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I DOMENICA DI QUARESIMA Anno A Domenica «delle tentazioni nel deserto» Mt 4,1-11; Gn 2,7-9; 3,1-7; Sal 50; Rm 5,12-19 Colletta O Dio, che conosci la fragilità della natura umana ferita dal peccato, concedi al tuo popolo di intraprendere con la forza della tua parola il cammino quaresimale, per vincere le seduzioni del maligno e giungere alla Pasqua nella gioia dello Spirito. Per il nostro Signore Gesù Cristo... Il messaggio che la parola di Dio ci annuncia in questa I Domenica di quaresima è di grande importanza per impostare in modo autentico la nostra vita di credenti. Molti cristiani credono di potersi in qualche modo accaparrare Dio con le loro pie pratiche ottenendo favori e sicurezza nella loro vita terrena. Anche la Chiesa può cedere alla tentazione di appoggiarsi ai mezzi umani diventando una potenza e una società di questo mondo, anziché essere l'umile serva del Signore che si fida soltanto della parola di Dio. L'uomo moderno, però, fatto sempre più sicuro dei risultati della scienza e della tecnica, ormai non pensa più neppure ad accaparrarsi Dio, perché riesce a procurarsi coi propri mezzi ciò per cui prima ricorreva a Dio. Dio perciò non gli interessa più. Per l'uomo della tecnica ha valore soltanto dominare, trasformare e utilizzare la natura. La sua tentazione allora è l'ateismo. Dio è un essere inutile, senza significato. Cristo si presenta a noi nella quaresima come il lottatore vittorioso che ci libera da tutte le nostre false sicurezze, dalle nostre ipnosi idolatriche e ci insegna a porre il nostro punto d'appoggio in Dio e nella sua parola. La quaresima sarà così il segno sacramentale della nostra conversione per il dono di una accresciuta conoscenza del mistero di Cristo (colletta). All'inizio della quaresima siamo dunque chiamati a prendere coscienza del significato di una vita di fede in dipendenza assoluta dall’evangelo. Questa è la vita del cristiano che ripete l'esperienza di Gesù: fedeltà assoluta a Dio e all'uomo; libertà interiore nell'uso dei beni di questo mondo, usandone senza idolatrarli; libertà da una fede miracolistica che fa evadere dagli impegni concreti per i quali Dio ha posto l'uomo in questo mondo; libertà da ogni trionfalismo ecclesiale. Vivere la fede non significa adoperare Dio per le nostre ambizioni e i nostri interessi, ma metterci sulla strada della continua conversione di noi stessi a Dio. Questa è la strada del deserto lungo la quale l'uomo sperimenta la propria insufficienza e la tentazione. Gesù oggi, con la sua parola e col suo atteggiamento, ci dice che il senso della vita umana è realizzato nella comunione con Dio attraverso la rinuncia a ogni idolatria dell'uomo e dei mezzi umani, per fidarsi solo della parola di Dio. A questo punto, cioè, deve avvenire l'impatto con la mentalità dell'uomo: si impone necessariamente la scelta della croce, perché il mondo rifiuterà chi denuncia le sue ambiguità e le sue sicurezze. Ma proprio nella morte del giusto, Dio ha posto la salvezza del mondo stesso. Gesù, allora, «vincendo le insidie dell'antico tentatore ci insegna a dominare le seduzioni del peccato, perché celebrando con spirito puro il mistero pasquale possiamo giungere alla pasqua eterna» (Prefazio).

I DOMENICA DI QUARESIMA Anno A - parrocchia.sgm.dyndns.infoparrocchia.sgm.dyndns.info/Effata/20170305.pdf · Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa

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I DOMENICA DI QUARESIMA Anno A

Domenica «delle tentazioni nel deserto» Mt 4,1-11; Gn 2,7-9; 3,1-7; Sal 50; Rm 5,12-19

Colletta

O Dio, che conosci la fragilità della natura umana

ferita dal peccato, concedi al tuo popolo di intraprendere

con la forza della tua parola il cammino quaresimale, per vincere le seduzioni del maligno e giungere

alla Pasqua nella gioia dello Spirito. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Il messaggio che la parola di Dio ci annuncia in questa

I Domenica di quaresima è di grande importanza per

impostare in modo autentico la nostra vita di credenti.

Molti cristiani credono di potersi in qualche modo accaparrare Dio con le loro pie pratiche ottenendo

favori e sicurezza nella loro vita terrena. Anche la Chiesa può cedere alla tentazione di appoggiarsi

ai mezzi umani diventando una potenza e una società di questo mondo, anziché essere l'umile serva

del Signore che si fida soltanto della parola di Dio.

L'uomo moderno, però, fatto sempre più sicuro dei risultati della scienza e della tecnica, ormai non

pensa più neppure ad accaparrarsi Dio, perché riesce a procurarsi coi propri mezzi ciò per cui prima

ricorreva a Dio. Dio perciò non gli interessa più. Per l'uomo della tecnica ha valore soltanto dominare,

trasformare e utilizzare la natura. La sua tentazione allora è l'ateismo. Dio è un essere inutile, senza

significato.

Cristo si presenta a noi nella quaresima come il lottatore vittorioso che ci libera da tutte le nostre

false sicurezze, dalle nostre ipnosi idolatriche e ci insegna a porre il nostro punto d'appoggio in Dio

e nella sua parola. La quaresima sarà così il segno sacramentale della nostra conversione per il dono

di una accresciuta conoscenza del mistero di Cristo (colletta).

All'inizio della quaresima siamo dunque chiamati a prendere coscienza del significato di una vita di

fede in dipendenza assoluta dall’evangelo. Questa è la vita del cristiano che ripete l'esperienza di

Gesù: fedeltà assoluta a Dio e all'uomo; libertà interiore nell'uso dei beni di questo mondo, usandone

senza idolatrarli; libertà da una fede miracolistica che fa evadere dagli impegni concreti per i quali

Dio ha posto l'uomo in questo mondo; libertà da ogni trionfalismo ecclesiale.

Vivere la fede non significa adoperare Dio per le nostre ambizioni e i nostri interessi, ma metterci

sulla strada della continua conversione di noi stessi a Dio.

Questa è la strada del deserto lungo la quale l'uomo sperimenta la propria insufficienza e la

tentazione.

Gesù oggi, con la sua parola e col suo atteggiamento, ci dice che il senso della vita umana è realizzato

nella comunione con Dio attraverso la rinuncia a ogni idolatria dell'uomo e dei mezzi umani, per

fidarsi solo della parola di Dio.

A questo punto, cioè, deve avvenire l'impatto con la mentalità dell'uomo: si impone necessariamente

la scelta della croce, perché il mondo rifiuterà chi denuncia le sue ambiguità e le sue sicurezze. Ma

proprio nella morte del giusto, Dio ha posto la salvezza del mondo stesso.

Gesù, allora, «vincendo le insidie dell'antico tentatore ci insegna a dominare le seduzioni del peccato,

perché celebrando con spirito puro il mistero pasquale possiamo giungere alla pasqua eterna»

(Prefazio).

Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)

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PRIMA LETTURA

La creazione dei progenitori e il loro peccato

Dal libro della Genesi (2,7-9; 3,1-7)

Il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un

alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.

Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che

aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi

graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino

e l’albero della conoscenza del bene e del male.

Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e

disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun

albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del

giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al

giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare,

altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto!

Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e

sareste come Dio, conoscendo il bene e il male».

Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi

e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi

ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si

aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie

di fico e se ne fecero cinture.

Parola di Dio.

Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)

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Gn 2,7-9; 3,1-7

Creazione e peccato

Il libro della Genesi si apre con il racconto della creazione (Gn 1-2), che viene descritta in due modi

diversi, anche se sostanzialmente concordi. Mentre il primo racconto (1,1 - 2,4a) si serve dello schema

della settimana e trova la sua naturale continuazione nella genealogia di Gn 5, il secondo racconto

(Gn 2,4b-25) presenta un seguito di scene che fanno da preludio alla caduta e a tutta una serie di

episodi che ne sono la conseguenza (Gn 3-4). Secondo questa tradizione la situazione idilliaca delle

origini non ha lunga durata. Improvvisamente subentra un elemento perturbatore che sconvolge

l’ordine meraviglioso voluto da Dio: l’uomo e la donna si ribellano a lui e di conseguenza sono

cacciati dal giardino dell’Eden. La liturgia riporta alcuni dettagli del secondo racconto della creazione

(2,7-9) e la parte inziale di quello riguardante la caduta (3,1-7).

La creazione come dono divino (2,7-9)

Nel secondo racconto della creazione, prima dell’intervento divino, il mondo è immaginato non come

un caos acquoso ma come una terra deserta, sulla quale Dio non ha ancora fatto piovere e che

l’uomo non ha ancora irrigato con l’acqua dei canali. In questa situazione ha luogo la creazione

dell’uomo. Dio lo plasma servendosi della terra (’adamah), dalla quale appunto viene fatto derivare

il suo nome (’adam, uomo) (v. 7a). In forza del soffio vitale ricevuto da Dio, l’uomo diventa un «essere

vivente» (v. 7b). Questa descrizione tradisce l’idea biblica in base alla quale l’essere umano non è un

composto di anima e corpo ma una realtà unitaria (persona) che riceve da Dio il dono della vita. È

chiaro che l’intenzione dell’autore non è quella di spiegare come ha avuto origine l’uomo (fissismo

o evoluzionismo), ma solo di mettere in luce la sua totale dipendenza da Dio.

Il fatto che la creazione del primo uomo avvenga nel deserto richiama alla mente Israele, il quale

proprio nel deserto è venuto all’esistenza in quanto popolo di Dio. In quanto plasmato da Dio,

l’uomo, come Israele, deve totalmente dipendere da lui.

Dopo aver compiuto la sua prima opera, Dio pianta un giardino in Eden, dove colloca l’uomo (v. 8).

L’esistenza nei tempi primordiali di un giardino meraviglioso è attestata frequentemente nella

mitologia. Diversamente però da quanto afferma la mitologia, il giardino è qui la dimora dell’uomo,

e non della divinità.

Questo giardino si trova a «Oriente» (naturalmente rispetto agli israeliti, che vivono in Palestina), in

una regione chiamata Eden. Questa località non è identificata. Siccome il termine ebraico ‘eden

significa «delizie», esso diventa quasi il nome proprio del giardino (3,23: «giardino di Eden», cioè

«giardino delle delizie»). I LXX traducono il termine «giardino» con paradeison: da qui deriva

l’espressione corrente «paradiso terrestre».

Le caratteristiche del giardino e la collocazione in esso dell’uomo sono descritte in modo dettagliato

nei vv. 9-15, omessi dalla liturgia.

Dopo aver creato il giardino, Dio «prende» l’uomo creato nella terra arida, e lo «colloca» nel giardino

stesso (v. 15).

Il racconto prosegue con i vv. 16-17 omessi dalla liturgia. Il primo uomo riceve da Dio un comando:

«Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male

non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire».

Tentazione e peccato (3,1-7)

La prima scena del racconto della caduta presenta due soli personaggi la donna e il serpente, fra i

quali si apre un dialogo pieno di tensione. Il serpente entra in azione senza essere stato presentato

precedentemente. Esso è designato come una delle bestie selvatiche che Dio aveva creato: non è

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dunque un essere soprannaturale decaduto ma piuttosto la personificazione di una inclinazione

cattiva che si trova nell’uomo.

Il racconto della tentazione si svolge in due tempi, in ciascuno dei quali è sferrato un duro attacco al

rapporto che lega la prima coppia umana a Dio. Anzitutto il serpente insinua che Dio abbia proibito

di mangiare tutti i frutti del giardino (v. 1), mettendo così in dubbio la sua iniziativa salvifica (prologo

storico). Nel contesto dell’alleanza la negazione dei benefici di Dio è sufficiente a privare di qualsiasi

valore il precetto da lui dato. La donna respinge con fermezza l’insinuazione del serpente affermando

che Dio ha proibito di mangiare il frutto di un solo albero, dopo aver messo a disposizione quelli di

tutti gli altri (vv. 2-3). Ella però eccede in quanto dice che Dio ha proibito anche di toccare il frutto

dell’albero che sta in mezzo al giardino: il fatto di esagerare il comando nasconde forse già il

desiderio di trasgredirlo.

Visto che il suo tentativo di negare il dono di Dio è stato respinto, il serpente, sferra un secondo

attacco mettendo in dubbio la realtà della pena: mangiando il frutto dell’albero proibito non si

incorre nella morte ma si ottiene il privilegio di essere come Dio, venendo a conoscere il bene e il

male (vv. 4-5). Se mangiando il frutto dell’albero non si incorre in conseguenze negative, ciò significa

che Dio, togliendo questa possibilità, dimostra di essere un despota geloso, che non teme di mentire

per difendere le proprie prerogative. Così il precetto viene di nuovo a perdere la sua credibilità e la

sua forza vincolante.

Alla seconda insinuazione del serpente la donna non risponde. Il narratore si limita a osservare che

ella comincia a guardare con occhio diverso il frutto proibito, che ora le sembra buono da mangiare,

«gradito» agli occhi, e «desiderabile» per acquistare saggezza: il diverso modo di vedere l’albero

indica un cambiamento interiore, determinato dall’insorgere del desiderio egoistico. L’insorgere

incontrastato del desiderio provoca automaticamente l’atto esterno dell’appropriazione: la donna

mangia il frutto e ne dà anche all’uomo, il quale la segue senza nulla obiettare (v. 6). Per il narratore

la responsabilità dell’uomo non è per nulla inferiore a quella della donna. Come conseguenza del

loro peccato, i progenitori si rendono conto di essere nudi (v. 7): è questo il segno di un turbamento

interiore che d’ora in poi condizionerà i loro rapporti.

Il narratore presenta dunque il gesto dei progenitori come un peccato di desiderio: volendo ottenere

una prerogativa divina, essi si ribellano a Dio e rompono la dipendenza da lui (clausola

fondamentale). Non è chiaro in che cosa consistesse per il narratore la «conoscenza del bene e del

male». Secondo alcuni studiosi si tratta del rapporto sessuale. Nulla però lascia intendere che Dio

avesse proibito ai progenitori l’esercizio della sessualità, anche se di fatto questo avrà luogo solo

dopo il peccato. Secondo altri, oggetto del desiderio è la conoscenza di tutte le cose. Nel linguaggio

biblico infatti «bene» e «male» possono essere i due estremi che delimitano tutta la realtà: l’uomo

quindi avrebbe desiderato di ottenere una conoscenza quasi infinita, che compete solo a Dio. A

questa interpretazione si oppone però il fatto che Dio, dopo il peccato, affermerà che l’uomo

effettivamente è diventato come lui conoscitore del bene e del male (v. 22).

È più probabile quindi l’interpretazione secondo cui la conoscenza proibita consisteva nella facoltà

di determinare per proprio conto ciò che è bene e ciò che è male. L’uomo avrebbe quindi desiderato

una totale autonomia in campo morale. In tal modo si sarebbe arrogato una prerogativa divina,

rifiutando così la propria dipendenza da Dio.

In questo testo si parla solo apparentemente di eventi capitati all’inizio della storia. In realtà l’autore,

usando un procedimento simile a quello dei miti, ha voluto dire qualcosa che riguarda l’uomo di tutti

i tempi e di tutte le culture, e cioè ha voluto spiegare la sua situazione di sofferenza e di morte. A

tale scopo egli ha immaginato che all’inizio della storia l’uomo si trovasse in una situazione ideale,

dalla quale è decaduto a causa di un suo peccato. Così facendo egli vuol far vedere che la presenza

del male, in tutti i suoi aspetti, non deriva da Dio, ma dall’uomo stesso, il quale si è precluso quella

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felicità che Dio gli aveva concesso all’inizio. Questo modo di procedere, tendente a scagionare Dio,

ha uno scopo ben preciso: mostrare come Dio, non essendo responsabile del male presente in questo

mondo, continua a offrire all’uomo la possibilità di superare i suoi limiti e di raggiungere una

condizione di vita adeguata alla sua dignità.

Oggi è difficile pensare, come si è fatto fino a tempi molto recenti, che ci sia stato all’origine un

peccato che ha dato origine a tutto il male presente in questo mondo. Questo è escluso non solo dal

genere letterario dei racconti, il cui carattere è chiaramente mitologico, ma anche dal fatto che è

impossibile pensare a un’epoca dell’oro iniziale. La scienza ormai ha messo in luce che l’umanità di

oggi è il punto di arrivo di una lunga evoluzione, che ha portato a uno sviluppo sempre maggiore

delle facoltà dell’uomo in tutti i campi. Bisogna dunque pensare che il male morale, come quello

fisico, fa parte della natura dell’uomo che è chiamato ad evolversi, andando contro corrente, cioè

contrastando gli istinti animaleschi che ancora sono presenti in lui. La salvezza consiste in un

supplemento di grazia che spinge l’uomo, pur fra tanti dolorosi contrattempi, ad evolvere verso una

più piena umanizzazione in vista di un mondo migliore, che sarà chiamato «regno di Dio».

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SALMO RESPONSORIALE (Sal 50,3-6.12-14.17) (51)

Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;

nella tua grande misericordia

cancella la mia iniquità.

Lavami tutto dalla mia colpa,

dal mio peccato rendimi puro. R.

Sì, le mie iniquità io le riconosco,

il mio peccato mi sta sempre dinanzi.

Contro di te, contro te solo ho peccato,

quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto. R.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,

rinnova in me uno spirito saldo.

Non scacciarmi dalla tua presenza

e non privarmi del tuo santo spirito. R.

Rendimi la gioia della tua salvezza

sostienimi con uno spirito generoso.

Signore apri le mie labbra

e la mia bocca proclami la tua lode. R.

Salmo 50 (51)

Con questo stupendo Salmo, la Liturgia della “Parola” invita ogni fedele a pregare come fece re

Davide, dopo che il Profeta Natan, mediante il delicato, ma deciso racconto di una parabola, aveva

provocato in lui la piena consapevolezza del duplice peccato (quello di impurità con Betsabea e

quello dell’omicidio verso suo marito Uria). Il primo pensiero di Davide pentito è rivolto al Signore,

del quale riconosce la pietà misericordiosa e l’infinita clemenza; egli esprime la sua fede in questo

amore gratuito con tre verbi di intensa efficacia (cancella, lavami, purificami). È bello constatare come

il grande re, ispirato da una profonda umiltà, sia consapevole della sua misera condizione di

peccatore; egli, anche se sprofondato nell’abisso della trasgressione, con questa preghiera diventa

modello di umiltà per ogni cristiano o, meglio, per tutti coloro che, ieri come oggi, sentono il bisogno

di essere liberati dalle loro colpe, per vivere in pienezza la loro condizione di figli di Dio.

È una preghiera avvolta nel dolore il cui pianto di contrizione è accompagnato, però, dall’esultanza

per il perdono; si intuisce, infatti, che la gioia per l’uomo peccatore è possibile esclusivamente nella

conversione, nella contrizione e nell’accoglienza della giustificazione. Solo in tale realtà è possibile,

in questo inizio di Quaresima, cantare con gioia la bontà del Signore e la sua misericordia, e

annunciarla anche agli altri fratelli credenti e non credenti.

Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)

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SECONDA LETTURA

Dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (5,12-19)

Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il

peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti

hanno peccato.

Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può

essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè

anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di

Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.

Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo

tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del

solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del

dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene

da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed

è per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato

a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della

grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù

Cristo.

Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la

condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini

la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo

uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno

solo tutti saranno costituiti giusti.

Parola di Dio.

Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)

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Rm 5,12-19

Peccato e grazia

Il c. 5 della lettera rappresenta l’ultimo anello della lunga esposizione riguardante la giustificazione

mediante la fede iniziata in 1,16. In esso l’apostolo, dopo aver messo in luce la prospettiva

escatologica della giustificazione (vv. 1-11), passa a trattare il tema della vittoria sul peccato che essa

comporta (vv. 12-21), sottolineando come la liberazione dal peccato implichi il passaggio dell’uomo

dalla solidarietà con l’umanità peccatrice (vv. 12-14) alla solidarietà con Cristo (vv. 15-19).

Solidarietà con Adamo (vv. 12-14)

Il testo inizia con questa affermazione: «come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo

e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato»

(v. 12). In questo versetto la situazione in cui si trovava l’umanità prima di Cristo viene descritta alla

luce di quanto la Genesi dice di colui che è stato il primo peccatore. Il brano inizia con un «come»,

che introduce un confronto tra due personaggi, Adamo e Cristo. Il primo termine di paragone è

Adamo, il quale sarà citato per nome solo in seguito. Il riferimento al progenitore dell’umanità deve

essere compreso alla luce di un concetto tipico del mondo biblico designato con l’appellativo di

“personalità corporativa”: in base ad esso una collettività viene identificata con una singola persona,

la quale rappresenta tutti i suoi membri ed esprime in se stessa quelle spinte che stanno alla base

della loro aggregazione. Così Adamo è presentato nella Genesi non solo come il progenitore, ma

anche come il simbolo e il rappresentante di tutta l’umanità che da lui deriva.

Evocando la figura di Adamo Paolo osserva che «a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel

mondo e con il peccato la morte». Al peccato viene strettamente associata la morte, che nel racconto

genesiaco rappresenta la sua immediata conseguenza; anche qui, la morte fisica è vista come simbolo

di una realtà più drammatica, che consiste nel distacco da Dio.

Dopo aver caratterizzato Adamo come colui che ha introdotto il peccato e la morte nel mondo, Paolo

non introduce ancora il secondo termine di paragone, cioè la figura e il ruolo di Cristo, ma

approfondisce ulteriormente le conseguenze del gesto di Adamo. Egli afferma che, per sua colpa,

anche la morte «è entrata» in tutti gli uomini, cioè ha preso possesso di loro, «poiché (eph’ôi) tutti

hanno peccato». In passato l’espressione eph’ôi è stata erroneamente tradotta «nel quale», e di

conseguenza si è supposto che «in Adamo» tutti abbiano peccato, cioè che il peccato da lui

commesso si sia trasmesso a tutti i suoi discendenti. Nei tempi moderni si è invece accertato che

eph’ôi in greco significa semplicemente «poiché»: Paolo vuole quindi affermare che, dopo essere

entrata nel mondo con il peccato di Adamo, la morte ha raggiunto tutti gli uomini a motivo del fatto

che tutti hanno peccato. In altre parole il peccato di Adamo ha avuto effetti devastanti in quanto tutti

gli uomini, con i loro peccati personali, si sono resi partecipi e corresponsabili di quella situazione di

morte a cui egli ha dato inizio.

Dopo aver segnalato l’ingresso nel mondo del peccato e della morte, Paolo prosegue: «Fino alla

Legge infatti c'era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca

la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza

della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire» (vv. 13-14). La situazione di

peccato e di morte determinata dal primo uomo si è protratta fino al momento in cui Dio ha conferito

la legge a Israele. Alla mente di Paolo sale però un’obiezione: come è possibile ciò «se il peccato non

può essere imputato quando manca la legge»? Se non c’è una legge che proibisce una certa azione,

il commetterla non può essere considerato come peccato, se si intende per peccato la trasgressione

di un precetto. Ma per Paolo non esiste nessun essere umano che non abbia avuto, se non la legge

Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)

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mosaica, almeno qualcosa di simile: tutti infatti hanno conosciuto Dio, venendo così a conoscere

quella legge morale che hanno trasgredito. Perciò risponde all’obiezione osservando che «la morte

regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della

trasgressione di Adamo» (v. 14). In altre parole siccome la morte, vista come un fatto non solo fisico

ma anche spirituale (lontananza da Dio), ha manifestato i suoi effetti devastanti anche su coloro che

non avevano ricevuto come Adamo un precetto esplicito, ciò è sufficiente per dire che anch’essi non

sono esenti dal peccato.

Paolo aggiunge che Adamo è «figura di colui che doveva venire». Con queste parole riporta il

discorso all’intenzione originaria, che era quella di confrontare Adamo con Cristo. Tutti gli uomini si

sono resi corresponsabili del peccato commesso dal primo uomo, cioè si sono lasciati liberamente

coinvolgere nella situazione che da lui ha avuto origine. Ma la sua persona è solo una «figura» di

Cristo: egli parla dunque di Adamo nella misura in cui è utile per capire meglio il ruolo di Cristo.

La comunione con Cristo (vv. 15-19)

La seconda parte del brano è dominata dal confronto tra l’opera di Adamo e quella di Cristo.

Anzitutto l’apostolo sottolinea la superiorità dell’opera di Cristo su quella di Adamo (vv. 15-17) e

successivamente li contrappone l’uno all’altro facendo ricorso al parallelismo antitetico (vv. 18-19).

La superiorità di Cristo su Adamo (vv. 15-17) viene messa in luce a partire dal concetto di personalità

corporativa, quale appare da due figure bibliche, il Servo di JHWH e il Figlio dell’uomo, che incarnano

in se stesse tutto il popolo eletto.

Il Servo di JHWH è un personaggio anonimo che annuncia ai giudei esuli in Babilonia la loro

imminente liberazione, ma è osteggiato e perseguitato, finché viene eliminato fisicamente. Tuttavia

proprio mediante la sua morte porta a termine la sua missione. Mediante la sua sofferenza e la sua

morte, di cui sono responsabili proprio coloro a cui è diretto il suo messaggio, il Servo diventa

dunque il punto di aggregazione degli israeliti dispersi in terra straniera, che in lui riscoprono la loro

elezione e ritornano al loro Dio.

Il Figlio dell’uomo, di cui si parla nel libro di Daniele (Dn 7), è un individuo (= figlio) appartenente

alla razza umana (= «uomo» in senso collettivo): egli è «l’Uomo» per eccellenza, il nuovo Adamo, al

quale è affidato, in contrasto con il primo Adamo, il compito di mediatore della salvezza. Il Figlio

dell’uomo viene da Dio e riceve da lui un regno eterno: egli è dunque il mediatore escatologico per

mezzo del quale Dio instaura il suo regno, ma al tempo stesso rappresenta il popolo dei santi

dell’Altissimo, cioè l’Israele escatologico.

Paolo sviluppa la sua dimostrazione mediante tre argomenti.

La superiorità di Cristo su Adamo appare anzitutto dal fatto che «il dono di grazia» non è come la

«caduta»: se la caduta di uno solo ha fatto sì che «tutti» morissero, molto di più grazie a un solo

uomo, Gesù Cristo, la grazia di Dio ha abbondato «per tutti» (v. 15). Proprio per la sua funzione di

Uomo (Figlio dell’uomo, nuovo Adamo) e di Servo di JHWH, Cristo ha portato a tutta l’umanità una

realtà di segno positivo (grazia) che supera immensamente quella di segno negativo (morte) di cui è

stato portatore Adamo.

Nel secondo argomento Paolo fa un confronto antitetico tra due situazioni analoghe: un solo atto

peccaminoso ha procurato la condanna, mentre molte cadute sono state eliminate mediante quella

grazia speciale che consiste nella giustificazione (v. 16).

Infine egli aggiunge un terzo argomento. Se è vero che la caduta di uno solo è stata capace di far

regnare la morte, molto più grande è il dono della giustizia, attuata da Cristo, perché in forza di esso

quelli che lo ricevono regneranno nella vita (v. 17).

Nell’opera di Cristo, nuovo Adamo, si attua quindi un’opera molto più grande e potente di quella

compiuta dal primo Adamo. Questi infatti ha commesso un’azione peccaminosa (caduta), che è il

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tipo e il punto di partenza di tutte le altre, e da essa è derivato un danno terribile per l’umanità, la

morte. Cristo invece ha vinto la morte, ha effuso la grazia di Dio, ha effettuato la giustificazione e ha

instaurato il regno di Dio, aprendo la strada alla risurrezione finale. Egli ha così dimostrato una

potenza aggregativa che mette decisamente in secondo piano quella disgregativa di Adamo.

Nella seconda parte del brano Paolo prosegue in chiave analogica il confronto tra l’opera di Adamo

e quella di Cristo (vv. 18-19). Come per la «caduta» di uno solo (si è riversata) su tutti gli uomini la

condanna, così anche per l’«opera giusta» di uno solo (si riversa) su tutti la «giustificazione che dà

vita». Come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così per

l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti. Adamo, con la sua disobbedienza, ha

provocato la condanna e la morte di tutti, Cristo, con la sua obbedienza, ne ha causato la

giustificazione e la vita.

In questo brano Paolo mostra come il peccato abbia creato nell’umanità tutta una rete di connivenze

e di rapporti sbagliati, che ha la sua origine in Adamo, cioè risale agli inizi stessi dell’umanità; da essi

deriva la morte, intesa non solo come cessazione della vita fisica, ma come il fallimento più radicale

dell’uomo e della sua umanità. Ogni essere umano, nel momento stesso in cui viene al mondo, si

trova già in qualche modo immerso in questa triste realtà, ma ne diventa corresponsabile nella misura

in cui anch’egli liberamente si associa ad essa con il suo peccato personale.

Paolo non pensa dunque che il peccato di Adamo si trasmetta misteriosamente da lui a ognuno dei

suoi discendenti, ma lo considera come l’inizio di una «situazione di peccato» in cui tutti, non senza

loro colpa e con le debite eccezioni, sono coinvolti.

Circa Adamo e il suo peccato Paolo non ha dunque una rivelazione speciale da fare, ma riprende

questa suggestiva immagine biblica per mostrare come Dio abbia inviato un nuovo Adamo,

capostipite di un’umanità riconciliata, al quale ognuno è chiamato ad associarsi mediante la fede.

A proposito del rapporto tra peccato e morte, Paolo non vuole affermare che, senza il peccato di

Adamo, la morte in senso fisico non sarebbe esistita: la morte è un evento naturale, e come tale viene

solitamente considerata nella Bibbia. Al contrario egli ritiene che, a causa del peccato, la morte cambi

profondamente significato: senza di esso l’uomo avrebbe terminato la sua esistenza terrena nella

comunione con Dio e nella serena fiducia di una sopravvivenza in lui; il peccato, invece, fa sì che la

morte diventi il simbolo e il marchio del suo fallimento, trasformandola quindi in una realtà ostile,

che l’uomo tende continuamente a rimuovere. E proprio nel vano tentativo di allontanare la morte,

l’uomo peccatore si chiude sempre più nella difesa egoistica di se stesso e dei suoi privilegi (denaro,

potere, gloria), immergendosi così ancora di più nel suo peccato.

Alla dolorosa realtà a cui il primo uomo ha dato inizio Paolo contrappone l’opera di Cristo, che con

la sua morte e risurrezione ha sostituito alla condanna la «grazia» di Dio. Questa fa sì che il credente

esca dal suo isolamento per ritrovarsi in una profonda armonia con Dio e con i fratelli. In questa sua

opera, che lo accomuna al Servo di JHWH, Cristo appare come il nuovo Adamo da cui ha origine

un’umanità riconciliata con Dio.

Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)

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CANTO AL VANGELO (Mt 4,4b)

Lode a te, o Cristo, re di eterna gloria!

Non di solo pane vivrà l’uomo,

ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

Lode a te, o Cristo, re di eterna gloria!

VANGELO

Gesù digiuna per quaranta giorni nel deserto ed è tentato

Dal vangelo secondo Matteo (4,1-11)

In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato

dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe

fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste

pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà

l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».

Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio

e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli

darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo

piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche “Non

metterai alla prova il Signore Dio tuo”».

Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni

del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti

ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto

infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».

Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

Parola del Signore

Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)

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Mt 4,1-11

Le tentazioni di Gesù

Dopo il preludio, rappresentato dai racconti riguardanti l’infanzia di Gesù, Matteo apre il suo vangelo

con tre quadri che riguardano la predicazione di Giovanni il Battista (3,1-12), il battesimo di Gesù

(3,13-17) e la tentazione nel deserto (4,1-11). Il collegamento della tentazione con il battesimo è

molto stretto, poiché il tentatore si rifà precisamente alle parole pronunciate dalla voce celeste in

quella occasione. La narrazione si apre con una breve introduzione, dove vengono presentati i

protagonisti (vv. 1-2), prosegue con il triplice intervento di satana (vv. 3-10) e termina con un versetto

conclusivo (v. 11).

Introduzione (vv. 1-2)

Il brano si apre con una nota informativa: Gesù viene condotto nel deserto dallo Spirito (v. 1). Queste

parole richiamano quelle rivolte da Mosè a Israele in Dt 8,2. Chi conduce Gesù nel deserto è lo stesso

Spirito che era disceso su di lui in occasione del battesimo. Scopo di questo intervento è, come per

Israele, la tentazione, che quindi appare come voluta da Dio. La «tentazione» nell’uso biblico significa

«prova», «esame», ma anche «tentazione» nel senso morale di sollecitazione al male. Gesù era stato

dichiarato «Figlio di Dio» al Giordano; ora è sottoposto alla prova, affinché appaia in modo univoco

il significato di questo titolo. Sebbene sia lo Spirito a condurre Gesù nel deserto, colui che lo

sottopone alla tentazione è il diavolo.

Nel deserto Gesù rimane quaranta giorni e quaranta notti. Questo periodo di tempo richiama sia i

quarant’anni trascorsi da Israele nel deserto, sia i quaranta giorni e quaranta notti in cui Mosè è

rimasto sul monte Sinai, prima di ricevere le tavole della Legge. Diversamente da Marco, Matteo e

Luca sottolineano che in questo periodo Gesù ha digiunato, e alla fine ha avuto fame.

Prima tentazione (vv. 3-4)

La fame, che subentra al lungo digiuno, fornisce l’occasione della prima tentazione. Il tentatore si

avvicina a Gesù e gli chiede di dimostrare la sua qualifica di Figlio di Dio trasformando le pietre in

pane (v. 3). L’espressione «Se sei Figlio di Dio» fa riferimento alle parole pronunciate dalla voce divina

in occasione del battesimo. Nell’AT il titolo di «Figlio di Dio» designa spesso il Messia. Da questo

titolo, ripetuto anche a proposito della seconda tentazione, si coglie immediatamente il senso

messianico del racconto. Se Gesù è il Messia, ha diritto di esigere da Dio un intervento miracoloso

per procurargli il pane, così come aveva fatto per Israele quando nel deserto si era lamentato per la

mancanza di cibo.

A questa tentazione Gesù risponde con una citazione biblica: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di

ogni parola (dabar) che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8,3). Il termine ebraico dabar può significare sia

«parola» che «cosa»: il testo gioca su questa ambiguità per presentare la manna come simbolo della

parola di Dio, cioè dei suoi comandamenti, che appaiono così come il vero cibo degli israeliti. Mentre

Israele nel deserto aveva dubitato dell’aiuto divino, Gesù esprime la sua fiducia incondizionata in Dio,

il quale non lascia mancare il cibo a chi si affida totalmente alla sua parola.

Seconda tentazione (vv. 5-7)

La seconda tentazione ha come teatro il tempio di Gerusalemme, quello che era il centro spirituale

del giudaismo (vv. 5-6). Essa si svolge sul pinnacolo del tempio, che indica probabilmente l’angolo a

sud-est, dove si incrociavano le mura del portico di Salomone e di quello regio, con uno strapiombo

nella vallata del Cedron. Da lì venivano precipitati i bestemmiatori. Il fatto che la tentazione avvenga

Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)

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simbolicamente in questo luogo significa che essa concerne qualcosa di essenziale per l’ebraismo.

La proposta del diavolo riguarda ancora Gesù come «Figlio di Dio» (= Messia): se è veramente tale

deve poterlo dimostrare con un gesto che manifesti la protezione speciale che Dio gli garantisce. A

sostegno della sua richiesta il diavolo cita Sal 91,11-12, dove si parla del soccorso che gli angeli

garantiscono a chi confida in Dio.

Gesù risponde: «Non metterai alla prova il Signore Dio tuo» (v. 7). Anche questa è la citazione di un

testo biblico, che rievoca l’episodio dell’acqua scaturita dalla roccia (Dt 6,16). Giunto a Massa, che

significa «tentazione», e Meriba, «contestazione, protesta», il popolo aveva messo alla prova Dio con

mormorazioni e contestazioni, esigendo dell’acqua e minacciando persino di lapidare Mosè. Da

questo episodio il Deuteronomio deduce che non si deve mettere Dio alla prova, perché ciò è un

segno palese di sfiducia nei suoi confronti. Gesù non segue l’esempio degli israeliti, ma rinnova la

sua adesione alla volontà del Padre, dimostrando così piena fiducia in lui.

Il significato di questa tentazione appare chiaramente sullo sfondo delle attese di un messianismo

spettacolare, molto diffuse al tempo di Gesù. Gesù compirà numerosi miracoli, ma solo in funzione

del suo annuncio salvifico e in favore dei poveri, dei malati e degli emarginati, e come segno della

vicinanza del regno di Dio. Ogni uso del miracolo per dimostrare l’attendibilità del suo messaggio e

il suo ruolo di inviato sarà da lui escluso in modo drastico.

Terza tentazione (vv. 8-10)

La terza tentazione costituisce il culmine dell’assalto diabolico contro Gesù (vv. 8-9). Il tentatore lo

porta su di un monte assai alto, dal quale si possano contemplare tutti i regni del mondo con il loro

splendore. Il diavolo promette a Gesù di dargli in possesso tutti i regni, esigendo però in cambio di

essere «adorato» al posto di Dio; con questa richiesta vuole non solo che Gesù si sottometta a lui,

ma che riconosca il suo potere sul mondo. Il diavolo prospetta dunque a Gesù un regno trionfalistico,

sorretto dal potere politico e dal possesso delle ricchezze terrene.

Gesù allora smaschera il seduttore, chiamandolo con il suo vero nome, satana, e comandandogli

energicamente di andarsene via (v. 10). Anche questa volta Gesù fa ricorso a una citazione biblica,

rifacendosi al testo in cui Mosè esorta Israele a non dimenticare il Signore, che l’aveva liberato

dall’Egitto, bensì a temere e a servire lui solo (Dt 6,13). Mentre Israele si contaminò con l’idolatria

adorando il vitello d’oro, preludio delle future defezioni nella Terra promessa, Gesù non si lascia

suggestionare dal miraggio del potere e dei beni mondani, ma rinnova la sua fedeltà assoluta al

Padre.

Conclusione (v. 11)

Il superamento della terza tentazione consente a Gesù di essere servito dagli angeli (v. 11). Il tentatore

aveva suggerito che essi avrebbero protetto Gesù se si fosse gettato giù dal pinnacolo del tempio.

Ora essi provvedono veramente a lui in nome di Dio proprio perché non aveva preteso

arbitrariamente il loro intervento. Anche Israele durante l’esodo era stato assistito dagli angeli;

tuttavia non aveva saputo corrispondere alla benevolenza di Dio. Gesù invece, in forza della sua

fedeltà, riceve da Dio per mezzo degli angeli tutto ciò di cui ha bisogno.

Non mancano nel NT i passi in cui appare che Gesù è stato provato durante la sua vita terrena. Si

dice, per esempio, che fu «provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato». Certo i

vangeli non descrivono la sensibilità umana o la costituzione psicologica di Gesù; tuttavia bisogna

riconoscere che egli ha fatto, durante tutto il suo ministero, delle scelte in contrasto non solo con le

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pressioni che gli venivano dai detentori del potere religioso e politico, ma anche con le suggestioni

delle folle e dei suoi discepoli.

La narrazione della triplice tentazione dà l’impressione di un dibattito scritturale tra Gesù e Satana.

Si tratta evidentemente di un abile montaggio, probabilmente elaborato in base alla rilettura del

Deuteronomio. Il racconto evangelico ricalca infatti la riflessione del deuteronomista sulle prove

d’Israele. Ora, mentre gli israeliti non seppero conservare la fiducia nell’assistenza di Dio, che aveva

già dato loro tante prove di amore, Gesù non esige alcuna garanzia dal Padre, ma si rimette

totalmente al suo volere, fidandosi solo nella sua parola.

Le tre tentazioni diaboliche hanno un comune denominatore: l’uso dei mezzi materiali, il pane, i

prodigi, il potere politico, per attuare non un progetto qualsiasi, ma quello che Dio ha rivelato a Gesù

nel momento del suo battesimo. In altre parole il confronto riguarda la persona di Gesù e in

prospettiva l’instaurazione del regno di Dio. Ciò che viene respinto è un messianismo di tipo

miracolistico e nazionalistico, quello cioè secondo cui un giorno il messia avrebbe attuato il regno di

Dio assoggettando al suo potere tutti i regni della terra. Anzi il racconto mostra chiaramente che la

conquista e l’instaurazione di un potere imperialistico in nome di Dio è una perversione diabolica

della vera fede in Dio, signore di tutti. Naturalmente ciò vale anche per i suoi discepoli e per tutta la

Chiesa. La via scelta da Gesù diventa così il criterio fondamentale per valutare non solo

l’orientamento di vita dei singoli cristiani, ma anche della Chiesa nel corso dei secoli.