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HM1_TROPPO BELLO PER ESSERE VERO

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. Prologo .

Inventarmi di avere un ragazzo non è una novità per me, lo ammetto.

Certa gente guarda le vetrine desideran-do cose che non potrà mai permettersi. Al-tri guardano le foto di alberghi di lusso in cui non andranno mai. E altri immaginano di aver incontrato un ragazzo carinissimo quando invece non è così.

La prima volta mi è successo in prima media. Heather B., Heather F. e Jessica A. erano le ragazze più popolari della scuola. Si mettevano il lucidalabbra e l’ombretto, ave-vano diari minuscoli e fighissimi e soprat-tutto uscivano con i ragazzi.

Allora uscire con un ragazzo significava solo che, magari, ti degnava di uno sguardo quando passavi in corridoio, ma comunque

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Che male c’era a credere – quasi – che in qualche parte del mondo ci fosse un ragazzo come Tyler e i suoi cavalli, a controbilanciare i tipi con le rane nei pantaloni?

Era quasi come credere in Dio – eri obbli-gato, perché in fondo che alternativa c’era? Le altre ragazze se la sono bevuta, mi hanno tempestata di domande e mi hanno guarda-ta con un rispetto tutto nuovo.

Heather B. mi ha perfino invitata alla sua fe-sta di compleanno, e io ho accettato volentieri.

Ovviamente, a quel punto ero stata co-stretta a dare la triste notizia che la fatto-ria di Tyler era bruciata e che la famiglia si era trasferita nell’Oregon, portando con sé il mio puledrino, dall’evocativo nome di “Sole a Mezzanotte”.

Forse le due Heather e le altre mie compa-gne di classe hanno sgamato la verità, ma io mi sono resa conto che non me ne importava. Immaginarmi Tyler era stata... insomma, era stata una figata.

Più tardi a quindici anni, quando dalla no-stra umile cittadina di Mount Vernon, nello

era uno status symbol, che io non avevo, in-sieme all’ombretto.

Una volta Heather F. stava guardando il suo uomo, tale Joey Ames, mentre si metteva una rana nei pantaloni per ragioni note solo ai maschi di prima media, e parlava di come, forse, avrebbe rotto con Joey per uscire inve-ce con Jason.

Di colpo, senza pensar troppo alle conse-guenze, mi sono trovata a dire che anch’io uscivo con qualcuno... un tipo di un’altra cit-tà. Le tre ragazze si sono girate verso di me con improvviso interesse, e io ho finito per mettermi a parlare di Tyler, che era carinis-simo, intelligente ed educato.

Un ragazzo più grande, di ben quattordici anni.

In più, la sua famiglia possedeva una fat-toria con i cavalli e volevano che scegliessi il nome del nuovo puledrino, che avrei addestra-to io stessa in modo che rispondesse soltanto al mio fischio e a quello di nessun altro.

Senz’altro ce lo siamo inventate tutte un ragazzo così. Giusto?

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Che male c’era a credere – quasi – che in qualche parte del mondo ci fosse un ragazzo come Tyler e i suoi cavalli, a controbilanciare i tipi con le rane nei pantaloni?

Era quasi come credere in Dio – eri obbli-gato, perché in fondo che alternativa c’era? Le altre ragazze se la sono bevuta, mi hanno tempestata di domande e mi hanno guarda-ta con un rispetto tutto nuovo.

Heather B. mi ha perfino invitata alla sua fe-sta di compleanno, e io ho accettato volentieri.

Ovviamente, a quel punto ero stata co-stretta a dare la triste notizia che la fatto-ria di Tyler era bruciata e che la famiglia si era trasferita nell’Oregon, portando con sé il mio puledrino, dall’evocativo nome di “Sole a Mezzanotte”.

Forse le due Heather e le altre mie compa-gne di classe hanno sgamato la verità, ma io mi sono resa conto che non me ne importava. Immaginarmi Tyler era stata... insomma, era stata una figata.

Più tardi a quindici anni, quando dalla no-stra umile cittadina di Mount Vernon, nello

era uno status symbol, che io non avevo, in-sieme all’ombretto.

Una volta Heather F. stava guardando il suo uomo, tale Joey Ames, mentre si metteva una rana nei pantaloni per ragioni note solo ai maschi di prima media, e parlava di come, forse, avrebbe rotto con Joey per uscire inve-ce con Jason.

Di colpo, senza pensar troppo alle conse-guenze, mi sono trovata a dire che anch’io uscivo con qualcuno... un tipo di un’altra cit-tà. Le tre ragazze si sono girate verso di me con improvviso interesse, e io ho finito per mettermi a parlare di Tyler, che era carinis-simo, intelligente ed educato.

Un ragazzo più grande, di ben quattordici anni.

In più, la sua famiglia possedeva una fat-toria con i cavalli e volevano che scegliessi il nome del nuovo puledrino, che avrei addestra-to io stessa in modo che rispondesse soltanto al mio fischio e a quello di nessun altro.

Senz’altro ce lo siamo inventate tutte un ragazzo così. Giusto?

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nibile per i ragazzi del posto. La mia strategia si è però ritorta contro di

me... i ragazzi del posto non è che fossero poi tanto interessati.

A mia sorella maggiore senz’altro... Marga-ret veniva a prendermi a scuola qualche volta quando tornava a casa dal college, e i ragazzi restavano a bocca aperta solo a vederla, così bella e di classe. Perfino mia sorella minore, che all’epoca faceva la seconda media, mostra-va già i segni che sarebbe diventata una gran bellezza. Mentre io me ne restavo sola come un cane, pentendomi di essermi lasciata con il mio ragazzo inventato, e sentendo la man-canza della gioia che mi dava immaginarmi di piacere a un ragazzo come lui.

Poi al college è arrivato Jean-Philippe, che ho inventato per tenere alla larga un ragaz-zo che mi si era appiccicato come una cozza. Uno specializzando in chimica che, ripensan-doci adesso, probabilmente soffriva di un di-sturbo che gli impediva di capire le mie non troppo velate allusioni.

Anziché dirgli chiaro e tondo che non mi

stato di New York, ci siamo trasferiti nel ben più elegante borgo di Avon, nel Connecticut, dove tutte le ragazze avevano i capelli lisci e i denti bianchissimi, io mi sono inventata un altro fidanzatino. Jack, il ragazzo che avevo lasciato a malincuore a Mount Vernon.

Ah, quant’era carino (come dimostrava la foto nel mio portafoglio, che avevo ritaglia-to con cura da un catalogo). Il padre di Jack aveva un magnifico ristorante di nome Le Cirque (e dai, forza, avevo solo quindici anni), e Jack e io facevamo le cose con calma... sì, ci eravamo baciati; in effetti, saremmo andati anche oltre, ma lui era così rispettoso che ci eravamo fermati lì.

Volevamo aspettare di essere più grandi.Forse ci saremmo fidanzati quasi uffi-

cialmente, e visto che i suoi mi adoravano, volevano che Jack mi comprasse un anello di Tiffany, non un brillante, ma magari uno zaffiro, come quello di Lady Diana, ma un po’ più piccolo.

Mi dispiace dirvelo, ma ho rotto con Jack al secondo anno, in modo da rendermi dispo-

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nibile per i ragazzi del posto. La mia strategia si è però ritorta contro di

me... i ragazzi del posto non è che fossero poi tanto interessati.

A mia sorella maggiore senz’altro... Marga-ret veniva a prendermi a scuola qualche volta quando tornava a casa dal college, e i ragazzi restavano a bocca aperta solo a vederla, così bella e di classe. Perfino mia sorella minore, che all’epoca faceva la seconda media, mostra-va già i segni che sarebbe diventata una gran bellezza. Mentre io me ne restavo sola come un cane, pentendomi di essermi lasciata con il mio ragazzo inventato, e sentendo la man-canza della gioia che mi dava immaginarmi di piacere a un ragazzo come lui.

Poi al college è arrivato Jean-Philippe, che ho inventato per tenere alla larga un ragaz-zo che mi si era appiccicato come una cozza. Uno specializzando in chimica che, ripensan-doci adesso, probabilmente soffriva di un di-sturbo che gli impediva di capire le mie non troppo velate allusioni.

Anziché dirgli chiaro e tondo che non mi

stato di New York, ci siamo trasferiti nel ben più elegante borgo di Avon, nel Connecticut, dove tutte le ragazze avevano i capelli lisci e i denti bianchissimi, io mi sono inventata un altro fidanzatino. Jack, il ragazzo che avevo lasciato a malincuore a Mount Vernon.

Ah, quant’era carino (come dimostrava la foto nel mio portafoglio, che avevo ritaglia-to con cura da un catalogo). Il padre di Jack aveva un magnifico ristorante di nome Le Cirque (e dai, forza, avevo solo quindici anni), e Jack e io facevamo le cose con calma... sì, ci eravamo baciati; in effetti, saremmo andati anche oltre, ma lui era così rispettoso che ci eravamo fermati lì.

Volevamo aspettare di essere più grandi.Forse ci saremmo fidanzati quasi uffi-

cialmente, e visto che i suoi mi adoravano, volevano che Jack mi comprasse un anello di Tiffany, non un brillante, ma magari uno zaffiro, come quello di Lady Diana, ma un po’ più piccolo.

Mi dispiace dirvelo, ma ho rotto con Jack al secondo anno, in modo da rendermi dispo-

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questa linea di condotta ogni volta che ripas-sa in televisione. Sì, so essere tenace nelle mie decisioni.

In ogni caso, per tutti i miei vent’anni, fino ad arrivare adesso ai trenta, inventarmi un ragazzo è stata una strategia di sopravvi-venza. Qualche tempo fa Florence, una delle vecchiette del Villaggio per Anziani Ai prati dorati, mi ha offerto suo nipote alla lezione di ballo in cui collaboro con un mio amico in-segnante di danza.

«Tesoro, Bertie ti piacerebbe un sacco!» ha cinguettato Florence, mentre cercavo di farla girare a destra durante un cha cha cha. «Pos-so dargli il tuo numero? È un medico, un podo-logo per la precisione. Ma ha un problemino. Oggi le ragazze sono troppo pignole, mentre ai miei tempi se avevi trent’anni e non eri ancora sposata, eri praticamente morta. Solo perché Bertie ha un po’ di seno, cosa vuoi che sia? Anche sua madre era bella prosperosa, mamma mia quant’era tettona...»

Ed ecco di nuovo spuntare il mio ragazzo immaginario. «Ti ringrazio, Flo... ma esco già

piaceva, infatti – mi sembrava troppo crude-le – avevo dato istruzioni alla mia compagna di stanza di scrivermi dei messaggi e attac-carmeli alla porta per far vedere a tutti che: “Grace – ha di nuovo chiamato J-P, e ti vuole a Parigi nelle vacanze. Chiamalo tout de suite”.

Ah, quanto amavo Jean-Philippe, quanto amavo immaginarmi che un elegantissimo francesino avesse una cotta per me! Che pas-seggiasse sui ponti di Parigi, guardando con occhi malinconici la Senna, sentendo la mia mancanza e sospirando tutto triste mentre mangiava dei croissant al cioccolato e beve-va del buon vino. Eh sì, per secoli ho avuto una cotta per Jean-Philippe, seconda solo al mio amore per Rhett Butler di Via col Vento, che avevo scoperto a tredici anni e che non avevo mai lasciato.

Ovviamente alludo al Rhett Butler del libro. Per quanto adori la saga di Via col Vento, che avrò letto almeno una quindicina di volte, non ho mai voluto vedere il tanto osannato film, perché temevo la delusione. E anche se sono l’unica al mondo, continuo con

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questa linea di condotta ogni volta che ripas-sa in televisione. Sì, so essere tenace nelle mie decisioni.

In ogni caso, per tutti i miei vent’anni, fino ad arrivare adesso ai trenta, inventarmi un ragazzo è stata una strategia di sopravvi-venza. Qualche tempo fa Florence, una delle vecchiette del Villaggio per Anziani Ai prati dorati, mi ha offerto suo nipote alla lezione di ballo in cui collaboro con un mio amico in-segnante di danza.

«Tesoro, Bertie ti piacerebbe un sacco!» ha cinguettato Florence, mentre cercavo di farla girare a destra durante un cha cha cha. «Pos-so dargli il tuo numero? È un medico, un podo-logo per la precisione. Ma ha un problemino. Oggi le ragazze sono troppo pignole, mentre ai miei tempi se avevi trent’anni e non eri ancora sposata, eri praticamente morta. Solo perché Bertie ha un po’ di seno, cosa vuoi che sia? Anche sua madre era bella prosperosa, mamma mia quant’era tettona...»

Ed ecco di nuovo spuntare il mio ragazzo immaginario. «Ti ringrazio, Flo... ma esco già

piaceva, infatti – mi sembrava troppo crude-le – avevo dato istruzioni alla mia compagna di stanza di scrivermi dei messaggi e attac-carmeli alla porta per far vedere a tutti che: “Grace – ha di nuovo chiamato J-P, e ti vuole a Parigi nelle vacanze. Chiamalo tout de suite”.

Ah, quanto amavo Jean-Philippe, quanto amavo immaginarmi che un elegantissimo francesino avesse una cotta per me! Che pas-seggiasse sui ponti di Parigi, guardando con occhi malinconici la Senna, sentendo la mia mancanza e sospirando tutto triste mentre mangiava dei croissant al cioccolato e beve-va del buon vino. Eh sì, per secoli ho avuto una cotta per Jean-Philippe, seconda solo al mio amore per Rhett Butler di Via col Vento, che avevo scoperto a tredici anni e che non avevo mai lasciato.

Ovviamente alludo al Rhett Butler del libro. Per quanto adori la saga di Via col Vento, che avrò letto almeno una quindicina di volte, non ho mai voluto vedere il tanto osannato film, perché temevo la delusione. E anche se sono l’unica al mondo, continuo con

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al sicuro sul ciglio della strada, ho cercato di calmarmi e ho preso il cellulare per chiama-re il carro attrezzi. Come volevasi dimostra-re, in quel tratto il cellulare non prendeva e così sono dovuta ricorrere alla seconda op-zione: quella di cambiare io stessa la gomma sotto la pioggerellina di marzo. Che non era tanto pioggerellina, a dire il vero.

Per farla breve, sono scesa dalla macchi-na, mi sono armata di pazienza e, bagnata come un pulcino, rompendomi un’unghia e rovinandomi le scarpe, oltre a sporcarmi di fango e di grasso, ho cambiato la gomma.

E si fosse fermato qualcuno ad aiutarmi!Non un’anima. Non uno che abbia anche soltanto frenato.A quel punto, più o meno fiera di me stessa

per aver cambiato la gomma da sola, sono risalita in macchina e mi sono rimessa in marcia, non vedendo l’ora di arrivare a casa a farmi un bel bagno, e poi un film in DVD con una cioccolata calda fumante.

E invece a casa mi aspettava il disastro.A giudicare dall’evidenza dei fatti, il mio

con un altro, purtroppo.»E non faccio così solo quando parlo con gli

altri, lo ammetto. Uso il ragazzo d’emergen-za come... insomma, diciamo come espedien-te per affrontare meglio la vita.

Come per esempio qualche settimana fa, quando mi è scoppiata una gomma sulla su-perstrada mentre pensavo al mio ex Andrew e alla sua nuova lei. Cercando di non finire fuori strada, come capita sempre quando ti vedi la morte in faccia, mi sono venuti tremi-la pensieri.

Primo, non avevo niente da mettermi al mio funerale.

Secondo, se avessero scelto la bara aper-ta, speravo di non avere i capelli crespi nella morte come li avevo sempre avuti in vita. Le mie sorelle sarebbero state addoloratissime, per non parlare dei miei genitori, almeno quel giorno. E quanto si sarebbe sentito in colpa Andrew!

Per tutta la vita avrebbe avuto i rimorsi di coscienza per avermi lasciato.

Quando finalmente ho rimesso la macchina

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al sicuro sul ciglio della strada, ho cercato di calmarmi e ho preso il cellulare per chiama-re il carro attrezzi. Come volevasi dimostra-re, in quel tratto il cellulare non prendeva e così sono dovuta ricorrere alla seconda op-zione: quella di cambiare io stessa la gomma sotto la pioggerellina di marzo. Che non era tanto pioggerellina, a dire il vero.

Per farla breve, sono scesa dalla macchi-na, mi sono armata di pazienza e, bagnata come un pulcino, rompendomi un’unghia e rovinandomi le scarpe, oltre a sporcarmi di fango e di grasso, ho cambiato la gomma.

E si fosse fermato qualcuno ad aiutarmi!Non un’anima. Non uno che abbia anche soltanto frenato.A quel punto, più o meno fiera di me stessa

per aver cambiato la gomma da sola, sono risalita in macchina e mi sono rimessa in marcia, non vedendo l’ora di arrivare a casa a farmi un bel bagno, e poi un film in DVD con una cioccolata calda fumante.

E invece a casa mi aspettava il disastro.A giudicare dall’evidenza dei fatti, il mio

con un altro, purtroppo.»E non faccio così solo quando parlo con gli

altri, lo ammetto. Uso il ragazzo d’emergen-za come... insomma, diciamo come espedien-te per affrontare meglio la vita.

Come per esempio qualche settimana fa, quando mi è scoppiata una gomma sulla su-perstrada mentre pensavo al mio ex Andrew e alla sua nuova lei. Cercando di non finire fuori strada, come capita sempre quando ti vedi la morte in faccia, mi sono venuti tremi-la pensieri.

Primo, non avevo niente da mettermi al mio funerale.

Secondo, se avessero scelto la bara aper-ta, speravo di non avere i capelli crespi nella morte come li avevo sempre avuti in vita. Le mie sorelle sarebbero state addoloratissime, per non parlare dei miei genitori, almeno quel giorno. E quanto si sarebbe sentito in colpa Andrew!

Per tutta la vita avrebbe avuto i rimorsi di coscienza per avermi lasciato.

Quando finalmente ho rimesso la macchina

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mata e ho tirato fuori il cellulare dalla bor-setta per chiamare il carro attrezzi, ma ov-viamente non prendeva. A quel punto, però, una macchina si è fermata accanto alla mia, e un buon samaritano in veste di trentacin-quenne alto e slanciato si è avvicinato al mio finestrino.

Mi è bastato uno sguardo e ho capito che era l’uomo della mia vita.Ho accettato l’aiuto del buon samaritano in questione, e dieci minuti dopo aver cambiato la gomma con maschia risolutezza, lui mi ha dato il suo biglietto da visita.

Wyatt tal dei tali, medico chirurgo, Ospe-dale Pediatrico bla bla bla.

Ah, però.«Mi chiami quando arriva a casa, così so

che è andato tutto bene, d’accordo?» mi ha detto il bel dottorino con un gran sorriso mentre mi scriveva sul biglietto da visita il numero di casa sua e io gli lumavo le invitan-ti fossette e le ciglia lunghe un chilometro.

Questa fantasia mi ha aiutato a pulire il vomito con un po’ più di entusiasmo.

West Highland White Terrier, Angus, ave-va vomitato il tacchino andato a male che avevo buttato nel cassonetto davanti a casa mia la sera prima, e che Angus era riuscito chissà come a recuperare rovesciando peral-tro anche il cassonetto in questione. Fatto sta che mi sono trovata le pareti della cucina chiazzate di vomito giallo-verde, sen-za contare una bella scia di cacca sul tappeto orientale color pastello appena uscito dalla tintoria. Il tutto mentre Angus mi guardava con i suoi occhioni tristi agitando colpevole la coda.

Insomma, niente bagno, niente film in DVD e niente cioccolata calda.

Voi mi chiederete cos’abbia a che fare tutto questo con il ragazzo immaginario. Be’, men-tre strofinavo il tappeto e cercavo di prepa-rare psicologicamente Angus alla supposta che mi aveva prescritto il veterinario per le sue coliche, mi sono trovata a immaginare quanto segue.

Stavo tornando a casa in macchina e mi è scoppiata una gomma. Al che mi sono fer-

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mata e ho tirato fuori il cellulare dalla bor-setta per chiamare il carro attrezzi, ma ov-viamente non prendeva. A quel punto, però, una macchina si è fermata accanto alla mia, e un buon samaritano in veste di trentacin-quenne alto e slanciato si è avvicinato al mio finestrino.

Mi è bastato uno sguardo e ho capito che era l’uomo della mia vita.Ho accettato l’aiuto del buon samaritano in questione, e dieci minuti dopo aver cambiato la gomma con maschia risolutezza, lui mi ha dato il suo biglietto da visita.

Wyatt tal dei tali, medico chirurgo, Ospe-dale Pediatrico bla bla bla.

Ah, però.«Mi chiami quando arriva a casa, così so

che è andato tutto bene, d’accordo?» mi ha detto il bel dottorino con un gran sorriso mentre mi scriveva sul biglietto da visita il numero di casa sua e io gli lumavo le invitan-ti fossette e le ciglia lunghe un chilometro.

Questa fantasia mi ha aiutato a pulire il vomito con un po’ più di entusiasmo.

West Highland White Terrier, Angus, ave-va vomitato il tacchino andato a male che avevo buttato nel cassonetto davanti a casa mia la sera prima, e che Angus era riuscito chissà come a recuperare rovesciando peral-tro anche il cassonetto in questione. Fatto sta che mi sono trovata le pareti della cucina chiazzate di vomito giallo-verde, sen-za contare una bella scia di cacca sul tappeto orientale color pastello appena uscito dalla tintoria. Il tutto mentre Angus mi guardava con i suoi occhioni tristi agitando colpevole la coda.

Insomma, niente bagno, niente film in DVD e niente cioccolata calda.

Voi mi chiederete cos’abbia a che fare tutto questo con il ragazzo immaginario. Be’, men-tre strofinavo il tappeto e cercavo di prepa-rare psicologicamente Angus alla supposta che mi aveva prescritto il veterinario per le sue coliche, mi sono trovata a immaginare quanto segue.

Stavo tornando a casa in macchina e mi è scoppiata una gomma. Al che mi sono fer-

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Ovviamente sapevo benissimo che la gom-ma non me l’aveva cambiata il bel dottorino gentile. Era solo una pia illusione, ahimè.

Non c’era nessun Wyatt – mi è sempre piaciuto questo nome, autorevole e nobile – e purtroppo un ragazzo così sarebbe troppo bello per essere vero. E non sono certo anda-ta a raccontare in giro del pediatra che mi ha cambiato la gomma, certo che no.

Me lo sono tenuta per me come strategia di sopravvivenza, come ho già detto prima. Erano anni che non fingevo pubblicamente di avere un ragazzo.

Fino a quel venerdì, cioè.

. 1 .

«E così, con questo semplice atto, Lincoln ha cambiato la storia americana. Se all’epo-ca era uno dei personaggi più disprezzati, è riuscito invece a salvaguardare l’Unione ed è oggi considerato uno dei più grandi presi-denti che il nostro paese abbia mai avuto. E che probabilmente avremo mai...»

Mi interruppi di colpo, guardandomi attor-no in aula e strabuzzando gli occhi... aveva-mo appena iniziato la lezione sulla Guerra di Secessione, e quella era la mia classe pre-ferita, ma purtroppo i miei ragazzi dell’ulti-mo anno erano nel classico coma del venerdì pomeriggio. Tommy Michener, di solito il più bravo e attento della classe, stava guar-dando con occhi languidi Kerry Blake, che nel frattempo lo snobbava per guardare con

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Ovviamente sapevo benissimo che la gom-ma non me l’aveva cambiata il bel dottorino gentile. Era solo una pia illusione, ahimè.

Non c’era nessun Wyatt – mi è sempre piaciuto questo nome, autorevole e nobile – e purtroppo un ragazzo così sarebbe troppo bello per essere vero. E non sono certo anda-ta a raccontare in giro del pediatra che mi ha cambiato la gomma, certo che no.

Me lo sono tenuta per me come strategia di sopravvivenza, come ho già detto prima. Erano anni che non fingevo pubblicamente di avere un ragazzo.

Fino a quel venerdì, cioè.

. 1 .

«E così, con questo semplice atto, Lincoln ha cambiato la storia americana. Se all’epo-ca era uno dei personaggi più disprezzati, è riuscito invece a salvaguardare l’Unione ed è oggi considerato uno dei più grandi presi-denti che il nostro paese abbia mai avuto. E che probabilmente avremo mai...»

Mi interruppi di colpo, guardandomi attor-no in aula e strabuzzando gli occhi... aveva-mo appena iniziato la lezione sulla Guerra di Secessione, e quella era la mia classe pre-ferita, ma purtroppo i miei ragazzi dell’ulti-mo anno erano nel classico coma del venerdì pomeriggio. Tommy Michener, di solito il più bravo e attento della classe, stava guar-dando con occhi languidi Kerry Blake, che nel frattempo lo snobbava per guardare con

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occhi languidi Hunter Graystone IV. Il tutto sotto gli occhi languidi di Emma Kirk, una ragazza dolce e carina, che aveva una cotta per Tommy pur sapendo benissimo che era innamorato di Kerry. Peggio di una teleno-vela brasiliana, insomma.

«Allora, chi di voi mi sa dire quali sono state le cause scatenanti della Guerra di Secessio-ne?» domandai alla platea tutta speranzosa.

Silenzio di tomba.«Vi do qualche indizio» continuai guar-

dando le loro facce assenti. «Diritti degli sta-ti singoli anziché controllo federale. Unione anziché secessione. Schiavitù o non schiavi-tù. Vi viene in mente qualcosa?»

In quel momento squillò la campanella, e i miei studenti comatosi ripresero imme-diatamente vita schizzando come razzi fuori dall’aula.

Cercai di non prendermela: i ragazzi ave-vano avuto una settimana davvero dura, fra prove e verifiche, e quella sera c’era un ballo. Li capivo benissimo.

Soprattutto perché di solito anch’io non

vedevo l’ora che fosse venerdì pomeriggio per potermene andare a casa a godermi il fine settimana. Ma non quel venerdì. Quel vener-dì avrei preferito di gran lunga restarmene a scuola a fare lezioni di danza o a insegnare lacrosse. Anche a pulire i cessi, guarda un po’, piuttosto di fare quello che mi toccava.

«Ciao, Grace» mi disse Kiki, la mia ami-ca insegnante d’inglese, entrando nell’aula vuota mentre stavo raccogliendo le mie cose. «Allora, hai trovato un accompagnatore per stasera?»

Feci una smorfia di sconforto. «No. per niente, Kiki. E non sarà per nien-

te una cosa carina, te lo dico io.»«Oh, merda» ribatté lei. «Mi dispiace tan-

tissimo, Grace.»«Vabbé, non è poi la fine del mondo, so-

pravvivrò anche a questo» mormorai facen-domi coraggio.

«Ne sei sicura?» Come me, Kiki era single. E nessuno sa

meglio di una trentenne single quale infer-no sia andare a un matrimonio da sole. Di

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occhi languidi Hunter Graystone IV. Il tutto sotto gli occhi languidi di Emma Kirk, una ragazza dolce e carina, che aveva una cotta per Tommy pur sapendo benissimo che era innamorato di Kerry. Peggio di una teleno-vela brasiliana, insomma.

«Allora, chi di voi mi sa dire quali sono state le cause scatenanti della Guerra di Secessio-ne?» domandai alla platea tutta speranzosa.

Silenzio di tomba.«Vi do qualche indizio» continuai guar-

dando le loro facce assenti. «Diritti degli sta-ti singoli anziché controllo federale. Unione anziché secessione. Schiavitù o non schiavi-tù. Vi viene in mente qualcosa?»

In quel momento squillò la campanella, e i miei studenti comatosi ripresero imme-diatamente vita schizzando come razzi fuori dall’aula.

Cercai di non prendermela: i ragazzi ave-vano avuto una settimana davvero dura, fra prove e verifiche, e quella sera c’era un ballo. Li capivo benissimo.

Soprattutto perché di solito anch’io non

vedevo l’ora che fosse venerdì pomeriggio per potermene andare a casa a godermi il fine settimana. Ma non quel venerdì. Quel vener-dì avrei preferito di gran lunga restarmene a scuola a fare lezioni di danza o a insegnare lacrosse. Anche a pulire i cessi, guarda un po’, piuttosto di fare quello che mi toccava.

«Ciao, Grace» mi disse Kiki, la mia ami-ca insegnante d’inglese, entrando nell’aula vuota mentre stavo raccogliendo le mie cose. «Allora, hai trovato un accompagnatore per stasera?»

Feci una smorfia di sconforto. «No. per niente, Kiki. E non sarà per nien-

te una cosa carina, te lo dico io.»«Oh, merda» ribatté lei. «Mi dispiace tan-

tissimo, Grace.»«Vabbé, non è poi la fine del mondo, so-

pravvivrò anche a questo» mormorai facen-domi coraggio.

«Ne sei sicura?» Come me, Kiki era single. E nessuno sa

meglio di una trentenne single quale infer-no sia andare a un matrimonio da sole. Di

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lì a qualche ora quell’antipatica di mia cu-gina Kitty, che una volta, da ragazzine, mi aveva tagliato tutti i capelli fino alle radici, una notte che dormivo a casa sua, si sarebbe sposata. Per la terza volta. E con un vestito alla Lady D, maledizione a lei.

«Oh, guarda, c’è Eric» sbottò Kiki, indican-do la finestra sul lato est. «Grazie a Dio!»

Eric era il ragazzo che lavava le finestre a scuola ogni autunno e primavera. Anche se eravamo solo ai primi di aprile, il pomeriggio era piuttosto caldo ed Eric era a torso nudo.

Ci fece un gran sorriso, ben consapevole della sua maschia bellezza.

«Chiedilo a lui!» propose Kiky mentre lo guar-davamo ammirate. «Potrebbe accompagnarti lui al matrimonio, sai che figurone faresti!»

«Eric è sposato» risposi io, senza staccargli gli occhi di dosso. Mangiarmi un uomo con gli occhi era in pratica la cosa più audace che avevo fatto con un esemplare di sesso ma-schile negli ultimi tempi.

Questo per dirvi come mi ero ridotta.«Sposato felicemente?»