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tesi di laurea triennale in psicologia clinica
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE
FACOLTÀ DI PSICOLOGIA
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE E TECNICHE DI PSICOLOGIA
GENERALE E SPERIMENTALE
“I giochi del familiare dipendente”
Dinamiche di dipendenza patologica tra analisi sistemica e analisi
transazionale
Relatore: prof. Sandro Candreva
Correlatore: dott.sa Cristina Innocenti
Candidato: Giovanni Bertoni (n. matricola: 4024434)
A.A. 2006/2007
1
I GIOCHI DEL FAMILIARE DIPENDENTE
DINAMICHE DI DIPENDENZA PATOLOGICA TRA ANALISI
SISTEMICA E ANALISI TRANSAZIONALE
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Sommario
INTRODUZIONE ............................................................................................................................................ 3
IL PARADIGMA FAMILIARE ..................................................................................................................... 5
IL PAZIENTE DESIGNATO ................................................................................................................................ 6 La designazione ........................................................................................................................................ 6
LE DIPENDENZE PATOLOGICHE .......................................................................................................... 16
La famiglia nella società ........................................................................................................................ 19
FAMIGLIA E TOSSICODIPENDENZA .................................................................................................... 21
I “RIFUGI DELLA MENTE”: LA TOSSICOMANIA COME AUTOTERAPIA ............................................................. 23 LA TIPOLOGIA .............................................................................................................................................. 24
CONTRIBUTI DELL’ANALISI TRANSAZIONALE .............................................................................. 29
ANALISI TRANSAZIONALE: INTRODUZIONE .................................................................................................. 29 IL COPIONE PSICOLOGICO: L’IO TRANSFERENZIALE ...................................................................................... 30 IL GIOCO PSICOLOGICO ................................................................................................................................ 36
La genesi dei giochi ............................................................................................................................... 36 La funzione dei giochi ......................................................................................................................... 37 L'importanza dei giochi .......................................................................................................................... 37
SAPER USCIRE DALLE CONSUETUDINI FAMILIARI ....................................................................... 39
VERSO LA DIFFERENZIAZIONE: TRA APPARTENENZA E SEPARAZIONE ................................................ 39 I miti ....................................................................................................................................................... 40 Il taglio emotivo ..................................................................................................................................... 41
PROGRAMMA TERAPEUTICO ......................................................................................................................... 41 Contributo Analitico-Transazionale ....................................................................................................... 42 Contributo sistemico .............................................................................................................................. 43
RIFLESSIONI ................................................................................................................................................ 46
PARELLELI TRA I MODELLI .................................................................................................................. 46 CONCLUSIONI ......................................................................................................................................... 47
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................................... 49
3
INTRODUZIONE
Le osservazioni che ispirano questo lavoro nascono dalla personale esperienza
all’interno di un comunità multifamiliare (gruppo di auto-aiuto) organizzata secondo il
metodo ecologico-sociale di Wladimir Hudolin nel trattamento di problematiche “alcol-
correlate”: i Club di Alcolisti in Trattamento. L'alcolismo è considerato uno stile di vita e il
trattamento di questa dipendenza non viene identificata con la cura in senso tradizionale,
sia perché la persona che presenta tali problemi non è un malato, sia perché, coerentemente
con una visione circolare e sistemica, qualsiasi cambiamento che si verifichi ad un livello
avrà ripercussioni anche sugli altri. Una delle peculiarità più interessanti di questi gruppi,
centrale anche nel trattamento di altre dipendenze (ad es. come dimostra l’esperienza di
Campoformio per quanto riguarda il gioco d’azzardo), sta proprio nella particolare
attenzione rivolta alla famiglia del “bevitore”. Riunite insieme, le famiglie hanno la
possibilità di comunicare, lavorano per raggiungere l'astinenza dall'alcol e dalle altre
droghe e per migliorare il proprio stile di vita, si impegnano a mantenere il Club sempre
aperto verso l'esterno per garantire la comunicazione, lo scambio e la crescita (Guidoni,
Tilli, 2004).
L’impatto emozionale decisamente coinvolgente delle riunioni settimanali e i dati
statistici sulla “efficacia” nella prevenzione delle “ricadute” nella spirale della dipendenza
portano la riflessione sul coinvolgimento della famiglia in questo tipo di dinamiche sia in
termini eziologici che prognostici.
Questo elaborato si propone di esplorare le dinamiche della dipendenza patologica in
relazione al sistema famiglia; verrà quindi adottata una prospettiva di base che permetta la
descrizione del fenomeno all’interno della cornice sistemico-relazionale. Verranno
considerati in tale prospettiva i concetti chiave di paziente designato e di dipendenza
patologica, per passare poi all’analisi della tossicodipendenza nella famiglia, essendo
questo fenomeno largamente studiato e comunque sovrapponibile ad altri comportamenti
dipendenti (Caretti, 2005).
Lontani dalla pretesa di essere esaustivi, si vuole costruire una ricerca sulle origini
della disfunzionalità che, ad una descrizione superficiale, appare interessare un singolo
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individuo, mentre in realtà si scopre implicare relazioni particolari e, in ogni caso, si rivela
coinvolgere e quindi condizionare l’intera famiglia.
Nel percorso che ci guida alla riflessione, affianco all’approccio sistemico, sarà
considerata la prospettiva analitico-transazionale. Per comporre il quadro finale ci
serviremo di concetti specifici di questo approccio quali quello di “copione”, di “gioco
psicologico” e quello di “carezze”.
Con il presente lavoro, ci si propone di individuare inoltre la direzione dei meccanismi
risolutivi e le risorse interne che possono essere innescate dal sistema famiglia stesso, atte
a sbloccare le abitudini disadattive che impediscono il cambiamento.
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IL PARADIGMA FAMILIARE
Secondo una leggenda indù in cima al palazzo del dio vedico Indra, c’è una rete di gemme
disposte in modo tale che se se ne osserva una si vedono tutte le altre riflesse in essa.
L’insieme va a comporre un complesso reticolo in cui ogni punto, ogni elemento, vive di
tutto l’insieme.
Tutti i modelli di terapia familiare sono di natura sistemica dal momento che
riconoscono l’interconnessione dei fenomeni individuali, familiari e sociali. Con
l’evoluzione del pensiero, si è assistito ad una radicale modificazione dei parametri teorici
originari in tutti i modelli della psicoterapia familiare, essi possono quindi differire
riguardo ad una molteplicità di aspetti (Madanes e Haley, 1977). La patologia è diventata
la faccia complementare della normalità. Si assegna al sintomo un significato positivo,
quale esperienza di individuazione, crescita, mezzo utile al sistema per raggiungere sue
finalità ecc. Esso costituisce il conflitto stesso, l’incapacità, il tentativo di risolvere il
problema in atto. Mentre l’osservatore fa distinzione tra normale e patologico i sistemi si
comportano in modo coerente alla loro organizzazione. Keeney B. proporne il concetto di
epistemologia ecosistemica, dove i sintomi diventano comunicazioni metaforiche circa
l’ecologia del sistema relazionale del paziente. Possiamo delineare una specie di traccia al
percorso di sviluppo del paradigma familiare:
- passaggio al modello di pensiero lineare a quello circolare;
- definizione dei sistemi viventi come permanentemente instabili: viene favorita
l’instabilità a scapito dell’equilibrio;
- privilegio assegnato alla imprevedibilità del sistema con maggiore attenzione al
caso;
- scelta del modello evolutivo, dove si ribadisce un maggior rispetto per la singolarità
di ogni famiglia;
- sostituzione del concetto dell’omeostasi con quello della coerenza, cioè del modo in
cui le parti si adattano verso l’interno, relativo al sistema, verso l’esterno, relativo
all’ambiente;
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- interpretazione positiva del sintomo quale agente di cambiamento ma anche quale
propulsore di una maggiore complessità del sistema;
- introduzione della complessità e dell’accoppiamento strutturale come passaggio
centrale dell’atto terapeutico. La causa e l’effetto si influenzano vicendevolmente e
i confini si confondono;
- recupero del tempo, o della storia, non come una piatta proposta di un passato che
“causi” il presente, ma nel senso di ritrovare una matrice su cui ricomporre e
comporre una vicenda umana;
Il paziente designato
Nella psicoterapia relazionale si considera particolarmente importante il “disturbo” del
paziente designato, che nel lessico relazionale è denominato comportamento sintomatico. Il
concetto di sintomo, traendo le proprie origini dalla medicina e dalla psichiatria, ha
cambiato la propria definizione nel corso dello sviluppo subendo negli anni una profonda
revisione. Nelle prime formulazioni il sintomo è un modello comunicativo che serve a
mantenere l’omeostasi, impedire il cambiamento; media all’interno della famiglia i
rapporti di vicinanza, intimità, separazioni. In terapia si ricercano ridondanze, retroazioni,
regole, circuiti che si automantengono. Comprendere il sintomo significa cercare le regole
del sistema. Le varie scuole hanno proposto una revisione e un’evoluzione di questi
concetti, oltre a diverse interpretazioni dei modelli di funzionamento normali e
disfunzionali della famiglia. Per Munichin la distinzione generale tra famiglia “normale” e
famiglia “anormale” ma particolarmente adeguata, è dovuta non all’assenza di problemi,
ma alla capacità di affrontarli e di adattarsi alle situazioni nuove che richiedono modelli
alternativi di funzionamento.
La designazione
La designazione, intesa in modo generico, è peculiare d’ogni sistema poiché è la
rappresentazione indicata delle nostre e altrui scelte. Costituisce l’attuazione di propositi
progettuali (presenti e futuri) d’investiture e di premesse, a volte rifiutati perché avvertiti
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non consoni, a volte accettate e altre ancora vissuti destabilizzanti o incongrui (Ragusa,
2006).
Consideriamo i seguenti vettori per la designazione del paziente:
1) chi designa;
2) cosa designa;
3) esiste l’auto designazione?
Il primo punto fa pensare ad una persona cosciente che prefigura un’azione verso
un’altra persona. L’azione (prefigurata e agita) parte così da se stesso ed è rivolta
all’esterno; il ricevente, a sua volta, esperisce una risposta incentrata sul proprio Sé e
relativa allo stimolo originario.
A livello sociale, il singolo soggetto opera un’astrazione di Sé, dà un significato alla
collettività che lo include e attraverso di essa ha un significato di Sé; ma è la collettività
che designa, non viceversa.
Cecchin, Lane e Ray affermano: “(...) la patologia è in buona parte il risultato di un
processo di costruzione in cui due sono le parti che interagiscono tra loro: su un versante,
la cultura dominante, coi suoi miti, i suoi pregiudizi, le sue credenze che definiscono i
criteri per distinguere il bello dal brutto, il sano dal malato, il normale dall’anomalo e così
via; sull’altro versante, il singolo individuo che, in quanto appartenente a quella cultura, ai
doppi legami che ne derivano, di cui cerca di farsi una ragione a cui cerca di sopravvivere “
(Cecchin e Altri, 1993).
Restringendo il campo nel rapporto individuo/famiglia (estesa o nucleare),
l’appartenenza assume connotazioni qualificanti più restrittive nel senso che nella famiglia,
si affermano i soddisfacimenti individuali dei bisogni primari; la dipendenza verso l’altro/i
necessita a sua volta di essere qualificata relativamente al rapporto (genitoriale, di copia,
della fratria, ecc.) e agli affetti ( per i genitori, per il coniuge, per i figli, per...). Quando
parliamo della famiglia e dei suoi membri come dobbiamo considerare la coscienza di
questo fenomeno? Rispetto all’accentramento che ogni membro riserva a sé e di quello che
vuole dagli altri; o relativamente all’idea che essi hanno della famiglia; o rispetto
all’impossibilità di manifestare i sentimenti, gli affetti e la dipendenza? Ovvero: si afferma
come cosciente (reale) l’esistenza di più individui a scapito di uno solo (famiglia
disimpegnata); oppure si afferma come reale “la famiglia“ e ognuno deve essere a
disposizione di essa (famiglia invischiata); oppure la realtà per eccellenza è il non mettersi
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in rapporto diretto privilegiando il gioco relazionale nascosto (famiglia a transazione
schizofrenica)?
Ovviamente non ci sono risposte precostruite, però quello che si osserva nelle famiglie
disfunzionali è che esiste una sola realtà: quella decisa “essere vera”, contro ogni
possibilità alternativa.
Secondo questa delineazione possiamo dedurre “chi” sarà il designatore del paziente:
in un caso saranno “i più potenti”, coloro che impongono sé ad una o più persone
servendosene per soddisfare il proprio ego (e tutto ciò che ne deriva); nel secondo caso
sarà l’”intero” sistema assoggettato all’unicità e unità familiare ed è disdicevole metterla in
discussione; nell’ultimo caso saranno gli attori che hanno iniziato la schermatura
relazionale, affettiva e di dipendenza.
Il fatto però che esiste “un” disegnatore, individuale o di gruppo, non è informativo (se
non in senso probabilistico) di chi sarà il paziente designato (verosimilmente può essere
uno, o più di uno).
L’analisi qui affrontata su “chi” designa il paziente è di tipo lineare, il tutto si complica
allorché analizziamo “cosa” designa il paziente, il che non equivale a stabilire la causa e la
natura della patologia, ma è rivolta alla designazione e alle sue spinte. Assumiamo che una
persona che prefigura (o agisce) un’azione verso un’altra è con essa in un rapporto ideale e
fisico tale che la realizzazione dell’azione sta alle due parti come le premesse stanno al
rapporto. Le premesse caratterizzeranno il rapporto che sarà bilanciato se queste sono
simili, sbilanciato se saranno diverse, nullo se le parti non si avvicineranno o se, una volta
avvicinatisi, decideranno di non proseguire il rapporto (ibidem). L’esempio, appena
riportato, fa intuire che la designazione passa per più stadi: ideale, attivo
(comportamentale), di confronto, decisionale; ove ogni tappa è conseguente alla risposta
ricevuta. All’ideale può succedere l’azione, ad essa segue il confronto che esperisce la
decisione. Il tutto non avviene in modo univoco ma interpersonale. La decisione riveste
molta importanza e dipende dalle premesse che, a loro volta, danno significato al rapporto.
Ai rapporti, e come si sviluppano, assegniamo quindi il vettore “cosa” designa il
paziente.
Consideriamo, innanzi tutto, le dinamiche nei rapporti duali. La tipologia del rapporto è
qualificata in: simmetrico, complementare, copertamente simmetrico. Il coinvolgimento (e
la sua natura) assegna al rapporto il potere di renderlo rigido o chiuso, plastico o aperto.
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Ogni rapporto però si configura in un contesto che è fisico e astratto, e si costruisce
attraverso le convenzioni nonché dalle premesse. La complementarità rigida “annuncia”
che la regola del rapporto è definita (implicitamente o no) da una sola parte, l’altra la deve
accettare e assumersene le conseguenze; accettare e obbedire; rifiutarsi e abbandonare il
campo; e altro. Sono però i contesti d’applicazione che fanno le dovute differenze e, volta
per volta, qualificano la relazione fra le parti. Nel rapporto 1:1, il rifiuto della
complementarità rigida e lo stare al gioco, porta il “soccombente “ a voler modificare i
termini del rapporto. Questo rifiuto può configurarsi in una relazione simmetrica aperta o
coperta (se la negazione è esperita in modo subdolo, falsamente accondiscendente). In
entrambi i casi, le strategie utilizzate per mantenere la leadership da un lato e portare il
rapporto alla pari dall’altro, sono confinate nel campo d’azione della “lotta per il potere”.
Le strategie, intese come risposte comportamentali, si esperiscono nella direzione
dell’adeguamento o del cambiamento.
Una simile configurazione ha significato se consideriamo i due attori legati a loro volta
ad un sistema relazionale più allargato. Dalla complessità infra-sistemica (caratterizzata da
leggi, religioni, ideologie, ricchezza, e altro), si sviluppano le inevitabili interrelazioni fra
individui. E’ in questo complesso intreccio relazionale che i rapporti 1:1 si strutturano nelle
diverse forme e sfumature.
Tornando alla complementarità rigida: l’attore della designazione è colui che impone le
regole della relazione o colui che le vuole cambiare? Allorché la “necessità” al
cambiamento avanza da un solo versante (quello svantaggiato), i contendenti attingeranno
alle proprie strategie per imprimere nell’altro, parte di sé dando così inizio ad un qualcosa
che esula dall’innamoramento, collaborazione, scambio, accettazione, dipendenza
reciproca. Allora uno esiste per quello che potrebbe essere ed è rifiutato per quello che è;
l’altro invece esiste per quello che era ed è rifiutato per quello che è diventato. Si delineano
le squalifiche e le sconferme (coperte o scoperte) che riducono gli scambi alla mera
necessità di trovare la ragione, magari servendosi di altri: nascono così le alleanze e nella
contesa ognuno è il disegnatore dell’altro.
Il salto verso la diatriba può realizzarsi anche relativamente ai rapporti genitore-figlio
qualora uno dei due presenti dei cambiamenti che destabilizzano il rapporto. Non è detto
che il rifiuto al cambiamento provenga dal genitore, può realizzarsi anche nel figlio.
Il cambiamento che destabilizza un rapporto può essere indicativo della precipitazione
alla sintomatologia ma non della designazione, essa è precedente e sta nel modo in cui era
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organizzato il sistema. Oppure la designazione può avvenire successivamente al
cambiamento. (Questa distinzione risulterà poi utile quando verranno distinte le due
categorie base della famiglia del paziente dipendente).
Le triangolazioni e il modo in cui si configurano sono relazioni più complesse, d’ordine
superiore a quelle diadiche e per questo ancora più illuminanti per approfondire “cosa”
designa il paziente. Caliamoci da subito nelle triangolazioni disfunzionali intese tali perché
le strategie impiegate bloccano (irrigidiscono) una parte del sistema a vantaggio
d’inconfessabili obiettivi che le parti intendono raggiungere. La triangolazione perversa
pone il seme nell’indicibilità e cresce nella mobilità dei rapporti duali contro un terzo,
mobile pure lui nella distrazione per altre cose o nella ricerca mascherata d’alleanze. Le
triangolazioni, con tutti gli inganni, imbrogli e istigazioni, spiegano in parte “cosa” designa
il paziente. Esse si distinguono per l’aspetto strumentale e trasversale, vale a dire:
utilizzare qualcuno contro di qualcun altro per il raggiungimento del proprio fine, disgiunto
dal fine dell’altro, presupponendo il compromesso ma con l’interesse per la
“rivendicazione“. Se immaginiamo che le parti così interagenti abbiano ognuno un proprio
obiettivo da realizzare, allora l’intero gioco ruota nell’incitamento del proprio
soddisfacimento: la speranza è l’ultima a morire e l’obiettivo è il primo a nascere.
La posizione del designato paziente è molto particolare: lui non ha un obiettivo proprio
all’interno del gioco: è il vessillo degli scopi altrui, è l’interprete delle insoddisfazioni
altrui più che di se stesso. E’ questa sua posizione che lo pone a rischio.
Nei rapporti affettivi è di solito preminente il soddisfacimento dei propri e altrui
bisogni; l’affettività esclude per definizione la comprensione dei giochi: il sostenitore degli
affetti, vive il proprio Io variamente dipendente dagli altri.
Nelle famiglie a transazione schizofrenica non c’è chiarezza, spontaneità e coerenza nei
messaggi; si creano coalizioni che nascondono imbrogli e inganni; l’istigazione contro una
coalizione è funzionale alla lotta per il potere. Il paziente designato, oltre a non avere
questa chiarezza (è solo presunta), ha una ridotta comprensione dei giochi: a livello
fenomenico sa “chi fa-cosa-a chi-quando”, sul piano personale sa “con chi sta (non sta)
bene-quando”. In generale, però, non sa “chi sta (non sta) bene-con chi-perchè”. Il gioco
nudo, e crudo è inaccessibile, quel che comprende ad un livello non può comprendere e
dedurre ad un altro. La comprensione distorta dei rapporti - e la non conoscenza delle
premesse che li hanno originati - non fanno desistere il designato paziente dalla
partecipazione attiva. Egli ingloba in sé i meccanismi del gioco, che originano spirali
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emotive (rabbia, tristezza, paura, gioia, ecc.) controverse e confusionali. Il gioco ha la
meglio, gli obiettivi non sono i propri ma quelli degli altri che si guardano bene
dall’esprimerli; la conoscenza di sé si riduce a livello d’automatismi comportamentali
(tipici del nei comportamenti rituali della dipendenza) guidati dalla contesa e dagli affetti
dissimulati.
Nei rapporti diadici, contraddistinti dall’escalation (coperta o scoperta), avevamo
indicato le premesse, il coinvolgimento, lo sviluppo e l’organizzazione del sistema, come
fondanti per la designazione. Avevamo pure visto che nella contesa ognuna delle parti
aveva un proprio e diverso obiettivo da perseguire, e in questo avevamo affermato che
c’era designazione reciproca. Riguardo alle triangolazioni perverse, abbiamo assegnato alla
aspecificità, contro la peculiarità degli obiettivi inerenti al gioco, il potere della
designazione del paziente. Alla luce di ciò possiamo riassumere “cosa” designa il paziente
nel seguente modo: nei rapporti duali con escalation (coperta o scoperta) è il “grado” di
coinvolgimento delle parti interagenti che assegnerà il “primato” per la designazione. Nelle
triangolazioni sarà l’intensità del coinvolgimento, unitamente all’assenza di propri e
peculiari obiettivi da sostenere nel gioco, che designeranno il paziente. La possibilità è
stare fuori della contesa o avere un personale fine per sostenere il gioco relazionale.
Gli eventi naturali e quelli causati dall’uomo possono essere decisivi per l’azzeramento
della designazione o, al contrario, per l’insorgenza sintomatica. Il salto distintivo fra queste
due possibilità sta nella riorganizzazione personale, sistemica e infra-sistemica. Ancora una
volta facciamo dipendere la causa della designazione dalla strutturazione dei rapporti fra sé
e gli altri, fra sé e il sottosistema, fra sistema e sistema. La riorganizzazione personale, va
intesa, non solo relativamente alle spinte interne di motivazioni, elaborazioni di sé,
investimento delle proprie risorse e quant’altro ma anche in concomitanza agli
aggiustamenti con l’esterno (come ad esempio la terapia). L’evento implica un passaggio,
il mutamento di qualcosa verso qualcos’altro. In generale siamo portati a considerare gli
eventi come qualcosa d’evidente che accade: l’evento è sotto gli occhi di “tutti” anche se
poi ognuno lo vive con significati e valenze emozionali diversi. Proviamo a ragionare per
riduzione. Sappiamo che la parola è uno strumento di comunicazione. Un’affermazione è
un evento se in una relazione porta le persone a comportarsi diversamente da come fino a
quel momento si sono comportate (Austin, 1962); oppure se dà inizio ad un nuovo rapporto
e organizzazione.
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Le affermazioni “lei è assunto nella nostra ditta”, o “non ti amo più”, fanno supporre
un mutamento, un passaggio da una situazione ad un’altra; com’è ovvio, gli eventi esulano
dalle regole, ridondanze, stabilità.
Le affermazioni-eventi le consideriamo univoche, se al loro pronunciamento non
seguirà la smentita o rettifica; ambivalenti in caso contrario. L’univocità e ambivalenza
vanno rapportate e combinate rispetto al tipo di comunicazione già esistente. Vale dire: se
vige una comunicazione reticente, ambigua, criptica, allora la chiarezza e univocità
dell’affermazione assume un rilievo molto elevato, sorprendente, destabilizzante. Ciò vale
anche per le comunicazioni aperte e spontanee, qualora s’inserirà un’affermazione
ambigua. L’altra faccia della comunicazione è quindi l’evento affermazione; questi micro
eventi accadono in ogni sistema e la loro forza e tanto più significativa quanto più rimane
impressa nella “memoria del sistema”. Essi dirigono i comportamenti, fanno muovere con
cautela o di scatto, oppure fanno agire la discussione o mantenere il silenzio. Accada quel
che sarebbe dovuto accadere, ma hanno la loro importanza per imprimersi nella
disfunzione e reciderla o farla montare. Sono micro eventi che possono designare chi li
pronuncia ma possono anche designare chi li riceve; non c’è segno, non c’è direzione. Sta
alle persone scegliere cosa fare.
La semplificata disamina di “cosa” designa il paziente non può ora aiutarci a fare il
salto per capire e definire chi è il fautore della designazione. Indicare un attore è
semplicistico e non aiuta a comprendere la vastità e complessità di cui è fatto un rapporto.
Non aiuta a comprendere le implicazioni emozionali, sentimentali e comportamentali delle
persone. Non si può comprendere le tensioni che intercorrono fra le parti, che si sciolgono
come neve al sole per uno sfuggevole sorriso, una carezza, uno sguardo dolce, ecc., e che
repentinamente si ricongelano. Delle attese pazienti che cozzano contro l’impazienza; e
altro.
È molto più fruttuoso invece ravvisare chi sono i partecipanti alla designazione,
superando così la verità unica di un solo soggetto responsabile. Quindi, alla domanda “chi”
designa, si può asserire che è “il sistema d’appartenenza”.
Veniamo così a discutere il terzo punto: esiste l’auto designazione? Ovvero,
l’appartenenza ad un sistema disfunzionale ci deve far pensare al paziente designato come
la vittima per eccellenza o come partecipante al gioco relazionale ove anche il designato è
un designatore ma poi perde la partita?
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Cosa c’è nella mente degli altri che lui non sa e cosa c’è nella sua mente che gli altri
non sanno? Si può ritenere che egli sia oggetto del “volere” altrui e soggetto del suo
“volere”, come gli altri sono oggetto del suo “volere” e soggetti del proprio: che però non
s’incontrano a scapito dell’individualità intesa come unità inviolabile e indivisibile. Gli
interventi paradossali e i drammatici miglioramenti devono farci riflettere.
“Nella fase paradossale (...) il terapista in realtà non diceva affatto quello che pensava
(...) ma faceva un uso strategicamente provocatorio di tale interpretazione funzionalista”
(Selvini, Palazzoli e altri, 1988). “Abbiamo potuto verificare che l’ipocrisia del terapista
paradossale diventava pericolosa soprattutto nelle terapie che si prolungavano nel tempo”
(ibidem).
La provocazione e ipocrisia qui citati potrebbero intendersi in modo diverso. La
funzione sacrificale, attribuita al paziente designato, ha lo scopo di provocarlo per muovere
in lui le energie ed emozioni sane. Ha anche lo scopo di permettergli di riconoscersi come
individum in un sistema per lui vitale. Gli consente di capire il gioco relazionale in atto a
suo svantaggio. Queste comprensioni attivano reazioni per staccarsi dal gioco al massacro
di cui fa parte in modo inconsapevole. Dal distacco può finalmente scaturire
l’accrescimento del proprio Sé prima negato e soffocato.
Cosa c’è di falso su quanto i terapisti dicono che è vero per il paziente designato e il
suo sistema? Cosa c’è di vero per i terapisti che è falso per le persone in trattamento?
Consideriamo che il paziente designato non possieda propri obiettivi inerenti al gioco
familiare. Allora gli interventi paradossali danno a lui un elemento per invertire e
distruggere la transazione disfunzionale; e di conseguenza danno ai parenti lo stimolo per
rivedere i loro comportamenti verso il paziente. Le triangolazioni perverse non possono più
reggersi, si approda quindi alla dualità disfunzionale e si farà “cadere” e poi risollevare la
parte più debole.
L’intervento paradossale è falso perché parla di sacrifici ma allo stesso tempo è vero
perché svela i rapporti nelle dissimulazioni. E’ vero, quindi, perché dà la possibilità al
paziente designato di cambiare le regole del gioco relazionale; ed è falso perché la
transazione non è più quella nel momento in cui è svelata. Questo rinvia l’ipocrisia del
terapista. È lui ad essere ipocrita perché non può dire chiaramente quel che pensa, o sono
ipocriti gli altri che dell’ipocrisia ne hanno fatto un motivo di vita? (Ragusa, 2006).
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Allorché il compito del terapista è di annientare la patologia e cambiare le relazioni
disturbanti, allora il terapista non è ipocrita: è il costruttore di nuove relazioni, nuove
dimensioni affettive, chiarimenti, prospettive.
In generale, fare sentire una persona vittima degli altri non l’aiuta a trovare vigore per
uscire dalla sua prigione, sarebbe un ulteriore annichilimento, svilimento del suo Io. Invece
tramutare il sintomo in un’attiva funzione per gli altri, restituisce vigore, riorientamento,
integrità personale del paziente designato; al contempo inizia un processo d’individuazione
e responsabilizzazione di sé. La funzione ridefinisce come volontario e a vantaggio degli
altri il sintomo e in questo si svela un mondo di cui non abbiamo conoscenza ma si può
ipotizzare essere “l’inconscio relazionale” (ibidem). Non c’è nulla d’inconscio
nell’individuo, ciò che è inconscio è esterno a noi è sta fra l’”Io e ciò che è altro da me”.
L’Io del paziente designato si perde proprio nell’altro, e solo nell’altro lui può ritrovarlo:
forse questo spiega la sua partecipazione al gioco disfunzionale e il drammatico
miglioramento all’intervento paradossale.
Così inteso, il paradosso terapeutico non è solo provocazione ma ritrovamento di sé;
l’inconscio relazionale, una volta svelato, diviene la coscienza del paziente designato che
può “vedere” come ha partecipato alla sua rovina.
Nei rapporti affettivi, è più il disinteresse per il gioco disfunzionale - piuttosto che la
comprensione - ad escludere un individuo dalla designazione. Va da sé che chi è escluso
dalla designazione vede con occhi diversi quanto accade (anche se il gioco non è detto che
lo comprende) però preferisce non perdere il vantaggio prendendo le parti del designato.
Chi è escluso dalla designazione di paziente, di solito riveste un ruolo ben definito in
seno al sistema; diverso è invece per il paziente designato: egli occupa un ruolo
d’inclusione falsamente privilegiato e realmente destabilizzato. È sull’incluso che si
polarizzano i messaggi (verbali e analogici) disturbati. Il punto è: l’inclusione e
l’esclusione avvengono per prove ed errori o sono mirati? Dipende dai conflitti personali e
dagli sviluppi relazionali di questi conflitti: se consideriamo che essi per definizione sono
fluttuanti e intermittenti, allora è facile pensare che l’inclusione/esclusione avviene per
prove ed errori, secondo gli aggiustamenti interpersonali. Se l’incluso risponde in modo da
non alleviare (temporaneamente) il conflitto personale e/o relazionale allora sarà escluso
dalla designazione; se invece le sue risposte alleggeriranno le tensioni o lo stato di
conflitto, la sua inclusione diventa funzionale per la designazione di paziente. Quindi non è
solo, la non comprensione o la comprensione parziale, di quel che accade che lo designa,
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ma le risposte che dà agli input che gli arrivano e come gli emittenti canalizzano la
risposta. Per inciso, le risposte vanno intese nella vastità con cui si manifestano:
comportamentali, mimiche, verbali, d’avvicinamento/allontanamento, ecc. Una volta
stabilizzata l’inclusione, le parti (o la parte) non necessitano più di fare proseguire la
ricerca per alleviare lo stato di tensione: l’inclusione diventa mirata (ibidem).
Il tempo (arco evolutivo) e lo spazio (sociale/culturale) possono aiutare o inibire la
costruzione patologica: la crescita e il contatto con l’esterno possono dissolvere o
rincrudire la designazione. In questo interregno il designato può scegliere: spogliarsi della
designazione o precipitare nella patologia. La scelta non è facile. Forse perché all’esterno
non sempre trova le risposte giuste; o forse perché l’ambiente esterno non lo coinvolge
come il suo sistema; o forse perché la decostruzione della designazione mobilita il sistema
in senso inverso; o forse per tutti questi e altri motivi. La sua libertà di scelta è ridotta ma
può sempre scegliere (ibidem).
In sintesi, esiste un concorso di tutti e tre i vettori per costruire la designazione del
paziente. La soluzione sintomatica è l’ultima risorsa strategica, quando si realizza ha inizio
un relativamente, nuovo gioco relazionale.
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LE DIPENDENZE PATOLOGICHE
"Innumerevoli come le sabbie del mare sono le passioni umane. Tutte dissimili, le basse
come le nobilissime, sono all'inizio soggette all'uomo, per diventarne soltanto di poi le
inesorabili dominatrici"
Gogol – Le anime morte
Si definisce con l’espressione dipendenza patologica una forma morbosa determinata
dell’uso distorto di una sostanza, di un oggetto o di un comportamento; una specifica
esperienza caratterizzata da un sentimento di incoercibilità e dal bisogno coatto di essere
ripetuta con modalità compulsive; ovvero una condizione invasiva in cui sono presenti i
fenomeni del crawing, dell’assuefazione e dell’astinenza in relazione ad un’abitudine
incontrollabile e irrefrenabile che il soggetto non può allontanare da sé (Caretti, 2005). Il
crawing è un importante manifestazione della dipendenza e può essere definito come
un’attrazione di intensità variabile nei confronti di determinate sostanze psicotrope
d’abuso. Rappresenta una condizione fisiologica comune alla maggior parte degli esseri
umani quando rimane entro una certa soglia (Caretti, La Barbera, 2005).
Peele (1985) ha messo in evidenza in “The Meaning of Addiction” che la dipendenza
può scaturire da qualsiasi potente esperienza la cui sensorialità ha lo scopo di alleviare il
dolore, l’ansia o altri stati emotivi negativi attraverso una diminuzione della coscienza o un
innalzamento della soglia di sensibilità e, pertanto, tutte le esperienze efficaci nell’alleviare
il dolore potranno inevitabilmente essere fonte di dipendenza.
Nel trattamento della dipendenza si considera un “oggetto delle brame”, come lo
definisce Cancrini, capace di soddisfare un numero elevato di esigenze diventando assoluto
protagonista della vita. Questo oggetto arriva a soddisfare nel tempo tre bisogni
fondamentali.
- il primo bisogno si gioca sul piano del piacere o allevia una tensione. È il bisogno
più evidente di felicità o anestesia, di appagamento ideale o pace dell’anima;
- il secondo, meno evidente, si basa su un contrasto al disegno consapevole della
persona, alle sue attese apparenti e a quelle più o meno naturali di chi gli sta
17
intorno. La dipendenza è definita con parole ed atti come ciò che rende incapaci di
lavorare, amare, divertirsi, di vivere una vita normale;
- il terzo è simbolico e compensatorio, e si gioca sul piano della trasgressione,
dell’essere e presentarsi diverso, fuori delle regole e dalle abitudini che segnano le
routines inaccettabili della normalità, la banalità di chi vorrebbe insegnarti a vivere
in un modo che è il suo e non il tuo. L’oggetto delle mie brame diviene
rapidamente un modo assurdo di darsi obbiettivi ravvicinati, sostitutivi di quelli
normali;
Parliamo di dipendenza proprio quando l’orizzonte si restringe attorno ad un solo
oggetto su cui la persona si concentra o su cui sente di poter riflettere tutti i sui bisogni e i
suoi desideri. Si tratta di un coinvolgimento totale della persona, uno stravolgimento
completo del suo assetto motivazionale, una attivazione sistematica e praticamente
continua intorno all’oggetto che non riesce ad essere “integrato”. Scegliendo un farmaco
proibito come l’eroina e la cocaina, facendo un uso smodato di una sostanza che proibita
non è come l’alcol, adottando un comportamento rischioso come il gioco d’azzardo o
cercando in maniera esagerata conferme basate sull’ammirazione degli altri e/o
sull’esercizio di potere: sono tutte situazioni caratterizzate da uno squilibrio personale reso
stabilmente drammatico dall’incontro con l’oggetto delle brame o con l’abitudine di cui la
persona diventerà dipendente; incontro regolarmente preceduto da un insieme di esperienze
di difficoltà.
Una ricerca esemplare, in proposito, è quella di Shedler e Block (1990). Lavorando su
un campione stratificato di centocinquanta bambini di tre anni seguiti fino al compimento
del diciottesimo anno di età, questi autori hanno misurato con accurati esami, ripetuti ogni
due anni, l’insieme complesso dei dati relativi all’integrazione familiare e sociale,
considerati come indici significativi della salute psichica di questi bambini. Un secondo
gruppo di ricercatori, esperti di problemi di droga, ha esaminato questi stessi ragazzi a
diciotto anni, senza conoscere le osservazioni fatte fino a quel momento. Concentrandosi
sul tipo di rapporto che essi avevano avuto o avevano ancora con le droghe illegali, questo
secondo gruppo di ricercatori ha suddiviso il campione in tre grandi categorie: quella degli
astemi, che avevano rifiutato in toto le sostanze proibite; quella degli explorers, che le
avevano provate episodicamente, e che non dimostravano alcun tipo di interesse per
l’esperienza fatta; e quella dei consumatori problematici, che avevano conosciuto le droghe
e ne avevano subito sentito il fascino. Questi giovani avevano già ripetuto l’esperienza,
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affermando di essere insieme interessati e spaventati, oppure dimostravano comunque nei
suoi confronti un livello di coinvolgimento emozionale significativo. Incrociando questi
dati con quelli raccolti dal primo gruppo di ricercatori, ci si trovò di fronte ad una
coincidenza spettacolare: i ragazzi che avevano problemi con la droga a diciotto anni erano
gli stessi che avevano presentato evidenti problemi di integrazione familiare e scolastica, in
anni precedenti al loro incontro con gli stupefacenti. Quelli che i protocolli di ricerca
definivano come i “più sani” si trovavano a diciotto anni, nella categoria degli explorers.
Le storie degli astemi erano di livello intermedio: essere astemi non voleva dire, secondo i
ricercatori più sani degli altri: voleva dire esserlo un po’ di meno e aver sanamente paura
della propria fragilità.
Cancrini allinea il significato psicologico della dipendenza alle ricerche degli ultimi
cinquant’anni sul funzionamento borderline. In una semplice definizione, funzionare a
livello borderline, ci dice l’autore, significa essenzialmente dare giudizi estremi (del genere
o bianco o nero) su noi stessi e sulla realtà che ci circonda. La mente che funziona a questo
livello giudicherebbe tutto buono o tutto cattivo, senza sfumature, con forti difficoltà a
cogliere le gradazioni di positività o negatività in una stessa persona o in uno stesso
oggetto. Per un bambino piccolo che vive un angoscia di separazione, una madre presente è
una nutrice buona e meravigliosamente disponibile che lo rende felice e riconoscente, e
una madre assente è una strega terribile che lo rende pieno di odio e di rabbia. Solo verso i
tre anni, quando il piccolo può ricordare con chiarezza la madre che c’era e immaginare
mentalmente quella che ci sarà di nuovo, questa fase critica viene superata. Il superamento
dell’angoscia di separazione segnala la raggiunta stabilità del rapporto con l’oggetto
d’amore. Dal punto di vista che qui ci interessa, indica l’integrazione della madre cattiva
(assente) con quella buona (presente) preparando, secondo Margaret Mahler, il bambino
agli aspetti maturativi della separazione che seguirà la sua reale nascita psicologica.
Nello sviluppo normale, la capacità di integrare le rappresentazioni buone e cattive
dell’oggetto aumenta gradualmente con l’età e raggiunge (o dovrebbe raggiungere) i
massimi livelli nell’età adulta. Capaci di rispettare se stesse e gli altri, le persone mature
basano il loro equilibrio sulla consapevolezza della propria e dell’altrui imperfezione,
osservando criticamente lo svilupparsi di emozioni unilaterali. La tendenza a regredire
verso posizioni più primitive, tuttavia, esiste sempre in situazioni di particolare tensione:
nei passaggi evolutivi critici (adolescenza-svincolo, nascita di un figlio, ecc.), nel momento
del lutto e della perdita (cui tipicamente si reagisce funzionando, per un certo tempo, in
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modo borderline) e negli entusiasmi basati sull’identificazione proiettiva con un idea o con
una persona, nell’innamoramento e nella scelta delle illusioni cui dedicare la propria vita.
Possibile sempre, anche nelle persone più sane e mature, la regressione a modalità di
funzionamento borderline è evidentemente più facile in molte altre che lo sono meno.
Quando si tenta di capire che cosa è successo in questi casi, ci si rende conto regolarmente
che il processo di maturazione caratteristico delle persone più sane si realizza solo se il
bambino cresce in un ambiente favorevole e non va incontro a incidenti gravi. Quando il
piccolo si sviluppa in un ambiente sgradevole, dove gli adulti si scontrano di continuo o
non si scontrano mai, dove non riceve sicurezza e gli mancano le cure (o carezze,
nell’accezione di Steiner) di cui a bisogno, la sua personalità resta segnata dall’esperienza
fatta su linee che sono ad essa logicamente collegate.
A partire dai primi anni ’80 è iniziato un lavoro sistematico di collegamento tra i dati
relativi alla storia personale del tossicomane e quelli relativi alle caratteristiche della sua
interazione con la famiglia e il “farmaco”.
La famiglia nella società
Dalle narrazioni personali dei tossicodipendenti risulta con chiarezza la straordinaria
importanza, nel bene e nel male, delle razioni con cui questi gruppi di persone,
significative per il tossicomane, rispondono alla sua sfida o alla sua domanda di aiuto. Più
che testi sulle tossicomanie occorre utilizzare, a questo scopo, studi e ricerche dedicati alla
psicologia dei piccoli gruppi e alla teoria delle famiglie. Una cosa è tuttavia assolutamente
certa: fra tutte le razioni dell’ambiente sociale, quelle della famiglia del tossicomane
(soprattutto nel caso dei giovani) e degli altri piccoli gruppi sono di solito le più importanti.
Possono agire infatti come punti di riferimento per resistere alla pressione e alle sofferenze
cui l’individuo è sottoposto, oppure, al contrario, per moltiplicare le sue difficoltà.
Negli ultimi anni ci si è accorti di come è possibile studiare questi piccoli gruppi, non
come gruppi chiusi, ma come sistemi aperti alle pressioni di un ambiente, alle cui esigenze
debbono continuamente adattarsi.
Nel caso della famiglia, è stato possibile vedere che la differenza sociale ed economica
e (oppure) la difficoltà di inserirsi o di adeguarsi a modelli culturali dettati dall’esterno
sono cause frequenti sono cause di tensioni tra famiglie e ambiente. Specchio di
contraddizioni che crescono fuori di lei, la famiglia può riproporre nel conflitto fra padre e
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madre, fra genitori e figli, i conflitti economici della società in cui si vive. In oltre la
mancata realizzazione personale, umana dei sui membri, produce crisi e contrasti che
possono avere effetti molto gravi.
L’insieme di queste considerazioni ha conseguenze importanti. Da un punto di vista
teorico, esse ci hanno permesso di capire qualcosa di più dei disturbi psichiatrici e altre
forme di devianza, nel senso di allentamento da ciò che si ritiene normalità. La famiglia
può essere certo considerata come un sistema attraverso il quale si trasmettono le pressioni
esercitate sull’individuo dall’ambiente sociale più vasto. Di questo ambiente dunque essa
trasmette non solo i valori, ma anche le contraddizioni ed il disagio. In questo senso la
famiglia è il contrario di un rifugio e non può essere considerata come l’ultima spiaggia
sana di un mondo contaminato.
21
FAMIGLIA E TOSSICODIPENDENZA
L’interesse dei terapeuti a orientamento sistemico e relazionale per le tossicomanie
giovanili si inserisce nella linea di ricerca che si occupa del disagio manifesto dagli
adolescenti o dai giovani adulti all’interno del più ampio sistema sociale. Rispetto ai
terapeuti di orientamento diverso, i terapeuti familiari hanno avuto il vantaggio di poter
usufruire di strumenti di lettura e di intervento adeguati nel momento in cui si è “potuto”
guardare al tossicomane non come singolo portatore di “malattia”, ma come persona in
difficoltà all’interno del contesto interpersonale in cui vive.
Minuchin e Haley sono stati i primi due studiosi in campo sistemico che si sono
interessati alle caratteristiche relazionali delle famiglie dei giovani tossicomani. Minuchin
in Families of the Slums (1967) si è occupato delle famiglie in cui il sintomo è la
delinquenza fornendo un modello di lettura dei pattern comunicativi e della struttura
familiare in situazioni di “devianza sociale”. Haley, con Il distacco della famiglia (1980),
ha fornito un importante contributo soprattutto rispetto alle strategie terapeutiche adatte
con famiglie in cui il ritorno rappresenta il fallimento di un giovane adulto nel portare a
compimento il proprio processo di differenziazione della famiglia.
Negli anni settanta sono state esplorate ipotesi che vedevano il tossicodipendente
all’interno di famiglie disimpegnate, dove i singoli membri sembrano ignorarsi e muoversi
all’interno di orbite isolate, oppure eccessivamente invischiate, dove i confini
generazionali non vengono definiti provocando una grossa confusione di ruoli (Minuchin,
1974). Altre ipotesi indagate in questo periodo focalizzavano il coinvolgimento del
tossicomane e la funzionalità della tossicomania all’interno del conflitto della coppia
genitoriale: coppia generalmente caratterizzata da perifericità (Wolk e Diskirk, 1961),
inefficienza (Wellish, Gay e McEntre, 1970), distanza (Schwartzmann, 1975) o
autoritarismo (Bergeret, Fain e Bandelier, 1983) del padre, controbilanciati dal
coinvolgimento eccessivo e della centralità della madre. Studi della struttura e
dell’organizzazione del gruppo familiare del tossicodipendente, correlati ai processi di
socializzazione e sviluppo dei processi comunicativi, ha messo in evidenza una serie di
caratteristiche individuali e interpersonali:
a) un alto grado di conflittualità nei rapporti interpersonali (Chein, 1964; Harbin e
Mazier, 1976);
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b) le madri dei tossicodipendenti sono state spesso descritte come donne iperprotettive
e indulgenti, il cui comportamento produce un figlio dipendente (Rosemberg,
1971);
c) i padri sono stati descritti come individui deboli e passivi o freddi e ostili, con
difficoltà di contatto e comunicazione coi figli (Rosemberg, 1971; Friedman,
1987);
d) i tossicodipendenti sono stati descritti come individui che non sono riusciti ad
integrare le loro crisi di adolescenza (Bergeret, Fain e Bandelier, 1983);
e) numerose ricerche rivelano l’abitudine dei genitori di abusare di alcol o di utilizzare
farmaci (in particolare psicofarmaci) in ogni situazione di stress (“Sapere”, agosto-
settembre 1975);
I lavori di ricerca di Stanton e Todd (1982) individuano nella famiglia del
tossicodipendente una struttura tipica, essa cioè si presenta come un gruppo in cui il
“paziente designato” è strettamente coinvolto con il genitore di sesso opposto, mentre
esiste una frattura conflittuale con il genitore dello stesso sesso e tra i due genitori. Tale
tipo di rapporti ha le proprie radici in una famiglia che non ha saputo adeguarsi alla
naturale maturazione del figlio e al suo distacco da essa, fermandosi ad uno stadio del ciclo
vitale che può situarsi tra la preadolescenza e l’adolescenza del figlio. I due autori, tra i
fattori che caratterizzano le famiglie con problemi di tossicomania, hanno trovato che:
a) esiste un alta dipendenza “chimica” ripetuta in più generazioni dello stesso gruppo
familiare (in particolare l’alcool fra i maschi) a cui si aggiunge anche una
inclinazione verso altri comportamenti a rischio come, ad esempio, il gioco
d'azzardo
b) l'espressione della conflittualità è più impulsiva e diretta con alleanze ben
dichiarate tra tossicomane e genitore ipercoinvolto;
c) il comportamento dei genitori è di qualità “manifestamente non schizofrenica”;
d) le madri dei tossicomani mostrano di prolungare notevolmente il rapporto
simbiotico con i propri figli;
e) prevalgono tematiche di morte, e sono spesso presenti casi di morte prematura o
improvvisa.
23
A conferma dell'iniziale premessa, in ogni caso, esistono altre strutture di famiglie con
problemi di tossicomanie descritte in letteratura.
Il tossicodipendente presenta all’interno della famiglia un comportamento ambivalente:
indipendente, chiuso in sé stesso, aggressivo in una serie di manifestazioni, mentre in altre
si mostra infantile e dipendente. All’illusione di individuazione e di dipendenza del
tossicomane contribuisce in oltre il ruolo di “competente” che egli ha della sua sottocultura
(dove riesce a guadagnare o comunque ad organizzarsi adeguatamente per procurarsi
l’oggetto delle brame), ma la competenza è circoscritta al suo gruppo incompetente o
comunque in qualche modo “handicappato” sul piano sociale (Malagoli Togliatti e altri,
1981).
I “rifugi della mente”: la tossicomania come autoterapia
Lo studio clinico della tossicomania dimostra che l’uso dei farmaci da parte del
tossicomane può essere considerato, sul piano motivazionale, come un tentativo, elusivo e
sbagliato, di autoterapia. È come se si verificasse un “incontro fortunato” tra gli effetti
propri del farmaco e le esigenze proprie di una persona e/o del sistema interpersonale di
cui fa parte.
Ciò che emerge, attraverso la ricerca dei centri che si occupano di tossicodipendenze
(Cancrini, Carosi e Mazzoni, 1986) è che la tossicodipendenza è un disturbo non specifico:
la dipendenza dalle droghe, legata a fattori di trasmissione intergenerazionale e
socioculturale, si mette a disposizione dei conflitti interpersonali e/o intrapsichici più
diversi (Andreoli, Cancrini e altri, 1988).
Già quasi venticinque anni fa Lesieur (1984) sosteneva che, tanto per l’uso di sostanze,
quanto per il ricorso al gioco d’azzardo, non si potesse parlare di mera e semplice ricerca
per il piacere, ma della creazione di un esperienza dissociativa transitoria che permette al
soggetto di uscire temporaneamente dalla sua realtà al fine di risolvere una condizione di
disagio persistente e di percepirsi in modo più positivo. In questo senso i fenomeni della
dipendenza sono valutati in relazione hai fenomeni micro/macro dissociativi valutati lungo
un continuum di uno spettro il cui elemento comune sarebbe quello del ricorso a esperienze
di isolamento e di sottrazione del Sé dalla realtà, quando questa è causa di tensioni e
angosce che non possono essere elaborate e trasformante nell’ambito dello stato di
coscienza ordinario (Caretti, DiCesare 2005).
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Steiner (1993) definisce queste esperienze di isolamento e di sottrazione del Sé dalla
realtà ordinaria come “rifugi della mente”, intendendo con questa definizione i luoghi
mentali ma anche i comportamenti ripetitivi, i riti e le abitudini personali in cui ci si ritira
quando si vuole sfuggire ad una realtà insostenibile. I rifugi della mente funzionerebbero
come medicamento dell’Io, di un Io che si sente danneggiato o in grave pericolo quando è
posto di fronte alla necessità di affrontare un lutto e il dolore psichico collegato con la
paura (o con l’esperienza) della perdita (ibidem).
Una forma di isolamento personale, nell’ipotesi di Ogden (1994), è caratterizzata dalla
sostituzione della madre-ambiente con una propria sensorialità, un tipo di esperienza che
comprende il ritiro dell’individuo in una matrice autogenerata che sostituisce con efficacia
la matrice interpersonale e il mondo di sensazioni che ne deriva.
La tipologia
Lo studio delle situazioni di tossicomania e il tentativo di definire puntualmente alcuni
principali tipi è stato avviato all’interno del gruppo di ricerca diretto da Cancrini,
all’incirca nel 1980. I diversi criteri di osservazione adottati per la definizione dei quadri
tipologici prevedevano di focalizzare l’attenzione su:
a) i modelli di organizzazione dei rapporti interpersonali e le modalità di
comunicazione nelle famiglie;
b) l’organizzazione psicologia, i meccanismi di difesa e i tratti caratteriali presenti nel
comportamento e nella personalità, nonché gli aspetti dell’adattamento dello
sviluppo individuale sui quali la droga ha un effetto terapeutico;
c) le modalità di relazione tra soggetto e sostanza
d) il modo in cui colui che assume droga e/o la sua famiglia tendono ad adottare e a
stabilire rapporti con gli assistenti sociali e gli operatori dei servizi che sono adibiti
ad aiutarlo.,
e) gli effetti di differenti programmi terapeutici sulle diverse
Tipo A: tossicomania traumatica. In questi casi un evento traumatico (un lutto, una
perdita) ha portato all’incontro casuale con la sostanza, che viene utilizzata per evitare di
affrontare la sofferenza. L’uso di droga copre una forma di disagio appartenente all’area
delle reazioni e l’elemento chiave, che sembra spiegare l’impossibilità di una risposta
25
alternativa, è legato alla difficoltà di trovare un punto di riferimento per la verbalizzatone
dell’esperienza vissuta all’interno di un rapporto interpersonale percepito come affidabile e
sicuro. Si riferisce a soggetti in transizione (appena terminata l’individuazione
adolescenziale o lo svincolo, appena vedovi o separati) che si fanno carico di problemi
altrui (dei genitori, di un familiare) e che si trovano a non poter tornare indietro pur non
avendo ancora costruito rapporti affettivi significativi all’interno dei quali condividere
l’esperienza di dolore e del lutto. (Haley, 1980).
La tossicomania diviene in questi casi pretesto pesante e muta gli stili di vita fino a
quel momento funzionali e adattivi. Ciò che viene riferito è un bisogno di “non pensare”,
“dimenticare”, espressioni interessanti se collegate alle usuali manifestazioni sintomatiche
delle nevrosi traumatiche (rimuginazione sull’evento traumatico, incubi, disturbi del sonno
ecc.).
Spesso i familiari ignorano il problema per un lungo periodo e nei casi in cui gli stessi
chiedono aiuto ai servizi, la tossicomania del figlio viene messa a disposizione del
problema del genitore, per distoglierlo dal proprio dolore.
Il progetto terapeutico in queste situazioni parte dalla possibilità, una volta eliminato il
farmaco, di ripercorrere, esplicitandole, le fasi dell’elaborazione del lutto, che esso riguardi
l’intero gruppo familiare o il singolo individuo.
Tipo B: tossicomania attuale o nevrotica. I tossicomani appartenenti a questo gruppo
coprono un disturbo che rientra nell’area delle nevrosi, generalmente soggetti in età tardo
adolescenziale o giovani adulti che fanno uso della sostanza moderato, provocatorio o
dimostrativo verso la famiglia. Spesso si “fanno beccare” lasciando delle tracce (siringhe,
la sostanza) dove i famigliari possono trovarle. Le storie dei tossicomani rivelano un
coinvolgimento estremo, con toni emotivi depressivi, in conflitti riguardanti la famiglia.
Liti, separazioni, ecc., costituiscono il “dramma” familiare che accompagna il loro
sviluppo. Il malessere cui si risponde con la sostanza è piuttosto aspecifico: sintomi
somatici diversi, carenza di partecipazione attiva alle vicende della propria vita, tendenza
alla noia, all’insoddisfazione e al nervosismo; sintomi percepiti come estranei da una
persona che mantiene abitudini e esperienza soggettive percepite dal soggetto come
egosintoniche e dagli altri come “normali”.
La struttura famigliare in cui si sviluppa questo tipo di tossicodipendenza è
frequentemente descritta dai terapeuti familiari: il figlio viene usato nelle dinamiche
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famigliari per evitare ai genitori di affrontare i loro conflitti. Di solito un genitore (più
frequentemente quello di sesso opposto e vale a dire la madre) è complice, collude nel
coprire il figlio, mentre l’altro è più periferico, disimpegnato (il cosiddetto “triangolo
perverso”). I messaggi educativi sono contradditori, con effetto di un “doppio legame”
scisso sui due genitori. Se ci sono dei fratelli, si dividono i ruoli di “cattivo” e “buono”.
L’obiettivo dell’intervento mira a ricostruire un fronte genitoriale unito e distanze più
funzionali tra i sottosistemi familiari. Da sottolineare è l’utilità della disassuefazione
domiciliare, l’esperienza di comunità può essere decisiva (ma non sempre necessaria) solo
nel caso in cui si tenga conto della necessità di lavorare con entrambi i genitori.
Tipo C: tossicomania “di transizione”. Riguarda problematiche appartenenti all’area
delle situazioni limite, si tratta cioè di un area caratterizzata da disturbi gravi della
personalità e del carattere: una situazione intermedia tra aspetti nevrotici e psicotici
(Cancrini, 1987). In alcuni casi la sostanza sembra compensare disturbi fasici e gravi del
tono dell’umore; in altri essa consente, attraverso l’incontro con la droga, una
rappresentazione idealizzata dell’immagine del Sé (Olivensatein, 1981); in altri ancora, in
cui il comportamento tossicomane è ritualistico, compulsivo e autodistruttivo, essa copre
una situazione depressiva grave.
Sono state rilevate, dal punto di vista dell’organizzazione familiare, notevoli
similitudini con le famiglie in cui è presente una paziente designata anoressica (Prieur,
1989), tanto che è stato possibile ipotizzare che si tratti di un unico quadro familiare
all’interno del quale le femmine scelgono il sintomo dell’anoressia, mentre i maschi quello
dell’uso di droga (Cancrini, 1989). La differente “scelta” sembra correlata a specifici
pattern che danno un significato all’uno o all’altro comportamento. Si tratta di famiglie in
cui le difficoltà di svincolo sono importanti nella misura in cui tutti sono coinvolti in
“giochi” familiari (Selvini Palazzoli, Cirillo e altri, 1988) avviati gia al momento della
nascita della coppia.
In un quadro del genere si evidenziano al cune caratteristiche come alti livelli di
mistificazione all’interno della famiglia e dei suoi rapporti con l’esterno e il frequente uso
di messaggi paradossali e incongrui che sostengono lo sforzo di non definire le relazioni.
Inoltre è diffusa la tendenza ad ignorare il significato del messaggio degli altri e ad usare la
malattia per risolvere il problema della leadership, movendosi in termini di autosacrificio.
La relazione trai genitori è caratterizzata dallo “stallo” di coppia delle famiglie psicotiche,
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ambedue coinvolti nella tossicodipendenza e nella vita del figlio/a. Se ci sono più fratelli,
una polarità di diversificazione si muove sull’asse “riuscito”-“di successo” e “fallito” (a
differenza di buono/cattivo caratteristico delle famiglie di tipi B). Nella tossicomania si
può riconoscere la manifestazione sintomatica dell’evitamento o del fallimento dello
svincolo del paziente designato dalla famiglia. Accade, in alcuni casi di “guarigione”, di
assistere a ricadute o a forme di dipendenza da alcolici o psicofarmaci; ciò fa emergere
l’importanza dell’uso della sostanza nel controllo dell’angoscia, e in caso di brusca
astensione del rischio serio di suicidio.
Al di sotto delle richieste affannose di aiuto espresse soprattutto sul piano verbale, il
tossicomane di tipo C e la sua famiglia richiedono soprattutto di essere protetti nel loro
gioco ripetitivo. Nel affrontare questo tipo di situazione, il terapeuta deve opporsi in modo
risolutivo al comportamento tossicomane, ridefinendolo come manifestazione estrema di
un problema interpersonale più rilevante e lavorando direttamente sul controllo del
sintomo. In altri casi sono necessarie strategie indirette come l’”intervento
controparadossale” che è basato sul riconoscimento delle ragion proprio delle ragioni
proprie del comportamento tossicomane e dell’impossibilità di interromperlo sulla base di
un atto di volontà (come accade nelle pratiche degli Alcolisti Anonimi), coinvolgendo
direttamente la famiglia sulla messa in opera di movimenti che accettano, prescrivendole,
le difficoltà e le sue resistenze al cambiamento.
Tipo D: tossicomanie sociopatiche. Le tossicomanie appartenenti a questo gruppo
rientrano nell’area dei disturbi sociopatici di personalità. Questi soggetti, caratterizzati dal
difetto di integrazione, presentano storie gravi di disattamento e di svantaggio economico-
culturale, coinvolti in attività delinquenziali egosintoniche e scarsa integrazione sociale,
spesso il conflitto è agito con comportamenti violenti, l’atteggiamento è di freddezza
emotiva e di sfida. Tra i complessi fattori di questa situazione assumono particolare
importanza la carenza di cure materne (nel senso di Bolby) e le influenze che modellano
l’organizzazione personale del bambino e il suo sistema di valori in varie situazioni di
svantaggio socioculturale. L’organizzazione familiare e i modelli comunicativi
corrispondono a quelli riscontrati nelle famiglie disimpegnate, si presentano cioè come un
gruppo profondamente e drammaticamente disorganizzato, i cui membri, osservati nel
momento della richiesta di aiuto, si muovono in orbite isolate senza alcuna reciproca
apparente interdipendenza. Ad una ricostruzione della storia familiare, si caratterizzano per
28
l’inconsistenza o l’inadeguatezza delle funzioni parentali svolte nei confronti del bambino:
genitori del tutto assenti e affidamento ad istituti; madri sole in situazioni di svantaggio
sociale ed economico; nonne assenti (Minuchin e altri, 1967): la madre resta figlia e la
nonna si fa madre sostituendola sostanzialmente ma non formalmente; genitori infantili
presi dal loro litigio e dal loro bisogno di realizzazione di sé stessi, che “non si accorgono”
della nascita e della presenza del figlio; genitori con problemi seri di alcolismo, di
tossicomania o di sofferenza psichica trattata con pesanti manovre sostitutive.
Si tratta di situazioni in cui la mancanza di cure per sé stessi e per la propria persona
significa pericolosità indiretta della tossicomania, mentre la tendenza ad agire il conflitto
corrisponde ad una capacità piuttosto debole di notare le proprie emozioni e alla tendenza
di all’uso non selettivo dei farmaci: stordirsi (alcool, oppiacei, barbiturici) o essere più
rapiti o più lucidi nelle situazioni che lo richiedono (anfetamine, cocaina) vengono
presentati come tentativi di completare, drammaticamente un esperienza soggettiva
percepita come insoddisfacente soprattutto perché debole e incompleta.
In questo quadro l’intervento in comunità terapeutica è particolarmente utile come
punto di arrivo e spesso può colmare le gravi carenze a livello di rapporti sociali e familiari
accogliendo la persona in un gruppo sostitutivo.
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CONTRIBUTI DELL’ANALISI TRANSAZIONALE
Analisi transazionale: introduzione
La nascita dell’analisi transazionale (AT) risale al 1949, anno di pubblicazione del
primo di una serie di sei articoli sull’intuizione dello psichiatra canadese Eric Berne.
Nel 1941 Berne inizia una formazione psicanalitica ortodossa e dopo quattro anni inizia
a praticare terapia di gruppo. Nel primo abbozzo della teoria degli stati dell’Io, Berne
ipotizza l’esistenza di realtà comportamentali e di pensiero che possono essere considerate
strutture di personalità ben definite; l’Adulto, il Bambino e il Genitore. In una seconda fase
della teoria, detta fase delle transazioni, si interessa di cibernetica, sulla comunicazione
latente e su quella manifesta: l’analisi dei “giochi psicologici”. La terza fase è la fase
“dell’analisi del copione”, il focus dell’analisi si sposta da quello che succede momento per
momento nelle transazione tra le persone, al piano di vista globale dell’individuo.
Sulla concezione di base dell’AT ci sono alcuni punti da sottolineare. L’opera di Berne
si situa nella corrente della psicologia umanistica (Maslow, Rogers, Perls), quindi non
risponde al livello medico della guarigione della malattia e vede il problema chiamato
“malattia” non da un punto di vista medico ma come un blocco di crescita del potenziale
psicofisico umano.
Ci sono alcuni principi che caratterizzano l’approccio dell’AT:
Quella che si può definire la filosofia dell’ Okness, in riferimento al libro di Harris
(1974) “io sono Ok, tu sei OK”, che è la disponibilità della persona a crescere ed
imparare qualsiasi esperienza abbia anche negativa;
Il principio della “contrattualità”: la relazione terapeutica è vista come un accordo
tra persone responsabili (Adulte);
Altro principio che si può definire della “decisionalità”: l’essere umano è un essere
responsabile e che produce decisioni. Il copione di vita è basato su programmi per
lo più infantili.
Conseguenza della decisionalità è la ridecisionalità: quello che è stato deciso una
volta può essere cambiato, aggiornato al qui-ed-ora.
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I parametri comuni tra le “scuole” di AT possono riassumersi in un sistema di
riferimento teorico basato su concetti di stati dell’Io, transazioni, giochi, copioni e in una
metodologia di intervento sul paziente fondata sulla contrattualità e sul processo
ridecisionale, al fine di facilitare alla persona l’autonomia rispetto al proprio copione.
Il gruppo terapeutico è una realtà di per sé psicotizzante e regressiva: affinché esso
possa offrire una realtà positiva, il singolo membro deve avere una buona strutturazione
della sua parte Adulta, per poter riuscire a separare il suo Io; se riesce far ciò può infatti
collaborare con il terapeuta. Quello che rende efficace un intervento è l’aiutare il paziente
in modo tale che si riappropri di quelle esperienze di copione mediante le quali, per
proteggersi, aveva inibito le proprie potenzialità: è il “permesso” di sperimentare forme
nuove, più positive e funzionali, di adattamento alla realtà. In tal senso il gruppo offre la
possibilità di vivere queste forme nuove di realtà, come matrice di nuovi tipi di rapporto
interpersonale. Il “permesso” è qualcosa di molto di più complesso del dire al paziente “tu
puoi”; è la capacità da parte del terapeuta, di porsi come figura genitoriale positiva. Se il
terapeuta si pone in tal senso, il paziente può risperimentare, dopo anni di tentativi falliti,
che l’interpretazione della realtà appresa durante le “scene di copione” non è cosi
distruttiva, né irrinunciabile, e che può essere quindi abbandonata. Questo è ciò che l’AT
denomina come processo ridecisionale: la persona prima sperimenta di nuovo le esperienze
di copione che l’hanno indotta ad una visione ristretta del mondo ed inseguito fare un
posso oltre tutto ciò, fino ad allargare al sua visione della realtà e del mondo.
Riguardo alla formazione del setting di gruppo in AT, Berne ha detto che la sua
composizione deve essere non omogenea, entro limiti ragionevoli. Non esistono particolare
controindicazioni per quanto riguarda la composizione del gruppo in ragione dell’età dei
suoi membri. Novellino ha inserito persone anziane in un gruppo con età media intorno ai
30 anni, ottenendo risultati positivi da entrambe le parti, sia per il travaso reciproco di
esperienze che per una facilitazione dei processi proiettivi.
Interessante notare che le differenze di età che separano i due gruppi corrispondono
all’incirca ad una generazione di differenza.
Il copione psicologico: l’io transferenziale
Il copione secondo Berne (1961) è un “largo piano di vita inconscio… dai copioni
teatrali che sono derivati intuitivi di questi drammi psicologici”. Egli ancora scrive: “il
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copione appartiene al regno dei fenomeni di transfert, cioè è un derivato, o più
probabilmente un adattamento di reazioni ed esperienze infantili… è un tentativo di
ripetere in forma derivata un interno dramma transferale. Dal punto di vista operativo il
copione è un complesso insieme di transazioni che per sua natura tende a ripetersi
ciclicamente”. Il “protocollo” è una versione arcaica del dramma di Edipo, rimossa negli
anni successivi, mentre il copione propriamente detto è un derivato preconscio del
protocollo.
Anche per il copione si evidenzia la linea di demarcazione che Berne da della teoria
analitica transazionale rispetto alla teoria psicoanalitica; se in quest’ultima l’Edipo è
considerato dal punto di vista strutturale, in AT l’Edipo è visto come una tragedia in atto,
rilevabile trasazionalmente.
La caratteristica coattiva del copione è attribuita da Berne ad una struttura di
personalità definita Demone. “il copione di per se è sotto l’influenza della dea greca della
necessità, la sublime Ananke, come la chiama Freud. In linguaggio psicanalitico, esso è
guidato dalla coazione a ripetere” (Berne, 1971). Il copione offre una soluzione magica per
risolvere un problema di fondo rimasto irrisolto fin dall’infanzia: come ottenere amore e
accettazione incondizionati (Stewart e Joines, 1987).
Un importante conseguenza clinica è la seguente: “…il suo [del paziente] Adulto viene
per trovare dei modi di vivere il proprio copione… una più urgente motivazione del
Bambino è quella di… portare avanti il proprio copione attraverso le transazioni realizzate
con il proprio terapeuta… Questo fatto è la base legittima per la reticenza analitica o
frustrazione analitica di cui parla Freud. Col rimanere indipendente delle manovre del
paziente e assolvendo fedelmente al suo lavoro di analizzare le resistenze, le vicissitudini
istintuali, e quando nel caso di transfert, l’analista evita la possibilità di essere sedotto…”
(ibidem).
Allo scopo di inquadrare concettualmente le varie tematiche inerenti il riprendiamo la
classificazione di Erskine (1980) che divide i copioni in tre tipi:
a) copione introiettivo
b) copione traumatico
c) copione misto
Collegando il copione lungo una linea ad un capo della quale vi è il copione introiettivo
puro, e all’altro il copione traumatico puro, possiamo ritenere che nella realtà la situazione
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che incontreremo più di frequente sarà quella di copione misto. Il copione introiettivo si
sviluppa come risposta ad una ingiunzione, ove per ingiunzione intendiamo un messaggio
genitoriale che limita lo sviluppo autonomo del bambino: questo accade ogni volta che
venga a mancare un “permesso”, inteso come quel messaggio che permette lo sviluppo
delle potenzialità del bambino.
Possiamo collocare i vari autori di AT lungo un continuum per ciò che riguarda la loro
spiegazione sulla natura dell’ingiunzione. Ad un polo vi si può collocare Steiner, che ha
dell’ingiunzione di copione una visione meccanicista, in quanto la intende come messaggio
genitoriale negativo, che si impianta sul Bambino, visto come recipiente passivo, e più
precisamente nel Genitore Primitivo (G1), che è sede di messaggi regressivi che vengono
dall’ambiente familiare e dal sistema sociale. All’altro estremo del continuum vi è Erskine,
che dell’ingiunzione sottolinea l’aspetto fantasmatico, cioè la costruzione del bambino
circa il messaggio reale. Particolarmente utile per capire questa teoria è il modello di
Holtby (1976), che mette in evidenza la decisionalità del bambino in relazione
all’ingiunzione. In pratica Holtby considera tutte le varie influenze genitoriali (ingiunzioni
provenienti dal Bambino del genitore; messaggi di programma, proveniente dall’Adulto
del genitore, messaggi di controcopione provenienti dal Genitore del genitore) come
recipiente da quella struttura di pensiero prelogica del Bambino che è il Piccolo Professore
(A1). Questi nel recepire le informazioni genitoriali. Questi nel recepire le influenze
genitoriali, fa una valutazione dei bisogni del Bambino Primitivo (B1) ed elabora una
strategia per soddisfare tali bisogni tenendo conto delle influenze genitoriali e delle
limitazioni che ne derivano. Tale strategia viene messa in atto e se è rinforzata dalla realtà
esterna, diventa una “decisione operativa”; viene cioè registrata nel G1, dando luogo a
comportamenti automatici. È in seguito a tale processo che nelle patologie regressive delle
primissime fasi la decisione operativa è cosi radicale: in tali casi della decisione operativa
dipende, alla lettera, la sopravvivenza dell’individuo.
Intorno ai 12-18 mesi si ha il passaggio, nel bambino, dal modello passivo-
comportamentale di Steiner al modello attivo decisionale di Holtby e dei Goulding. La
“matrice copione” è uno schema che illustra le varie influenze genitoriali sul copione delle
persone. Senza soffermarci sulla matrice classica storica di Steiner, che risulta molto utile
dal punto di vista clinico, possiamo distinguere in base ad essa tre tipi di influenze
descritte:
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1) le influenze che vanno dal Bambino al Genitore del sesso opposto al G1 del figlio:
sono messaggio di ingiunzione, i detti colloquialmente “non”;
2) messaggi provenienti dai Genitori di ambedue i genitori, che vanno nel Genitore
propriamente detto (G2) del figlio: sono messaggi di controcopione, i “devi”;
3) influenze che provengono dall’Adulto del genitore dello stesso sesso del figlio e
dirette all’A1 (Adulto Primitivo o Piccolo Professore): sono messaggi di
programma, i “come si fa”.
La matrice classica di Steiner, costruita sulla base di studi sull’alcolismo, è la seguente:
1) vi è un ingiunzione proveniente dal genitore del sesso opposto: in genere per un
alcolista uomo l’ingiunzione proviene dalla madre ed è “non pensare”;
2) vi sono dei messaggi di controcopione provenienti sia dalla madre che dal padre:
per un alcolista tali messaggi sono del tipo “sii un vero uomo”;
3) vi è infine un programma proveniente dal padre che insegna come risolvere la
contraddizione tra ingiunzione e messaggio di controcopione: per il nostro alcolista
tale massaggi è “bevi”.
Di conseguenza, quando l’alcolista si chiede: “come faccio ad essere un uomo senza
pensare?”, la risposta che si dà è “Bevendo” (Steiner, 1990).
Secondo Steiner i messaggi di controcopione sono tipici della fare post-edipica e sono
registrati nel G2; le ingiunzioni sono prevalentemente dei messaggi preverbali e pre-edipici
e vengono fissati nel G1. La matrice del copione trova una sua applicazione nel fornire un
quadro globale di quali sono le varie influenze reali o riferite da parte del cliente, e quindi
contribuisce a fare un piano terapeutico. Il copione è concepibile dal punto di vista
psicodinamico come un complesso sistema di difesa (Cheney, 1973). La teoria del
meccanismo psicodinamico del copione che risulta, a opinione di Novellino, maggiormente
coerente è quella di Holloway (1972). Secondo questo autore, durante lo sviluppo del
bambino il genitore si trova a confrontarsi con un modo di essere o un comportamento del
figlio che corrisponde ad un problema non risolto: detto in termini strutturali, lo stato
dell’Io Bambino del Genitore reale è riattivato in una fissazione patologica. La difesa
conseguente sarà quella di cercare di limitare nel figlio l’atteggiamento ansiogeno per il
genitore; tale tentativo espresso per vie emotive e spesso non verbali, implicherà una
proibizione, detta ingiunzione, dell’area di sviluppo di fronte alla quale lo stato dell’Io
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Bambino del figlio dovrà cercare mediazioni per sopravvivere psicologicamente, e a volte,
fisicamente. Se lo stato dell’Io Bambino del figlio decide (ossia, sceglie come difesa nei
confronti delle minacce reali o fantastiche, implicate nell’ingiunzione), avverrà un doppio
processo parallelo: da una parte lo stato dell’Io Bambino del figlio si autolimiterà nei
confronti dell’area evolutiva che ha innescato il conflitto del genitore reale; dall’altra lo
stato dell’Io Genitore del figlio intrometterà il modello di una sorta di atteggiamento
“fobico” nei confronti dell’area psicologica bloccata. Quando questo bambino sarà
cresciuto disporrà di una struttura di personalità tale per cui, nel momento in cui arrivi a
confrontarsi con gli stimoli, persone, situazioni, eventi, che gli ripropongono l’area
psicologica conflittuale, ecco che piuttosto che reagire solo con i sui stati dell’Io Adulti,
tenderà a riattivare gli stati dell’Io che hanno prodotto una fissazione a causa
dell’ingiunzione ricevuta (Wollams, 1973): da una parte lo stato dell’io eteropsichico
(Genitore) sede dell’introiezione del genitore reale fobico verso l’area conflittuale,
dall’altra lo stato dell’Io archeopsichico (Bambino) che ha dovuto autolimitarsi decidendo
quindi un copione. Alla transazione tra genitore reale, si è sostituito un dialogo interno tra
gli stati dell’Io Genitore e Bambino che ripropone il vecchio conflitto.
“Messaggi di copione” sono tutte quelle influenze genitoriali, verbali e prevalenti nella
fase edipica e post-edipica, con la quale i genitori indicano i figli ai figli cosa “devono” e
cosa “non devono” fare ed essere. Vengono quindi registrate come contenuti eteropsichici
e sono tali da riprodurre, se attivati come dialogo interno, dei comportamenti osservabili
definite “spinte” (Gellert, 1975; Kahler, 1975). Le spinte vengono raggruppate in cinque
categorie: sii forte, sforzati, sii perfetto, sbrigati, compiaci.
Se le ingiunzioni sono divieti impliciti, non verbali, le controingiunzioni (comandi
diretti Genitore-Genitore su cosa fare o non fare) sono esplicite, verbali e, una volta
interiorizzate attivano, tramite il dialogo interno, dei comportamenti osservabili (spinte).
Riassumendo possiamo dire:
1) Una manifestazione, come modo di essere o come fare, del figlio si incontra con un
conflitto irrisolto del genitore reale; ad esempio il bisogno di autonomia spinge il
figlio ad accentrare i suoi comportamenti esploratori; se la madre non ha
ragionevolmente risolto le sue tematiche collegate all’abbandono e alla
separazione, reagirà con grande ansia: in altre parole reagirà alla esplorazioni del
figlio come se fossero abbandoni, avendo attivato la sua archeopsiche (Bambino),
ossia vivrà come se fosse lei stessa la bambina piccola che rischia di rimanere sola.
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Questa attivazione archeopsichica impedirà un ragionevole funzionamento
neopsichico (Adulto) della madre, producendo una contaminazione dell’adulto. La
madre allora tenderà a limitare o punire le espressioni del figlio fornendo tutta una
seria di razionalizzazioni di supporto, credendo in buona fede alla loro oggettività,
ad esempio che “i bambini piccoli vanno tenuti vicini perché se no si fanno male”.
Il risultato è che la madre comunica la proprio a disapprovazione
all’allontanamento del figlio, e di solito lo fa per vie non verbali, ad esempio
carezzandolo molto quando sta fermo, diventando tesa e ostile quando ritorna. In
termini analitico-transazionali il risultato è una ingiunzione, ossia una transazione
non verbale con la quale l’archeopsiche (Bambino) della madre ingiunge al figlio di
non separarsi.
2) A questo punto il figlio si trova a confrontarsi con un dilemma profondo: da una
parte c’è il suo bisogno naturale di esplorare, dall’ altra il pericolo percepito di
perdere l’amore della madre; tale dilemma è colto e mediato dalla neopsiche in
sviluppo nel bambino, detta a questo stadio Adulto nel Bambino (o A1 o Piccolo
Professore); se l’ingiunzione è potente e persistente il figlio può arrivare a
concludere che “separarsi è una cosa cattiva” e che quindi “deve rimanere da
mamma”. Il rinforzo positivo materno accentua la decisione del figlio; a questo
punto c’è la decisione di copione (che determina il copione cero e proprio).
3) La situazione strutturale del figlio è duplice. Da un parte ha introiettato un oggetto
genitoriale ansioso e che minaccia di divenire persecutorio di fronte all’autonomia;
tale oggetto esteropsichico è definito Genitore nel Bambino (G1) data l’epoca di
sviluppo. Dall’altra fisserà uno stato dell’Io archeopsichico bloccato sulla tematica
della separazione e individuazione, per cui proverà angoscia terribile a sua volta di
fronte alla separazione.
Anche Erskine (1980) propone una visione analoga del processo formativo del copione.
Al suo modello, i bisogni evolutivi del bambino non vengono soddisfatti per restrizioni
genitoriali o per trauma ambientali, con conseguente tensione (Gestalt incompleta); quando
il bambino arriva alla fase operazionale concreta può chiudere la Gestalt incompleta con un
processo di mediazione cognitiva, ossia di propone delle spiegazioni prelogiche sul perché
i suoi bisogni non vengono soddisfatti, arrivando a delle conclusioni autolimitanti definite
convinzioni di copione con conseguenti decisioni operative di copione. In pratica il
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bambino, per sollevarsi dal peso emotivo delle ingiunzioni decide di sopprimere il bisogno
proibito e le emozioni correlate (Novellino, 1990).
Il gioco psicologico
In “A che Gioco Giochiamo” Berne definisce la strutturazione delle ore di veglia come
“l’eterno problema umano”. In questo senso esistenziale la funzione della vita sociale
consiste nella reciproca assistenza per risolverlo. L’aspetto operativo della strutturazione
del tempo si può definire programmazione e in essa si possono distinguere tre livelli:
materiale, sociale e individuale. Si considera la programmazione individuale crescente
quando in una relazione aumenta la conoscenza reciproca; quest’ultima, per quanto possa
apparire “incidentale”, è regolata da schemi latenti finché le amicizie o le inimicizie si
sviluppano “come si deve” ma alla prima mossa scorretta vengono a galla. Tali sequenze
basate più su una programmazione sia individuale che sociale si possono definire giochi.
La via familiare e coniugale, come anche la vita in organizzazioni in ogni genere, procede
su variazioni dello stesso gioco, il cui aspetto essenziale è il fatto che le emozioni
obbediscono a determinate regole. Si può dire quindi che i giochi sono riproposizioni di
strategie infantili non più adatte a noi come persone adulte; ogniqualvolta effettuiamo un
gioco utilizziamo li tornaconto per confermare le convinzioni di copione (Stewart e Joines,
1987).
Berne (1964) definisce inizialmente il gioco come una “serie di transazioni
complementari ulteriori con andamento prevedibile e un tornaconto finale”. Questa prima
eccezione del concetto di gioco evidenzia quelle situazioni interpersonali in cui la meta è
quella di manipolare le emozioni al fine di mantenere una relazione simbiotica; in ogni
caso, passatempi e giochi sono considerati surrogati di una vita vera e di una vera intimità.
In “Analisi Transazionale e Psicoterapia” Berne ne sottolinea l’aspetto psicodinamico
quando afferma che i giochi riuniscono “tanto le funzioni di difesa quanto quelle di
gratificazione”.
La genesi dei giochi
Da questo punto di vista si può dire dunque che l'educazione del bambino è il processo
per cui il bambino impara a scegliere e a giocare i suoi giochi. Mentre i genitori
coscienziosi si preoccupano di insegnare ai figli le procedure, i rituali e i passatempi adatti
alla loro posizione e di scegliere scuole, università e chiese che corroborino i loro
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insegnamenti, trascurano invece il problema dei giochi, che formano la struttura
fondamentale della dinamica emotiva di ogni famiglia e che i bambini apprendono sin dai
primissimi mesi di vita attraverso le esperienze quotidiane più significative.
Berne riporta questo esempio: Tanjy, sette anni, aveva mal di stomaco e chiese il
permesso di non cenare. I genitori gli consigliarono di mettersi un po’ sul letto. Ed ecco
che Mike, il fratellino di tre anni, fa: "Anch'io ho mal di pancia," evidentemente per godere
delle stesse attenzioni. Il padre lo fissò un momento e gli disse: "Non vuoi per caso giocare
a quel gioco?" Mike scoppiò a ridere e disse: "No!"
Se quella fosse stata una famiglia di fanatici salutisti i genitori si sarebbero allarmati e
avrebbero spedito a letto anche Mike. Sarebbe bastato ripetere qualche altra volta il gioco
per farlo diventare parte del carattere di Mike, come succede spessissimo quando i genitori
collaborano. Tutte le volte che si fosse sentito geloso di un privilegio accordato ad un
rivale, avrebbe tirato in ballo un malessere per assicurarselo anche lui. Allora la
transazione ulteriore sarebbe stata sostituita da "Non mi sento bene
" (a livello sociale) più
"Dovete concedere anche a me quel privilegio" (a livello psicologico). Mike, in ogni modo,
si salvò dalla carriera di ipocondriaco (ibidem).
La funzione dei giochi
L'esistenza quotidiana offre pochissime occasioni di intimità; certe forme di intimità
poi, specialmente le più strette, sono psicologicamente impossibili ai più, e così la maggior
parte della vita sociale è occupata dai giochi. I giochi dunque sono necessari e desiderabili:
si tratta solo di stabilire se quelli prescelti sono i più rimunerativi. Non dimentichiamo che
l'aspetto più importante di un gioco è il suo culmine, il pagamento. Le mosse preliminari
servono soprattutto a instaurare quella situazione che permetterà di arrivare al pagamento
della posta; solo che sono sempre scelte tra quelle che danno, come prodotto secondario, la
massima soddisfazione possibile.
Così è anche per l'alcolista: indipendentemente dall'origine fisiologica, ammesso che
esista, del bisogno di ubriacarsi, il bere, in termini d'analisi del gioco, è soltanto una mossa
del gioco che si sta facendo con parenti, amici e conoscenti.
L'importanza dei giochi
Riassumendo, per Berne, i giochi si trasmettono da una generazione all' altra. Il gioco
prediletto di ciascun individuo può risalire ai genitori o ai nonni e passerà ai figli; questi a
loro volta, a meno che non si intervenga con successo, lo insegneranno ai figli. Perciò
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l'analisi del gioco ha il suo posto in una grande matrice storica, che risale, e lo si può
dimostrare, fino a cento anni nel passato e si proietta nel futuro per almeno cinquant' anni.
Le conseguenze della rottura di una catena si fanno sentire con progressione geometrica.
Molti esseri umani hanno più di duecento discendenti. I giochi si possono stemperare o
alterare da una generazione all'altra, ma pare che ci sia un'accentuata tendenza all'incrocio
tra affini che giocano almeno a giochi della stessa famiglia, se non dello stesso ceppo.
Questo é l'importanza storica dei giochi.
Educare i figli significa soprattutto insegnare loro quali giochi devono giocare. Culture
diverse e diverse classi sociali prediligono tipi di giochi diversi, mentre le varie tribù e
famiglie scelgono le loro varianti di quei giochi. Questa é l'importanza culturale dei
giochi.
I giochi sono, per così dire, compresi fra passatempi e intimità. I passatempi finiscono
col venire a noia a furia di ripetizioni, come i parties pubblicitari. L'intimità esige la
massima circospezione e subisce le discriminazioni del Genitore, dell'Adulto e del
Bambino. La società non ama la spontaneità, se non in privato; il buon senso ci avverte
che gli altri possono sempre approfittarne, mentre il Bambino la teme perché lo induce a
scoprirsi troppo. Perciò per evitare la noia dei passatempi senza esporsi ai pericoli
dell'intimità, la grande maggioranza si rivolge ai giochi disponibili, che finiscono per
riempire la maggiore parte delle ore più interessanti dedicate alle relazioni sociali.
Questa è l'importanza sociale dei giochi.
Come amici, come compagni e come intimi si scelgono quelli che giocano al nostro
stesso gioco. Perciò chi è "qualcuno
" in un determinato ambiente sociale (aristocrazia,
gang giovanile, club, campus universitario, ecc.) si comporta in modo che è
completamente estraneo a chi appartiene ad un altro ambiente sociale. Viceversa, se un
individuo che appartiene ad un determinato ambiente sociale cambia gioco finirà con
l'essere estromesso da quell'ambiente e accolto in un altro. Questa è l'importanza
personale dei giochi.
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SAPER USCIRE DALLE CONSUETUDINI FAMILIARI
“…lo que ocurre es que en el momento que hacemos algo que nunca hemos hecho ante, ya
estamos en el camino de la curación.”
Alejandoro Jodorowsky
Ogni famiglia, dice Marie Joseph, si distingue dalle altre per proprie consuetudini,
pregiudizi, riti, tabù, acquisiti e rinforzati nel corso delle generazioni e trasmessi col
matrimonio. Ciascun membro della famiglia ha la propria personalità, si sente unico e
diverso dai propri fratelli e sorelle, tuttavia, per un osservatore esterno sono le somiglianze
che risultano evidenti e fanno dire: “è veramente un Rossi, oppure un Bianchi, non può
rinnegare la propria famiglia“.
Al momento del matrimonio, i due giovani sposi mettono tra i doni nuziali questa
eredità di famiglia. I primi mesi, i primi anni, saranno dedicati hai confronti tra gli usi e le
abitudini delle due famiglie, dove si vedrà che in certe cose i Rossi dovranno ripiegare sui
Bianchi, mentre in altre saranno i Bianchi ad arrendersi.
Esistono cosi dei copioni individuali che risultano a loro volta influenzati dalle
abitudini, ingiunzioni e prescrizioni che tutti i membri della famiglia hanno vissuto. Fratelli
e sorelle, una volta sposati, tendono a mantenere questi messaggi che sono negativi, ma
che costituiscono un solido tessuto familiare. È per questo che per ribellarsi dai copioni
familiari, è necessario, almeno in parte, liberarsi della propria famiglia (Joseph e Chalvin,
1988).
VERSO LA DIFFERENZIAZIONE: tra appartenenza e separazione
Nel corso di una lunga esperienza di lavoro, Jay Haley, ha valutato la possibilità di
considerare alcune forme di comportamento tossicomane come una variante delle crisi
(psicotiche e non), con cui un certo numero di giovani adulti esprimono la difficoltà della
loro emancipazione dal gruppo familiare di provenienza (Haley, 1980). Da questo punto di
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vista si comprende facilmente l’utilità potenziale del sintomo che si sviluppa nel figlio. La
funzione del fallimento è di permettere che i genitori continuino ad avere un figlio di cui
occuparsi, mentre l’organizzazione mantiene la sua stabilità anche per molti anni,
indipendentemente dall’età dei figli. Genitori di settant’anni continuano a portare il loro
figlio di 40 anni “malato” da un ospedale all’altro: come nella favola della bella
addormentata il tempo si ferma per tutti i protagonisti di questa vicenda (Cancrini, 1982).
I miti
L’identità culturale di una famiglia è un sistema di valori ideo-affettivi modellato nel
tempo da più generazioni e costruito sulla base della condivisione di una immagine
idealizzata: il mito. L’adesione al mito garantisce l’integrazione familiare: attraverso di
esso vengono trasmesse alle nuove generazione modalità di comportamento relazionale,
valori, norme, e ruoli. Il mito dona stabilità all’identità culturale del gruppo, stabilità che
nella situazione funzionale non è congelamento dell’intero processo evolutivo, anzi questa
stabilità dona la sicurezza necessaria per avviare i cambiamenti. I miti inoltre rafforzano i
legami di interdipendenza ideo-affettiva tra i membri del gruppo, fanno sentire l’individuo
come “parte di” ma possono anche spingere l’individuo al distacco.
La personalità di un individuo si forgia proprio sulla continua rinegoziazione del
bisogno di appartenenza e quello di separazione. Se il mito viene assimilato, rielaborato e
fatto proprio rappresenterà una gran risorsa per l’individuo per quanto sia stato il risultato
di un sentiero difficile, segnato dall’ambivalenza tra lo “stare dentro” e lo “stare fuori”. Ma
se invece ciò non accade e vi è uno squilibrio tra distanza e vicinanza che si accentua
troppo a favore di un’adesione acritica ai valori familiari, assisteremo ad un inglobamento
di questi come un corpo estraneo che ostacola il processo di individuazione del Sé.
Bisogna in ogni caso considerare che pure l’assenza di questi elementi coesivi,
minando delle sicurezze fondamentali, potrebbe ostacolare il processo di Individuazione.
Questo “separarsi ed appartenere” questo “uscire ed entrare” è una ginnastica necessaria
per affermare la propria individualità, sentendosi sempre libero di poter tornare nel gruppo
senza per questo sentirsi un traditore o un diverso. La famiglia è il primo luogo dove
l’individuo prova a costituire e a strutturare il proprio Sé e il contesto dove si differenzia
attraverso il rapporto con i familiari, esattamente come una figura rispetto allo sfondo.
Il risultato del lavoro continuo di autodefinizione ed individualizzazione viene definito
Differenziazione. Secondo la scala di Differenziazione di Bowen (1979) che si muove
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lungo un continuum che va dalla fusione estrema alla massima differenziazione, solo chi si
trova in quest’ultima estremità rappresenta i livelli più alti di funzionamento umano e potrà
trarne beneficio la sua famiglia nucleare. Quindi da questa prospettiva l’obiettivo più
importante per la famiglia è quello di aiutare i suoi membri nel processo di
Differenziazione del Sé, nel complesso raggiungimento di equilibrio tra Appartenenza e
Separazione (Andolfi, 2003).
Il taglio emotivo
Non sempre il processo di Differenziazione ha esiti positivi, spesso anzi restiamo
intrappolati in modelli ripetitivi di relazioni, in particolare quando si presentano nuovi
compiti di sviluppo. A volte “Appartenenza” e “Separazione” sono vissute solo in termini
di esclusione reciproca, quando un taglio netto dà l’illusione di autonomia.
Il taglio emotivo indica quella separazione, fisica o emotiva, prematura e traumatica, di
una persona dai vincoli e dagli affetti familiari. E’ un estraneamento tra i membri di una
famiglia che li preserva dal confronto o dalla risoluzione dei conflitti. Tale modalità
relazionale può provocare arresti evolutivi e sentimenti di incompletezza affettiva in età
adulta che non si ripercuotono solo sull’individuo ma possono provocare forti disagi nei
rapporti di coppia e tra genitori e figli.
La distanza emotiva può essere raggiunta tramite meccanismi interni, con la distanza
fisica o attraverso la combinazione di entrambi. Chi per esempio va via di casa pensando
così di ottenere l’autonomia, si ritroverà in futuro a cercare dei legami di tipo
compensatorio che gli permettano di riempire i “vuoti” che si portano dentro. La principale
espressione del taglio emotivo è la negazione dell’intensità dell’attaccamento emotivo non
risolto ai propri genitori. E’ questo il caso della pseudo-separazione degli adolescenti.
L’unica soluzione per uno sviluppo che consenta di raggiungere la “Posizione Io” è quella
di riconnettersi al momento in cui il taglio è avvenuto, intraprendendo una ricostruzione
attiva dei legami intergenerazionali e una elaborazione attiva delle perdite che non vanno
negate ma comprese e fatte proprie (ibidem).
Programma terapeutico
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Contributo Analitico-Transazionale
Berne sostiene che tre sono le possibilità di cambiamento del copione: la psicoterapia,
il destino (il caso) e la forza dell'amore (Phisis). Nella cura psicoterapeutica dell' AT
l'obiettivo principale è stabilizzare e decontaminare l'Adulto affinché la persona possa
agire nel presente in modo appropriato ed efficace usando opportunamente gli
insegnamenti introiettati nel Genitore le esperienze vissute contenute nel Bambino e poter
essere autonomo.
Per uscire dal copione Berne sostiene che all'individuo è necessario recuperare la
propria autonomia che consiste nel riappropriarsi di tre capacità: consapevolezza,
spontaneità e intimità. Ciò implica che la persona è in grado di comportarsi, sentire e
pensare in risposta alla realtà del qui ed ora senza lasciarsi influenzare dalle convinzioni di
copione.
- La consapevolezza è intesa come la capacità di essere in contatto con il presente
senza filtrarlo attraverso le esperienze passate.
- La spontaneità è intesa come la capacità di reagire in modo libero scegliendo tra
tutta la gamma delle sensazioni, dei pensieri e dei comportamenti senza costrizioni,
usando liberamente tutti e tre gli Stati dell' Io.
- L' intimità è intesa come la capacità di condividere liberamente le emozioni, i
pensieri e i comportamenti con un' altra persona. Ciò significa essere in grado di
creare legami dando e ricevendo affetto.
Ad esempio nel caso della persona che per avere attenzione ha deciso di compiacere,
prendersi cura dell'altro e mettere da parte i suoi bisogni, uscire dal copione ed essere
autonomo implica:
1. essere consapevole della sua decisione di mettere da parte i suoi bisogni per
ottenere attenzione e delle alternative che oggi ha; imparare ad individuare le
situazione di stress nelle quali può riattivare la vecchia decisione, i segnali che
possono indicare che la sta agendo ed essere capace di cogliere i suoi bisogni;
2. esprimere direttamente i suoi bisogni ed agire liberamente per soddisfarli, senza
doversi prendere cura dell'altro;
3. sviluppare una relazione paritaria con una persona nella quale può dare, chiedere e
ricevere quello che desidera senza doverlo "pagare".
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In sintesi il cambiamento del copione coincide con il raggiungimento dell'autonomia,
in AT ciò significa che la persona è in grado di gestire se stessa e le sue relazioni con gli
altri in modo: Consapevole, Spontaneo, Intimo (Mastromarino e Scoliere, 1999).
Contributo sistemico
Come spiega Guerreschi (2000), partendo dal lavoro clinico sul trattamento del gioco
d’azzardo patologico, nelle situazioni di dipendenza patologica è importantissimo
coinvolgere la famiglia, per mezzo di un’adeguata Terapia Familiare, che la porti nella sua
globalità a conoscere ed imparare ad accettare emozionalmente la disadattività del sintomo,
ma che anche le relazioni familiari possono essere o essere state disadattive, venendo a
costituire un fattore di nascita e/o di sviluppo della dipendenza patologica di un suo singolo
membro. Quando parliamo di “famiglia”, intendiamo un gruppo naturale, con una sua
storia, con delle sue regole proprie (parte delle quali sono ereditate dalle famiglie
d’origine) e con un proprio modello relazionale, che viene contrattato nel tempo tra i
coniugi e tra loro e le rispettive famiglie.
Nell’applicazione della terapia familiare, così come in quella di coppia, la più grave
patologia, sulla quale è necessario intervenire, è costituita dai disturbi nelle relazioni e
nella capacità comunicativa, nonché dal ripetersi di schemi di interazione rigidi; il gioco
d’azzardo, in questo caso, assume la funzione di sintomo del malessere e stabilizzatore
della coesione familiare.
Quando una famiglia decide di sottoporsi a terapia, essa ha già individuato al suo
interno il suo paziente designato, etichettato come “colui che ha un problema” o che
“costituisce il problema”. Quando però la famiglia lo identifica come “il paziente”, i
sintomi del paziente designato possono essere considerati come stratagemmi, che
sostengono il sistema, o che il sistema hanno mantenuto.
Nell’osservazione delle famiglie, in cui era presente un giocatore patologico, o un
alcolista, si è osservato che il comportamento relativo alla dipendenza del soggetto si
effettua attraverso modalità rigide, ripetitive, prevedibili, con spazi e tempi precisi sia a
casa, che fuori.
Le interazioni familiari vengono quindi a ruotare intorno a questo perno stabile, che
assume inconsapevolmente la funzione di regolamentare i tempi e i modi di espressione dei
conflitti, dei disaccordi, del desiderio o della paura di intimità.
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La presa di coscienza delle modalità di comportamento dipendente viene quindi ad
esplicare la funzione di organizzatore dei comportamenti, di spartiacque, nell’ambito della
complessità del sistema familiare e dei suoi scambi con l’esterno. Se alcuni fattori
fondamentali di mantenimento del gioco d'azzardo patologico cronico sono, come appare
dalle osservazioni di Guerreschi, strettamente relazionali, si dovrà allora programmare un
intervento, in tutti i casi ove ciò sia possibile, al livello della necessità e dell’utilità del
mantenimento del sintomo da parte di tutti i membri della famiglia.
Stante la difficoltà (omogenea al paziente designato patologico e agli altri membri della
sua famiglia) di modificare nei fatti un assetto di comportamenti quasi automatici e, di
contro, l’accettazione spesso incondizionata, a livello puramente verbale, dei suggerimenti,
dei consigli e delle proposte di cambiamento offerte dagli operatori, si rende necessario
esaminare e paragonare attentamente ad altri tipi di intervento tutte quelle tecniche
orientate all’azione, vale a dire, tutte le tecniche orientate alla sperimentazione di processi
emotivi intensi, da cui non ci si possa immediatamente difendere con la negazione e
l’addossamento delle proprie responsabilità.
Bisogna far vivere dei concreti processi esperienziali, con l’interpretazione di modelli
di relazione ripetitivi e con l’esasperazione della rigidità dei ruoli, fino ad arrivare ad uno
svuotamento di significato dei vecchi comportamenti e giungere alla ricerca di nuove
alternative. Le regole che la famiglia costituisce nel tempo si esprimono nel modo di vivere
e non nelle parole, ed è a questo livello che risulta efficace la terapia, costruendo un
apposito piano di intervento per la famiglia. Riprendendo il motto che ispira le comunità
terapeutiche di Don Picchi: “Prima cambiare il comportamento, poi i sentimenti”.
Schematizzando la terapia relazionale, nella situazione prima dell’intervento, il
paziente è centrale nel sistema famiglia ed è coinvolto in ogni triangolazione relazionale
stressante del sistema Nella prima fase del sistema terapeutico, il terapeuta ottiene una
posizione centrale nel sistema entrando in contatto con i sintomi del paziente; entra nel
sistema attraverso il riconoscimento e la provocazione della centralità della sintomatologia,
e forse anche della logica di questa. La fase successiva prevede la sostituzione con cui il
terapeuta colloca se stesso al centro al posto del paziente nel sistema terapeutico; in questo
frangente possono emergere problemi diversi dai sintomi del paziente (che coinvolgono
differenti triangolazioni) e i membri della famiglia possono adottare ruoli meno stereotipati
nell’affrontare gli eventi stressanti e la soluzione dei problemi. Nella conclusione della
terapia la presenza del terapeuta è solo “fantasmatica”, cioè viene avvertita pur non
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essendo fisica. Se necessario, il terapeuta potrebbe essere “materializzato” di nuovo dalla
famiglia (Andolfi, Angelo e de Nichelo, 1989).
In concreto, il risultato ricercato è quello della trasformazione della famiglia. I
cambiamenti riguardano la serie di aspettative, che regolano il comportamento dei suoi
componenti. Anche l’esistenza di ogni singolo individuo è destinata a mutare. La
trasformazione in atto è significativa per tutti i componenti della famiglia, ma soprattutto
per il paziente designato, che viene liberato dalla sua posizione di “deviante”.
L’intervento con la famiglia nasce dalla consapevolezza delle gravi limitazioni che
subisce un trattamento dell'utente senza il coinvolgimento della famiglia.
Ciò si è potuto osservare nei trattamenti che prevedono l’inserimento nelle Comunità
Terapeutiche Residenziale (CTR) che determinano una forte discontinuità con il sistema
familiare. L'allontanamento del paziente dal suo contesto originario, infatti, per quanto
comporti la separazione fisica, non costituisce tuttavia una soluzione di continuità rispetto
al meccanismo familiare di strutturazione della psicosi (come per altro dimostra tutta la
pratica manicomiale): in mancanza di stimolazioni dall'esterno la famiglia semplicemente
si ristrutturerà sull'assenza del paziente designato, ma sempre e comunque all'interno delle
regole e delle modalità relazionali usate in precedenza, lasciando così di fatto immodificate
la condizioni che sostengono la sintomatologia.
Anche dall’esperienza delle CTR appare quindi così evidente la necessità di fare un
lavoro con le famiglie, le quali, anche se non possono sempre considerarsi causa della
tossicomania, hanno sicuramente un ruolo determinante sia nel suo mantenimento come
nella sua risoluzione: la famiglia può essere protagonista nel processo di riabilitazione di
un tossicomane sia se direttamente coinvolta sia come famiglia “risorsa”. Se è vero infatti
che la stessa qualche volta rappresenta “un sistema in difficoltà”, è anche vero che se
motivata e preparata, può essere in grado di esercitare una funzione di accoglienza e di
enorme contributo al processo di riabilitazione e di reinserimento di un giovane
tossicodipendente.
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RIFLESSIONI
PARELLELI TRA I MODELLI
Come affermano Colantonio e Bisbiglia (1994) dell’ Istituto di Formazione e Ricerca
per Educatori e Psicoterapeuti, l' utilizzo di due chiavi di lettura, una sistemica e 1'altra
transazionale, permette di lavorare con più strumenti su due livelli, sistemico e individuale.
I due studiosi hanno verificato, come già consolidato nelle metodologie del CEIS, come i
due modelli si sposino bene nell' ambito clinico per due ordini di motivi:
1. l'ottica transazionale comprende già nella sua teorizzazione della matrice di copione
un punto di vista sistemico;
2. l'ottica sistemica si sta focalizzando proprio in questi ultimi anni sull'importanza
della lettura delle emozioni e del vissuto personale nell'ambito del sistema.
Entrambi i modelli puntano sull'utilizzo di un linguaggio semplice, concreto ed
immediato, volto non solo agli “addetti ai lavori”, estendendo i propri campi d'intervento al
di là di un setting psicoterapeutico in senso stretto, fino ad arrivare ad interventi formativi
rivolti a gruppi eterogenei di utenti.
A mio avviso è possibile un confronto nello specifico tra i tipi di “famiglie del
tossicodipendente”, identificate in analisi sistemica, e la classificazione dei copioni
proposta da Erskine. Le prime due tipologie di famiglie (tipo A e B), forme meno gravi
rispetto alle altre due, sviluppano dipendenza solo in condizioni caratterizzate da una
situazione particolarmente sfavorevole e da un’offerta consistente di occasioni di incontro
(Cancrini, 2003). Queste condizioni che vincolano l’insorgenza fanno sì che il tipo A e il
tipo B possano collocarsi sulla polarità dei copioni traumatici. I tipi di famiglie C e D,
riconducibili per l’autore al disturbo di personalità borderline (ibidem), potrebbero trovare
posto sull’estremità dei copioni introiettivi.
Questa distinzione sostanziale rappresenterebbe una categorizzazione di base della
dipendenza patologica essenziale soprattutto in ottica di intervento terapeutico.
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CONCLUSIONI
Il concetto di gioco psicologico, così come inteso in analisi transazionale, si può
inserire nel puzzle terapeutico all’interno della cornice sistemico-relazionale. L’approccio
sistemico di per sé, rischia di apparire, ad una visione superficiale, come
deresponsabilizzante nei confronti del paziente designato, ma in realtà permette di allargare
la prospettiva abbandonando spiegazioni lineari e unilaterali.
Da un punto di vista strettamente relazionale, se il sistema è funzionante, nel
complesso ognuno vince abbastanza, oppure, se sta perdendo, ragionevolmente può sperare
in una rivincita, sempre che gli altri giocatori giochino semplicemente meglio di lui e che
non “barino” al gioco (Prata, 1992). Il gioco, visto in tal senso, diventa drammatico solo
quando alleanze temporanee si irrigidiscono divenendo sempre meno modificabili. In un
sistema bloccato come questo i conflitti non vengono risolti; vengono evitati concentrando
l’attenzione sui problemi fisici. Questo schema, definito da Kaffman (1981) mono-
ideismo, è caratterizzato dalla fissazione intrapsichica e interpersonale dell’attenzione su
un percorso monotematico. La vita ruota attorno ai problemi e c’è una drastica riduzione
delle normali attività che procurano soddisfazione e divertimento. Man mano che la
rigidità aumenta, i membri della famiglia assumono ruoli stereotipati e funzioni di gruppo
che limitano le loro opportunità di autoespressione e differenziazione (Andolfi, Menghi,
Corigliano e Saccu, 1980).
Ciò è ben rappresentato dal modello teorico di Karpman (1968): il triangolo
drammatico. Questo triangolo vede ai suoi vertici tre ruoli: il Salvatore, il Persecutore e la
Vittima. La loro relazione è di reciprocità in quanto la presenza dell'uno implica giocoforza
quella degli altri. Nella dipendenza patologica uno dei membri della relazione può
assumere anche due ruoli diversi, contemporaneamente. La corrispondenza con un gioco,
le cui parti in causa sono complementari, è evidente.
Si ha, in questi casi, un sistema che non sa adattarsi a nuove situazioni e l’alleanza del
paziente designato con il sintomo, oltre ai benefici primari immediati (ed estremamente
pericolosi) per esso, assicura alla famiglia benefici secondari che consentono la
“legittimità” dello status quo. L’investitura nel processo di designazione diventa astorica,
vale a dire non più adeguata alle esigenze del presente.
L’aspetto dinamico dell’analisi transazionale si inserisce a questo punto; il gioco che si
struttura con la dipendenza patologica, testimonia le difficoltà relazionali preesistenti (e in
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ogni caso conseguenti in un quadro traumatico) che, oltre a prospettare un destino
drammatico, impediscono la circolazione della creatività e della spontaneità, lo sviluppo e
l’espressione delle potenzialità del Bambino Libero. In altri termini, la conquista
dell’autonomia così come suggerita da Berne corrisponde ad un comportamento, un
pensiero o un emozione che è una risposta alla realtà qui-ed-ora più che una risposta a
convinzioni di copione.
Il comportamento dipendente può essere considerato all’interno di un economia di
carezze (Steiner, 1971). Il termine “carezza” si riferisce al bisogno infantile di essere
toccato e ha la funzione di nutrire il Bambino nel suo bisogno stimoli e nell’Adulto
continuano a soddisfare il bisogno di riconoscimento. Considerando il principio per cui
“qualsiasi carezza è meglio di nessuna carezza”, può accadere di ricevere e accettare dai
genitori carezze che cominciano col sembrare positive ma si rivelano poi insincere, quindi
negative. Esse sono definite carezze false o carezze di plastica. La persona che presenta un
comportamento di dipendenza patologica, in tal senso, può avere appreso un’ economia di
carezze di plastica per poter continuare a nutrire la sua autostima. La fluidificazione dei
rapporti, all’interno della famiglia innanzi tutto, permette quella intimità che decreta la fine
dei giochi che non sono altro che la sostituzione delle vere carezze positive.
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