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vita ospedaliera e informazioni culturali - milano - fondazione IRCCS ospedale maggiore policlinico, mangiagalli e regina elena - anno XLVI - n. 3 - 2005 la ca’ granda

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  • vita ospedaliera e informazioni culturali - milano - fondazione IRCCS ospedale maggiore policlinico,mangiagalli e regina elena - anno XLVI - n. 3 - 2005

    la ca’ granda

  • vita ospedaliera e informazioni culturali - milano - fondazione IRCCS ospedale maggiore policlinico,mangiagalli e regina elena - anno XLVI - n. 3 - 2005

    La copertinaSant’Ambrogio - che ricordiamo nella data tradizionale - dal cortile richiniano dell’antica Ca’ Granda: autore F.Pandiani sul calco originale scolpito dall’Amadeo (Foto d’archivio della Soprintendenza per i Beni AA. e AA.)

    Direttore responsabile: FRANCA CHIAPPA. Ufficio Stampa, attività e programmi culturali della Fondazione.Direzione, redazione, amministrazione: via F. Sforza 28, 20122 Milano, telefoni 02-55038311 e 02-55038376fax 02-5503.8264

    È consentita la riproduzione totale o parziale degli articoli, purché di volta in volta autorizzata e citando la fonte.

    sommario

    Ai lettori 1

    pagina

    Intervista - La Fondazione FieraMilano entra nella Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico,Mangiagalli e Regina Elena Alvise Mamprin a Luigi Roth e a Carlo Tognoli 2

    La Medicina alle soglie del terzo millennio: ma è cambiato l’uomo? Francesco Fiorista 15

    Obesità, consumi di lusso e stili alimentari nella storia Giorgio Cosmacini 6

    L'edicola, libreria di quartiere affollata come un supermercato Piero Lotito 21

    Due Crocette Vincenzo Bevacqua 23

    Le riunioni Antonio Randazzo 32

    L’Ospedale Maggiore partecipa alla mostra in Giappone:“Milan: The Splendor of a Great City” Paolo M. Galimberti 36

    Arte sacra ritrovata Daniele Cassinelli 39

    Nel ricordo del professor Vittorio Perotti Walter Montorsi 43

    Cronache amministrative 50

    la ca’ granda

    Asterisco 27

    Recensioni Elisabetta Zanarotti Tiranini 45

    Efficacia e sicurezza dei farmaci e prodotti salutistici: un po’ di chiarezza sui termini Giuseppe Maiocchi 9

    Tra arte e moda: seconda indagine curiosa tra i dipinti dell’Ospedale Maggioree del Pio Albergo Trivulzio Cristina Cenedella 28

    Dal Passato: L’impegno autodidattico del medico Piero Franzini 47

    La convivenza Antonella Cremonese 34

  • Nel titolo dell’intervista che apre il fascicolo a Luigi Roth e a Carlo Tognoli è implicita la domanda di molti nostri let-tori: perché la Fiera con l’Ospedale Maggiore? La risposta all’inizio del testo: “due fondazioni diverse, eppure ugualinell’interpretare - nei due differenti contesti storici - un certo modo di “essere Milano” (...) e, ancora “la ricchezzache si fa opera di bene (...) ed elegge la città a “soggetto sociale” fondando e mantenendo un grande ospedale”.

    Di una malattia del nostro tempo - l’obesità - Giorgio Cosmacini ripercorre storicamente quelle che furono le idee deimedici al riguardo, esemplificando in alcuni personaggi illustri lo stile alimentare improntato ai “consumi di lusso”.

    La competenza e la chiarezza che conosciamo, nell’intervento del dott. Giuseppe Maiocchi a commento delle forme dipresentazione e comunicazione nel campo medico-farmaceutico: qui si tratta del “placebo”, termine frequentemente enon sempre opportunamente chiamato in causa, e aperto per noi in queste pagine alla migliore comprensione.

    L’uomo di fronte alla malattia ieri e oggi: gli basta ciò che consentono e ottengono le grandi scoperte di questi anni?Gli bastano la trasformazione profonda della tecnologia e le “certezze” riportate quotidianamente dai media sui...“miracoli documentati” della medicina? Il dott. Francesco Fiorista alle pagine 15-20.

    L’edicola e la sua nuova “accoglienza” del mercato: un po’ di tutto, puntato sui colori che attirano il lettore, suglioggetti incredibili che accompagnano i giornali, ma... e finalmente, il libro. Da prendere in mano, da guardare, e por-tare a casa. Nuovi tempi e nuovi interessi. Una conquista - per Piero Lotito - che continuerà.

    Ancora un dono sulla conoscenza della nostra città dal prof. Vincenzo Bevacqua: qui si tratta delle quasi sconosciute“Crocette”, ma le sue sono comunque pagine attese anche dai nostri lettori, in quanto nell’autore - milanese - è vivaed evidentissima sempre la passione per la ricerca, ma con un interesse “affettivo” che gli fa unire costantemente nelricordo la Città alla Ca’Granda.

    La prima originale indagine di Cristina Cenedella nel fascicolo 3/04 della rivista, tra i nostri quadri, i nostri ritratti equelli del Pio Albergo Trivulzio, ha destato particolare interesse e attesa di un seguito. Qui nuovi confronti fra benefat-trici e benefattori dei due Enti nell’Ottocento.

    Particolare spirito di osservazione sul quotidiano nel prof. Antonio Randazzo e, come sempre, una piacevole bonariaironia che richiama la nostra attenzione sugli ormai purtroppo diffusi comportamenti attorno a noi e, però, augurabi-le, anche sui nostri.

    La convivenza da augurare quotidianamente a tutti è quella che Antonella Cremonese nota giornalista del Corrieredella Sera, molto nota anche fra i nostri lettori, ci rende familiare portandoci realisticamente nel suo luogo di lavoro,rivelandoci momenti diversi con particolare sensibilità e, anche, con affettuose considerazioni.

    Due interventi dal nostro archivio storico: Paolo Galimberti dà notizie dell’importante partecipazione dell’OspedalePoliclinico, oggi Fondazione, “che si conferma come una realtà di assoluto rilievo nel panorama museale milanese”alla Mostra Milan: The Splendor of a Great City, a Osaka. Daniele Cassinelli ci fa conoscere storia e ritrovamento dialcune nostre opere di arte sacra con notizie interessanti anche sugli autori delle stesse.

    Il prof. Montorsi ricorda il prof. Vittorio Perotti, figura istituzionale delle nostre - allora quattro - unità ospedaliere,recentemente scomparso.

    “Donne contro le guerre”: chiara e meditata la recensione di Elisabetta Zanarotti Tiranini.

    Competenza ed esperienza dell’indimenticabile prof. Piero Franzini nell’attesa rubrica Dal Passato.

    L’asterisco e le cronache amministrative chiudono il fascicolo.

    ai lettori

    stampe trimestrali - Sped. abb. post. 70% - filiale di Milano - n. 3 - 2005 - registrazione Tribunale di Milanon. 5379, II-8-1960.

    stampa: Stampamatic Spa - Settimo Milanese (MI) - via Albert Sabin, 20; fotocomposizioni: Artea (SettimoMilanese) - via E. Fermi, 28; fotolito: Digital Seleprint s.r.l. - Milano - via Cortina d’Ampezzo,12.

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    Da una parte la Fondazione Ospedale MaggiorePoliclinico, Mangiagalli e Regina Elena, chenasce dalla storica Ca’ Granda fondata nel 1456.Dall’altra la Fiera di Milano, che nasce nel 1920 edal 2000 opera come Fondazione di diritto privatoalla guida del gruppo FieraMilano. Due Fondazio-ni diverse, eppure uguali nell’interpretare - neidue differenti contesti storici - un certo modo di“essere Milano”, che parte sempre da uno sguardosul mondo futuro, e parla un linguaggio di novità,modernità, spirito d’impresa.Era anche “impresa”, 550 anni fa, fondare unospedale per curare gli ammalati con le miglioririsorse e i migliori medici a disposizione in queltempo, andando al di là del concetto antico diricovero e assistenza. Ed è stata “impresa” nelsenso moderno della parola, davanti alla Milanoche 86 anni fa fioriva di fabbriche e di attivitàproduttive, pensare a qualcosa che le mettesse inuna vetrina che ben presto sarebbe stata interna-zionale. Con meno voglia di spettacolo dell’Espo-sizione Universale di Parigi del 1900, e con lospirito più vicino alla prima grande esposizioneindustriale che si tenne a Londra nel 1851, perproporre una nuova forma di rapporti tra le nazio-ni tramite l’industria, avendo come speranza lapace.Il fatto che alla fine di luglio Fondazione Fiera-Milano sia entrata, come partecipante a pieno tito-lo, nella Fondazione Ospedale Maggiore Policli-nico, Mangiagalli e Regina Elena, è una cosa chepuò meravigliare soltanto se non si coglie un lega-

    me preciso che è sempre stato evidente, quellodella ricchezza che si fa opera di bene, con lerisorse del commercio e del lavoro che eleggonola città a “soggetto sociale”, fondando e mante-nendo un grande ospedale. Se poi si consulta quelgrande e affascinante “indice” che è la quadreriadei benefattori della Ca’ Granda (una raccoltastraordinaria, che troverà sede stabile nell’Abba-zia di Mirasole), si ha per così dire la prova-fine-stra: tra l’Ottocento e il Novecento, i titolari dellanascente industria milanese e lombarda sonoanche i sostenitori dell’ospedale, così come i lorofigli sono tra i fondatori della Fiera di Milano.Un legame che si riannoda, quindi?Lo chiediamo a Luigi Roth, presidente di Fonda-zione FieraMilano.

    Presidente Roth, qual è il senso della partecipa-zione della Fondazione FieraMilano alla Fonda-zione Ospedale Maggiore Policlinico, Mangia-galli e Regina Elena?«L’idea è nata per valorizzare gli aspetti socialidella nostra Fondazione, che si è data come nuovamission quella di essere una “Fondazione di svi-luppo”, con attività e progetti di promozione e direalizzazione di iniziative di sviluppo economico,sociale, culturale e scientifico, di riqualificazionedel territorio e di potenziamento delle infrastrut-ture al servizio delle imprese. Abbiamo pensatoche rientrava in questa filosofia portare la nostraesperienza a un progetto così nobile come quellodi rilanciare il ruolo di eccellenza dell’Ospedale

    Intervista

    La Fondazione FieraMilano entra nella FondazioneOspedale Maggiore Policlinico Mangiagalli e Regina Elena

    ALVISE MAMPRIN a LUIGI ROTH, presidente della Fondazione FieraMilanoa CARLO TOGNOLI, presidente della Fondazione Ospedale Maggiore

  • Maggiore, che si è accresciuto con l’unione degliospedali confluiti nella sua Fondazione».

    Che cosa porta con sé questo ingresso?«È un esempio di collaborazione tra pubblico eprivato in materia di sanità. Fondazione FieraMi-lano entra portando in dote un apporto di espe-rienza, di know how (cioè il “saper fare”, un insie-me di conoscenze tecniche e gestionali) e di capi-tali, per un valore di circa 13 milioni di euro insette anni.Noi però non ci mettiamo al posto della Fondazio-ne ospedaliera, e tanto meno in alternativa ai suoiprogetti. Noi non vendiamo servizi, non è questala nostra missione. Siamo entrati come parteci-panti perché sappiamo di poter portare la nostraesperienza nella interpretazione e gestione di unservizio, all’interno di un progetto che resta quel-lo dell’ospedale. Ci mettiamo a disposizione, conumiltà.Io credo nella sanità milanese. Tra l’altro, daragazzo, avrei voluto fare il medico, poi invece misono iscritto alla Bocconi e ho preso un’altra stra-da. La nostra è una sanità eccellente, il cui valoreaggiunto sono i medici e gli infermieri. È un granpeccato che spesso si debba scontrare con proble-mi strutturali».

    Nel caso della Fondazione Ospedale Maggiore,quali sono?«Il fatto più determinante è che si è in pieno cen-tro cittadino, a cento metri dal Duomo. È uno spa-zio che non è ampliabile, che resta quello che è.Per riuscire ad attuare il progetto occorre la cosid-detta “ottimizzazione”, cioè riuscire a realizzaregli obiettivi desiderati risparmiando tempi e costi,e soprattutto tenendo conto che l’attività assisten-ziale e di ricerca devono continuare senza alcunainterruzione, e mantenendo la qualità. Comeamministratore delegato della Breda Ferroviaria,dal 1993 al 2001 io ho passato la mia vita tra itreni, e se la scommessa è quella di cambiare leruote a un treno in corsa, bisogna saperlo fare».

    Com’è nata l’idea di questa collaborazione?«Come idea, nasce da un incontro in Regione conil Presidente Roberto Formigoni. E ci offre l’op-

    portunità per un primo passo concreto di applica-zione dell’ampliamento della nostra mission.Nasce dall’esperienza che ci siamo fatti con lacostruzione del Nuovo Polo della Fiera. Nessunocredeva che l’avremmo realizzato nei tempi(appena 30 mesi) e con i costi previsti. Comequalcuno ricorderà, avevamo installato una sortadi gigantesco “orologio” lungo la statale del Sem-pione, con cui facevamo il conto alla rovescia deigiorni che mancavano alla fine dei lavori. Tuttipotevano constatare che stavamo tenendo fedeall’impegno assunto.Quella del Nuovo Polo è stata una realizzazionecomplessa, perché doveva tener conto anche divariabili che non erano nelle nostre mani. Abbia-mo proceduto con il sistema del gant, un terminegestionale che consiste nel fare una valutazioneintegrata delle attività. È un diagramma di flusso,in pratica. Significa che bisogna tenere presenti,in ogni momento, tutti i segmenti che concorronoall’avanzamento dei lavori o lo ritardano, e preve-dere in anticipo come poter evitare gli ostacoli.Sennò si finisce nella situazione di game over, e illavoro si ferma.Dalla realizzazione del Nuovo Polo abbiamoimparato moltissimo, e ci siamo anche resi contoche potevamo mettere la nostra esperienza al ser-vizio di altri soggetti. Abbiamo prima lavorato perla realizzazione dei nostri progetti (per la trasfor-mazione della Fiera in un Sistema espositivo condue poli distinti ma sinergici) ma poi abbiamocominciato ad avere richieste di consulenza sualtri fronti. Dai Comuni, per esempio. Da quelli diComo e Cinisello. Abbiamo capito che siamocapaci d’interpretare lo sviluppo del territorio,rispettandolo. La nostra è stata un’esperienza irri-petibile, siamo arrivati a risultati che ci sonocostati molta fatica e ci hanno imposto estremaattenzione e severità. Sarebbe stato controprodu-cente e da egoisti non offrirci di assistere un pro-getto così nobile come questo della FondazioneOspedale Maggiore».

    Conclusioni?«Credo che le Fondazioni sono conservazione diasset indispensabili per il Paese, ma certamentesono futuro quando s’impegnano nello sviluppo».

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  • Carlo Tognoli, a proposito della presenza dellaFieraMilano nella Fondazione ospedaliera

    Da quasi un anno è nata la Fondazione OspedaleMaggiore Policlinico, Mangiagalli e ReginaElena, ente non profit il cui statuto prevede l’in-gresso di soggetti privati che siano in linea con gliobiettivi sociali. E da sei mesi nel Consiglio diamministrazione della Fondazione ospedaliera èentrata, come partecipante a pieno titolo, la Fon-dazione FieraMilano. È il primo esempio in Italiadi un “modello” che nelle speranze di tutti sidovrà dimostrare in grado di organizzare unnuovo modo di fare sanità. Mantenendo l’obietti-vo della pubblica utilità e dell’universalismo dellecure garantite a tutti, ma agendo con spiritoimprenditoriale, e arricchendo il patrimonio. Èuna realtà, quella delle Fondazioni, che si è affer-mata all’estero da molto tempo. Viene in mente una realtà profondamente diversada quella italiana e anche europea, quella degliStati Uniti, dove le Fondazioni sono ben 66mila, enel 2004 hanno contribuito alla crescita dellasocietà con la cifra record di 32,4 miliardi di dol-lari. Negli ultimi sessant’anni, in tutto il mondosviluppato, le Fondazioni hanno contribuito inmisura fondamentale allo sviluppo della medicinae della ricerca scientifica, con cui hanno formatoun binomio tanto inscindibile che probabilmentenon si va lontani dal vero se si afferma che moltescoperte e molti progressi non ci sarebbero statisenza le Fondazioni. Per l’Italia, un esempio pertutti lo fornisce la Fondazione Telethon, che hafatto crescere di molti punti la ricerca italianasulle malattie rare.Ma ci sono le Fondazioni erogatrici (cosiddette“granting”, che finanziano altri soggetti per atti-vità ritenute meritevoli di sostegno) e le Fonda-zioni operative (“operating”), che perseguono leloro finalità attraverso la propria stessa attività.Quest’ultimo è il caso della Fondazione OspedaleMaggiore Policlinico, Mangiagalli e ReginaElena. Ed è il caso della Fondazione FieraMilano,entrata con essa in un vero e proprio rapporto dipartnership. Ne parliamo con l’onorevole CarloTognoli, presidente della Fondazione OspedaleMaggiore Policlinico, Mangiagalli e ReginaElena.

    Presidente, qual è il bilancio di questi primi seimesi trascorsi dall’annuncio dell’entrata dellaFondazione FieraMilano, come partecipante apieno titolo, nella Fondazione ospedaliera?«Innanzitutto, un’immagine nuova presentata allacittà. Due enti grandi e famosi, entrambi di gran-de prestigio, hanno deciso di procedere insieme inun’operazione di forte connotazione sociale, darea questo complesso ospedaliero tutte le possibilitàdi sviluppo che sono necessarie per fare un’assi-stenza medica di eccellenza, e per portare i risul-tati della ricerca direttamente al letto del malato.La Fondazione FieraMilano, esperta di gestione edi ottimizzazione delle risorse, è un compagno distrada in grado di portare in questa operazioneuno know how di grande valore per un ente comeil nostro».

    Quali sono gli obiettivi di fondo sui quali lavore-ranno insieme la Fondazione Ospedale Maggio-re e la Fondazione FieraMilano?«Essere sempre più dinamici e aperti al nuovo;puntare all’integrazione tra ricerca e assistenza;curare il malato e non la malattia. L’unione del-l’Ospedale Maggiore con la Clinica Mangiagalli econ la Clinica De Marchi ci dà praticamente inmano la cura di tutte le età della vita, a partiredalla vita del bambino che non ha ancora visto laluce. E poi mi piace aggiungere (e il presidentedella Fondazione FieraMilano condivide questamia convinzione) che non si fa un grande ospeda-le senza valorizzare chi ci lavora. Bisogna avereattenzione verso il personale medico, infermieri-stico, tecnico. Tutte le grandi imprese internazio-nali sanno che bisogna investire nel capitaleumano se si vogliono ottenere buoni risultati».

    Lei una volta ha definito questo complesso ospe-daliero “una cittadella nella città”…«Sì, perché lo è. La Fondazione, incorporandol’Ospedale Maggiore e le altre strutture primadipendenti dagli Istituti Clinici di perfezionamen-to, ora ha davanti il compito di dare omogeneità aun complesso vastissimo, tra via Francesco Sfor-za, via Commenda, via Pace, via San Barnaba. Èun vero e proprio “polo” medico scientifico, eFieraMilano, seguendo il modello che noi abbia-

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  • mo proposto a suo tempo, ci potrà dare tutta lasua grande esperienza in tema di riqualificazionedel territorio e potenziamento delle infrastrutture.L’accordo di programma sottoscritto dai fondatori(Regione, Ministero della Salute, Comune diMilano) prevede il rifacimento e l’ampliamento dialcuni padiglioni, la demolizione di altri e lacostruzione di nuovi, nell’ambito di un progettourbanistico che ha suscitato molto interesse daparte del presidente di Fondazione FieraMilano,Luigi Roth. Perché? Perché ridisegnando il com-plesso ospedaliero si deve tener conto anche del-l’estetica, dell’ambiente, della viabilità e dei tra-sporti. Per noi, l’obiettivo è quello di realizzare“il giardino urbano della salute”. È un pezzo diMilano che viene trasformato e abbellito, mentreper i malati si prepara un complesso ospedalierocon tutti i comfort. E un grande posto sarà datoalla ricerca».

    Qui c’è la grande tradizione universitaria, cisono reparti e specialità leader in Italia, e c’èappunto una ricerca che guida la classificanazionale in molti settori scientifici. Milano sipropone in questi anni come “città della scien-za”, e ci sono molti progetti. Quali sono quellidella Fondazione Ospedale Maggiore? E qualesarà il ruolo che potrà svolgere la FondazioneFieraMilano?«Non solo vogliamo mantenere e potenziare lafunzione di ospedale di insegnamento universita-rio e specialistico, ma abbiamo un programma chemette al centro la medicina dell’immediato futuro.Dando un ruolo centrale alla ricerca. Vogliamovalorizzare e tutelare la proprietà intellettuale deirisultati della ricerca scientifica, e in questo obiet-tivo la partnership con un soggetto come la Fon-dazione FieraMilano ci sarà preziosa».

    Per la ricerca, quali sono i progetti?«Come già annunciato, qui sarà ospitato un presti-giosissimo Istituto Nazionale di Genetica Moleco-lare. Abbiamo già la Cell Factory per la moltipli-cazione delle cellule staminali e, con il Constem,il consorzio per lo studio delle cellule staminali,partecipiamo a un network di cui fanno parte imigliori scienziati italiani e centri di ricerca di

    grande livello. Le tecnologie biomediche sonouno degli altri grandi interessi, così come lo ètutto l’ambito di ricerca e di studio sulla ripara-zione e sostituzione di cellule, organi e tessuti.Alla medicina dei trapianti che ha nell’OspedaleMaggiore uno dei suoi centri più qualificati, va adaffiancarsi quella “medicina rigenerativa” che siannuncia come un punto di svolta della scienzamedica.Nel campo della medicina preventiva, abbiamoanche il progetto di sviluppare l’attività della Cli-nica del Lavoro nella direzione della ricerca sul-l’ambiente, centro di riferimento regionale. Ricor-do, a questo proposito, che lo studio longitudinalesugli effetti a lungo termine della diossina, decisodopo lo scoppio dell’Icmesa, è da allora affidatoproprio agli specialisti della Clinica del Lavoro,che hanno pubblicato numerosi report di livellointernazionale, a cui si guarda da tutto il mondo.Fondazione FieraMilano potrà avere un ruolo cen-trale nel fund raising, cioè nel reperimento dicapitali e donazioni per sostenere questa eccellen-te ricerca, e potrà dare utili suggerimenti organiz-zativi. Inoltre la sua esperienza nel suscitare even-ti e nell’essere “vetrina” privilegiata del mondodella produzione sarà di grande impatto strategicoanche nel dare al pubblico l’immagine della medi-cina e dell’assistenza moderne che noi vogliamooffrire».

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    Nel Corpus hippocraticum che comprende oltre 70trattati d’Ippocrate e della sua scuola, raccolti daibilbliotecari di Alessandria d’Egitto nel III secoloa.C., c’è il testo intitolato Regimen o, alla latina, Dediaeta. “Dieta” o “regime” sono nomi e concettiche trascendono il significato riduttivo odierno di“alimentazione” comprendendo anche l’eserciziofisico, l’attività ginnastica, il lavoro, il riposo: inuna parola lo stile di vita. L’alimentazione vera epropria vi figura peraltro a pieno titolo, correlataalla quantità e qualità dei cibi, alla sobrietà o allaopulenza di vita, alla costituzione e alla condizioneumana. Quanto alla costituzione corporea - magrez-za od obesità - nei testi della medicina greco-roma-na essa è raramente menzionata oppure, dove se nefa cenno, essa è citata con riferimento maggiore allasua varietà in difetto che alla sua varietà in eccesso,come d’altronde abbastanza ovvio in un contestosociosanitario in cui, fatta eccezione per i pochibiotipi appartenenti alle classi ricche e agiate, sifacevano i conti assai più con le penurie alimentariche con i consumi di lusso.Tuttavia nel De medicina di Aulo Cornelio Celso, ilmaggior ingegno in campo medico fiorito in Romaai tempi dell’imperatore Tiberio, c’è una frase(libro II:1) molto significativa al riguardo, nellaquale si afferma che “obesi plerumque acutis mor-bis et difficultate spirandi strangulantur”. La tradu-zione letterale della sinistra asserzione recita: “Gliobesi sono perlopiù strangolati da morbi acuti e dadifficoltà di respirare”. Come a dire, nell’ottica deltempo: l’obesità è una condizione corporea che pre-dispone all’insorgenza repentina di mali quali icolpi apoplettici, il sopraffiato da polisarcia o cras-situdine, la dispnea da gravame al precordio.L’obesità non impedì però a Caio Mario, tribunodella plebe e condottiero delle legioni romane nelle

    battaglie contro i Teutoni e Cimbri, di raggiungerela ragguardevole età di 71 anni. “Mario era di pic-cola statura ed era diventato più largo che lungo eforse fu proprio la sua enormità a spaventare il cim-bro incaricato di ucciderlo”. È quanto scriveAnthelme Brillat-Savarin, l’arguto autore della Phy-siologie du goût (1825), il quale dedica nel trattatel-lo un ampio spazio al tema dell’obesità, menzio-nando anche “un famoso imperatore romano allecui dita le collane della moglie servivano da anelli”tanto erano grasse, come il resto del corpo.La letteratura medica del Medioevo, oltreché in“commentari” di testi autorevoli - di Ippocrate,Galeno, Avicenna - si espresse in “compendi” diprecetti noti come regimina sanitatis, cioè come“regole di salute” finalizzate a serbare il benessere,evitare le malattie, ritardare la vecchiaia, allungarela vita, posticipare la morte. Tali regole contempla-vano sempre raccomandazioni contro l’abuso delcibo (e del vino). Paradigmatico il Regimen salerni-tanum elaborato dei medici della Scuola di Salerno,i quali insegnavano innanzitutto a vivere una vitasobria facendo a meno dei medici stessi.“Se vuoi vivere sano e senza mali, schiva gli affan-ni, guardati dall’ira, bevi e mangia, ma poco..”(Si vis incolumen, si vis te reddere sanum, curastolle graves, irasci crede profanum, parce mero,coenato parum..).Ma per trovare esempi significativi di una casisticaclinica di pazienti superalimentati od obesi bisognafare ricorso alle memorie degli annalisti o alle nar-razioni degli storici, nei cui racconti affiorano riferi-menti a questo o a quel paziente, perlopiù d’altorango, ipernutrito o malnutrito e affetto da una con-dizione morbosa dove non è sempre facile discerne-re tra polisarcia (obesità), pinguedine (grassezza) edenfiagione (idropisia o stato edematoso).Prendiamo tre casi: il primo è quello di “sua Excel-situdine” Francesco Sforza duca di Milano, che nel

    Obesità, consumi di lusso e stili alimentari nella storia*

    GIORGIO COSMACINI

    *Dal 5° rapporto sull’obesità in Italia a cura dell’Istituto Auxolo-gico Italiano, Franco Angeli, Milano 2004

  • carestia”. È quanto scrive nei suoi Mémoires uncronista del tempo, funzionario di provincia nellaFrancia del Re Sole.Questo re, Luigi XIV, èappunto il sovrano in questione, medicalizzato inpermanenza da un esercito di sanitari, che provve-dono a evacuare ogni giorno, per via orale (vomiti)o aborale (clisteri), il canale gastroenterico di unmangiatore avvezzo a rimpinzarsi quotidianamentedi cacciagione frollata e piccantissima, di salsetartufate e drogate, d’insalate zuppe d’aceto ezeppe di pepe. L’enorme mole di cibo “riscaldan-te” ingurgitata dal re in grande sovrappeso è bilan-ciata dai suoi medici non con restrizioni dieteti-che, ma con prescrizione d’altro cibo, “refrigeran-te”, a base di sorbetti “all’italiana”, di cocomeri edi meloni ghiacciati, di champagne di Reims gela-to da tracannare in abbondanza.I consumi di lusso dei re di Francia non sono tra lecause ultime dei cahiers de doléance redatti dai lorosudditi. Tali consumi sono, nella prima metà delSettecento, stigmatizzati in Italia, nel campo dellasanità, da Antonio Cocchi, medico - chirurgo delfiorentino Ospedale di S. Maria Nuova e strenuoassertore del “vitto pitagorico”, razionale, parco,vegetariano: un vitto in sintonia con gli ideali diRousseau, del ritorno a una natura piacevole, diver-sa dai giorni di magro prescritti dalla liturgia catto-lica ma in fondo altrettanto benefica quanto ad asti-nenza da cibi “crassi” e pasti sovrabbondanti.Una forte polemica settecentesca contro il lusso e isuoi consumi è quella sostenuta dal clinico svizzeroSamuel August Tissot, autore di un Avis au peuplesur sa santé (1861), dov’è detto a chiare lettere,nella “introduzione”, che tra i fattori che “nuoc-ciono alla popolazione” c’è il lusso che “indeboli-sce la salute” e “ruina il temperamento”, ondebisogna osservare bene la “quantità e qualità deglialimenti che si danno” (capitolo II) poiché “tuttociò che si mangia si corrompe” e quindi l’eccessodi cibo si trasforma in corruzione. È quasi il pre-sentimento delle scorie nocive di un alterato meta-bolismo intermedio.Veniamo al primo Ottocento e torniamo alla prosadi Brillat-Savarin che tenta una definizione di obe-sità: “Io intendo per obesità quello stato di conge-stione grassa in cui, pur senza una vera e propriamalattia, le membra poco a poco aumentano di

    Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforze-sca (1450-1500) è detto che, “se non lassa de desor-denare”, andrà di male in peggio e alla fine “ghelassarà la pelle”. Ma la “tumefatione del corpo etdelle gambe è grande” e magistro Benedetto -Benedetto Reguardati da Norcia, archiatra del ducae suo uomo di fiducia anche in campo diplomatico -dispera di poter giovare a un paziente indocile, cherifiuta una dieta stretta a base di “pistata” (pantritoo purea) a meno che non sia arricchita da “vernaz-zola” (vernaccia), “cosse de turdo” (coscie di tordo)e “limaghe” (lumache).Il secondo caso è quello dell’imperatore Carlo V,nel cui Simulacro, dovuto alla penna di FrancescoSansovino, è scritto che “mangiava assai e cosegenerative di humori grossi e viscosi, dal qualemangiare procedono gotta e l’asma”. Il maggiordo-mo imperiale Luis Mendez Quijada, parlando delsuo signore, osserva che “i Re indubbiamente siimmaginano che il loro stomaco e il loro organismosiano differenti da quelli degli altri uomini”. Anchesul finir della vita, chiuso nel convento di Yuste inEstremadura, dove fa voto di rinuncia a tutto, CarloV non rinuncia ai piaceri della tavola: “pesci, ostri-che fresche o in escabèche, pasticcio di anguille,pernici di Gama, salsicce di Tordesillas…”. Il bio-grafo Karl Brandi ha scritto che Carlo V “mangiavae beveva proprio quello che meno gli si addiceva: amezzodì eccedeva nel rimpinzarsi di pesanti pietan-ze di carne, a dispetto di tutte le esortazioni”. Nar-rando Gli ultimi anni di Carlo V, William H. Pre-scott ha scritto dal canto suo che il confessore car-dinale Loyasa “lo ammoniva di desistere da questaperniciosa pratica di mangiare e bere cotanto, ricor-dandogli che il Creatore non avealo messo al mondoperché si abbandonasse al piacere dei sensi”.Il terzo caso non è quello di un paziente forse idro-pico come il duca di Milano o di un paziente ingor-do e forse bulimico come il capo supremo del SacroRomano Impero; è quello di un paziente sicuramen-te ingrassato ai limiti dell’obesità, affetto da unamalattia anacronistica da “società dei consumi”, daconsumi di lusso, in un paese dove i suoi sudditi nel1693, quando egli già si inoltra nel settimo decen-nio di vita (e nel sesto di regno), “languiscono perla fame e la miseria e muoiono nelle piazze e nellestrade, nelle città e nelle campagne a causa della

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  • volume perdendo la forma e l’armonia primitive”.Aggiunge il nostro autore: “Esiste un tipo di obesitàlimitato esclusivamente al ventre; non l’ho mairiscontrato nelle donne; e siccome in genere i lorotessuti sono più molli, quando l’obesità le attacca,non risparmia nulla. Io chiamo gastroforia questavarietà di obesità, e gastroforo chi ne è affetto. Iostesso faccio parte di questa categoria, ma, quantun-que dotato di un ventre piuttosto prominente, hoancora la gamba, dal ginocchio in giù, asciutta, e iltendine sporgente come quello di un cavallo arabo”.Questo abbozzo di nosografia dell’obesità fa partedella “ventunesima meditazione” del trattatellofisiologico “sul gusto”. Commenta in proposito ilsemiologo e critico Roland Barthes (1975): “Tutticonoscono la fortuna immensa di questo tema nellanostra cultura di massa: non passa una settimanasenza che ci sia, nella stampa, un articolo sullanecessità e sui sistemi di dimagrire. Sicuramentequesta smania di magrezza risale, attraverso varietappe intermedie, alla fine del XVIII secolo. Sottol’influsso di Rousseau e dei medici svizzeri Tron-chin e Tissot, nasce una nuova idea dell’igiene, il

    cui principio non è più la sazietà, ma la riduzione.L’astinenza prende il posto dell’universale salasso,la dieta ideale si compone di latte, di frutta, diacqua fresca”.Ma ridiamo la parola a Brillat-Savarin, che è un obesopentito: “Considero il mio ventre come un terribilenemico. L’ho vinto, bloccandolo a dimensioni mae-stose, ma per vincerlo ho dovuto battermi. È stata unalotta più che trentennale”. Quali gli insegnamenti trat-ti? Anzitutto una riflessione sulle cause: “L’obesità èsconosciuta presso i selvaggi e in quei ceti sociali incui si lavora per mangiare e si mangia unicamente pervivere”. Tra “le principali cause dell’obesità, la primaè la naturale predisposizione dell’individuo. […] Laseconda causa fondamentale va ricercata nei farinaceie cereali di cui è costituita l’alimentazione giornalie-ra. […] Una duplice causa di obesità risiede nell’abi-tudine di dormire più del necessario e la mancanza diesercizio fisico. […] Un’ultima causa di obesità risie-de negli eccessi del bere e del mangiare”.Segue una stima del danno: “L’obesità ha unainfluenza negativa sui due sessi, perché è nemicadella forza e della bellezza”.

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    L’obeso. (scultura etrusca ellenistica -sec. III-II a. C:)

  • Una strisciante, spiacevole sensazione di ignoranzami prende quando non capisco quello che leggo suun giornale, o che ascolto alla Tv. A volte, poi, talesensazione si trasforma in disappunto, quando intui-sco che il ricorso a termini astrusi, o la sottolineatu-ra di un certo concetto da parte di un testimonialdall’aspetto serioso e autorevole non sono altro cheespedienti ricercati apposta per farmi sentire un po’inadeguato di fronte al messaggio che passa e, diconseguenza, più incline a “fidarmi” dell’esperto diturno che, probabilmente, mi sta “consigliando”qualcosa da acquistare.Eh, sì, perché questo giochetto fa parte dei segretidella comunicazione, in genere, e della pubblicità inparticolare. Non voglio demonizzare la pubblicità, etanto meno le varie forme di comunicazione che letecnologie moderne ci mettono a disposizione: sonosegni di progresso e di libertà, sono strumenti diconoscenza e di creatività a cui per nessun motivodovremmo rinunciare! Sto solo rilevando una certa,e a mio giudizio eccessiva, sovraesposizione di ter-mini scientifici o, peggio ancora, medici, per sugge-stionare il possibile acquirente. Non si spieganoaltrimenti certe pubblicità presenti su diffusi roto-calchi nazionali, come, ad esempio, la pubblicità diun’acqua minerale che dice che “il potassio fa beneai muscoli e alla circolazione arteriosa”, o quella diun bagnoschiuma che sottolinea la sua “formulaaltamente idratante” , o quella di una confezione diverdure surgelate che ne decanta le “proprietà salu-tistiche” perché questi prodotti sono “naturalmentericchi di antiossidanti, vitamine, fibre, minerali, ele-menti indispensabili per il nostro organismo”.A maggior ragione bisogna prestare attenzione aquesta modalità di comunicazione quando i prodottipubblicizzati sono venduti in farmacia, pur nonessendo “farmaci” (per i quali la pubblicità è rigida-mente controllata da leggi dello Stato).Per rimanere agli esempi trovati su di un noto setti-

    manale, ecco un elenco di termini inseriti in pubbli-cità di prodotti diversi, non medicine, tutti vendutiin farmacia: “ipoallergenici”, “difese immunitarie”“azione antiossidante detossificante”, “prebioticinaturali”, “derivati cumarinici”, “acquaporine ocu-lari”, “azione destrutturante dei radicali liberi”“proprietà vascolarizzanti”,”acido jaluronico” ecc.Questi termini, enunciati senza spiegazione e piazza-ti in una pagina solitamente ben confezionata, acqui-stano un’enfasi particolare se accompagnati dallafoto di un serissimo “ricercatore” in camice biancodallo sguardo rasserenante. Ma il top dell’efficacia èraggiunto quando nella pubblicità compaiono formu-lette quasi miracolose: “prodotto clinicamente testa-to”, “risultati statisticamente significativi”, “dimo-strato scientificamente”, “dalla ricerca biologicamolecolare”.Salvo poi sentire benevolmente liquidati, da parte diautorevoli tecnici del settore, in alcuni articoliscientifici, gran parte dei suddetti prodotti equipara-ti, per efficacia, all’acqua fresca, o al più, ad un pla-cebo, termine mutuato dal mondo dei farmaci. Alt! Qui vorrei una spiegazione. Cosa vuol dire:“prodotto clinicamente testato” oppure: “efficaciastatisticamente significativa”?La ricerca è una cosa seria! I passaggi a cui devesottoporsi ogni prodotto per avere l’autorizzazionedel Ministero della Salute sono rigorosi e severi. Eil placebo? Non è forse una cosa seria?

    Il placeboEtimologicamente placebo è la prima persona sin-golare del tempo futuro del verbo latino placere, datradursi quindi “piacerò”: tale termine si trova nellaVolgata (traduzione latina) della versione grecadella Bibbia, dove nel Salmo 114, recitato neiVespri dei Defunti si legge: “Placebo Domino inregione vivorum…” “Piacerò al Signore nel mondodei vivi…” In molti paesi d’Europa, già all’inizio

    Efficacia e sicurezza dei farmaci e prodotti salutistici:un po’di chiarezza sui termini

    GIUSEPPE MAIOCCHI

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    mento di confronto negli studi clinici controllati.Va subito sottolineata una singolare incongruenzasotto il profilo concettuale: il placebo, sostanzainerte e inattiva, è in grado di generare comunqueun effetto positivo chiamato effetto placebo che hauna rilevanza a volte affatto trascurabile. Il trattamento placebico non si esaurisce nell’uso disostanze inerti o inattive, ma si espande in tuttaun’altra serie di trattamenti non farmacologici. Èben noto, infatti, che il solo fatto di sottoporsi a unaforma qualunque di terapia giova ai pazienti. Deci-dere di recarsi dal medico, essere visitati, rassicura-ti, ottenere una prescrizione, seguire le indicazioniricevute, eccetera, tranquillizza il malato, ne riducel'ansia e lo stress, e ne rafforza di conseguenza lecapacità di autoguarigione. Soprattutto per chilamenta disturbi funzionali o per chi soffre dimodeste forme di ansia, era d'uso prescrivere far-maci “finti” per compiacerli: sono i cosiddetti pla-cebo. Ma non è solo su questi “malati immaginari”che agisce l'effetto placebo: esso può modificareanche molti parametri fisiologici dell’organismo.Ma allora, può il corpo umano guarire da asma,ipertensione, dolori cronici e malattie cardiachesemplicemente assumendo acqua fresca, o pillole dizucchero?Sostanze con azione farmacologica (un sonnifero,uno stimolante, ecc.) hanno effetto sull'organismoanche se somministrate all'insaputa della persona.Ma, paradossalmente, vale anche l'inverso: sostanzeinattive talvolta hanno effetto se vengono presentateal paziente come efficaci.Nell’ambito del trattamento farmacologico, qualcheautore distingue tra “placebo puri” e “placeboimpuri” definendo i primi come preparati privi diuna specifica attività farmacologica misurabile, einserendo tra i secondi quei farmaci “veri”, compo-sti chimici o fitoterapici regolarmente in commer-cio, ma utilizzati, ad esempio come alcuni polivita-minici, come “ricostituenti”, in soggetti che nonhanno deficit vitaminici.Va detto subito che c’è una condizione ineliminabi-le e necessaria perché si ottenga l’effetto placebo:esso è registrabile solo nell’uomo cosciente. Infattiin soggetti in coma, o che subiscono un’anestesiagenerale, il placebo non evoca alcuna risposta. È ilsistema nervoso centrale che ha quindi un ruolo

    del secondo millennio, “cantare il placebo” era unaprecisa mansione delle prèfiche, donne che a paga-mento erano deputate a piangere e a tessere le lodi ele virtù in vita dei defunti.Lo Zingarelli così definisce il termine placebo: “Ognipreparato privo di sostanze attive somministrato a unpaziente con disturbi di origine non organica per sug-gestionarlo, facendogli credere che si tratta di unacura reale, oppure usato in sostituzione di un farmacoper misurare l’azione farmacologica”.Già questa definizione pone il placebo sotto una tri-plice luce: una luce quasi dispregiativa, quando siriferisce a un farmaco che non è un farmaco, perchéprivo di sostanze attive, una luce nello stesso tempopositiva, quando si evidenzia che comunque essoproduce un effetto utile, e infine una luce neutra,quando si dice che il placebo è impiegato come ele-

    Dal “mondo della farmacia” nei cento anni dell’Aspirina.

  • essenziale perché il placebo possa agire, il che con-ferma che si tratta di un effetto psicosomatico, nelsenso più immediato di questo termine.Per questo, anche se il placebo è una sostanza inertee inattiva, e quindi senza alcuna significativa carat-teristica farmacologica, il suo uso può riprodurrecomportamenti considerati caratteristiche esclusivedegli agenti farmacologicamente attivi: l’effettobuilding up, o curva tempo-effetto, con il raggiungi-mento progressivo del massimo dell’effetto, l’effet-to cumulativo, per cui l’effetto è maggiore per dosiripetute, e l’effetto carry-over cioè la persistenzadell’effetto dopo la sospensione del trattamento.Non solo: l’effetto placebo si conferma nella con-vinzione che la scelta di un colore piuttosto che unaltro possa essere correlata con la maggiore o mino-re efficacia di un medicinale: alcuni soggetti, adesempio, non riescono a dormire se non assumonoun farmaco bianco. Analogamente il risultato del-l’effetto placebo viene modificato dalla sua diversatipologia di preparazione: così le capsule di placeborisultano più efficaci che le pillole, le iniezioni piùdelle capsule e le “punture” di placebo che risultanopiù dolorose (ad esempio con acqua distillata) pos-sono essere un placebo più efficace di quelle prati-camente indolori (ad esempio con soluzione fisiolo-gica). La stessa dimensione del preparato placebosembra influenzarne l’effetto: le compresse partico-larmente grandi o particolarmente piccole risultanopiù attive perché il soggetto nel primo caso associal’efficacia alla grandezza, nel secondo caso allapotenza.Elemento determinante nel raggiungimento dell’ef-fetto placebo è l’influenza del medico. L’importan-za del medico curante poggia non solo sul suo pre-stigio e il suo carisma, ma anche sulla sua capacitàdi comunicare e di convincere, sul suo atteggiamen-to rassicurante nel tono della voce e all’aspetto. Esi-stono studi controllati che mettono a confronto l’ef-fetto placebo di medici ottimisti ed esplicitamentefiduciosi circa l’effetto della terapia che stanno con-sigliando (con placebo o con farmaci), rispetto amedici non entusiasti circa la bontà della cura. Eancora più importante, sempre per quanto attieneall’effetto placebo, è il rapporto medico-paziente, laloro empatia, il loro concordare circa la natura delquadro clinico, la ragionevolezza della cura, la fidu-

    cia nei confronti del miglioramento. È evidente cheanche il personale infermieristico ha un ruolo nontrascurabile tra le componenti dell’effetto placebo.In particolare nell’ambiente ospedaliero gli infer-mieri sono a contatto quotidiano, più volte al gior-no, con i degenti, e sviluppano spesso, con loro, unrapporto di confidenza e fiducia.

    Il placebo come elemento di confronto negli studicliniciÈ necessario ora chiarire il termine placebo nellasua accezione, già sopra accennata nella definizionedello Zingarelli quando dice che il placebo viene“usato in sostituzione di un farmaco per misurarel’azione farmacologica”, appunto come elemento diconfronto negli studi clinici.Per “studi clinici” intendo riferirmi a tutta una seriedi azioni che portano alla conclusione che un far-maco è efficace e sicuro; tali studi possono essereosservazionali o sperimentali; questi ultimi, a lorovolta, possono dividersi in sperimentali non con-trollati e sperimentali controllati.

    Studi clinici osservazionaliGli studi osservazionali si basano, sull’osservazionedi un evento che è già avvenuto (studi “caso-con-trollo”) o che avverrà (studi “di coorte”). Neglistudi caso-controllo si studia retrospettivamentel’incidenza di alcuni fattori, compresi i farmaci, sul-l’andamento di una patologia che si rileva nel pre-sente. Questo tipo di studio ha permesso di associa-re l’uso di nicotina al tumore polmonare e dell’aci-do acetilsalicilico all’ulcera. Negli studi di coorte si studia prospettivamentel’andamento della patologia in 2 gruppi (coorti) dif-ferenziati a seconda del loro trattamento terapeuti-co. Entrambi gli studi indagano l’esistenza di rela-zioni causali tra un farmaco e patologia e pur essen-do considerati meno rigorosi degli studi sperimenta-li, non sono influenzati come questi ultimi dall’ef-fetto placebo proprio perché l’osservazione si basasolo su casi a cui è stato somministrato il farmaco enon il placebo!

    Studi clinici sperimentaliI diversi modelli di sperimentazione sono riassuntinella tabella che segue.

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    Studi clinici sperimentali non controllatiCome si ricava dalla tabella, questa metodologia hadei limiti.Si supponga di dovere verificare l’efficacia di un far-maco antivertiginoso. Esso viene somministrato a 100pazienti che soffrono di capogiri. Se la scomparsadelle vertigini si registra nella metà dei pazienti, sipotrebbe dire che il farmaco ha un’efficacia del 50% .Questo studio clinico (compiuto su pazienti) non haperò controllato l’efficacia del farmaco, ma solo ladifferenza nella percentuale di pazienti con vertiginiprima e dopo il trattamento, decretando arbitraria-mente che questa differenza tra il prima e il dopo siadovuta al farmaco, trascurando altri fattori che posso-no aver determinato tale differenza (es: dieta, fumo,stress fisici e psichici). L’equazione latina post hocpropter hoc “dopo questo, quindi a causa di questo” èappunto la conclusione di uno studio clinico chiamatoin gergo scientifico “aperto”.

    Studi clinici sperimentali controllati Sono le sperimentazioni raccomandate dalla moder-na medicina basata sull’evidenza (EBM).E proprio in questa fondamentale pagina della spe-rimentazione sui farmaci entra in gioco il placeboIl rigore delle sperimentazioni controllate è accen-tuato dalla pratica del “cieco” (in inglese blind): ipazienti non sanno a quale gruppo sono stati asse-gnati. Ovviamente prima di partecipare ad uno stu-dio in cieco i pazienti devono essere messi al cor-

    rente della possibilità che non venga loro sommini-strato il farmaco sperimentale ma il placebo e otte-nerne esplicito consenso informato,In uno studio in doppio cieco (double blind ininglese), né i pazienti né i medici sanno chi staassumendo la cura sperimentale e chi il placebo. Leetichette dei farmaci e dei placebo portano dei codi-ci, che vengono svelati solo alla fine dell'esperi-mento, o in caso di necessità.L’efficacia media del placebo è avvalorata dallasituazione in cui il medico “cieco” non riesce adistinguere i pazienti in terapia con il farmaco spe-rimentale da quelli in terapia col placebo.I primi studi di questo tipo erano sempre condotticonfrontando un principio attivo con una sostanzainerte (placebo), al fine di evidenziare la superioritàdel trattamento farmacologico. Successivamente con lo sviluppo dell’armamentarioterapeutico, questo tipo di indagini hanno iniziatoad essere criticate; considerando che nella dichiara-zione di Helsinki (promulgata nel 1964 dall'Asso-ciazione Medica Mondiale e periodicamenteaggiornata) si stabilisce che “in qualsiasi studiomedico, a ogni paziente - inclusi quelli del gruppocontrollo nel caso fosse presente - dovrebbe esseregarantito il miglior comprovato mezzo diagnosticoe terapeutico”. Questa indicazione impedisce l'usodel placebo come controllo, in presenza di validealternative diagnostiche e terapeutiche. Infatti,secondo la dichiarazione di Helsinki, la salute del

    1. Non controllata

    2. Controllata, non randomizzata2.1 Con controlli paralleli2.2 Con controlli storici2.3 Con controlli da banche dati

    3. Controllata e randomizzata(RCT)

    4. Meta-analisi

    Modello di sperimentazione Osservazioni

    Il trattamento sperimentale viene assegnato a tutti i pazienti eligibili consecutivamenteosservati. Non c’è un confronto diretto con gruppi di pazienti trattati in altro modo. Glieffetti del trattamento sperimentale sono valutati in base al confronto con il decorso dellamalattia trattata con terapia standard, che si ritiene ben noto.

    Il trattamento sperimentale viene assegnato a tutti o a una parte dei pazienti eligibili con-secutivamente osservati. C’è un gruppo di pazienti trattati in altro modo, arruolati con pro-cedure diverse che servono come controlli. Rimane incerta la comparabilità fra i pazientiche ricevono il trattamento sperimentale e i controlli.

    Il trattamento sperimentale viene assegnato a una parte dei pazienti eligibili consecutiva-mente osservati (di solito attorno al 50%). Gli altri vengono trattati in altro modo e servo-no come controlli. L’assegnazione dei trattamenti è fatta mediante un sistema di sorteggioche favorisce la comparabilità fra i gruppi.

    È una tecnica clinico-statistica di assemblaggio di sperimentazioni multiple di uno stessotrattamento (quasi sempre di RCTs) che consente una valutazione quantitativa cumulativadei loro risultati.

  • singolo individuo prevale sui potenziali beneficidella società.Da allora è sempre più opportuno utilizzare comecontrollo di un farmaco in sperimentazione lamigliore alternativa, “gold standard” per la patolo-gia da curare.

    La statisticaNella sperimentazione di un farmaco, nella ovviaimpossibilità di poter arruolare tutti i soggetti chepotrebbero giovarsi del trattamento, si ricorre a uncampione ristretto di individui che sia però rappre-sentativo della popolazione in studio. Viene dise-gnato lo studio, vengono fissati dei rigidi criteri diinclusione ed esclusione dei soggetti, viene fissatala numerosità del campione, vengono fissati gliobiettivi e indicatori attesi (end points).Immaginiamo per esempio che un farmaco X cica-trizzi dopo un mese un’ulcera duodenale nel 50%dei pazienti ed il placebo nel 45%; una differenzadel 5% in favore del farmaco può bastare per dimo-strare la sua efficacia? Appare chiaro anche ai nonaddetti ai lavori che questo scarto è troppo piccolo eche la differenza deve essere più consistente, cioèdeve essere “significativa”.Infatti per dimostrate la propria superiorità, il far-maco deve mostrare una differenza statisticamentesignificativa tra i due tipi di “trattamento” a favoredel gruppo di pazienti che è stato trattato con il far-maco: solo allora si può dire che quest'ultimo hauna efficacia terapeutica.Ma allora si ritorna ai vocaboli incomprensibilidelle pubblicità: che cosa significa statisticamentesignificativa?I dubbi sulla correttezza dell'espressione ''statistica-mente significativo'' sono ben noti ai lettori di studiscientifici. Comunemente un dato viene considerato“statisticamente significativo” quando esiste solouna probabilità su 20 (il 5%) che sia unicamentefrutto del caso. In altre parole: quando posso dimo-strare statisticamente la superiorità di un determina-to farmaco rispetto al farmaco di confronto o al pla-cebo, vuol dire che ho una probabilità molto elevata(quasi la certezza) che in non più della percentualedichiarata di pazienti (normalmente 5%) si potrànon verificare tale superiorità. Se ciò che studio èinvece la frequenza di effetti indesiderati posso dire

    che ho una probabilità molto elevata che in non piùdi 5 soggetti su 100 registrerò la comparsa di undeterminato effetto indesiderato.Ma questo metodo di calcolo non dà sempre suffi-cienti garanzie, specialmente quando, per esempio,si tratta di collegare una certa malattia al gene chepotrebbe esserne il responsabile. Spesso sono gli studi molto piccoli che corrono ilrischio di arrivare a conclusioni errate, quelli “dise-gnati male” e quelli che producono risultati numeri-ci bassi (il caso, per esempio, di un farmaco effica-ce solo nel 10% dei pazienti).Ma lo statistico invita a prendere con le pinze anchei dati degli studi di dimensioni più vaste, di quelli

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    Che il placebo possa avere la sua parte nel miglioramento del malato?

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    ben disegnati e di quelli che lavorano su argomentiparticolarmente “caldi”, relativamente ai quali i ricer-catori sentono maggiori pressioni.Un risultato statisticamente significativo può essereassolutamente privo di interesse dal punto di vista cli-nico, e viceversa un risultato clinico molto importantepuò non essere statisticamente significativo semplice-mente perché basato su una numerosità non adeguata.Gli errori più comuni in cui si può incorrere quandosi parla di sperimentazione clinica è l’ampiezzadella casistica, cioè il numero di soggetti arruolati:in realtà l’impiego del placebo, come trattamento diconfronto, ha molto spesso ragioni di carattere eco-nomico (questo tipo di studio costa meno perchérichiede meno pazienti) o di opportunità (è più faci-le che un nuovo farmaco sia migliore del placebopiuttosto di un altro farmaco esistente) anzichéragioni di carattere scientifico.L’esigenza scientifica si configura nella misurazionepiù precisa possibile della efficacia del nuovo tratta-mento sperimentale. Questa esigenza si traduce avolte nella necessità di osservare decine di migliaia dipazienti quando l’efficacia del trattamento non differi-sce molto da quella del trattamento di controllo.

    La sicurezza del paziente In questa sede non tratterò dei problemi etici legati alplacebo. Il tema è stato ampiamente trattato nel n°4del 2002 de la ca’ granda. Preferisco chiarire un ulti-mo punto riguardo la sicurezza dei soggetti utilizzato-ri. Il medico curante in rapporto fiduciario col pazien-te e da questi delegato a scegliere la cura migliore perla patologia di cui è affetto, sa bene che da quantosopra espresso non è sempre vera l’equazione: un far-maco che viene autorizzato alla commercializzazionedopo 10-12 anni di attesa, con attività comprovata dastudi sperimentali controllati, metodologicamenteineccepibili, è attivo e sicuro. Sono proprio sicuro cheuna differenza statisticamente significativa a dimo-strazione della maggiore attività di un farmaco rispet-to al placebo o a un farmaco di riferimento più datatoche ben conosco anche nelle sue connotazioni tossi-cologiche, legittimi a scegliere il nuovo? La prudenzaè d’obbligo! Periodicamente si assiste al ritiro dalcommercio di farmaci che dopo la fase sperimentale,cioè nell’uso estensivo su grandi numeri di pazienti,hanno evidenziato effetti tossici di rilievo non indivi-

    duati sul campione selezionato e comunque ristrettodella sperimentazione. Fortunatamente da qualcheanno il Ministero della Salute ha attivato il servizio difarmacovigilanza che raccoglie le segnalazioni cheper legge gli operatori sanitari debbono trasmetterequando rilevino nei pazienti reazioni avverse da far-maci. Tale indispensabile osservatorio quale maglia diun complesso network internazionale è e sempre piùdeve essere il garante della sicurezza della salute deicittadini. Infatti, non va dimenticato che l’EMEA,l’Ente europeo che autorizza la commercializzazionedei farmaci, dipende dal Direttorato dell’industriamentre la richiesta chiaramente espressa con ladichiarazione di Berlino da parte della sezione euro-pea della Società dei bollettini indipendenti di infor-mazione sui farmaci è che passi sotto il controllo delDirettorato dei consumatori e della salute pubblica.

    La sicurezza del consumatoreMentre per i medicinali tradizionali accessibili al sin-golo consumatore senza la ricetta medica : gli OTC,ogni messaggio pubblicitario viene vagliato e autoriz-zato preventivamente dal Ministero della Salute e peri prodotti omeopatici assimilati ai farmaci dalla legi-slazione vigente la pubblicità non è ammessa (tutelapreventiva), per una lunga serie di prodotti: dispositivimedici, presidi medico-chirurgici, cosmetici, integra-tori, prodotti e alimenti destinati ad una alimentazioneparticolare, il Ministero esercita una tutela repressiva:cioè fissa per ogni macrotipologia di prodotto unaserie di contenuti non ammessi e vigila a posteriorisull’applicazione corretta della norma da parte delleaziende che intendono pubblicizzare il loro prodotto.Ad esempio: ai cosmetici non possono essere associa-te qualità terapeutiche; i sostituti del latte maternonon possono essere pubblicizzati come alternativadell’allattamento al seno; per gli integratori alimentaridestinati alla riduzione del peso corporeo è vietatousare espressioni volte a quantificare nel tempo l’en-tità del calo ponderale. Alle acque minerali naturalinon possono essere attribuite proprietà di prevenzio-ne, cura e guarigione di una malattia umana. Da ciò sideduce che i messaggi pubblicitari hanno un’ampiagamma di gradi di libertà. Ci si augura che quandovengono menzionati termini rassicuranti mutuati dallasperimentazione dei farmaci, chi li pronuncia o li scri-ve possa documentarli scientificamente.

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    “…La verità di ieri non era meno vera, per quegliscienziati, di quel che non appaia ai moderni la veritàdi oggi, come quella di domani non lo sarà meno per inostri posteri. La patologia astrale, la possessione dia-bolica quotidianamente ritenuta presente, le malattieprovenienti da fatture e sortilegi non erano meno vere,per il medico di ieri, di quel che oggi non lo siano lapatologia microbica, l’alterato ricambio, lo squilibrioormonico, la profonda alterazione della composizionedel sangue.In ultima analisi l’uomo trovasi, sia pure in modo rela-tivo, sempre nella stessa posizione di fronte al proble-ma della conoscenza scientifica, poiché crede sempredi conoscere quel che in effetti non potrà forse mai pos-sedere in senso assoluto, poiché in tal caso sarebbeesaurito ogni progresso scientifico. È questa una veritàche ritengo dover essere fondamentale…”: con questeparole, nel dicembre 1970, il romano Adalberto Pazzini(1898-1975), illustre storico della Medicina e fondato-re, fra l’altro, dell’Istituto di Storia della Medicina nel-l’Ateneo della capitale, concludeva una sua monumen-tale opera divulgativa.

    “Non si conosce bene una scienza se non si conosceil suo passato”

    Augusto Comte (1798-1857)

    Noi, che pur storici della Medicina non siamo, non soloconcordiamo su come il pensiero di oggi non sia che ilcompletamento di quello di ieri, e che noi, medici diquest’inizio di terzo millennio, siamo solo dei nanisulle spalle dei giganti, per usare l’espressione cheNewton fece sua riprendendola dal monaco benedettinoBernardo di Chartres; fortemente consapevoli che, inqualsivoglia sentire umano, chi non va alla ricerca delleproprie radici, non ha futuro. Altresì, da cardiologi cli-nici ospedalieri che da oltre un quarto di secolo vivonola medicina al letto dell’ammalato, siamo altrettantoconsapevoli che se pure si è trasformata la tecnologia,non è cambiato l’uomo di fronte alla malattia, momen-to della vita che tutti, come l’amore o il dolore, prima opoi conoscono. È evidente a tutti come nell’ultimo secolo si siano veri-ficati, in ogni campo del sapere e del costume, tanti etali tumultuosi cambiamenti come mai era accaduto neiprecedenti millenni. Ma è cambiato l’uomo di frontealla malattia? L’uomo che nasce, vive, gioisce, si dispe-ra, si innamora, soffre, muore, è cambiato? Lo scompensato che ci chiede aiuto per respirare dinotte, è un insieme di voci precodificate da inserire inun computer, o non soffre forse della medesima man-canza di fiato dell’imperatore romano Adriano nelfamoso romanzo storico di Marguerite Yourcenar?“Mio caro Marco, sono andato stamattina dal miomedico, Ermogene. Ho deposto mantello e tunica; misono adagiato sul letto. Ti risparmio particolari che

    FRANCESCO FIORISTA

    * Lettura magistrale, 5 novembre 2005Convegno su L’umanizzazione nell’era dell’aziendalizzazioneOspedale San Carlo Borromeo, Milano.

    Un convegno ospedaliero su “L’umanizzazione nell’era della aziendalizzazione”: una lettura di base e conclu-siva, che attraverso gli interventi dell’incontro ci offre qui in pagine essenziali del dott. Francesco Fiorista laconoscenza dichiarata del pensiero e delle opinioni di personalità diverse a testimoniare nel tempo il ricono-scimento del “valore uomo”, la necessità profonda dell’“umano” nel vivere e nell’operare: per il medico nel-l’assistere e nel curare.Quasi una sorpresa e riflessioni conseguenti sono occasione felice per cogliere tutte insieme le dichiarazioni amemoria futura di grandi personalità della scienza, della medicina, della ricerca, legate anche a scopertefamose, che qui ci fanno tuttavia preminentemente eredi del loro pensiero, delle loro vissute convinzioni che“medico vero non può essere chi non senta imperioso in sé l’amore per gli uomini...” e, ancora: “chi nonritenga alla pari binomio inscindibile l’amore per la scienza e l’amore per l’uomo”.

    La Medicina alle soglie del terzo millennio:ma è cambiato l’uomo?

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    privato che sia), lui non si ricorda più di noi, noi non ciricordiamo più di lui? E non conta il modo (gesti, paro-le, sguardi, atti, tempo, partecipazioni, ripensamenti,insonnie, a volte anche rimorsi…) con cui questo “ser-vizio” viene offerto? E viene ricevuto? Solo l’insegna-mento può dare un legame imperituro di riconoscenza edi arricchimento reciproco maestro-discepolo come ilrapporto medico-paziente, e fortunati coloro che siricordano anche a decenni di distanza di chi li haaccompagnati per la via della crescita culturale da unaparte, lungo il viaggio della malattia dall’altro. Particolarissima condizione appunto la malattia, chemette a nudo la verità dell’anima, rivelando debolezzae fragilità, angoscia e ripensamenti, solitudine e paura.E se la Medicina ha fatto passi da gigante, e sempre piùne farà, il suo significato più vero e profondo non ècambiato: l’intima essenza della professione medicatrascende infatti il tempo e la tecnologia. La sofferenza dello scompensato di duemila anni fanon era diversa da quella dello scompensato odierno.Quell’idropico (Lc 14, 2-4) che per respirare megliochiedeva aiuto al guaritore Gesù, ora si affida al diureti-co, a piccole titolate dosi di beta bloccante e all’ace-ini-bitore, o spera nel trapianto cardiaco come tra 50 annisi affiderà alla terapia genica. Entrambi comunque pro-vano, o provarono, cosa significa dover star seduti nelletto per riuscire a prender sonno, o cosa comporti, nel-l’angosciosa sensazione di fame d’aria, compiere il purminimo sforzo. E la malattia, intesa come paura della sofferenza finoa paura della morte, è indissolubilmente legata al sen-tire umano, tanto che l’arte - dalla pittura al teatroalla letteratura - l’ha da sempre rappresentata, nondiversamente dagli altri grandi sentimenti umani. Daivasi dipinti della Grecia classica fino a Munch ePicasso, dall’Uomo dal fiore in bocca di Pirandello altubercolotico Hans Castorp del sanatorio svizzero diDavos in La montagna incantata di Thomas Mann,l’uomo ammalato è sempre stato oggetto, o meglioancora soggetto, artistico e letterario: con un azzarda-to gioco di parole, non si potrebbe forse arrivare adire che la Medicina è in parte arte, e che l’Arte è inparte medicina? Medicina come sollievo dalla soffe-renza del corpo e dello spirito, Arte come sollievo daimali e dalle miserie del vivere quotidiano, in quellarappresentazione -sempre in bilico sull’incerto crina-le tra commedia e tragedia- che è la vita.

    sarebbero tanto sgradevoli per te come lo sono per me,e la descrizione del corpo di un uomo che si inoltranegli anni ed è vicino a morire di un’idropisia delcuore. Diciamo solo che ho tossito, respirato, trattenu-to il fiato, secondo le indicazioni di Ermogene…… Le gambe gonfie non mi sostengono più nelle lunghecerimonie di Roma; mi sento soffocare; e ho ses-sant’anni. Morirò a Tivoli, o a Roma, tutt’al più aNapoli, e una crisi di asfissia sbrigherà la bisogna.Sarà la decima crisi a portarmi via, o la centesima? Ilproblema è tutto qui…Le medicine non mi soccorronopiù; aumenta l’enfiagione delle gambe; e sonnecchioseduto più che disteso. Uno dei vantaggi della mortesarà d’essere disteso ancora, in un letto”. Dispnea not-turna con ortopnea, ovvero dover stare in posizioneseduta per riuscire a respirare, non diversa da quella delpittore spagnolo Goya, in preda a una crisi di subedemapolmonare, immortalata nel 1820 nel famoso autoritrat-to in presenza del suo medico curante dottor Arrieta(Minneapolis Institute of Art, Minneapolis, USA).L’uomo che un mattino si scopre un dolente rigonfia-mento latero cervicale, è il caso X del protocollo onco-logico Y del trial Z, o è un uomo che vive la medesimaangoscia di Don Rodrigo che si risveglia con il bubbo-ne di peste nel cavo ascellare? “…Insieme si sentiva alcuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchiun ronzio, un fischio continuo, un fuoco di dentro, unagravezza in tutte le membra, peggio di quando eraandato a letto. Esitò qualche momento, prima di guar-dar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì,ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubboned’un livido paonazzo.L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e,con un senso per avventura più forte, il terrore didiventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato allazzaretto…” (A. Manzoni, I Promessi Sposi, capitoloXXXIII).E il dramma dell’arteriopatico odierno cui viene ampu-tato un arto inferiore, non è forse il medesimo cheprovò il patriota Piero Maroncelli, quando offrì unarosa al chirurgo che gli aveva amputato una gamba, esenza anestesia, nel carcere austriaco dello Spielberg(Silvio Pellico, Le mie prigioni, capitolo LXXXVII)?E siamo proprio sicuri che il malato che viene a cercar-ci non sia una persona che ci chiede aiuto, ma solo uncittadino -un cliente utente- che chiede di fruire di unservizio? Del quale servizio pagato il conto (pubblico o

  • Malgrado il nostro essere quotidianamente medici nonconosca la responsabilità e l’arricchimento dell’inse-gnamento, il nostro pensiero non può non andare aigiovani medici che varcano oggi le soglie dell’ospeda-le, o meglio delle cosiddette “Aziende ospedaliere” alcui interno adesso troneggiano grandi cartelloni pub-blicitari di ogni tipo: perché sappiano che esisteva unaMedicina fatta di meno numeri e più ragionamento, conal centro il malato e non la malattia, basata non su aridee a volte ingannevoli linee-guida ma sul metodo logico-critico, non su labirintiche asettiche flow-chart bensìsulla metodologia clinica, suprema sintesi diagnosticadi “observatio et ratio”, osservazione e ragionamento.Quando la Semeiotica fisica, ad esempio, costituivanon solo la porta principale per accedere alla Clinica,ma il primo incontro tra due uomini, il “primo contat-to” tra il medico - l’uomo che cura - e l’ammalato -l’uomo che patisce -. Contatto fisico e corporeo di unamano che tocca un’altra mano, o un’altra parte delcorpo, come quella del medico guaritore Gesù che toc-cava la mano della febbrile suocera di Pietro, la pelle diun lebbroso, gli occhi di un cieco nato.Volutamente, dunque, siamo andati a spigolare tra leriflessioni morali di alcune figure mediche - ma nonsolo - del passato, a rileggerne gli insegnamenti, adascoltarne le considerazioni. Il rischio, ben lo sappia-mo, è quello di cadere nella retorica, ma noi crediamoche di questa “retorica” i medici abbiano bisognosoprattutto oggi, in tempi di fast Medicine, per fermarsia riflettere se non sia auspicabile non tanto una slowMedicine, come qualcuno propone, ma una Medicinasenza aggettivi, come un tempo, una Medicina e basta. Nel XVII secolo il medico inglese Thomas Sydenham(colui che per primo descrisse la còrea reumatica cheporta il suo nome) così affermava: “Nessuno è stato dame curato diversamente da come vorrei essere curatoio, se mi capitasse la stessa malattia”.Oltre un secolo fa il grande seminatore di dubbi Augu-sto Murri, clinico medico all’Università di Bologna,così scriveva ai suoi studenti: “… c’è non poca genteche arricchisce senza lauree, mentre voi, che siete qui astudiare per parecchi anni, potete esser sicuri che tro-verete più critiche che denari. Se voi volete consacrarviall’esercizio della Medicina non potete avere soltantoin mira un magro compenso materiale, che per altre viemolto più presto e più facilmente potreste ottenere.Sarebbe dunque da dissennati lo studiar medicina con

    mire commerciali, perché i ciarlatani commercianomeglio dei medici. Voi aspirate di certo anche a qual-che altra cosa: ebbene, sappiate che qui senza studioindefesso non conseguirete mai quel diletto che vienedal comprendere un fenomeno naturale, e che voi con-sacrate modestamente a sollievo degli altri tutto ciò chela nostra specie ha di più elevato e di più potente, l’in-telletto e il volere. Noi sappiamo soltanto d’adempiereuna funzione sociale di cui non ci sarà mai la più alta,finché la vita e la salute saranno il fondamento indi-spensabile d’ogni altro bene.…L’obbietto dei nostri studi e dell’opera nostra è delpari l’uomo: noi lo consideriamo, è vero, nelle suemiserie, ma non troviamo sulla terra niente che loeguagli in grandezza, in nobiltà, in valore; noi lo repu-tiamo l’argomento più degno del nostro pensiero, dellanostra sollecitudine, del nostro entusiasmo, e ci sde-gniamo vedendolo offeso nei suoi poteri fisici, morali eintellettuali. Medico vero non può essere chi non senteimperioso nel cuore l’amore per gli uomini…

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    Augusto Murri, “... il grande seminatore di dubbi...”, clinico medicoall’Università di Bologna.

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    … A chi spera una sorte meno crudele per l’umanitàfutura, pare quasi che una parte di noi medesimi, anziquella che avemmo più cara, non parta con noi, maresti qui per noi, affinché altri la faccia propria”.E più o meno negli stessi anni così leggiamo da Pie-tro Grocco, clinico medico a Firenze, (“…La veraclinica si fa solo al letto dell’infermo…I malati sonoi nostri libri, sono i nostri reattivi, sono i nostri pre-parati, sono i nostri animali da esperimento…”) finoal medico filantropo milanese Paolo Pini (“…Noisiamo per una scienza medica che non treschi conl’affarismo, per una terapia che non sia schiava diqualsiasi fabbricatore di medicinali o di apparecchipiù o meno costosi, per un’arte che sappia far scatu-rire dalle sue stesse insuperabili difficoltà, dalle suestesse tormentose incertezze, un grande spirito di tol-leranza e di compassione…”). Compassione appunto,ovvero sentire e “patire” insieme.Di Cesare Frugoni, clinico medico a Roma a metà delNovecento, che ebbe in cura Marconi, Togliatti epapa Pacelli, e che era solito dire che se non semprecurare si può, sempre consolare si deve, così leggia-mo in una sorta di ideale testamento spirituale: “...Èil contenuto etico della medicina che è eterno. Nellevarie epoche e nei vari popoli il giudizio di legitti-mità e di moralità ha subito profonde modificazioni etalora anche nel campo nostro, ma ciò riguarda ilmedico e non la medicina lo spirito della quale èimmodificabile ed eterno......Ecco perché a tanti decenni di distanza mi sembradi sentire voci superstiti, parole che sono lembi dianima, frammenti di spiritualità, in un linguaggioche giunge alla mente, all'anima e al cuore del medi-co e che solo il medico può sentire e comprendere.Riconoscenze, devozioni, affezioni e amicizie, sono lascia profonda della nostra professione, scia che è ilsole della nostra vita.…E io benedico la sorte che mi ha fatto medico e por-tato a vivere la vita dei miei malati, ai quali ho datol'anima e il cuore oltre che la mente; onde dal rogodelle cartelle bruciate sale una profonda voce dirichiamo...Bruciate pure, cartelle dolorose, voi non scomparite,ma rimarrete nel mio spirito e nel vostro alto significa-to perché di voi si sono fatti e plasmati il mio cuore e lamia personalità psichica e morale.Io sono quello che da voi e dai miei malati mi è venuto:

    voi siete lo sfondo della vita che non ha ritorno...”.Il medico umanista svedese Axel Munthe, amante dellaMedicina non meno che dell’Arte, autore del famosolibro La storia di San Michele, e che visse per lunghianni ad Anacapri, così scriveva: “La nostra professionenon è un commercio, ma un’arte; questo traffico sullasofferenza è, per me, un’umiliazione… Osservavo chela nostra professione era un sacro ministero, allo stessolivello di quello del prete, se non più alto, dove ilsoprappiù del guadagno avrebbe dovuto essere proibitodalla legge. I medici dovrebbero essere pagati dalloStato, e ben pagati come i giudici in Inghilterra. Chinon approvasse questo sistema, dovrebbe lasciare laprofessione e mettersi in borsa o aprire un negozio…”.Con negli occhi i morti e i feriti sia del terremoto diMessina che delle trincee franco-tedesche della primaguerra mondiale, non a caso scriveva che “non si puòessere un buon medico senza pietà”. Nel 1944, negli stessi anni del secondo conflitto mon-diale, a Città del Messico il medico messicano IgnacioChàvez Rivera coronava un sogno, fondando il primoIstituto di Cardiologia al mondo, quello Nazionale diCittà del Messico. Inventava, per il suo Istituto, ilseguente motto in latino: Amor scientiaque inserviantcordi, ovvero L’amore e la scienza siano al servizio delcuore, binomio inscindibile di amore per la scienza eamore per l’uomo, le due stelle che dovrebbero sempreguidare il viaggio del medico verso l’ammalato ingenerale, e quello del medico cardiologo nei confrontidel paziente cardiopatico più in particolare. Amore perla scienza in quanto la medicina è dottrina vasta e mul-tiforme che si avvale di moltissime altre scienze; amoreper l’uomo in quanto il medico incontra l’altro uomonel momento della malattia, del dolore o addiritturadella morte. E oltre trent’anni dopo egli si accomiatavadall’Istituto con un lungo discorso di addio alla profes-sione e alla didattica, con parole rivolte ai medici (“Ionon vi ho insegnato la verità, ma solo ad amare laverità. Non vi è nulla di più mutevole di essa, e il ventodello spirito soffia ogni volta più alto nella direzione diessa. Un altro verrà dopo di me che vi offrirà unaverità più alta o che vi illumini il cammino con unaluce più chiara”) ma senza dimenticare coloro - gliinfermieri - che vivono a più stretto contatto con imalati (“Siano per gli ammalati una sorgente inesauri-bile di tenerezza e, più che i nostri farmaci, possanoalleviare la loro duplice sofferenza di angoscia e solitu-

  • dine; e raggiungere, attraverso il calore umano delleloro cure, il loro amore, ed essere per loro la caritàfatta sorriso...”). E disse anche, il maestro Chàvez,quasi profetizzando future degenerazioni della Medici-na: “Vi sono molti modi per arricchirsi, non legati allasofferenza umana”.E proprio perché la Medicina ha a che fare con l’uomo,e con l’uomo sofferente per di più, essa non può pre-scindere dalla filosofia e dall’etica. Avendo ben fissanella mente la celeberrima massima di Kant (“Conside-ra sempre l’uomo come fine e non semplicemente comemezzo”), desideriamo ricordare anche queste parole delfilosofo tedesco Karl Jaspers: “Attraverso l’intimitàcon i suoi malati, il medico perviene, nella suasobrietà, all’esperienza umana. Di fronte al bisognoegli giunge, nella pratica, alla visione filosofica, all’e-terno, quella visione che, sola, sa volgere in bene ilprogresso. Il medico che costringe il ricercatore pre-sente in lui a essere cosciente dei propri limiti, cheattraverso la riflessione cede la guida al filosofo che èin lui, di fronte ai pericoli mortali provocati dalle con-seguenze della tecnica e dei fuochi fatui, potrebbe tro-vare, per conto di tutti, la via che conduce fuori dallaprigione del limitato pensiero intellettivo. Forse è aimedici che spetta lanciare il segnale…”.

    Un tempo nella formazione culturale dei medici dovevaesservi spazio anche per gli studi filosofici, e non acaso, visto che la Medicina è una scienza umana, el’uomo è un insieme di corpo e psiche. Recentissima-mente, ad un congresso medico, siamo incappati in unainsolita comunicazione dal titolo Filosofia e Medicina,di cui riportiamo un breve passo: “…La filosofia e lamedicina non possono stare ulteriormente disgiunte,debbono collaborare e la loro collaborazione dovrebbecercare di rendere più umano il mondo, a cominciaredalle scienze della vita e della salute…”. E ci siamoallora rammentati di Ippocrate, che 2400 anni fa cosìscriveva: Iatròs filòsofos isòzeos, ovvero Il medico chesi fa filosofo è simile a un dio. Quell’Ippocrate che nona caso faceva giurare i suoi discepoli davanti agli Dèi:“Giuro per Apollo medico e Asclepio e Igea e Panaceae per tutti gli dèi e per tutte le dee chiamandoli a testi-moni…”. Giacché malattia, dolore e sofferenza non possono,all’alba del terzo millennio cristiano, prescindere dalsacro. In occasione della Festa del Perdono dell’Ospe-dale Maggiore di Milano nella primavera 2001, l’alloraCardinale Arcivescovo della diocesi ambrosiana CarloMaria Martini così ammoniva in un suo intervento:“…La sfida che tutte le attraversa consiste nel rimette-re al centro della pratica medica, dell’assistenza, dellacura, della ricerca, della formazione e dell’interarealtà ospedaliera la persona umana con la suadignità, per riscoprire il senso più vero e l’esigenza piùimpegnativa della centralità dell’uomo ogni volta chesi parla di salute e di sofferenza…”. Una Medicina che,appunto, abbia al centro il Malato e non la malattia.Un anno prima, al Congresso Internazionale tenutosi aRoma su Medicina e Diritti Umani, Giovanni Paolo IIcon queste parole si rivolgeva ai medici: “…Voi toccatecon mano che nella vostra professione non bastano lecure mediche ed i servizi tecnici, sia pure espletati conesemplare professionalità. Occorre essere in grado dioffrire al malato anche quella speciale medicina spiri-tuale che è costituita dal calore di un autentico contattoumano. Esso è in grado di ridare al paziente amore perla vita, stimolandolo a lottare per essa, con uno sforzointeriore talora decisivo per la guarigione. L’ammalatodeve essere aiutato a ritrovare non solo il benesserefisico, ma anche quello psicologico e morale. Ciò sup-pone nel medico, accanto alla competenza professiona-le, un atteggiamento di amorevole sollecitudine, ispi-

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    Il filosofo tedesco Karl Jaspers.

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    rata all’immagine evangelica del buon Samaritano”.Parabola del Buon Samaritano che troviamo soltantonel Vangelo di Luca, non a caso l’evangelista medico,dove viene fatta distinzione tra il curare e il “prender-si cura” dell’altra persona: “…Ma un Samaritano,che si trovava in viaggio, gli andò vicino, e nel veder-lo si mosse a pietà. Gli si accostò, fasciò le sue ferite,versandovi olio e vino; poi, fattolo salire sul suo giu-mento, lo condusse all’albergo e si prese cura di lui”(Lc 10, 34).Chi ci conosce, sa del nostro amore per il cinema. Enon a caso, dunque, lasciamo concludere a CharlieChaplin (dal film Il Grande Dittatore, 1940): “Lascienza ci ha reso cinici. Pensiamo troppo e non amia-mo abbastanza… Più che di intelligenza, abbiamobisogno di umanità e di gentilezza… Senza queste qua-lità, la vita non può essere che violenza, e tutto saràperduto…”.

    Bibliografia

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    Frugoni C.: Ricordi e incontri, Arnoldo Mondatori Editore, 1974

    Jaspers K.: Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina Edi-tore, Milano, 1995

    Fiorista F.: Medici scrittori: l’evangelista Luca, in KOS, n. 162,pag. 54-61, 1999

    Fiorista F.: Il Cristo medico, in la ca’ granda, anno XLI, n. 2, pag.35-36, 2000

    Cosmacini G.: Il mestiere di medico. Storia di una professione,Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000

    Munthe A.: La storia di San Michele, Garzanti Editore, CollanaGli Elefanti, settembre 2001

    Cardinale Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano: L’Ospe-dale Maggiore nel nuovo millennio: un’antica istituzione milane-se al servizio della persona Milano, Celebrazione della Festa delPerdono, 26 marzo 2001

    Dolara A.: Invito ad una “slow medicine”, Ital Heart J Suppl, 3,pag. 100-101, 2002

    Soldini M.: La filosofia e la medicina, in Atti 106^ CongressoNazionale della Società Italiana di Medicina Interna, Roma,ottobre 2005

    Ippocrate di Kos con i suoi discepoli.

  • Un noto settimanale va offrendo dal primoautunno una intera collezione di presepi. E suibanchi della nostra edicola troviamo orologi,piatti e altre ceramiche, modelli di auto come dinavi o carri armati, coltelli a serramanico e affi-ni, finti gioielli, macinini da caffè. Edicola-bazar, moderna soffitta pubblica? Propriamente.Ma questa profferta del ramo oggettistica, chia-mamolo così, non è che l’aspetto più appari-scente del fenomeno che in questi ultimi anniha trasformato la vecchia e in molti casi malan-data edicola in un mercato delle meraviglie.L’altro, che qui a noi più preme, riguarda i librie una più accessibile diffusione del sapere. Le edicole sembrano oggi avere quella funzioneliberatoria così ben assolta dai supermercati: è,appunto, la libertà di cercare, scegliere e acqui-stare, senza che un commesso si offra - ominacci - di aiutarci. È, insomma, il piacere disentirsi anche liberi di rinunciare a ogni scelta.Luogo fin qui tradizionalmente destinato all’ac-quisto frettoloso - in corsa -, l’edicola offre lostesso brivido del libero arbitrio del supermer-cato. Naturalmente, non sono stati gli edicolan-ti a reinventare la propria funzione, bensì glistessi editori (dei giornali, attenzione), i quali,messi alle strette dalla cronica disaffezionedegli italiani alla lettura, timidamente comin-ciarono alcuni anni fa a proporre una sorta dipremio per i più fedeli, ma anche per i piùcoraggiosi lettori. Si chiamavano “supplemen-ti”, quei primi gadget. Ed erano farina dellostesso sacco che si cercava di vendere, fruttodel lavoro degli stessi redattori che confeziona-vano il prodotto primario. Fu il segnale; si capìche il lettore apprezzava il pensiero, che cerca-va una gratificazione, una specie di ricompensa

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    per il non trascurabile disturbo di acquistare ungiornale.Questa è protostoria. In breve, le edicole sisono trasformate in quelle librerie di quartiereche mancano in tutte le nostre città. Milano, peresempio: mentre a Roma il Comune finanzial’apertura di nuove librerie periferiche, nellametropoli lombarda l’acquisto di un romanzo odi un saggio in uno dei suoi quartieri più lonta-ni è un piacere oggi sconosciuto. Perfino il cen-tro, per la verità, se la passa male. La moda,con i suoi show-room e le sue boutique, e conla forza dei suoi euro, vi dilaga prepotente e lelibrerie sloggiano insieme con la cartoleria, lamerceria, l’elettricista, il piccolo bar, la tratto-ria. Scompare, di fronte all’arroganza finanzia-ria del prêt-à-porter, l’anima storica della città.Ci salverà l’edicola? Forse già lo fa. Chi non siè mai sognato di ambire a una enciclopedia,viene ineluttabilmente conquistato dalla dispo-nibilità del campionario ormai proposto da piùquotidiani, comprendente la storia della lettera-tura, la storia della scienza, la storia dell’arte,della filosofia, delle religioni… Chi non avreb-be mai pensato di documentarsi su una regionelontana dalla propria, cede alla seduzione dellecopertine rosso-telate delle guide del Touring,quelle ritenute dal Ministero dei Beni culturalile più complete e affidabili del nostro patrimo-nio artistico-culturale.La poesia, eterna Cenerentola nei nostri pensie-ri, conosce anch’essa una stagione di possibileriscatto grazie all’edicola. Vittorio Sermontiriempie la basilica di Santa Maria delle Grazieleggendo la Commedia dantesca, ed ecco lavoce tonante e insieme affabulatoria di VittorioGassman offerta in Cd nel medesimo esercizio.

    L'edicola, libreria di quartiere affollata come unsupermercato

    PIERO LOTITO

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    Una protesta giusta, è stato stabilito. E i libraihanno ottenuto la possibilità di vendere i Meri-diani - i soli titoli proposti dalle edicole - allostesso prezzo minimo. È l’armistizio del 12,90.Forse, però, vi è nascosta la sconfitta dellaregale libreria: questo è il tempo in cui il librosi afferra all’aperto. Come tutti i gesti di pos-sesso, non è detto comunque che questo vengafatto per amore e finisca con la lettura. Il terri-torio, qui, è il più privato dei dominii. Nulla èdato sapere su quanto vi accade: se vi è rumoreo silenzio.

    E i classici-classici: Orazio, Svetonio, Plutarco.E i classici di oggi: Pontiggia (con Nati duevolte e La morte in banca), Calvino, Pasolini,Hemingway, Moravia, Montale. Niente e nessu-no sfugge all’accoglienza un po’ arruffona macerto generosissima dell’edicola.Tra le pile dei suoi almanacchi di fotografia e lesue teche di plastica contenenti piccole riprodu-zioni di vasi attici ed etruschi, cadono anche imiti dell’editoria. Come i Meridiani Mondado-ri, in vendita combinata con un noto quotidianonazionale. E i librai - rieccoli, son vivi (o,forse, sopravvivono) - si ribellano, contestandoche si possano vendere, le sublimi antologie, almiserevole prezzo di 12 euro e 90 centesimi,contro l’aurea cifra di 49 euro dei loro scaffali.

    L’edicola “... affollata come un supermercato”.

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    Forse neanche la metà dei milanesi che prendono lametropolitana in Largo Crocetta, sa che cosa sia unacrocetta né chi sia quel signore vestito da vescovo cheda un vistoso piedistallo domina il largo.Crocette erano croci che fin dal Trecento, all’epoca diBarnabò Visconti, erano sorte nei crocevia cittadini confunzione di chiesa all’aperto in caso di pestilenza. Sottola croce e su un tavolo, infatti, si celebravano i riti reli-giosi che così, senza uscire di casa, potevano essereseguiti anche dagli appestati condannati agli arrestidomiciliari. In questo modo si dimostrava fin d’allorache se la gente non andava in chiesa, la chiesa andavaincontro alla gente. Espressione equivalente al vecchioadagio di Maometto che, se non va alla montagna, è lamontagna che va incontro a lui.Nel Cinquecento con la peste detta di San Carlo, lecrocette aumentavano di numero: per aumentata gra-vità della peste, per aumentata popolazione, peraumentati crocevia. Da meno di una decina infatti,con San Carlo diventavano 19 e con Federico Borro-meo 39. In seguito, senza più pestilenze e nei dintornidi Milano, crocette e immagini sacre su strada sareb-bero diventate 57.Con San Carlo le crocette non solo servivano percelebrarvi la messa o per recitarvi il rosario, ma ser-vivano anche da Stazioni di Via Crucis, nelle qualisostare in preghiera tutti insieme: autorità religiosacivile militare e popolazione di ogni ceto. Purtroppoquest’agglomerato favoriva paurosamente l’ulteriorediffusione della peste.Già con San Carlo e soprattutto dopo di lui, le crocettecambiavano aspetto. Generalmente dedicate a uno deiprimi vescovi della chiesa ambrosiana, nelle crocette lacroce si allontanava dal suolo con l’interposizioneprima di una colonna e poi di un personaggio issatosulla colonna, in modo che da protagonista, la crocediventava elemento secondario di un monumento dedi-cato a un abitante del Paradiso con la croce in mano.Naturalmente, anche con aspetto cambiato, alle crocet-

    te riformate si sarebbero continuati a celebrare regolar-mente riti religiosi (1).Largo Crocetta che si trova quando dal corso di PortaRomana si stacca il corso di Porta Vigentina, deve ilsuo nome al monumento ex-crocetta piantato nel suobel mezzo. E il signore vestito da vescovo posato sulbasamento è San Calimero. In arenaria, la statua delSanto sarebbe stata collocata addirittura nel Settecentoin sostituzione di una croce stazionale (o crocetta) cherisaliva ai tempi di San Carlo (2).Secondo la Storia della Chiesa Ambrosiana (3), di Cali-mero si conosce l’esistenza solo perché compare in unaPreghiera Eucaristica del rito ambrosiano. Ne sapevadi più il canonico Carlo Torre (1649-1727) che delsanto e della sua chiesa scriveva (4):Vassene questa Chiesa sotto il [nome] di San CalimeroArcivescovo di Milano, e Martire, Greco però di Nazio-

    Due Crocette

    VINCENZO BEVACQUA

    La chiesa di San Calimero “con tre pinnacoli incre