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I CAPITOLO GLI STANDARD SOCIALI NEL COMMERCIO INTERNAZIONALE DEI PRODOTTI AGROALIMENTARI Nel corso degli anni ‘90 è cresciuta l’attenzione da parte dell’opinione pubblica mondiale su alcuni degli effetti negativi del processo di liberalizzazione degli scambi posto in essere dagli Accordi WTO. In particolare, la “globalizzazione” dei mercati spinge sempre più le imprese multinazionali (i principali attori dello scenario competitivo) a localizzare e/o appaltare le produzioni, in paesi dove il lavoro e gli altri fattori locali, sono sfruttati in modo iniquo, al fine di ridurre i costi di produzione e massimizzare i profitti. Tutto ciò pregiudica le possibilità di uno 5

I IL NUOVO ORDINE MONDIALE · Web viewL’obiettivo del presente capitolo è quello di presentare alcune riflessioni in merito al problema dell’introduzione degli standard sociali

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I CAPITOLO

GLI STANDARD SOCIALI NEL COMMERCIO

INTERNAZIONALE DEI PRODOTTI

AGROALIMENTARI

Nel corso degli anni ‘90 è cresciuta l’attenzione da parte dell’opinione

pubblica mondiale su alcuni degli effetti negativi del processo di liberalizzazione

degli scambi posto in essere dagli Accordi WTO. In particolare, la

“globalizzazione” dei mercati spinge sempre più le imprese multinazionali (i

principali attori dello scenario competitivo) a localizzare e/o appaltare le

produzioni, in paesi dove il lavoro e gli altri fattori locali, sono sfruttati in modo

iniquo, al fine di ridurre i costi di produzione e massimizzare i profitti. Tutto ciò

pregiudica le possibilità di uno sviluppo sostenibile, sia nei paesi del Sud del

mondo che in quelli del Nord.

L’obiettivo del presente capitolo è quello di presentare alcune riflessioni in

merito al problema dell’introduzione degli standard sociali nel commercio dei

prodotti agroalimentari, considerati come strumenti per promuovere uno sviluppo

sostenibile per i Paesi in via di sviluppo e non piuttosto come una nuova forma di

protezionismo, da parte dei Paesi occidentali.

5

1.1. L’internazionalizzazione dei mercati

La storia dell’uomo è anche una storia di commerci, i primi trattati

commerciali sembrano risalire addirittura ai tempi degli assiro-babilonese

(contemporaneamente dunque all’invenzione della scrittura). Tuttavia è soltanto

agli inizi del XIX secolo, con l’opera dell’economista inglese David Ricardo, che

le ragioni del libero commercio cominciano ad assumere una compiuta

sistemazione teorica1.

John Maynard Keynes, l’artefice della Banca Mondiale (BM) e del Fondo

Monetario Internazionale (FMI), aveva preparato prima della sua morte, avvenuta

nel 1946, il terreno per un’Organizzazione Internazionale del Commercio (ITO).

Gli statuti dell’ITO sono stati effettivamente negoziati e la Carta dell’Avana,

che li ha promulgati, è stata firmata da 56 paesi in occasione di una conferenza

internazionale tenutasi a Cuba nel 1947-48. Gli Stati Uniti hanno tuttavia

continuato a rifiutarsi di ratificarla (probabilmente perché questi statuti

prevedevano sostanziali garanzie per i lavoratori e incoraggiavano gli accordi tra

produttori di materie prime). In ogni caso, dell’impianto originario è

sopravvissuto solo il capitolo IV, che è il General Agreement on Tariffs and Trade

(GATT), un accordo che, dalla sua istituzione, ha funzionato da dispositivo per

ridurre progressivamente i diritti doganali sulle merci ed oggi anche sui servizi2.

1 Antonio Parenti, Il WTO, Cos’è e come funziona l’Organizzazione Mondiale del Commercio, Il Mulino, Bologna, 2002, pag. 10.2 Susan George, Fermiamo il WTO, Feltrinelli, Milano, 2002, pag. 17.

6

Negli ultimi cinquant’anni il GATT prima e il Word Trade Organization

(WTO)3 poi, si sono inseriti in un’ottica secondo la quale solo una politica

commerciale liberale è economicamente sensata e, in grado di portare benefici ai

paesi che la perseguono. I risultati di questa liberalizzazione su scala globale sono

stati impressionanti: dal secondo dopoguerra, il mondo ha aumentato la propria

ricchezza complessiva di circa sei volte e il volume delle esportazioni di merci di

quasi venti volte, con un incremento del commercio negli ultimi dieci anni

maggiore della crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL). Tali risultati lasciano

intendere che alla liberalizzazione degli scambi, su scala mondiale, corrisponda un

incremento del benessere collettivo. Tuttavia, è molto difficile scindere gli effetti

della liberalizzazione commerciale sulla crescita, dagli effetti di altre politiche

virtuose perseguite dai singoli Stati in altre sfere (come quella finanziaria, fiscale

e sociale) e che hanno consentito loro di beneficiare della globalizzazione dei

mercati.

Lasciando tali considerazioni, basate su dati aggregati, e passando a vedere

quali sono i paesi che hanno realmente beneficiato della liberalizzazione dei

commerci, troviamo un risultato più limitato e per certi versi allarmante. La figura

n. 1 riporta le quote di mercato mondiale delle merci detenute da singoli paesi o

gruppi di paesi. Da essa si deduce che i paesi sviluppati da soli rappresentano

circa il 50% del commercio mondiale (il risultato non cambia sostanzialmente se

alle merci aggiungiamo il commercio dei servizi).

3 L’Uruguay Round, avviato nel 1986, si è concluso nel 1994 con un Atto Finale, o Trattato di Marrakesh, che costituisce il documento della nascita ufficiale del WTO.

7

Figura n. 1 - Percentuale del commercio internazionale per paesi al 1998

(importazioni più esportazioni)

Fonte: Elaborazione da dati della Commissione Europea

La liberalizzazione ha dunque favorito i paesi sviluppati, il che non deve

sorprendere se si considera che la deregolamentazione commerciale del

dopoguerra è stata sostanzialmente operata dai paesi industrializzati a favore dei

propri prodotti manifatturieri.

Il favor per i prodotti manifatturieri dei paesi industrializzati è confermato

anche dai dati degli ultimi dieci anni: la stragrande maggioranza delle esportazioni

mondiali si sono concentrate su questi prodotti, con un declino nelle esportazioni

di quelli agricoli (cfr. n. 2).

8

Figura n. 2 - Variazione nelle esportazioni mondiali per categorie di prodotti

tra il 1990 e il 2000 (in percentuale)

Fonte: Elaborazione da dati WTO

La domanda, che potrebbe sorgere dalla lettura di questi dati è se i vantaggi

della liberalizzazione realizzati dai paesi sviluppati siano stati ottenuti a scapito

dei PVS4. Al fine di poter rispondere compiutamente bisogna sottolineare due

aspetti del processo di liberalizzazione stesso: il primo è rappresentato

dall’aumento della ricchezza globale del pianeta, per cui i paesi sviluppati

detengono una fetta di una torta che nel tempo si è ingrandita; il secondo, che non

deve indurre in generalizzazioni, è dato dal fatto che alcuni PVS sono riusciti ad

approfittare di questo processo e ad inserirsi nelle correnti commerciali

internazionali. Negli anni ’90 per la prima volta i paesi a medio reddito (71 Stati

con una popolazione di 2 miliardi 600 milioni di abitanti e un reddito pro capite

4 Antonio Parenti, op. cit., pag. 22

9

medio di 2.039 dollari) sono cresciuti di più di quelli ad alto reddito (33 paesi con

873 milioni di abitanti e un reddito pro capite di 27.464 dollari). Il tasso di

crescita medio annuo del PIL pro capite è stato del 2,3% per i “medi” e dell’1,6%

per gli “elevati”, mentre è rimasto all’1,2% per i paesi a basso reddito (58 Stati

con 2 miliardi 400 milioni di persone che vivono con 425 dollari pro capite

l’anno, meno di due dollari al giorno)5.

Nelle tre tabelle che seguono (n. 1, n. 2, e n. 3) si riportano, suddivise per aree

e per paesi, alcuni dati relativi al tasso di crescita medio annuo del prodotto

interno lordo reale pro capite.

Tabella n. 1 – Tasso di crescita medio annuo del prodotto interno lordo reale pro capite (per

aree)

1914-1950 1951-1973 1974-1990Paesi idustrializzati +1,3% +3,4% +2,1%Paesi in via di sviluppo +0,2% +2,6% +2,9%di cui: Africa +1,1% +2,3% +0,0% Asia +0,4% +2,2% +4,7%America Latina +1,3% +2,9% +1,1%Fonte: Enzo Grilli, “Long-term economic growt, income distribution and poverty in developing countries” (1994), in Le Botteghe dello scambio, Cesvi, 2001

5 UNDP, Human Development Report 2001, www.undp.org

10

Tabella n. 2 – Tasso di crescita medio annuo del prodotto interno lordo reale pro capite (per

paesi)

1965-1980 1980-1993Gran Bretagna +2,0% +2,3%Francia +3,7% +1,6%Stati Uniti +1,8% +1,7%Germania +3,0% +2,1%Giappone +5,1% +3,4%Corea del Sud +7,3% +8,2%Indonesia +5,2% +4,2%Cina +4,1% +8,2%India +1,5% +3,0%Argentina +1,7% +0,5%Brasile +6,3% +0,3%Fonte: UNDP, Rapporto sullo sviluppo umano 7: il ruolo della crescita economica, Rosenberg & Sellier, Torino, 1996, in Le Botteghe dello scambio, Cesvi, 2001

Tabella n. 3 – Tasso di crescita medio annuo del prodotto interno lordo reale pro capite (1990-

1994)

1990-1999Paesi dell’OCSE +2,5%di cui: Stati Uniti +2,0% Giappone +1,1% Germania +1,0% Italia +1,2%Europa dell’Est ed ex URSS -3,4%Paesi in via di sviluppo +3,2%di cui: Africa Sub-sahariana -0,4% Stati Arabi +0,7% Asia Orientale e Pacifico +5,9% Asia Meridionale +3,4% America Latina +1,7%Fonte: UNDP, Human Development Report 2001, www.undp.org, in Le Botteghe dello scambio, Cesvi, 2001

La risposta alla domanda precedente è dunque che la liberalizzazione (o

globalizzazione) dei mercati non è necessariamente avvenuta a spese dei PVS. Per

meglio comprendere questa risposta possiamo anche far riferimento ad alcuni

recenti studi della BM, che distinguono due fasi dell’internazionalizzazione dei

mercati negli ultimi cinquant’anni.

11

La prima fase, che dura fino alla fine degli anni Settanta, porta i suoi benefici

principalmente ai paesi occidentali, incluso il Giappone. In questa fase la marcata

riduzione delle tariffe doganali per i prodotti industriali è accompagnata da una

continua diminuzione dei costi di trasporto. Sono anche gli anni della creazione di

un mercato comune tra un numero crescente di paesi europei e dell’eliminazione

delle barriere doganali tra gli stessi. Sono anche gli anni dello shock petrolifero

che porterà ad una flessione del commercio internazionale, flessione però che il

mancato ricorso al protezionismo, reso difficile dalle regole dell’allora GATT,

permetterà di limitare nel tempo non arrestando la corsa dell’economia mondiale.

La seconda fase ha inizio nei primi anni Ottanta e, vede una crescente

penetrazione di alcuni PVS nei mercati internazionali. L’interpretazione

dominante, su questi primi successi, è che siano determinati dall’adesione al

modello neoliberista , appena temperato dal discorso sull’istruzione6. Crescono di

più, si dice, quei paesi in cui maggiore è stata la quota di investimenti in capitale

fisico (purché fatti dal settore privato, giacché quelli pubblici si rivelerebbero

poco efficienti) e in “capitale umano”(anche qui bisognerebbe evitare una

eccessiva spesa pubblica nell’istruzione, che è correlata in modo

“sorprendentemente” negativo con la crescita)7. Decisiva sarebbe poi una politica

non interventista del governo e cioè apertura dell’economia all’esterno (senza

6 I paesi che hanno attuato questa importante trasformazione sono soprattutto la Cina, l’India, il Vietnam, le cosiddette “tigri asiatiche” (Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud) e il Messico, ma altri paesi come la Turchia, la Malesia, l’Indonesia, il Marocco e la Thailandia hanno ottenuto risultati importanti.7 Francesco Daveri, Economia dei paesi in via di sviluppo, Il Mulino, Bologna, 1996.

12

imposte e dazi sul commercio o interventi sul tasso di cambio), liberalizzazione

dei movimenti di capitale e in generale contenimento della spesa pubblica.

In realtà nei paesi con maggiori tassi di crescita non c’è affatto un’adesione

totale al modello dominante e, anche se si punta sulle esportazioni, non mancano

tasse e controlli sulle importazioni.

E’ vero però che, soprattutto in Asia orientale, un motore importante della

crescita è stato l’investimento privato, in particolare nelle vesti di “sistema del

subappalto di tipo giapponese”. Si tratta di un sistema decentrato e flessibile ma

estremamente stratificato, in cui la società madre subappalta il lavoro a

subfornitori primari formalmente indipendenti, che a loro volta passano le

commesse a subappaltatori secondari e così via, a molteplici livelli, fino a che la

catena raggiunge il livello più basso costituito da una grande massa di aggregati

domestici che subappaltano operazioni semplici. Al fondo della catena c’è il

lavoro sfruttato di ragazze e bambini, ma anche nei livelli precedenti prevalgono

salari bassi e condizioni di lavoro pesanti8.

Nella figura n. 3 si riporta il tasso di crescita medio annuo del PIL pro capite

per alcuni paesi asiatici confrontandolo con quello di alcuni paesi considerati in

ritardo di sviluppo; nella tabella n. 4, invece, viene considerata la distribuzione del

numero di paesi in funzione delle disuguaglianze nel reddito.

8 Mani Tese (a cura di), Economie di carta, Editrice Monti, Saronno, 2001.

13

Figura n. 3 - Tasso di crescita medio annuo del PIL pro capite nel corso degli

anni’ 90

Fonte: Elaborazione da dati UNDP, Human Development report 2001*Questi paesi nelle statistiche ufficiali sono considerati a basso reddito.

Tabella n. 4 – Distribuzione del numero di Paesi in funzione delle disuguaglianze nel livello

del reddito

Paesi Sviluppati

Paesi in via di sviluppo

Paesi in transizione

Totale Quota della popolazione sul totale del campione (in

%)Disuguaglianza

crescente

12 15 21 48 59

Disuguaglianza

costante

2 14 0 16 36

Disuguaglianza

calante

2 5 2 9 5

Totale 16 34 23 73 100

Fonte: Altreconomia, aprile 2003, n. 38, pag. 23

14

1.2. Evoluzione della regolamentazione: dal GATT al

WTO

Non essendo il GATT un’organizzazione internazionale vera e propria dotata

di organi decisionali, le decisioni dovevano essere prese attraverso negoziati

diretti tra i suoi stessi membri. I più importanti di questi negoziati, dove nuove

regole e ulteriori riduzioni tariffarie venivano decise, presero ben presto il nome di

round.

Compresi i negoziati che portarono alla creazione del GATT nel 1947 e

incluso l’Uruguay Round che ha dato vita al WTO, ve ne sono stati otto nella

storia dell’organizzazione (prospetto n. 1) e a questi si è aggiunto il nuovo round,

il primo del WTO, lanciato a Doha (in Qatar) alla fine del 2001.

Prospetto n. 1 – I round del GATT/WTO

Data Denominazione del round Oggetto

1947 Ginevra Tariffe1949 Annecy Tariffe1951 Torquay Tariffe1956 Ginevra Tariffe

1960-1961 Dillon round Tariffe1964-1967 Kennedy round Tariffe e antidumping1973-1979 Tokyo round Tariffe e barriere non tariffarie1986-1994 Uruguay round Creazione del WTO, tariffe,

servizi, regole2002-2005 Doha development agenda tariffe, servizi, regole

Come evidenziato nel prospetto, i primi cinque round furono quasi

esclusivamente dedicati alle riduzioni tariffarie che, soprattutto nei paesi

15

sviluppati, procedettero ad un ritmo del 35% per ogni round per i prodotti

industriali. Col diminuire dell’impatto dei dazi doganali sulle esportazioni delle

merci, divenne ben presto evidente che altri tipi di ostacoli di carattere non

tariffario bensì regolamentare (Non Tariff Barriers, Ntb) potevano limitare in

misura prevalente gli scambi internazionali. Già a partire dagli anni Sessanta, con

il Kennedy Round, si cercò di regolare l’impatto delle Ntb anche se con risultati

modesti. E’ con il round successivo che le questioni regolamentari iniziarono ad

assumere un ruolo di primo piano rispetto alla tradizionale attenzione riservata

alle tariffe e appunto durante il Tokyo Round vennero adottati dei codici per la

disciplina delle barriere non tariffarie9. Non passò molto tempo tra la conclusione

del Tokyo Round e l’inizio delle discussioni sull’opportunità di lanciare un nuovo

round sia per ragioni di ordine economico, sia per i modesti risultati raggiunti dal

round stesso.

Da un punto di vista economico, gli anni settanta furono caratterizzati

dall’abbandono della convertibilità del dollaro (1971) e dai due shock petroliferi

(1973 e 1979); essi condussero l’economia internazionale in una situazione di

forte recessione, con un conseguente impatto negativo sul commercio

internazionale.

Il Tokyo Round, pur segnando il passaggio dai round solo tariffari a quelli

anche regolamentari, era rimasto quasi esclusivamente nell’alveo dei problemi del

9 I codici, nove in tutto, erano obbligatori soltanto per i firmatari degli stessi, principalmente i Paesi industrializzati.

16

commercio di beni industriali, con l’esclusione dei prodotti agricoli10 e del

commercio dei servizi11; inoltre, la conclusione di accordi regolamentari era

applicabile solo a pochi membri.

Nonostante le forti pressioni, fu soltanto nel 1986, a Punta del Este in

Uruguay, che fu possibile dare il via al nuovo round. A Punta del Este tutte le

resistenze avanzate precedentemente furono superate e si poté approvare

un’agenda per i negoziati estremamente ambiziosa, comprendente oltre

all’agricoltura, ai servizi e alla proprietà intellettuale anche le questioni relative al

funzionamento del GATT. Tuttavia, soltanto a partire dal 1990 si cominciò a

parlare di un’Organizzazione mondiale del commercio.

Il 15 dicembre 1993 si concludeva dopo sette anni l’Uruguay Round e,

quattro mesi dopo, il 15 aprile del 1994, 125 Paesi riuniti a Marrakesh in

Marocco, firmarono l’accordo istitutivo del WTO.

1.2.1. Gli accordi in seno al WTO10 I prodotti agricoli rientravano fin dall’inizio nell’accordo GATT, solo che molte delle sue regole non furono mai applicate, originariamente per colpa degli Stati Uniti e a partire dalla creazione della Politica agricola comunitaria per la forte opposizione dell’Unione Europea. La discussione, ancora oggi di primaria importanza, fu al centro dell’Uruguay round. 11 I servizi non avevano mai formato oggetto delle regole del GATT e, se non con qualche eccezione, di una qualunque regolamentazione internazionale.

17

Il WTO conta attualmente oltre 140 membri e può essere definita

un’organizzazione complessa, non solo perché è un insieme di diversi accordi (cfr.

prospetto n. 2), ma anche perché funziona sulla base di una regola, quella del

consenso12, che rende difficile il raggiungimento delle decisioni.

Prospetto n. 2 – I principali accordi del WTO

Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio, la cui denominazione attuale è “Gatt 1994”

Oltre all’originario accordo del 1947, contiene tutte le modifiche ed accordi complementari che a tale testo si sono aggiunte nel corso dei vari round, nonché gli impegni assunti in materia di riduzione tariffarie da parte dei singoli paesi. E’ l’accordo che regola ancora gli scambi internazionali delle merci (nella tabella n. 4 vengono elencati i vari accordi contenuti nel Gatt 1994)

Accordo generale sul commercio dei servizi (Gats: General Agreement on Trade in Services)

Regola il commercio internazionale dei servizi e, contiene le liste delle concessioni in materia di prestazioni di servizi fatte da ciascun membro dell’Organizzazione

Accordo sui diritti di proprietà intellettuale legati al commercio (Trips: Trade Related Aspects of Intellectually Property Rights)

Regola vari aspetti della protezione dei diritti di proprietà intellettuale

Accordo Tprm (Trade policy review mechanism)

Prevede che le politiche commerciali dei singoli membri siano regolarmente esaminate e discusse da parte degli altri membri dell’organizzazione

Accordo sulle regole e le procedure che amministrano la risoluzione delle controversie, detto Organo di risoluzione delle controversie Drb (Dsm o Dsb: Dispute

Rappresenta la Corte Suprema del WTO riassumendo funzioni esecutive, legislative e giudiziarie. Può autorizzare un Paese membro

12Il WTO stabilisce che il consenso è stato raggiunto quando nessun membro presente alla riunione in cui la decisione viene presa si è formalmente opposto alla decisione stessa. Il consenso non è dunque la formale approvazione da parte di tutti i membri di una determinata decisione bensì la loro non opposizione alla decisione stessa. La pratica del consenso deve essere seguita per tutte le decisioni da prendersi in seno al WTO e solo laddove non sia possibile arrivare al consenso è possibile ricorrere ad un voto.

18

Settlement Mechanism or Body) ad applicare sanzioni contro un altro Paese membro.Produce giurisprudenza e dichiara “non conforme” ai testi del WTO le diverse disposizioni delle legislazioni nazionali

L’accordo più importante, il trattato di Marrakesh, non regola alcun aspetto

del commercio internazionale limitandosi a definire le regole concernenti il

funzionamento del WTO stesso, tra cui quella che sancisce che i suoi membri

devono rispettare gli accordi multilaterali allegati al trattato del WTO e che

contengono le regole vere e proprie. Gli accordi13, numerosi (cfr. tabella n. 5),

aspirano tutti a realizzare gli stessi obiettivi: liberalizzare il commercio mondiale

aprendo le frontiere e abbattendo le barriere; applicare a tutte le attività il

principio della concorrenza e le leggi del mercato14.

Tabella n. 5 – Gli accordi relativi al commercio dei beni contenuti nel Gatt 1994

Accordo sui prodotti agricoliAccordo sull’applicazione delle misure sanitarie e fitosanitarie (Sps)Accordo sui prodotti tessili e dell’abbigliamento Accordo sugli ostacoli tecnici agli scambi (Tbt)Accordo sulle misure commerciali attinenti agli investimenti (Trims)Accordo antidumpingAccordo sulla valutazione doganaleAccordo sull’ispezione prima dell’imbarcoAccordo sulle regole d’origineAccordo sulle procedure relative alle licenze d’importazioneAccordo sulle sovvenzioni e misure compensative Accordo sulle misure di salvaguardia

Fonte: Antonio Parenti, Il WTO, Il Mulino, Bologna, 2002, pag. 42

13 I membri del WTO devono applicare tutti gli accordi, senza eccezione. E’ la nozione di accordo unico che permette di riferirsi al WTO in generale, anche quando si discute di aspetti specifici coperti da uno degli accordi in esso contenuti. Questa nozione non comprende i due accordi c.d. plurilaterali, che pur facendo parte del WTO, obbligano soltanto i membri che li hanno firmati: si tratta di quelli in materia di commercio di aerei civili e sugli appalti pubblici.

14 Susan George, op.cit., pag. 22.

19

Nonostante le dichiarazioni di principio, diversi studiosi sottolineano come

gli Accordi siglati durante l’Uruguay Round risultino fortemente squilibrati a

vantaggio degli interessi dei paesi sviluppati e a spese dei PVS, soprattutto di

quelli più poveri. Tra questi si vuole richiamare l’attenzione su quelli più rilevanti.

- Nessuna eccezione: l’Atto Finale stabilisce che “non potranno essere

formulate riserve”. In ogni momento il WTO può decidere di estendere

il campo delle proprie competenze; inoltre ogni Stato membro “deve

assicurare la conformità delle proprie leggi, ordinamenti e procedure

amministrative con i suoi obblighi”(WALLACH, SFORZA, 2000).

- Il principio della nazione più favorita, contemplato in molte clausole e

in accordi specifici, ha avuto origine dagli accordi commerciali

bilaterali, in cui garantiva alle due parti l’estensione di ogni miglior

trattamento concesso in futuro da una di esse ad uno Stato terzo;

nell’ambito del WTO ha la funzione di estendere a tutte le parti

contraenti ogni concessione, sulla quale due di esse reciprocamente si

accordino. Questo principio rende impossibile garantire un trattamento

preferenziale ai paesi che si impegnano a far rispettare i diritti dei

lavoratori e, più in generale, garantire un trattamento preferenziale ad

alcuni PVS.

- Le norme del WTO vietano di trattare in modo diverso i “prodotti

similari” esportati da un altro paese membro, ossia di operare

distinzioni che non siano fondate sulle loro caratteristiche fisiche o

20

sulla destinazione d’uso; è illegale porre discrimini tra diversi fornitori

stranieri della stessa merce, per cui si potrebbe ritenere illegittima

qualunque norma che vieta l’importazione di merci prodotte con il

lavoro minorile o attraverso altra forma di sfruttamento. Le

implicazioni negative derivanti dall’applicazione di questo approccio

si sono evidenziate soprattutto in materia ambientale.

- Il trattamento nazionale è un altro principio oggetto di numerosi

articoli: ogni paese membro è tenuto a trattare i prodotti degli altri

paesi membri senza porre discrimini rispetto ai propri prodotti,

produttori e fornitori nazionali. Un’applicazione di questo principio lo

si ritrova nell’Accordo TRIMS (Trade-Related Investment Measures),

il quale vieta di imporre vincoli agli investimenti esteri e di applicare

restrizioni quantitative. In particolare, vengono proibite le prescrizioni

basate su un livello minimo di approvvigionamento di prodotti locali,

precludendo ai PVS la possibilità di incentivare gli effetti

moltiplicativi a livello locale degli investimenti esteri e incoraggiando

la costituzione di aree che lavorano per l’esportazione (le c.d. Export

Processing Zones, EPZ15).

- I paesi membri sono tenuti alla “trasparenza”, per cui i governi devono

informare la segreteria e gli altri membri delle proprie legislazioni

15 Nelle EPZ investono imprese che si occupano solo dell’assemblaggio di prodotti, partendo da semilavorati importati; esse basano il loro vantaggio competitivo sullo sfruttamento del basso costo della manodopera locale (Mariani, E. Viganò, L. Viganò, 2000).

21

attuali e di ogni nuova legge, normativa o disposizione che possa avere

un impatto sul commercio. Se un paese membro non rende noto ogni

suo dispositivo e non rende le sue politiche conformi alle regole del

WTO, incorre nel richiamo all’ordine attraverso il meccanismo di

esame delle politiche commerciali, che sottopone il paese in questione

a una forte pressione da parte degli altri paesi16.

- L’Accordo sulle forniture pubbliche (AGP17: Agreement on

Government Procurement) impedisce di discriminare prodotti o paesi

esteri, vietando che nella selezione del fornitore, possano essere presi

in considerazione aspetti diversi da quelli commerciali.

Le notazioni di cui sopra evidenziano gli svantaggi economici dei PVS

sollevando notevoli problematiche etico-politiche; per completezza di questa

problematizzazione si espone qui di seguito, invece, le concessioni offerte dal

WTO ai PVS che dovrebbero rappresentare per essi una contropartita dei primi.

16 Atto Finale, articoli III.4 e III.517 E’ stato sottoscritto solo da 25 paesi.

22

1.2.2. La posizione dei paesi in via di sviluppo nel WTO

Nell’ambito del WTO viene accordata ai paesi in via di sviluppo e meno

sviluppati, la possibilità di fare ricorso a dei periodi transitori variabili per

l’applicazione di alcuni accordi dell’organizzazione oppure di derogare

all’applicazione di talune regole se queste fossero in conflitto con i loro obiettivi

di sviluppo. Queste possibilità, in modo separato o congiunto, sono presenti in

quasi tutti gli accordi che formano il WTO. Si tratta di alcuni esempi del

trattamento speciale e differenziato previsto dalle regole dell’organizzazione per

questi paesi, al fine di facilitarne l’inserimento nel sistema commerciale

internazionale (tuttavia occorre sottolineare che non è stato con la creazione del

WTO che tali regole sono state introdotte nel sistema multilaterale degli scambi).

Prima di procedere nell’illustrazione di questo sistema occorre fare una

precisazione terminologica: nel WTO si opera spesso una differenza importante

tra paesi in via di sviluppo e paesi meno sviluppati nel senso che per questi ultimi

sono previsti ulteriori facilitazioni, ma mentre la categoria dei paesi meno

sviluppati è definita dalle Nazioni Unite secondo precisi criteri, quella dei PVS è

una categoria a cui si accede per autoproclamazione e che raramente prevede una

distinzione al suo interno a seconda del livello di sviluppo raggiunto18.

L’unica disposizione del testo originario del GATT che prende in

considerazione le necessità dell’aiuto allo sviluppo economico è l’art. XVIII, il

18 Antonio Parenti, op. cit., pag. 84

23

quale prevede deroghe sia rispetto al consolidamento dei dazi doganali, sia

rispetto al divieto di restrizioni quantitative, a vantaggio di quei paesi la cui

economia non consente che uno scarso livello di vita alla popolazione o che si

trovano ai primi stadi dello sviluppo19. Nel 1964, su impulso della Conferenza

delle Nazioni Unite sul commercio e sullo sviluppo (UNCTAD) venne aggiunta al

GATT la Parte IV, intitolata “Commercio e sviluppo”, la quale, oltre

all’affermazione di principi programmatici (ad esempio, l’aumento delle

esportazioni dei PVS e l’ottimizzazione delle condizioni di accesso ai mercati per

i prodotti di base), prevede altresì che i paesi industrializzati non impongano la

reciprocità quando concedono riduzioni tariffarie o altre agevolazioni commerciali

ai PVS (art. XXXVI.8). In base a questo principio e secondo la procedura stabilita

dall’art. XXV.5, a partire dal 1971 le parti contraenti del GATT autorizzarono

l’adozione da parte dei Paesi industrializzati di speciali sistemi unilaterali:le c.d.

preferenze tariffarie generalizzate consistenti in esenzioni, non discriminatorie,

dei dazi per determinate merci originarie dei PVS; inoltre, i membri non erano

obbligati ad estendere le stesse condizioni agli altri Paesi dell’organizzazione in

base al principio della nazione più favorita. Negli atti conclusivi del Tokyo Round

la deroga venne resa permanente, legittimando in linea di principio il trattamento

preferenziale accordato ai PVS (c.d. clausola abilitativa). Sulla base di questa

decisione i paesi sviluppati si sono dotati di un “sistema generalizzato delle

preferenze”, che permette effettivamente l’entrata a dazio zero o ridotto nei propri

mercati di molti prodotti dei PVS e, naturalmente, di quelli meno sviluppati. La 19 Gabriella Venturini, L’Organizzazione Mondiale del Commercio, Giuffrè editore, 2000, pag. 41

24

clausola abilitativa lascia però un certo margine di libertà ai membri del WTO nel

definire i vari programmi di preferenza; un interessante sviluppo, che si è avuto in

questi ultimi anni, è stata la previsione di legare alcuni incentivi commerciali al

rispetto di alcune condizioni quali le garanzie dei diritti fondamentali dei

lavoratori.

Tuttavia, lo strumento unilaterale delle preferenze tariffarie non ha

contribuito a risolvere i nodi della partecipazione dei PVS al commercio

mondiale, né a limitare l’ampliarsi del gap fra i paesi poveri e quelli con un

elevato tenore di vita. Mentre, infatti, un certo numero di Paesi ha conseguito

progressi economici e commerciali, ad esempio affermandosi come esportatori

principali in alcuni settori (quali il tessile), è cresciuta e continua ad aumentare

l’emarginazione dei paesi c.d. meno sviluppati, in cui l’economia e la società nel

suo complesso si trovano in stato di totale arretratezza. Già a conclusione del

Tokyo Round, a questo riguardo, si era prevista una correzione di prospettiva,

basata su un programma in base al quale i PVS si impegnavano a reinserirsi nel

sistema del libero scambio, regolato dalla clausola della nazione più favorita, via

via che le loro economie fossero migliorate, lasciando ai paesi meno sviluppati i

benefici del trattamento preferenziale.

Con l’Uruguay Round, la scelta politica di principio vuole che i PVS vengano

ad integrarsi a pieno titolo nel regime della WTO. Nell’Accordo istitutivo non

sono, pertanto, contenute particolari disposizioni derogatorie riguardanti tali paesi.

Per quanto concerne i tempi di attuazione degli obblighi derivanti dagli Accordi

25

commerciali multilaterali sono previste, da ciascuno di questi, condizioni di

maggiore flessibilità a vantaggio dei PVS, soprattutto di quelli meno sviluppati.

Due dichiarazioni ministeriali, inoltre, affrontano la situazione di tali paesi: nella

“Decisione sulle misure a favore dei Paesi meno sviluppati” si riafferma la

legittimità degli schemi preferenziali generalizzati e si insiste affinché sia

incrementata l’assistenza tecnica allo sviluppo, mentre nella “Decisione sulle

misure relative ai possibili effetti negativi del programma di riforme sui paesi

meno sviluppati e sui PVS importatori netti di prodotti alimentari” si stabilisce un

incremento dei programmi internazionali di aiuto alimentare per correggere gli

squilibri indotti in tali paesi dalla liberalizzazione del settore agricolo.

1.3. Alcune nuove problematiche

L’ampliarsi della sfera di efficacia della liberalizzazione degli scambi

internazionali, che i meccanismi del GATT 1994 e degli Accordi commerciali

vanno progressivamente attuando, ha portato la normativa liberoscambista a

lambire i confini di settori diversi, regolati da discipline eterogenee, per lo più

scarsamente internazionalizzate. Si sono così posti in evidenza una serie di

problemi ai quali gli accordi dell’Uruguay Round non hanno dato risposta, o che

hanno affrontato in modo superficiale ed inadeguato (VENTURINI, 2000).

L’economia di mercato che oggi trionfa, assoggettando alle proprie logiche

tutte le dimensioni dell’individuo e della società, ha comportato una riallocazione

26

delle risorse tra aree e paesi, in modo da ottimizzare i risultati, una ricerca

incessante di soluzioni diverse, per aumentare la competitività, ed un mutamento

degli attori economici sul mercato mondiale (oggi prevalentemente imprese

transnazionali e multinazionali). In particolare, la massiccia crescita delle

multinazionali è stata, sempre più, attuata disarticolando l’ordine interno degli

stati, per adeguarlo ad un ordine “globalitario” (distruttore delle solidarietà e delle

organizzazioni collettive) al fine di mantenere come protagonisti planetari soltanto

i flussi finanziari e coloro che li controllano. Una delle principali conseguenze del

libero-scambio è stata una separazione sempre più marcata tra Nord e Sud del

Mondo.

Nei PVS la tendenza verso l’efficienza economica si traduce in un trascurare

le regole ambientali, la salvaguardia dei diritti dei lavoratori e della salute

pubblica, in modo da reperire lavoro e materie prime a basso costo. Sono dunque

entrate nel linguaggio comune parole come dumping sociale ed ambientale, che

esprimono semplicemente la preoccupazione dei produttori del Nord di non essere

in grado di competere con produzioni basate su simili vantaggi di costo nei PVS.

Le problematiche relative allo sfruttamento dei lavoratori e del lavoro

minorile, la tutela dell'ambiente e della biodiversità, la difesa della salute, la

valorizzazione delle culture e delle economie locali e più in generale della

clausola sociale si inseriscono proprio in tale quadro generale.

I critici della globalizzazione sottolineano la necessità di una

regolamentazione del mercato globale e di una maggiore trasparenza degli

27

organismi internazionali, che agiscono globalmente, ritenendo la clausola sociale

e la proposta di una tassa sulle transazioni finanziarie (Tobin Tax)20 ottime valvole

di regolazione.

1.3.1. La clausola sociale nel commercio mondiale

Da tempo i paesi occidentali tendono ad inserire, negli strumenti

internazionali da essi stipulati con i PVS, clausole che condizionano gli aiuti

economici o altri trattamenti favorevoli al rispetto dei diritti umani fondamentali

in tali paesi.

Con riferimento agli scambi commerciali internazionali si pone, soprattutto,

la questione della normativa interna in materia di lavoro: quei paesi nel cui

ordinamento le condizioni dei lavoratori sono meno tutelati, oppure non lo sono

affatto, sono in grado di produrre beni e servizi a costi minori e, traendo vantaggio

dalle regole del libero scambio, potranno godere sui mercati stranieri di una

competitività maggiore rispetto a prodotti similari, ma aventi costi sociali elevati.

Per correggere questa situazione, alcuni Stati invocano la possibilità di

applicare restrizioni commerciali, nei confronti di quei paesi che non garantiscono

i diritti fondamentali dei lavoratori. Tali soluzioni, oltre a non essere

giuridicamente motivate, trovano comunque l’opposizione della maggioranza dei

20 In estrema sintesi, la Tobin Tax prevede la tassazione di tutte le transazioni sul mercato dei cambi, stabilizzandoli e, aumentando le entrate degli stati in cui si verificano, spesso, speculazioni sul mercato valutario. Si pensi, che ad un tasso dello 0,1% la tassa in questione garantirebbe circa 166 miliardi di dollari, sufficienti a sradicare l’estrema povertà.

28

membri del WTO, a motivo del loro potenziale impiego a fini protezionistici

(questa osservazione è fortemente sostenuta dagli stessi PVS). Nella

Dichiarazione ministeriale di Singapore del 13 dicembre 1996, la Conferenza dei

ministri del WTO ha espresso l’impegno dei suoi membri a rispettare le norme

sociali minime internazionalmente riconosciute in materia di lavoro ma ha

respinto ogni uso protezionistico delle stesse.

La riflessione sulla “clausola sociale”, cioè sull’introduzione di alcune norme

sociali minime nel commercio internazionale, che prevedono l’internalizzazione

dei costi sociali21, dovrebbe partire da due principi indissociabili: in primo luogo,

il rispetto dei diritti del lavoratore che costituisce un imperativo di equità che deve

essere sempre presente in una società civile; in secondo luogo, l’eventuale

introduzione di una clausola sociale negli accordi che disciplinano il commercio

internazionale non dovrebbe in nessun caso fungere da pretesto per rafforzare il

protezionismo nei confronti dei PVS22.

Partendo da tali principi lo strumento della clausola sociale dovrebbe

permettere di conseguire obiettivi di giustizia sociale e di concorrenza leale, in un

contesto economico mondiale sempre più interdipendente.

La normativa internazionale in materia di lavoro viene elaborata

dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro23 (ILO, International Labour

Organization) attraverso apposite convenzioni, le quali però non conseguono

21 I prezzi dei beni e dei servizi aumentano al decrescere delle libertà fondamentali dell’individuo, rappresentando un forte vantaggio competitivo nei paesi di origine. 22 André Sainjon, Giustizia ed equità nel commercio mondiale, febbraio 1999, in www.manitese.it 23 L’ILO dal 1946 è diventata un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite, come organo abilitato a formulare gli standard internazionali sul lavoro.

29

normalmente una sfera di applicazione internazionale. Il principale organismo

dell’ILO è la Conferenza Internazionale del Lavoro24, che si riunisce annualmente,

per discutere i problemi sociali e del lavoro e fissare le norme internazionali

minime. L’ILO elabora Convenzioni, che una volta ratificate dai paesi membri

(187), diventano vincolanti e Raccomandazioni, volte a orientare le politiche, la

legislazione e la prassi dei medesimi. L’Organizzazione non ha però nessun potere

sanzionatorio in caso di mancato rispetto di quanto ratificato.

Le Convenzioni e le Raccomandazioni adottate dal 1919 hanno affrontato

un’ampia gamma di problemi legati al mondo del lavoro, che vanno dal

riconoscimento di alcuni diritti fondamentali dell’uomo a quelli riguardanti la

sfera delle condizioni di lavoro, l’amministrazione del lavoro, la previdenza

sociale, la sicurezza e la salute sul lavoro, l’occupazione femminile e le relazioni

industriali. Nel prospetto che segue (n. 3) si riportano le Convenzioni che l’ILO

considera come fondamentali (MARIANI, E. VIGANO’, L. VIGANO’, 2001) :

Prospetto n. 3 – Le Convenzioni fondamentali dell’ILO

Abolizione del lavoro forzatoN° 29 Convenzione sul lavoro forzato (1930): esige la soppressione del

lavoro forzato o obbligatorio in tutte le sue forme. Sono autorizzate alcune eccezioni: il servizio militare obbligatorio, il lavoro penitenziario, i lavori richiesti in casi di emergenze quali guerre, incendi o calamità naturali.

N° 105 Convenzione sull’abolizione del lavoro forzato (1957): proibisce il lavoro forzato o obbligatorio, sotto ogni forma, quale misura di

24

? Nel giugno del 2001, la Conferenza Internazionale del Lavoro ha adottato la Convenzione sulla sicurezza e salute in agricoltura, la prima che stabilisce standard internazionali in questo settore che è considerato tra quelli che presentano maggiori rischi sia nei paesi sviluppati che nei PVS.

30

coercizione o di educazione politica, quale sanzione verso persone che esprimono determinate opinioni politiche o ideologiche, quale metodo di mobilitazione della manodopera, quale misura di disciplina del lavoro, quale punizione per la partecipazione a scioperi o quale misura di discriminazione.

Libertà di associazioneN° 87 Convenzione sulla libertà sindacale e la protezione del diritto

sindacale (1948): sancisce il diritto di tutti i lavoratori e dei datori di lavoro di costituire organizzazioni di loro scelta e associarvisi, senza autorizzazione preventiva e fissa una serie di garanzie per il loro libero funzionamento, senza interferenze da parte delle pubbliche autorità.

N° 98 Convenzione sul diritto di organizzazione e di contrattazione collettiva (1949): prevede la protezione contro gli atti di discriminazione antisindacale, la protezione delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro contro gli atti di ingerenza reciproca e incoraggia l’adozione di misure per promuovere la contrattazione collettiva.

Non discriminazioneN° 100 Convenzione sull’uguaglianza di remunerazione (1951): richiede

l’applicazione del principio dell’uguaglianza di remunerazione per uomini e donne per un lavoro di uguale valore.

N° 111 Convenzione sulla discriminazione- lavoro e professione (1958): richiede una politica nazionale per eliminare ogni discriminazione in materia di accesso al lavoro, formazione e condizioni di lavoro, basata sulla razza, il colore, il sesso, la religione, le opinioni politiche, l’appartenenza nazionale o l’origine sociale, e per promuovere l’uguaglianza di opportunità e di trattamento.

Eliminazione del lavoro minorileN° 138 Convenzione sull’età minima (1973): propugna l’abolizione del

lavoro minorile e stipula che l’età minima di ammissione al lavoro non deve essere inferiore a quella in cui cessa la scuola dell’obbligo.

N° 18 Convenzione sulle peggiori forme di lavoro minorile (1999): impegna i paesi a prendere le misure necessarie per eliminare le forme più gravi di sfruttamento del lavoro minorile e a fornire aiuti ai bambini e alle famiglie.

L’ILO ha avviato nel 1992 un programma internazionale per l’eliminazione

del lavoro minorile, culminato con l’adozione della “Convenzione

sull’eliminazione delle forme peggiori di sfruttamento del lavoro infantile”. La

Convenzione adottata a Ginevra nel Giugno del 1999 da 174 paesi, rappresenta

una pietra miliare per l’affermazione dei diritti dell’uomo in quanto impegna, tra

l’altro, all’eliminazione di tutte le forme di schiavitù e pratiche similari25.

25 Mariarosa Cutillo, Una storica convenzione, luglio 1999, in www.manitese.it

31

L’articolo 3 elenca le forme di sfruttamento oggetto della convenzione, quello che

qui interessa di tale articolo è l’accento posto sul lavoro che, per sua natura o per

le circostanze in cui viene svolto, può danneggiare la salute, la sicurezza e la

moralità dei bambini. Inoltre, nella sessione del giugno del 1998, la Conferenza

Internazionale del Lavoro ha adottato una dichiarazione nella quale si trova

formulato un ristretto elenco di diritti fondamentali dei lavoratori: la libertà di

associazione, il divieto di qualsiasi discriminazione sul lavoro, le limitazioni al

ricorso al lavoro minorile (n° 5 e 138), il divieto ai lavori forzati (n° 28 e 105) e il

diritto di organizzazione sindacale e di negoziazione collettiva (n° 87 e 98). Tutti

gli Stati membri dell’Organizzazione avrebbero l’obbligo di garantire il rispetto di

tali libertà, in quanto corrispondenti al diritto internazionale consuetudinario. A

questi diritti fondamentali va, dunque, riferito anche l’impegno dei membri del

WTO a rispettare le norme sociali minime in materia di lavoro.

Secondo il Parlamento Europeo26, il dialogo intrapreso dovrebbe condurre

all’adozione di misure in seno alla WTO per garantire il rispetto effettivo dei

diritti sociali fondamentali da parte di tutti gli stati firmatari di accordi

commerciali.

Se, d’altronde, la competenza dell’ILO è destinata a rimanere predominante e

la maggioranza dei membri del WTO rifiuta di dare inizio all’elaborazione di

regole multilaterali, che prevedono l’adozione di misure commerciali restrittive,

26 In ambito europeo, a partire dal 1994, il Parlamento ha più volte affermato che tutti gli Stati, a prescindere dal loro livello di sviluppo economico, dovranno accordarsi su alcune regole dirette a garantire i diritti fondamentali dell’uomo al lavoro. Le norme sociali dovranno essere circoscritte ad un nucleo minimo di convenzioni dell’ILO (il riferimento a tali norme è d’obbligo, dato che quanto dispongono ha vocazione universale e gode di un ampio consenso).

32

per imporre il rispetto delle norme sociali minime in materia di lavoro, potrà

prevedibilmente aumentare il ricorso a sanzioni unilaterali da parte degli Stati che

si ritengono lesi dalla concorrenza dei paesi, nei quali il lavoro ha un basso costo,

giacché le norme sociali minime non vengono garantite.

L’alternativa potrebbe consistere nell’adozione di misure aventi carattere

“positivo” (come l’avvio di programmi di assistenza tecnica e finanziaria) ma

anche l’offerta di condizioni più favorevoli (ad esempio, nell’ambito dei sistemi

nazionali di preferenze generalizzate) ai PVS, che dimostrino di migliorare gli

standard sociali e di lavoro (VENTURINI, 2000).

1.3.2. Commercio e ambiente

33

La rigida regolamentazione del commercio, così come concepita nell’ambito

del WTO27, condiziona in modo pesante e sul piano legale la libertà di agire dei

singoli Stati in materie inerenti la tutela della salute pubblica e dell’ambiente.

Il ruolo delle Organizzazioni Non Governative (ONG) è particolarmente

incisivo nel rappresentare, anche presso il WTO, la dialettica fra liberalizzazione

del commercio internazionale ed esigenze di tutela dell’ambiente. Su questo tema

il WTO dispone di un apposito gruppo di studio istituito a Marrakesh: la

Commissione su commercio e ambiente28 (Committee on Trade and Environment)

col mandato di studiare i modi per rendere commercio e ambiente reciprocamente

compatibili.

Le crescenti limitazioni imposte a seguito dell’Uruguay Round alla facoltà

dei governi di mantenere normative di pubblico interesse vengono attuate per

mezzo di un sistema di commissioni29 interne al WTO, che hanno la facoltà di

27 Gli Accordi del WTO contemplano diverse disposizioni che possono essere invocate per giustificare misure commerciali restrittive finalizzate alla tutela dell’ambiente: a questo proposito sono da ricordare l’art. XX GATT 1994 (eccezioni generali) nonché gli Accordi commerciali multilaterali sugli ostacoli tecnici e sulle misure sanitarie e fitosanitarie (Sps). Secondo le lettere b) e g) dell’art. XX GATT 1994 , i membri rimangono liberi di adottare le misure necessarie alla protezione della vita e della salute delle persone e degli animali, alla preservazione dei vegetali e alla conservazione delle risorse naturali esauribili. L’art. 2.2 dell’Accordo sugli ostacoli tecnici menziona espressamente la protezione dell’ambiente tra le finalità delle norme tecniche e l’Accordo Sps riafferma il pieno diritto dei membri di tutelare attraverso tali misure la vita e la salute delle persone, degli animali e dei vegetali. In tutti questi casi, però, l’applicazione delle misure restrittive finalizzate alla tutela dell’ambiente deve effettuarsi in misura non discriminatoria e non deve avere obiettivi esclusivamente commerciali.28 La Commissione su commercio e ambiente non configurandosi come organo negoziale non ha avuto la facoltà di formulare nuove norme per la protezione dell’ambiente.

29 Lo scopo delle commissioni è quello di studiare le misure statali finalizzate alla tutela dell’ambiente che hanno effetti restrittivi sugli scambi internazionali: divieti all’importazione/esportazione di prodotti nocivi o fabbricati mediante processi produttivi nocivi per l’ambiente, di specie animali minacciate di estinzione, di risorse esauribili; requisiti di qualità dei prodotti (standard tecnici e misure sanitarie e fitosanitarie) rivolti ad evitare o minimizzare il degrado ambientale (FRANCIONI, 1988).

34

giudicare la conformità delle leggi di un paese ai principi che lo regolano30. Il

problema principale nasce dal fatto che gli obiettivi e le politiche dei vari paesi

devono superare l’esame del WTO31, il quale tra gli altri criteri, esige che le leggi

e le normative siano le meno restrittive possibili nei confronti del

commercio32(WALLACH, SFORZA, 2000). In sostanza, in base ai principi che

regolano il WTO, è possibile che le misure governative sull’ambiente, la sicurezza

alimentare e la sanità pubblica vengano giudicate a priori come protezioniste e

valutate in modo più rigoroso del necessario.

Basti pensare a come è finito il tentativo degli USA sulla riduzione delle

emissioni dei gas di scarico delle auto. Dopo la vittoria del Venezuela nel ricorso

contro il Clean Air Act (la legge sull’inquinamento atmosferico), accusato di

colpire ingiustamente gli interessi dell’industria petrolifera venezuelana, gli USA

hanno abbassato gli standard che regolamentano la presenza di agenti inquinanti

nella benzina. In questo caso, la commissione arbitrale ha affermato che un paese

è libero di scegliere la politica ambientale che preferisce (a patto che sia

compatibile con le regole del WTO).

Le norme del WTO, inoltre, vietano ai paesi di trattare prodotti dalle

caratteristiche simili in modo diverso, a seconda del modo in cui essi vengono

30 Fin dal 1995 ha sempre giudicato che tutte le politiche legislative da esso prese in esame costituiscono barriere illegittime per il commercio, che in quanto tali devono essere abolite o modificate. 31 Eventuali proposte di migliorare standard obsoleti o inadeguati, vengono scoraggiate sul nascere dalla probabilità di essere ricusate dal WTO. 32 Un esempio lo si è avuto in materia di diritti del lavoro, che per indicazioni parlamentari doveva essere inclusa nell’Uruguay Round ma che di fatto è stata esclusa in quanto considerata “limitazione inopportuna al libero commercio”.

35

ottenuti o raccolti33. Per esempio, a giudizio del WTO, i tonni catturati con reti

innocue per i delfini devono essere commercialmente trattati in modo non diverso

dai tonni catturati con reti che intrappolano i delfini e ne provocano la morte.

L’esempio citato fa riferimento al panel (1991) tra Messico e USA in relazione

alle restrizioni statunitensi sulle importazioni di tonno. Nello specifico, la legge

statunitense (Marine Mammal Protection Act) vieta la vendita, sul territorio

americano, di tonni catturati da pescherecci nazionali o stranieri mediante l’uso di

giacchi, grandi reti con cui si coprono i banchi di delfini per catturare i tonni che

si trovano al di sotto34. Gli USA hanno invocato l’eccezione contenuta nell’art.

XX35 del GATT, teoricamente concepita per consentire ai paesi, in definite e

determinate circostanze, di adottare o mantenere delle leggi che contraddicono le

norme del GATT. L’eccezione dovrebbe tutelare i paesi da indebite ingerenze

nella facoltà di difendere il pubblico interesse in ambiti fondamentali quali la

sicurezza nazionale, la salute e la tutela dell’ambiente; nel caso citato l’eccezione

è stata interpretata in modo così restrittivo da renderla puramente accademica36.

1.4. Il Millennium Round

33 La possibilità di distinguere tra metodi di produzione è, invece, indispensabile per la difesa dell’ambiente poiché un elemento fondamentale per la messa a punto di politiche ecosostenibili è la possibilità di trasformare le condizioni e i processi entro cui si producono le merci e si coltivano, si raccolgono, si lavorano i prodotti della terra, in condizioni e processi più rispettosi dell’ambiente.34 Lori Wallach, Michelle Sforza, WTO, Tutto quello che non vi hanno detto sul commercio globale, Feltrinelli, Milano, 2000, pag. 19. 35 Gagriella Venturini, op. cit., pag. 51.36 Lori Wallach, Michelle Sforza, op. cit., pag. 30.

36

La conferenza ministeriale37 del WTO svoltasi a Seattle dal 30 novembre al 4

dicembre 1999, nota come Millennium Round, ha avuto un andamento complesso

e difficile, conclusasi con la sua sospensione.

L’evento è stato presentato come l’inizio di una nuova fase del capitalismo

mondiale, in cui la libera circolazione delle merci e dei capitali possono

alimentare la dinamica di sviluppo dell’economia internazionale. Per il pensiero

unico dominante la globalizzazione è sinonimo di liberalizzazione e l’impegno

delle potenze internazionali è quello di abbattere le ultime barriere che ostacolano

il libero mercato. I nuovi processi di globalizzazione impongono che le linee

guida dell’economia mondiale siano disegnate da organismi internazionali come il

WTO, capaci di gestire al meglio e senza attriti competitivi i processi di

liberalizzazione. Ma, fin dalla definizione dell’agenda, la conferenza ha incontrato

difficoltà nel perseguire tali obiettivi.

In origine, la conferenza ministeriale avrebbe dovuto essere dedicata

essenzialmente alla definizione della piattaforma negoziale su agricoltura e

servizi, in ottemperanza agli accordi sottoscritti dai 135 paesi della WTO nella

conferenza di Marrakesh del 1995.

Tuttavia, nei mesi precedenti alla conferenza di Seattle, la stragrande

maggioranza dei paesi aveva sollecitato la previsione di un’agenda più ampia, al

fine di tenere conto dell’esigenza di definire regole concernenti gli aspetti del 37 La Conferenza ministeriale è l’organo principale del WTO. Si riunisce almeno una volta ogni due anni e vi partecipano i ministri responsabili per il commercio estero eventualmente coadiuvati da altri ministri. La Conferenza ministeriale può prendere decisioni in tutte le materie coperte dell’Organizzazione, ma generalmente in occasione delle conferenze ministeriali vengono prese decisioni che hanno una particolare rilevanza politica per l’Organizzazione stessa, prima fra tutte quella di lanciare nuovi negoziati commerciali.

37

commercio e dell’internazionalizzazione, che negli ultimi anni sono cresciute in

modo particolarmente veloce: barriere non tariffarie, proprietà intellettuale e

diritti di proprietà sui marchi, brevetti e qualità dei prodotti, investimenti esteri,

concorrenza, competitività internazionale.

Al tempo stesso vi è stata la sollecitazione ad inserire nell’agenda, oltre a

questi temi, anche questioni di valenza sociale ed ambientale che sempre più

vengono investite dalle politiche economiche commerciali, tra cui: il problema

della tutela dell’ambiente e della coerenza tra gli accordi internazionali in materia

ambientale e gli accordi in materia commerciale; il problema della tutela della

salute e del rapporto tra politiche commerciali e diritto alla salute dei consumatori;

il tema cruciale del rapporto tra politiche commerciali, politiche degli scambi e

l’affermazione dei diritti sociali (a partire dai diritti del lavoro).

La complessità di tali temi, avrebbe reso necessaria un’attività istruttoria e

preparatoria assai più approfondita di quella che in realtà si è fatta, ma il vero

problema è stato la manifestazione da parte dei diversi soggetti della comunità

economica internazionale, di punti di vista e approcci assai eterogenei che non

hanno trovato prima di Seattle una composizione sufficiente.

In particolare, gli USA hanno teso a considerare la conferenza ministeriale,

come una conferenza che avrebbe dovuto concentrarsi essenzialmente sui temi

dell’agricoltura e dei servizi, avendo un atteggiamento tendenzialmente diffidente

rispetto ad un approccio più ampio. A fronte di tale posizione, si è invece radicata

nell’UE l’idea che l’approccio della conferenza dovesse essere globale, con

38

quell’ampia agenda sopra ricordata. Infine, i PVS, hanno maggiormente

privilegiato la necessità di una verifica sul grado di applicazione degli accordi già

sottoscritti, piuttosto che l’effettiva volontà di misurarsi in una fase negoziale che

si aprisse su nuovi terreni di confronto e di negoziato.

Queste diverse posizioni, non composte adeguatamente prima di Seattle,

hanno fatto sì che la conferenza si aprisse senza che vi fosse un accordo

sull’agenda e senza che fosse stato predisposto, in modo sufficiente, un testo della

dichiarazione finale38 sul quale acquisire un consenso abbastanza ampio.

Occorre sottolineare, brevemente, come in ambito europeo l’Italia abbia

lavorato positivamente, alla preparazione del Millennium Round, presentandosi al

negoziato con una linea che ha puntato su un approccio globale e su

un’impostazione che ha teso a tenere sempre fortemente intrecciate la dimensione

commerciale e quella sociale. In particolare, il gruppo di lavoro ha visto associati

non soltanto i diversi ministri ma anche rappresentanti del parlamento,

organizzazioni non governative (ONG) ed altri soggetti, investiti dai processi e dai

temi che riguardano l’attività della WTO.

38 Si è quindi caricata la conferenza di uno sforzo di sintesi e di mediazione che si è rilevato essere particolarmente complesso e difficile, ma che ha in ogni caso condotto ad un accordo di principio su una piattaforma di natura globale (e quindi con un accordo tra tutti i paesi sul varo di un negoziato che avesse un’ampia tematica di contenuti); tuttavia, la difficoltà a definire sui singoli punti i termini sui quali avrebbe dovuto svilupparsi il negoziato, non ha consentito di pervenire ad una conclusione.I delegati dei PVS di Africa, Caraibi ed America Latina hanno poi firmato, alla fine del negoziato, una dichiarazione comune nella quale auspicavano una maggiore apertura dei negoziati, ricevendo l’appoggio della società civile e dei gruppi di protesta. Per un’organizzazione come la WTO, che spesso presta poca attenzione ai membri meno influenti, è una piccola rivoluzione.

39

Tra le proposte avanzate dall’Italia, nella fase di discussione del negoziato,

ben tre avevano trovato l’accordo degli altri paesi, sia di quelli industrializzati che

di quelli in via di sviluppo: la necessità che gli accordi commerciali fossero

coerenti con quelli ambientali sottoscritti; la necessità di giungere, attraverso la

formalizzazione di un gruppo di lavoro tra WTO e ILO, ad affrontare i temi della

clausola sociale e definire proposte per affrontare il tema dell’affermazione dei

diritti del lavoro; infine, la proposta ripresa da molti paesi, relativa all’abolizione

per i 48 paesi meno avanzati di ogni forma di dazio o di tariffa all’esportazione.

Per ciò che attiene specificamente alle problematiche delle tutela

dell’ambiente, della clausola sociale e del relativo impatto sul commercio

internazionale, sono emersi durante Millennium Round gli stessi contrasti

evidenziatisi durante la Conferenza di Singapore del 1996, per la forte

opposizione dei PVS. Più nello specifico, la questione ambientale e della clausola

sociale hanno rappresentato nel vertice di Seattle un vero attacco da parte delle

grandi potenze nei confronti dei paesi meno sviluppati, rei di violare le più

elementari norme ambientali e in materia di tutela sociale, violazioni che si

traducono in un vantaggio economico per le esportazioni dei paesi in via di

sviluppo.

La preoccupazione mostrata dai PVS è che la clausola sociale possa

nascondere tentativi protezionistici da parte del Nord. Tuttavia l’Unione Europea

(UE) ha ribadito in sede WTO l’intenzione di non privare questi paesi del

vantaggio risultante dai bassi salari e inoltre, come dimostrato dallo Schema delle

40

Preferenze Generalizzate (SPG39), l’UE incentiva le relazioni con quei paesi che

dimostrano rispetto per gli standard di protezione sociale e ambientale.

1.4.1. La dimensione sociale della Conferenza di Seattle

A Seattle è emersa (ancora una volta) una radicata cultura protezionistica, nel

senso che per ciascun paese è prevalente l’obiettivo di preservare, tutelare e

difendere l’esigenza di cui si è portatori, piuttosto che la disponibilità a mettere in

discussione, insieme con gli altri, ciò che ciascuno esprime a vantaggio della

ricerca di punti di sintesi che siano espressione di un interesse comune e globale.

La stessa WTO, si è dimostrata dotata di una strumentazione per regolare i

mercati assolutamente insufficiente, che vive con regole e modi di funzionamento

fortemente caratterizzati dal negoziato intergovernativo, senza una sufficiente

trasparenza e senza regole democratiche che consentano il coinvolgimento sia di

tutti i paesi partecipanti, sia delle società civili e dell’opinione pubblica, tale da

creare condizioni di consenso sull’attività di regolamentazione che la stessa WTO

deve realizzare.

L’insieme delle contraddizioni, rilevate dal Millennium Round, rappresentano

aspetti diversi di un unico problema che è quello dell’approccio culturale alla

globalizzazione, che si traduce concretamente, nei comportamenti assunti dai

singoli attori.

39 Cfr. paragrafo 1.6. di questo capitolo

41

Il tema di come misurarsi di fronte alla globalizzazione, d’altra parte, è stato

fortemente segnalato e sottolineato dalle manifestazioni di protesta svoltesi a

Seattle, che hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica non soltanto sul

negoziato ma anche, appunto, sul tema della globalizzazione e del rapporto tra

globalizzazione e futuro. Le ONG hanno chiesto alla WTO di far rispettare gli

standard minimi lavorativi nel mercato globale e nei PVS, i cui interessi non

coincidono necessariamente con l’asserita priorità della clausola sociale.

Nello specifico, tuttavia, in modo critico, ci si chiede se la proposta avanzata

dalle ONG di boicottare i paesi a più alto tasso di lavoro minorile non si traduca di

fatto in un modo per non perdere competitività e posti di lavoro da parte del

Nord. Per questo, la proposta di boicottare i paesi che non rispettano gli standard

lavorativi e tollerano invece il lavoro minorile, vede l’opposizione proprio dei

paesi emergenti. Infatti, secondo quanto affermato dal delegato indiano durante la

conferenza, un blocco dei beni prodotti con il lavoro minorile potrebbe impedire

lo sviluppo dei paesi più poveri.

Si aggiunga a questo, inoltre, che l’organizzazione “Save the children” ha

dimostrato come il boicottaggio non sia la soluzione più adeguata, poiché i

bambini che lavorano lo fanno per sopravvivere e, se esclusi dalle leggi, si

troverebbero costretti a lavorare illegalmente.

Il problema è, allora, “come” governare e gestire la globalizzazione; ciò è

tanto più necessario se si vuole conseguire un effetto distributivo dei benefici al

più ampio numero di cittadini e di paesi. Governare la globalizzazione significa

42

tenere insieme più dimensioni: la dimensione strettamente commerciale, quella

che attiene alle politiche di sviluppo, quella che riguarda l’affermazione dei diritti

umani e quella sociale ed ambientale.

1.5. Il vertice di Doha

La conferenza di Doha è stato il primo appuntamento internazionale di rilievo

dopo l’attentato alle Torri Gemelle e la riuscita della stessa, che si teneva per la

prima volta in un paese islamico, assumeva un alto valore simbolico sulla tenuta

della comunità internazionale; inoltre, bisognava riscattare la credibilità del WTO

dopo Seattle40. Quest’ultimo aspetto ha condotto all’adozione di metodi

decisionali più aperti e ad un’agenda negoziale maggiormente in linea con le

attese dei PVS.

La conferenza ministeriale di Doha, come quelle precedenti, ha avuto uno

svolgimento sofferto, con un esito incerto fino all’ultimo e una conclusione che

costituisce una sintesi di compromesso tra le diverse, e spesso contrastanti,

esigenze tra i 142 paesi presenti. Il risultato che ne è scaturito, espresso in un

documento ufficialmente denominato dichiarazione ministeriale ma

ufficiosamente conosciuto con il nome di Development Round41, consiste nel

lancio di un nuovo round di negoziati commerciali, la cui conclusione è prevista

40 Maurizio Meloni, “WTO: nuovi protagonisti e pugni di mosche”, in Altreconomia, dicembre 2001, n. 23, pag. 32

41 Enrico Sassoon, La sfida del mercato aperto, in Il Sole 24 ore, 15 novembre 2001, n. 315, pag. 5

43

nel gennaio del 2005, accompagnato da due importanti decisioni in materia

d’applicazione delle regole vigenti e sul rapporto tra tutela della salute e la

protezione dei diritti di proprietà intellettuale.

Queste due ultime dichiarazioni hanno cercato di risolvere i più pressanti

problemi posti dai PVS, spianando la strada all’agenda vera e propria del round.

Preme far osservare, in particolare, che la dichiarazione in materia di rapporto tra

tutela della salute e accordo Trips tende, così come intesa durante la conferenza,

ad evitare ogni eventuale conflitto tra la protezione della proprietà intellettuale e

la tutela della salute affermando che le “regole Trips non devono costituire un

ostacolo alla protezione della salute, stabilendo che gli stati sono sovrani nel

determinare in quali circostanze vi sia l’urgenza di non fare ricorso alle licenze

(obbligatorie) per la produzione di farmaci a basso costo”.

Come i round precedenti, anche quello di Doha ha previsto negoziati tariffari

e regolamentari; sono stati, inoltre, presi impegni concreti al fine di garantire un

miglior accesso ai mercati internazionali per i prodotti dei PVS, in modo da

consentire agli stessi un’adeguata flessibilità negli impegni di liberalizzazione e

regolamentazione che risulteranno dalle negoziazioni del round. È stata anche

prevista la prestazione di assistenza tecnica necessaria per negoziare tali impegni.

Tra i vari negoziati, inseriti nell’agenda di Doha, quelli di accesso al

mercato42 hanno previsto la riduzione delle tariffe doganali e delle barriere non 42 Tra i negoziati in materia di accesso al mercato, quelli relativi all’agricoltura prevedono oltre alla riduzione dei dazi la discussione sulla riduzione, e possibilmente eliminazione, delle sovvenzioni alle esportazioni , che rimangono un importante caposaldo della politica agricola comunitaria. L’Europa, in tale sede, ha ottenuto la tutela delle denominazioni di origine per i prodotti agricoli, ma non ha avuto successo la proposta di meglio definire il principio di precauzione in ambito alimentare.

44

tariffarie, soprattutto per i prodotti d’interesse dei PVS e a facilitazioni per il

commercio dei servizi attraverso migliori condizioni di accesso per i fornitori di

servizi stranieri.

Accanto ai negoziati di accesso al mercato bisogna anche ricordare quelli

sulle regole del commercio internazionale; negoziati che possono essere divisi in

due categorie: la prima categoria comprende le modifiche delle regole già

previste dal WTO, la seconda include oggetti nuovi rispetto all’attuale disciplina.

In particolare, la seconda categoria di negoziati prevede cinque nuove aree:

- relazione tra commercio internazionale e investimenti;

- interazione tra commercio e investimento;

- trasparenza negli appalti pubblici;

- facilitazioni commerciali;

- interazione tra commercio e ambiente.

L’area di interazione tra commercio e tutela dell’ambiente, ha rappresentato

una novità di grande rilievo perché nonostante la materia fosse già presa in

considerazione43, la resistenza di molti paesi ad intraprendere la strada negoziale

era molto forte per il timore che portasse alla giustificazione di misure

protezionistiche o all’obbligo, per i PVS, di adottare gli standard ambientali dei

paesi sviluppati; timore fugato dall’impegno che i risultati dei futuri negoziati non

potranno creare barriere od obblighi di tale sorta (PARENTI, 2002). Il risultato

ottenuto, durante la conferenza, prevede la necessità di determinare con esattezza

la relazione tra le regole previste dal WTO e quelle contenute negli accordi 43 Cfr. paragrafo 1.3.2. di questo capitolo

45

multilaterali in materia di ambiente, nonché la riduzione o eliminazione delle

tariffe e delle barriere non tariffarie alle importazioni di beni e servizi di natura

ambientale.

Il programma del negoziato viene completato dall’esame di alcune questioni

di particolare rilievo per i PVS quali: quelle relative al commercio dei paesi ad

economia limitata e vulnerabili (c.d. small economies), al fine di una loro piena

integrazione nel sistema commerciale multilaterale; quelle relative alla relazione

tra il commercio, debito ed aspetti finanziari internazionali, quelli relative al

commercio e trasferimento delle tecnologie verso i PVS; quelle relative, infine,

più specificamente all’integrazione dei PVS, che prevede tra l’altro l’obiettivo di

assicurare un’effettiva libera entrata dei prodotti di questi paesi negli altri mercati.

Da quanto detto emerge l’importanza che assumeranno i futuri negoziati,

rilevando però che manca ancora una volta una previsione sull’interazione tra

commercio e diritti dei lavoratori e sull’introduzione della clausola sociale.

Molto probabilmente, sul buon fine della conferenza di Doha ha giocato un

ruolo decisivo la congiuntura economica negativa che ha caratterizzato il 2001,

come dimostrano i dati riportati nella tabella n. 6.

Tabella n. 6 – Tasso di crescita delle esportazioni nel 2001 (variazione percentuale rispetto

all’anno precedente)

Prodotti chimici 1,8%

Prodotti agricoli -0,9%

Minerali -0,6%

Vestiario -0,9%

Prodotti per l’automazione -2,1%

46

Altri macchinari -2,2%

Altri beni di consumo -2,7%

Altri semilavorati -3,4%

Metalli non ferrosi -9,1%

Tessile -5,0%

Ferro e acciaio -8,1%

Combustibili -8,4%

Telecomunicazioni -13,8%

Media -4,3%

Fonte: WTO, Statistiche sul commercio internazionale, 2002

Nel 2001 il valore (espresso in dollari) delle esportazioni a livello mondiale è

diminuito del 4,5%, segnando per la prima volta dal 1982 un trend negativo. Solo

nel settore chimico si sono registrati incrementi negli scambi, mentre tutti gli altri

settori hanno subito una flessione: il commercio di prodotti agricoli e manufatti si

è ridotto rispettivamente dello 0,9% e del 2,5%, mentre il settore delle

telecomunicazioni è stato travolto da un vero e proprio crollo del 14%.

La stagnazione ha riguardato anche i servizi, che dopo un aumento degli

scambi del 6% nel 2000 hanno segnato una riduzione di 0,5% nel 2001. L’arresto

si è verificato quasi ovunque, ma con particolare forza in Nord America, Africa e

Asia44.

1.5.1. Il fallimento della conferenza di Cancun

44 Anna Morelli, In calo gli scambi internazionali “Il commercio si fa in blocco”, in Altreconomia n. 35, gennaio 2003, pag. 25

47

La quinta conferenza ministeriale del WTO si è svolta a Cancun in Messico

dal 10 al 14 Settembre 2003.

Il vertice si è chiuso senza la firma di nessun nuovo accordo, né

sull’agricoltura né sugli investimenti né sui brevetti. Un fallimento su tutta la

linea, forse ancora più profondo di quello che si era verificato quattro anni fa a

Seattle. Allora il fallimento era stato determinato dalle contestazioni di piazza,

dall’emergere di un movimento globale che metteva sotto accusa regole,

legittimità e contenuti degli accordi del WTO. Oggi, invece, il segnale della crisi è

venuto dal G21, il gruppo dei PVS.

Per la prima volta, l’alleanza dei Paesi africani, di quelli caraibici e dei più

poveri della Terra, guidati dal Bangladesh, ha imposto le sue ragioni, unanimi e

diverse, rispetto a quelle del G7-G8. Bénin, Burkina Faso, Mali e Ciad hanno

ufficialmente chiesto, a nome di tutti i Paesi dell’Africa occidentale e centrale,

l’abolizione degli aiuti scandalo ai grandi farmers americani ed europei, che

penalizzano i produttori di cotone45. Non hanno ottenuto nulla, solo un vago

impegno a parlarne nei mesi e anni futuri all’interno di un negoziato sul tessile;

questo ha comportato il blocco delle discussioni sulle Singapore Issues (l’agenda

del WTO su investimenti, appalti, concorrenza e facilitazioni al commercio).

45 L’Africa francofona produce ogni anno circa un milione di tonnellate di cotone, che corrispondono all’incirca al 16% dell’intera produzione mondiale; almeno 10 milioni di contadini africani dipendono dalle piantagioni di cotone. Ogni anno l’Africa perde circa 300 milioni di dollari a causa dei sussidi concessi ai produttori europei e statunitensi (questi ultimi ricevono ogni anno quattro milioni di dollari). Fonte: Altreconomia, settembre 2003, n. 42, pag.36

48

Il fatto nuovo di Cancun46 è stato proprio l’incrocio di alleanze fra Paesi

diversi: il G21 si è battuto contro le posizioni americane ed europee. E’ guidato

dal Brasile (vera potenza politicamente emergente), dall’India, dai cinesi e dal

Messico. Ma vi sono anche Paesi poverissimi come il Bangladesh. Altri Stati più

poveri, specialmente africani, sono riusciti a raggrupparsi in un ampio G90.

Per la prima volta hanno partecipato anche la Cambogia 47e il Nepal, nuovi

paesi membri del WTO. La Cambogia, in particolare, dopo sette anni di negoziati,

ha dovuto modificare la sua legislazione per aprire il mercato interno al

commercio internazionale (ad esempio, entro il 2005 deve eliminare ogni

restrizione all’importazione di fertilizzanti e pesticidi).

Nella precedente conferenza di Doha erano state fatte grandi promesse ai

paesi economicamente meno sviluppati (vedi paragrafo precedente) e il fallimento

di quella attuale è anche una conseguenza del mancato rispetto delle stesse. Un

esempio per tutti è dato dalla mancata attuazione dell’accordo per aumentare

l’accesso dei cittadini ai farmaci a basso costo. A Doha si era affermato che la

salute pubblica fosse una ragione sufficiente per superare le preoccupazioni sulla

tutela dei brevetti farmaceutici e di proprietà intellettuale, in concreto però non è

stato prodotto nessun accordo. Addirittura la Cambogia, che ha bisogno di

medicine anti-Aids generiche e a basso costo, ha dovuto abbandonare la politica di

distribuzione di farmaci appena è entrata nel WTO48. 46 Andrea Semplici, “Il mercato è nudo”, in Altreconomia, ottobre 2003, n. 43, pag. 6-10

47 L’ammissione della Cambogia è il primo caso di ingresso nel WTO di uno dei paesi catalogati come Ldc (least developed countries, paesi meno sviluppati).48 Carta (almanacco), “Il nido dei serpenti”, 4-10 settembre 2003, n. 31, pag. 47

49

Oltre alla frattura sull’agricoltura, l’altro nodo caldo del vertice è stato quello

sulla liberalizzazione dei servizi. Il Giappone, assieme all’Europa, è il vero

responsabile della rottura della conferenza: entrambe le nazioni non hanno voluto

modificare le rispettive posizioni in materia di investimenti né prevedere

l’apertura di negoziati su tale tema (il Giappone, in particolare, non intende

eliminare i dazi da prodotti considerati strategici).

L’accordo sui servizi (Gats) in realtà è un negoziato parallelo e andrà avanti

comunque nonostante il fallimento di Cancun, in quanto cruciale per il mondo

delle corporate. Secondo Christopher Roberts di Esf (European Services Forum),

grande associazione di aziende di servizi, la negoziazione dell’accordo Gats è il

solo modo per superare la crisi economica in Europa, in cui il 70% dell’economia

è rappresentato da servizi (cfr. tabella n. 7). Non la pensano in questo modo le

ONG occidentali.

Tabella n. 7 – Valore in milioni di dollari del mercato dei servizi commerciali (2001)

Esportazioni ImportazioniUE 611.500 (42%) 604.900 (42%)

USA 263.380 (18,1%) 187.700 (13%)Asia 302.600 (20,7%) 355.000 (24,6%)

America Latina 58.200 (4%) 70.900 (4,9%)Africa 30.900 (2,1%) 37.500 (2,6%)

Resto del Mondo 191.620 (13,1%) 187.600 (12,9%)Mondo 1.458.200 (100%) 1.443.600 (100%)

Fonte: WTO

50

L’ideologia liberista del WTO e la sua mancanza di democraticità hanno

dimostrato ancora una volta i suoi limiti. Si avverte, quindi, la necessità di un

restringimento delle sue competenze e una maggiore trasparenza e democraticità

del suo operato; bisogna, però, anche tener presente che se non ci fosse il WTO

rimarrebbero solo gli accordi tipo l’ALCA (il trattato di libero scambio per le

americhe) o gli accordi bilaterali fra paesi a regolamentare gli scambi.

Infine, per quanto riguarda l’introduzione degli standard sociali sì e fatto

rinvio, ancora una volta, alla Conferenza di Singapore del ’96.

Concludendo, si può affermare che il voler proporre un sostanziale legame fra

norme sociali e commercio internazionale, mediante l’introduzione della clausola

sociale negli accordi commerciali, oltre ad essere interpretato dai PVS in senso

protezionistico, con effetti d’aggravamento della loro situazione economica, non

risolve sostanzialmente il problema. Il compito di ricercare soluzioni atte a

facilitare il progresso economico e contemporaneamente il miglioramento delle

condizioni di lavoro, a livello mondiale, spetta all’ILO sia per la parte giuridica

sia per quella tecnica. Occorre, pertanto, effettuare gli sforzi necessari affinché

tutti i paesi che aderiscono all’ILO ratifichino le convenzioni finora emanate in

materia sociale e ne applichino concretamente i principi che si riferiscono ai diritti

fondamentali dei lavoratori.

1.6. Percorsi alternativi alla clausola sociale: i codici di

condotta

51

Il problema dei diritti dei lavoratori nel Sud del mondo non è certamente di

facile soluzione. Ma alle richieste di libertà e di maggior tutela si può comunque

rispondere in vario modo: anzitutto cercando di creare e rafforzare un

collegamento fra commercio e diritti, tentando di far imporre la clausole sociale

negli accordi commerciali internazionali, provando a costringere le imprese ad

adottare codici di condotta, attraverso i quali le multinazionali si impegnino a non

dare la produzione in appalto alle imprese che violano alcuni principi basilari

(quali: la libertà di associazione; la contrattazione collettiva; il lavoro minorile; il

lavoro forzato; la discriminazione razziale e, misure per garantire la sicurezza e la

salubrità nei luoghi di lavoro).

Dalla collaborazione tra organizzazioni dei consumatori, gruppi ambientali,

sindacati e organizzazioni del commercio equo, si è giunti all’elaborazione di una

serie di criteri sociali ed ecologici di cui si richiede il rispetto da parte delle

multinazionali. Ma, non si può pretendere che i paesi del Terzo Mondo

mantengano i salari e gli oneri sociali ad un livello accettabile se le aziende e i

consumatori nei paesi industrializzati non sono disposti a modificare le proprie

abitudini e a pagare prezzi giusti.

L’introduzione della clausola sociale, negli accordi commerciali, condurrebbe

a benefici innegabili dal punto di vista umano ma ci si deve chiedere se queste

clausole non siano il pretesto per far sparire dai mercati del nord i beni prodotti a

buon mercato nei paesi a basso salario, o ancora, quale efficacia possano avere le

52

clausole se non vengono dotate di un rigoroso sistema di controllo

nell’applicazione dei principi che contemplano.

Per alcuni prodotti, in particolare per quelli del settore alimentare, i problemi

sopra evidenziati sono stati risolti, in parte, con il marchio TransFair49 del

Commercio Equo. Tale marchio indicherebbe che è stato pagato un certo prezzo e

che sono stati rispettati standard minimi di natura sociale; la sua applicazione ai

prodotti non alimentari risulta comunque assai complessa e di non facile soluzione

in tempi brevi.

L’UE ha un grande ruolo da giocare nel guidare l’industria verso il rispetto

sociale ed ecologico della filiera produttiva, per esempio attraverso la

proposizione e istituzione di un marchio unico riconosciuto in tutto il mondo che

prenda in considerazione diversi aspetti: produzione biologica, dignità del lavoro,

trasformazione con metodi ecocompatibili, salute del consumatore, trasformazione

realizzata il più possibile in loco; ossia un marchio veramente eco-sociale.

La crescente partecipazione delle società multinazionali (e in minor misura

delle ONG), in qualità principali attori della globalizzazione sta assumendo nuove

dimensioni e comportando conseguenze sinora sconosciute. Le multinazionali non

possono più eludere le proprie responsabilità, denunciate da ONG e associazioni

dei consumatori, per quanto riguarda le scandalose condizioni di lavoro,

perpetrate dalle loro filiali o dai loro subappaltatori stranieri.

In tale situazione, i codici di condotta volontari stanno diventando un fattore

indicativo ai fini del rispetto dei diritti dell’uomo al lavoro. Nella realtà, i vantaggi 49 Cfr. Cap. II, paragrafo 2.6. e Cap. III, paragrafo 3.7.

53

comportati dai bassi costi della manodopera per i fornitori, colpevoli di pratiche

abusive, devono essere ormai controbilanciati dai costi imputabili ad un’eventuale

campagna di pubblicità negativa, nonché da quelli in termini di relazioni

pubbliche e di proteste dei consumatori50.

I codici di condotta51 se fossero pienamente attuati potrebbero rappresentare

una conquista, in quanto obbligherebbero le multinazionali ad assumersi

responsabilità, non solo nell’ambito dei loro investimenti ma anche rispetto alle

attività dei loro fornitori.

Naturalmente i codici non potranno avere un effetto positivo se le imprese

continueranno ad agire guardando soltanto al loro interesse e se continueranno ad

inserire principi molto blandi e standard inadeguati (come lo sono oggi). In molti

paesi i diritti fondamentali dei lavoratori non sono previsti ed è inutile che i codici

facciano riferimento alle leggi locali. In tal senso, il riferimento a leggi e

consuetudini locali sono soltanto uno stratagemma adottato per continuare a

produrre con profitti elevati.

Per essere davvero efficaci, i codici di condotta dovrebbero far riferimento

agli standard fissati dalle Convenzioni dell’ILO e dovrebbero far parte integrante

del contratto che la multinazionale stipula con i suoi fornitori.

I codici di condotta, comunque, anche quando comprendessero tutti i diritti

fondamentali dei lavoratori e fossero propriamente applicati e controllati in 50 www.manitese.it51 La proliferazione dei codici di condotta e la struttura del mercato in alcuni settori (catena di produzione estremamente segmentate con un gran numero di subappaltatori) rendono le condizioni per la realizzazione e il rispetto dei codici di condotta confuse. Siccome i subappaltatori lavorano per diversi committenti, utilizzano codici di condotta diversi secondo la linea di prodotti.

54

maniera indipendente, non possono rappresentare l’unica soluzione agli abusi

crescenti cui i lavoratori dei PVS sono sottoposti. Essi vanno soprattutto visti

come strumenti per garantire la libertà sindacale ed il diritto alla contrattazione

collettiva, che sono i veri strumenti che permettono ai lavoratori di difendere i

propri diritti.

Per mantenere un atteggiamento critico rispetto alla proliferazione di codici

di condotta e di altre iniziative sarebbe importante capire, da un lato i motivi che

spingono i promotori e dall’altro quelli che sono gli effetti nel conseguimento

degli scopi. Per fare un esempio, negli Stati Uniti l’80% delle più grandi società

hanno un codice di condotta, ma ognuno ha il suo. L’ILO, nel corso del 1998, ha

esaminato oltre 200 codici di condotta: meno del 33% fanno riferimento agli

standard di base dell’ILO, il 45% copre solo il lavoro infantile (ma con differenze

sostanziali sull’età minima) e solo il 15% fa riferimento alla libertà di

associazione52.

Bisogna poi tener presente che i codici di condotta non sono giuridicamente

vincolanti e quindi il nodo della questione della conformità con gli standard

sociali non viene eliminato. Una semplice manifestazione di intenti non basta;

inoltre, è necessaria la standardizzazione fatta all’interno di una struttura che

garantisca la trasparenza e la credibilità.

1.6.1. Codici di condotta per le imprese europee operanti nei paesi in via

di sviluppo52 EFTA, Rapporto sul commercio equo, 2001-2003, Bolzano, Ctm altromercato, pag. 55.

55

Da più parti emerge l’esigenza di controllare l’impatto sociale, economico ed

ambientale delle multinazionali, considerati i principali attori del nuovo scenario

economico mondiale. Per questo negli ultimi anni si è intensificato il discorso sui

codici di condotta, volti a disciplinare l’attività delle multinazionali, viste anche le

crescenti ripercussioni del commercio internazionale sui PVS e l’interazione fra

investimenti esteri e processo di sviluppo.

In tale dibattito si inserisce la risoluzione A4-508/98 approvata dal

Parlamento Europeo il 15 gennaio 1999 “Sulle norme comunitarie applicabili alle

imprese che operano nei PVS: verso un codice di condotta europeo”53.

I punti principali, del testo della risoluzione, mettono in evidenza sia il ruolo

dell’UE in qualità di donatore di aiuti allo sviluppo, sia la preoccupazione per i

casi in cui l’intensa concorrenza per gli investimenti e la mancata applicazione di

regole internazionali hanno portato a casi di abusi commessi da imprese,

specialmente nei paesi in cui i diritti umani non sono rispettati.

Viene ad essere rilevato come nessuna impresa societaria debba trarre profitto

dai vantaggi competitivi che risultino dal mancato rispetto dei diritti fondamentali

e dagli standard sociali e ambientali; chiarisce, inoltre, che l’approccio volontario

o quello vincolante verso la regolamentazione delle imprese non si esclude a

vicenda.

53 Un codice di condotta europeo per le imprese che operano nei PVS, febbraio 1999 in www.manitese.it

56

Meritano una particolare attenzione i punti 1, 3, 4, 6, 8 della risoluzione; nello

specifico:

- nel punto 1 vengono incoraggiate le iniziative volontarie adottate dalle

imprese, sindacati e ONG, volte a promuovere codici di condotta dotati di un

seguito e di controlli efficaci e indipendenti, nel contempo si sottolinea, che i

codici di condotta non possono sostituire o rimuovere le normative

internazionali e le responsabilità proprie dei governi, né che gli stessi debbano

essere strumentalizzati per sottrarre le imprese multinazionali ai controlli

pubblici e giudiziari;

- ai punti 3 e 4, dopo aver tenuto presente che il contenuto di un codice e del

suo processo di elaborazione devono coinvolgere quanti nei PVS sono da essi

interessati, si sottolinea come una particolare attenzione debba essere attribuita

all’applicazione dei codici per quanto riguarda i lavoratori del subappalto e,

soprattutto, per quanto concerne il riconoscimento del diritto a formare

sindacati indipendenti dei lavoratori;

- il punto 6 evidenzia il ruolo propulsivo che le imprese devono svolgere nel

processo di sviluppo delle aree interessate, più dettagliatamente si parla di

sviluppo economico e sociale nel rispetto degli orientamenti definiti dalle

autorità pubbliche competenti;

- infine è degno di nota il punto 8, in cui si raccomanda che il codice, modello

di condotta per le imprese europee, comprenda alcune norme internazionali

minime in materia di diritti umani, diritti dei lavoratori e requisiti ambientali.

57

1.6.2. Il sistema di etichettatura sociale: SA 8000

Il sistema di verifica sulla responsabilità sociale, Social Accountability

(SA800054), è uno standard volontario predisposto nel 1997 dal “Council on

Economic Priorities Accreditation Agency” (poi mutato in Social Accountability

International) e si basa su un processo indipendente di verifica per la protezione

dei diritti dell’uomo. La particolarità di tale standard è data dal riferimento sia alle

convenzioni dell’ILO, sia alla Dichiarazione universale dei diritti umani e sia,

infine, alla Convenzione sui diritti del bambino.

Lo standard mira essenzialmente a garantire i diritti di base per i lavoratori,

attraverso quella che viene ad essere considerata una produzione etica, per quelle

imprese (di qualsiasi dimensione) che ne possono beneficiare. SA8000 può essere

applicato a tutte le imprese di qualsiasi settore e in tutti i paesi, ma non si applica

ai lavoratori a domicilio.

54 Si tratta dell’equivalente etico dello standard di qualità ISO 9000 e dello Standard ambientale ISO 14000.

58

In Italia, le iniziative sorte intorno alla problematica dello sfruttamento del

lavoro minorile, sono culminate nell’approvazione da parte della X Commissione,

del testo base della legge “il marchio di certificazione di conformità sociale per le

imprese che non utilizzano il lavoro minorile”, del 23 gennaio 2001.

Purtroppo, il testo, in alcuni punti è molto generico, anche se resta molto più

efficace rispetto a quello approvato nel giugno ‘99. Non si occupa del solo lavoro

infantile, ma le convenzioni internazionali di riferimento sono tutte quelle relative

a: “libertà di associazione, riconoscimento effettivo del diritto alla contrattazione

collettiva, eliminazione di ogni forma di lavoro forzato e obbligatorio,

eliminazione della discriminazione in materia di impiego e professione” e che si

occupano di “diritti civili e politici, diritti economici, sociali e culturali, contro la

tortura ed ogni altro trattamento crudele, inumano e degradante, e in materia di

eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, di discriminazione

razziale e di tutela dei diritti dei minori”.

Viene ad essere istituito un marchio di qualità sociale limitato al solo lavoro

infantile. Il marchio è concesso alle aziende che ne facciano richiesta, da parte di

società di certificazione accreditate dal Ministero dell’Industria; lo schema è

quello della SA8000.

I problemi principali di SA8000, relativi alla segretezza del rapporto privato

tra controllato e controllore, sono presenti anche nel testo della legge italiana;

inoltre manca un ente incaricato di gestire il marchio e accogliere eventuali

reclami. Le aziende dotate del marchio, che si applica non solo ai singoli prodotti

59

ma a tutta la produzione, sono favorite nell’assegnazione delle sovvenzioni statali

per le imprese. L’uso improprio del marchio diventa reato penale e anche

l’azienda certificatrice può subire sanzioni. La parte più interessante della legge è

l’assegnazione di compiti nuovi all'Antitrust che viene chiamata ad occuparsi

anche delle “violazioni dei principi e delle regole della libera concorrenza

connesse al mancato rispetto, in Italia o all'estero, dei fondamentali diritti umani,

economici, sociali e sindacali, indicate nelle convenzioni internazionali ratificate

dall'Italia”. L’Antitrust si avvarrà dei suoi normali poteri, tra i quali quello di

svolgere indagini e comminare multe; gli atti sono coperti dal segreto d’ufficio,

ma le decisioni finali sono pubbliche.

È creata, infine, una consulta sul tema della conformità sociale dei prodotti,

col compito di organizzare campagne pubbliche di informazione, di cui fanno

parte i rappresentanti dei ministeri, dei sindacati, degli industriali ed anche delle

associazioni di volontariato.

Il metodo prescelto per combattere il fenomeno del lavoro minorile, così

come emerge dal testo, si orienta dunque verso una duplice direzione: i marchi e i

disincentivi.

Da un’indagine condotta da Gpf & Associati, nel 2001 (vedi fig. n. 4),

emerge che uno dei criteri di scelta dei consumatori è rappresentato dall’eticità, in

senso lato, del consumo stesso, cioè dalla sua capacità di accordarsi a principi di

responsabilità sociale.

60

Nell’impatto ambientale delle produzioni e nelle relazioni con il territorio,

nelle politiche occupazionali come nei rapporti con i fornitori, nella correttezza

comunicativa e nei principi che ispirano la cultura aziendale, all’azienda viene

richiesto oggi di farsi carico non solo di un rapporto a due con il consumatore , ma

anche di quelle esternalità sociali che questo rapporto determina.

Altrettanto vistosa è la penalizzazione di quei consumi e di quei

prodotti/marche (o interi Paesi) il cui operato si scontra con tali principi di etica: si

pensi, ad esempio, alle campagne di boicottaggio.

Figura n. 4 - Parametri in base ai quali i consumatori sono disposti a pagare un

prezzo più alto

Fonte: Largo Consumo n. 9/2001Il campione preso in considerazione dalla Gpf & Associati è stato di 2.500 unità (popolazione italiana 15-74 anni)

La fenomenologia etica del consumo assume comunque un aspetto graduato.

Se ci si limita a osservarne le espressioni più visibili, si va dalle iniziative di

imprenditorialità sociale esplicitamente etiche (come in Italia la Banca etica o il

61

marchio Altromercato dei prodotti del commercio equo) a quelle delle aziende che

operano a favore di cause sociali, spesso in una logica di partnership con

associazioni non profit.

L’attenzione etica dei consumatori rispetto a prodotti e aziende nasce dalla

crescente sensibilità rispetto alle implicazioni sociali dei consumi sia dalla

consapevolezza della possibilità di influenzare con i propri comportamenti tali

conseguenze. Questa stessa sensibilità etica che fatica a manifestarsi in forma

alternativa (attraverso l’impegno politico, culturale, sociale) trova così oggi nei

processi di consumo una realizzazione plausibile: aproblematica, poco

impegnativa, rapida, relativamente efficace e misurabile).

1.7. Le facilitazioni offerte ai paesi in via di sviluppo dal

sistema comunitario delle preferenze tariffarie

generalizzate

62

L’insieme delle facilitazioni commerciali55 che l’UE concede agli stati,

richiedono il rispetto di talune norme ambientali e sociali relative, in particolare,

ai diritti di organizzazione e alla negoziazione collettiva, nonché all’età minima

per accedere al lavoro (clausola sociale d'incentivazione: articoli 7 e 8 dei

regolamenti n. 3281/94 e n. 1256/96 del Consiglio).

E anche prevista la possibilità di un ritiro, totale o parziale, dei benefici del

SPG, nei confronti dei paesi che praticano la schiavitù o esportano prodotti

fabbricati in penitenziari (clausola sociale punitiva: articolo 9 del regolamento n.

3281/94 e n. 1256/96 del Consiglio).

L’UE, attuando un attraente dispositivo di stimolo tariffario per favorire il

rispetto delle norme sociali internazionalmente riconosciute, desidera

(chiaramente) inviare un importante segnale politico ai PVS, rassicurandoli sulla

volontà non protezionistica della sua posizione. Per stimolare i produttori dei PVS

a conformarsi con le norme sociali fondamentali dell’ILO, nonché con quelle in

materia di tutela dell’ambiente dell’Organizzazione internazionale delle Foreste

Tropicali (OIFT), il regime commerciale introdotto con il regolamento n. 1154/98

include sostanziali concessioni tariffarie, prevedendo, in particolare, che quelle sui

55 Anche gli Stati Uniti hanno adottato (sin dal 1976) un sistema generalizzato di preferenze attraverso il quale è concessa l’importazione senza imposizione tariffarie di una certa quantità di beni provenienti dai PVS, a condizione che i paesi esportatori rispettino i diritti dei lavoratori internazionalmente riconosciute.In questo quadro, occorre anche segnalare un’iniziativa di cui il Governo italiano è partecipe insieme ad altri sette paesi nord-europei, con i quali ha sottoscritto una convenzione per la costituzione di un centro di assistenza legale per i PVS con un contributo per ciascun paese di un milione di dollari. Tale tipo di assistenza è particolarmente importante per i PVS, perché consente loro di implementare gli accordi che via via vengono definiti e, allo stesso tempo, di non subire le regole della globalizzazione ma di esserne parte attiva.

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prodotti industriali raddoppino il margine preferenziale accordato rispetto al

regime SPG di base (15% per i prodotti molto sensibili, 25% per i prodotti

sensibili, 35% per i prodotti semi-sensibili). Per quanto riguarda i prodotti agricoli

e della pesca, il regime di incentivazione aumenta di quasi due terzi il margine

preferenziale (10% per i prodotti molto sensibili, 20% per i prodotti sensibili, 35%

per i prodotti semi-sensibili). Le due clausole, quella sociale e quella ambientale,

sono inoltre cumulabili, nonostante nel caso dei prodotti molto sensibili l’effetto

cumulativo sia sempre limitato al 40%.

Al di là delle accuse di protezionismo, l’attuazione dei regimi speciali di

incentivazione alla tutela dei diritti dei lavoratori e alla protezione dell'ambiente

ha avuto il merito di fungere da base per una riflessione più ampia e per un

approccio molto più positivo della relazione fra il commercio internazionale e le

norme di lavoro e ambientali. D’altronde, il rifiuto dei PVS di riconoscere la

vincolatività delle norme sociali potrebbe a medio termine danneggiare la loro

immagine e, di conseguenza, quella dei loro prodotti presso i consumatori.

1.8. Il commercio equo e solidale come alternativa alle

distorsioni del commercio mondiale

Tra le finalità della WTO si annovera quello di “elevare il tenore di vita e

garantire la piena occupazione consentendo un utilizzo ottimale delle risorse

mondiali in conformità con l’obiettivo dello sviluppo sostenibile, nell’intento di

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proteggere e preservare l’ambiente in modo compatibile con le esigenze delle

nazioni nei diversi stadi dello sviluppo economico; si riconosce, inoltre, che

occorrono sforzi positivi per ottenere che i PVS possano partecipare alla crescita

del commercio internazionale in proporzione alle necessità del loro sviluppo

economico”.

E’ innegabile che gli scambi commerciali rappresentano una fonte essenziale

di ricchezza ma l’istituzione di un sistema commerciale più liberale ha tuttavia

sollevato dubbi sulla capacità dei PVS di beneficiare appieno di questo ambiente

commerciale più aperto. Per questo motivo, il presupposto fondamentale che il

Commercio Equo e Solidale (com.e.s.) si propone è quello di consentire ai

produttori dei PVS di cogliere le opportunità offerte dalla mondializzazione del

commercio e di trarne profitto, proponendo una nuova idea di commercio

responsabile e sostenibile. Tenendo presente che le attuali strutture commerciali

internazionali continuano ad essere profondamente ingiuste, perché consentono ai

PVS di esportare in ampia misura prodotti primari per la trasformazione nei paesi

industrializzati, dove viene apportato gran parte del valore aggiunto, il com.e.s.

può essere considerato uno strumento per favorire lo sviluppo dell’uomo

promuovendo regole internazionali in materia economica e commerciale ispirate a

maggior giustizia ed equità tra Nord e Sud. Il com.e.s. considera le condizioni

sociali ed ambientali, importanti fattori che determinano la qualità della vita e li

considera fattori indispensabili dello sviluppo.

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Partendo da tali presupposti, e in maniera estremamente sintetica, si può

evidenziare come il principale obiettivo del com.e.s. a breve termine sia quello di

fornire maggiori opportunità ai piccoli produttori e ai lavoratori dei PVS

apportando, in tal modo, un contributo alla promozione di uno sviluppo sociale ed

economico durevole per le popolazioni. A più lungo termine gli obiettivi sono

quelli di orientare il sistema commerciale internazionale in un senso più equo.

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