su tre (quello più esterno e quello più interno) risultano collegati ad altrettanti pianeti, e la sensazione è che sia solo questione di tempo la sco-perta di un terzo pianeta collegato all’anello a 20 UA. Certo, si tratta di pianeti molto lontani dalla stella centrale, ma niente fa escludere che possa esistere anche qualche altro pianeta prossi-mo alla fascia di abitabilità (0,53 UA).Un altro esempio (in realtà piuttosto discusso) è quello della gio-vane stella TW Hydrae, di massa solare (età di 10 milioni di anni), situata a 180 a.l. nel Toro. Immagini riprese alla fi ne del 1998 dallo strumento NICMOS (più coronografo) dello Space Telescope

mostrarono la presenza di un disco di polvere inclinato di 7°, vuo-to fi no a 0,06 UA dalla stella, rarefatto fi no a 4 UA, molto denso oltre le 4 UA. Misure di oscillazione radiale, realizzate nel dicem-bre 2007 dallo spettrometro FEROS applicato al telescopio di 2,2 metri di La Silla, hanno chiarito almeno parzialmente la situazio-ne: è stato infatti evidenziato un pianeta di dieci masse gioviane, ruotante in 3,56 giorni a 0,04 UA dalla stella centrale (quindi in posizione ideale per spiegare la netta lacuna ivi presente). Meno chiara, invece, è la presenza di un secondo pianeta che giustifi chi la netta discontinuità a 4 UA. Tutto questo, però, vale per le stelle singole. Che dire invece del-la presenza di materiale protoplanetario attorno a stelle doppie o multiple? Il problema non è certo da poco, se si ricorda che, nella Via Lattea, le stelle singole sono meno del 50%. Del caso delle stelle binarie ha deciso di occuparsi in maniera approfondi-ta David Trilling (Università dell’Arizona) a metà del 2007. Con risultati davvero sorprendenti.Il team di Trilling ha utilizzato il telescopio spaziale infrarosso Spitzer per andare alla ricerca di possibili anelli protoplanetari (forti emettitori di luce infrarossa, quindi ideali per le potenzia-lità di Spitzer), laddove nessuno pensava potessero esistere, vale a dire attorno a 69 stelle binarie, situate a una distanza variante tra 50 e 200 a.l. Le stelle doppie sono state scelte in modo che la loro separazione reciproca non superasse le 500 UA. La prima sorpresa è di tipo generale: non solo Spitzer ha trovato dischi di polvere protoplanetaria, ma - addirittura - ha verifi cato per essi una frequenza di circa il 40%, che è addirittura maggiore a quella riscontrata attorno a stelle singole (le uniche, fi nora, ritenute in grado di produrre sistemi planetari come il nostro). Una seconda sorpresa riguarda il fatto che i dischi di polvere sono stati rintracciati solo per quelle coppie di stelle o più vicine di 3 UA o più lontane di 50 UA. Con una differenza: che nei sistemi larghi (ossia con separazione maggiore di 50 UA) i dischi avvolgo-no solo una delle due stelle, mentre nei sistemi binari stretti (ossia con separazione minore di 3 UA) i dischi avvolgono entrambe le stelle con una frequenza che addirittura tocca il 60% (il doppio che attorno a una stella singola!) (Fig. 1.3.4). Un esempio di stella binaria molto “larga” è quello di HR4796, una stella di due masse solari molto giovane (10 milioni di anni),

Fig. 1.3.4. Una ricerca di dischi di polvere, condotta a metà del 2007 da David Trilling (Università dell’Arizona), con il telescopio spaziale infrarosso Spitzer, su una settantina di stelle binarie, ha dato risultati sorprendenti: i dischi di polvere sono stati rintracciati solo per quelle coppie di stelle più vicine di 3 UA o più lontane di 50 UA. Nei sistemi larghi (ossia con separazione maggiore di 50 UA), i dischi avvolgono solo una delle due stelle; mentre, nei sistemi binari stretti (ossia con separazione minore di 3 UA), i dischi avvolgono entrambe le stelle.

Fig. 1.3.5. La stella HR4796 è un esempio di sistema binario largo, in cui solo una delle due stelle (la componente A) è circondata da un disco di polvere. In alto (in rosso) si vede il disco ripreso a 20 micron dal telescopio Keck II delle Hawaii, nella primavera del 1998. Osservazioni quasi contemporanee, effettuate a 1,1 micron dallo spettrometro NICMOS dello Space Telescope, permisero di individuare un anello molto ben defi nito (a sinistra, in basso) esteso da 70 a 87 UA dalla stella. Lo stesso NICMOS scoprì a metà del 2005 che questo disco era ricco di materiali organici complessi (“toline”), simili a quelli presenti in certi meteoriti e nelle nuvole di Titano (in alto a destra). Nell’immagine di sinistra, le “toline” sono indicate in colore verde.