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...... 1=3 ................. I OPOO .......... 0 0 0 I= O O C-7 = 0 P l= P O= ........ •=1 .............. Gievarmw interpreta Peppone, ma come attore è un fiasco Giovaimino Guareschi (a sinistra nella foto Olympia) provò a interpretare il suo Peppone sotto la regia di Duvivier. C'era tutto Brescello ad assistere, ma Guareschi ripetè la scena 15 volte senza successo e decise di mollare. Sopra: una scena del «Don Camillo» con Fernandel e Gino Cervi (Foto: G. Neri) • Beppe Gualazzini uareschi non sapeva che co- sa pensare di quel francese che s'in- filava nelle vesti del suo personag- gio. L'osservava con sospetto. Ne spiava ogni mossa. Commentò che Fernandel gli sembrava un ciclista del Giro di Francia, un pompiere, un ladro di biciclette, insomma tutto meno che un prete. Tantomeno il suo Don Camillo. Ma poi lo vide calare massiccio in una vasta ,tonaca prestatagli 'dal parroco di Brescello e camminare a passi lunghissimi. Su e giù davanti al Crocefisso. Mani che si tormentava- no dietro la schiena e piedi calzati in scarpe numero quarantasei, lui che portava il quarantuno. E cominciò a pensare che quel francese gli avreb- be fatto cambiare idea. Che, magari, un giorno pensando a Don Camillo gli sarebbe capitato di vedere la fac- cia e i denti di Fernandel. La scoperta di Brescello Il regista Duvivier, in un giorno caldissimo d'estate, prese a girare per la Bassa alla ricerca del paese nel quale ambientare gli esterni del film. Scartò subito le Roncole, per- ché di fronte alla chiesa, sul lato op- posto della piazza, voleva ci fosse u- na Casa del Popolo e non poteva certo piazzarla nella casa natale di Giuseppe Verdi. E scartò le Fonta- nelle, perché davanti alla chiesa la piazza era troppo esigua, un trian- goletto cinto su due lati da un argine maestro che neppure dava sul fiu- me, ma in terra di golena. A questo punto Guareschi smise di seguire Duvivier, che tanto il regi- sta gli aveva già assassinato le spe- ranze che il film fosse girato nei luo- ghi che amava. Con i baffi flosci per il gran sudore e senza avvertire Du- vivier, che scomparve con i suoi aiu- ti nell'afa pomeridiana, svoltò in una stradotta odi campagna, raggiunse il pergolato di un'osteria sotto Po e andasse dove pende, lui per adesso si ancorò a una bottiglia di bianco secco e a fette di culatello alte un di- to. Duvivier, impassibile, forò il caldo, attraversò paese dopo paese se- guendo il corso del fiume nel senso della corrente. Entrò in territorio reggiano e scoprì Brescello. Il paese gli piacque. Sí, c'era perfi- no un'atmosfera quasi francese. Di sicuro bisognava correggere la chie- sa, magari con un altro pronao sulla porta centrale per darle un tocco piú spettacolare. E l'entrata della sacrestia era meglio che avesse un po' di cornice attorno, per tirarla in evidenza e non appiattire l'immagi- ne. Duvivier ordinò subito ai carpen- tieri di costruire in compensato e cartapesta pronao e cornici. Qual- che anno più tardi, su richiesta del parroco di Brescello al quale il pro- nao era piaciuto da matti, la Cineriz, a sue spese, lo rifece vero in mattoni e pietra; Duvivier camminò a lungo, basco sulle ventitré, per le strade di Bre- scello. Il paesè è in territorio di Reg- gio Emilia, a una ventina cli chilome- tri da Parma sulla via per Mantova. Nel '51 era una borgata di 3.000 ani- me raccolte attorno alla piazza ret- tangolare, con la penombra di bassi porticati su un lato. A mettersi in mezzo a una delle vie diritte del paese, si poteva indovinare il Po scorrere dietro la barriera dei piop- pi e litigare con le acque dell'Enza, un torrentaccio dal carattere bizzo- so che, a ogni inizio di stagione, sma- niava e non era capace di starsene quieto nel suo letto. Soddisfatto, Duvivier pensò ai personaggi. Il Cristo, innanzitutto. In un oratorio di Brescello aveva a- docchiato un Cristo crocefisso alto circa tre metri e gli era piaciuto, perché era un'antica figura lignea scolpita da un buon artigiano che, dove non lo sorresse l'arte, supplì con molta fede. Chiese al parroco di poterlo avere in prestito per girare il film. Il parroco lo chiese al vesco- vo. Il vescovo rispose neanche per sogno. Duvivier chiamò un bravo scultore scenografo, Bruno Avesan e ordinò di costruire una copia di quel Cristo crocefisso con qualche ritocco: volle un volto lungo, scavato, rigido e ap- pena piegato verso destra, con un naso robusto che pareva il calco di quello di t Fernandel. Nell'insieme, un patimento severo. Ma anche doli cissimo. Nel primo film quel Cristo ebbe cinque teste cambiabili con e- spressioni differenti. Restava da stabilire chi avrebbe interpretato Peppone e Duvivier scelse Guareschi che partì baldan- zoso per la nuova esperienza. Giun- se a Brescello a bordo del suo Guzzi- no 65 rosso fiammante e s'installò in casa di Don Dino Alberici, un prete libero come l'aria, che sbarcava il lu- nario facendo il maestro, imbasten- do ricerche storiche su Brescello, bersagliando i fedeli con filippiche morali e politiche dalle colonne dei giornali locali. Quando fu ora di girare la prima scena, Guareschi si calò in un paio di bragoni di fustagno. Mise ima ca- micia a scacchi, un fazzolettone ros- so al collo e s'infilò un mezzo tosca- no tra i denti: era Peppone. La prima scena fu girata nel picco- lo campo sportivo di Brescello ed e- ra quella nella quale Peppone, finito da pochi istanti il primo tempo della partita di calcio tra la Gagliarda, squadra di Don Camillo e la Djna- nios, squadra dei rossi, doveva cor- rere verso gli spogliatoi, gridare «Fascisti!» ai suoi giocatori che per- devano per uno a zero, af- ferrare per il collo lo smil- zo e urlargli: «TU, sporco traditore! Ricordati che quando eravamo in mon- tagna io ti ho salvato tre volte la pelle. Se entro i primi cinque minuti non segni, io questa volta te la faccio, la pelle!». Il primo ciak C'era tutto Brescello ad assistere. Al primo ciak Peppone non partì. Partì però come una schioppet- tata al quarto ciak e si trovò col naso incollato al- l'obiettivo. «On répete» disse Duvi- vier impassibile dalla sua seggiola. E gli fece ripete- re la scena per cinque ore. A un certo punto, Guare- schi getto il cappello a ter- ra e si mise a calpestarlo furibondo. Andò a chiudersi in casa di Don Alberici. Il giorno dopo Duvivier gli fece ri- petere per altre quattor- dici volte la scena. «Dai Zvanin, sei più bra- vo di Tyrone!» lo incitava- no le comparse. «Magnifique! c'est magnifique!» tentava di tenerlo su di morale Fer- nandel e, ogni volta che Guareschi si preparava a ricominciare, fingeva d'essere il secondo che sul ring mas- saggia e rincuora un pugile pestato. L'altro partiva, camminava, incespi- cava. Rifare. Alla quindicesima ri- presa, Guareschi crollò coi piedi do- loranti e pieni di vesciche. Per qual- che giorno dovette farsi pediluvi in una bacinella e starsene con una ca- viglia fasciata. Poi Duvivier lo chiamò e, senza un solo commento, si limitò a fargli vedere gli spezzoni che aveva girato. Guareschi deglutì più volte e gettò la spugna. No, rico- nobbe, sullo schermo non era gran- ché simpatico. Per la prima volta la faccia grinzosa e bianca come la fari- na di Duvivier gli dedicò un rapidis- simo sorriso. (26 — continua)

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...... 1=3 ................. I OPOO .......... 0 0 0 I= O O C-7 = 0 P l= P O= ........ •=1 ..............

Gievarmw interpreta Peppone, ma come attore è un fiasco

Giovaimino Guareschi (a sinistra nella foto Olympia) provò a interpretare il suo Peppone sotto la regia di Duvivier. C'era tutto Brescello ad assistere, ma Guareschi ripetè la scena 15 volte senza successo e decise di mollare. Sopra: una scena del «Don Camillo» con Fernandel e Gino Cervi (Foto: G. Neri) •

Beppe Gualazzini

uareschi non sapeva che co-sa pensare di quel francese che s'in-filava nelle vesti del suo personag-gio. L'osservava con sospetto. Ne spiava ogni mossa. Commentò che Fernandel gli sembrava un ciclista del Giro di Francia, un pompiere, un ladro di biciclette, insomma tutto meno che un prete. Tantomeno il suo Don Camillo.

Ma poi lo vide calare massiccio in una vasta ,tonaca prestatagli 'dal parroco di Brescello e camminare a passi lunghissimi. Su e giù davanti al Crocefisso. Mani che si tormentava-no dietro la schiena e piedi calzati in scarpe numero quarantasei, lui che portava il quarantuno. E cominciò a pensare che quel francese gli avreb-be fatto cambiare idea. Che, magari, un giorno pensando a Don Camillo gli sarebbe capitato di vedere la fac-cia e i denti di Fernandel.

La scoperta di Brescello Il regista Duvivier, in un giorno

caldissimo d'estate, prese a girare per la Bassa alla ricerca del paese nel quale ambientare gli esterni del film. Scartò subito le Roncole, per-ché di fronte alla chiesa, sul lato op-posto della piazza, voleva ci fosse u-na Casa del Popolo e non poteva certo piazzarla nella casa natale di Giuseppe Verdi. E scartò le Fonta-nelle, perché davanti alla chiesa la piazza era troppo esigua, un trian-goletto cinto su due lati da un argine maestro che neppure dava sul fiu-me, ma in terra di golena.

A questo punto Guareschi smise di seguire Duvivier, che tanto il regi-

sta gli aveva già assassinato le spe-ranze che il film fosse girato nei luo-ghi che amava. Con i baffi flosci per il gran sudore e senza avvertire Du-vivier, che scomparve con i suoi aiu-ti nell'afa pomeridiana, svoltò in una stradotta odi campagna, raggiunse il pergolato di un'osteria sotto Po e andasse dove pende, lui per adesso si ancorò a una bottiglia di bianco secco e a fette di culatello alte un di-to.

Duvivier, impassibile, forò il caldo, attraversò paese dopo paese se-guendo il corso del fiume nel senso della corrente. Entrò in territorio reggiano e scoprì Brescello.

Il paese gli piacque. Sí, c'era perfi-no un'atmosfera quasi francese. Di sicuro bisognava correggere la chie-sa, magari con un altro pronao sulla porta centrale per darle un tocco piú spettacolare. E l'entrata della sacrestia era meglio che avesse un po' di cornice attorno, per tirarla in evidenza e non appiattire l'immagi-ne.

Duvivier ordinò subito ai carpen-tieri di costruire in compensato e cartapesta pronao e cornici. Qual-che anno più tardi, su richiesta del parroco di Brescello al quale il pro-nao era piaciuto da matti, la Cineriz, a sue spese, lo rifece vero in mattoni e pietra;

Duvivier camminò a lungo, basco sulle ventitré, per le strade di Bre-scello. Il paesè è in territorio di Reg-gio Emilia, a una ventina cli chilome-tri da Parma sulla via per Mantova. Nel '51 era una borgata di 3.000 ani-me raccolte attorno alla piazza ret-tangolare, con la penombra di bassi porticati su un lato. A mettersi in mezzo a una delle vie diritte del paese, si poteva indovinare il Po scorrere dietro la barriera dei piop-pi e litigare con le acque dell'Enza, un torrentaccio dal carattere bizzo-so che, a ogni inizio di stagione, sma-niava e non era capace di starsene quieto nel suo letto.

Soddisfatto, Duvivier pensò ai personaggi. Il Cristo, innanzitutto. In un oratorio di Brescello aveva a-docchiato un Cristo crocefisso alto circa tre metri e gli era piaciuto, perché era un'antica figura lignea scolpita da un buon artigiano che, dove non lo sorresse l'arte, supplì

con molta fede. Chiese al parroco di poterlo avere in prestito per girare il film. Il parroco lo chiese al vesco-vo. Il vescovo rispose neanche per sogno.

Duvivier chiamò un bravo scultore scenografo, Bruno Avesan e ordinò di costruire una copia di quel Cristo crocefisso con qualche ritocco: volle un volto lungo, scavato, rigido e ap-pena piegato verso destra, con un naso robusto che pareva il calco di quello di t Fernandel. Nell'insieme, un patimento severo. Ma anche doli cissimo. Nel primo film quel Cristo

ebbe cinque teste cambiabili con e-spressioni differenti.

Restava da stabilire chi avrebbe interpretato Peppone e Duvivier scelse Guareschi che partì baldan-zoso per la nuova esperienza. Giun-se a Brescello a bordo del suo Guzzi-no 65 rosso fiammante e s'installò in casa di Don Dino Alberici, un prete libero come l'aria, che sbarcava il lu-nario facendo il maestro, imbasten-do ricerche storiche su Brescello, bersagliando i fedeli con filippiche morali e politiche dalle colonne dei giornali locali.

Quando fu ora di girare la prima scena, Guareschi si calò in un paio di bragoni di fustagno. Mise ima ca-micia a scacchi, un fazzolettone ros-so al collo e s'infilò un mezzo tosca-no tra i denti: era Peppone.

La prima scena fu girata nel picco-lo campo sportivo di Brescello ed e-ra quella nella quale Peppone, finito da pochi istanti il primo tempo della partita di calcio tra la Gagliarda, squadra di Don Camillo e la Djna-nios, squadra dei rossi, doveva cor-rere verso gli spogliatoi, gridare «Fascisti!» ai suoi giocatori che per-

devano per uno a zero, af-ferrare per il collo lo smil-zo e urlargli: «TU, sporco traditore! Ricordati che quando eravamo in mon-tagna io ti ho salvato tre volte la pelle. Se entro i primi cinque minuti non segni, io questa volta te la faccio, la pelle!».

Il primo ciak C'era tutto Brescello ad

assistere. Al primo ciak Peppone non partì. Partì però come una schioppet-tata al quarto ciak e si trovò col naso incollato al-l'obiettivo.

«On répete» disse Duvi-vier impassibile dalla sua seggiola. E gli fece ripete-re la scena per cinque ore. A un certo punto, Guare-schi getto il cappello a ter-ra e si mise a calpestarlo furibondo.

Andò a chiudersi in casa di Don Alberici. Il giorno dopo Duvivier gli fece ri-petere per altre quattor-dici volte la scena.

«Dai Zvanin, sei più bra-vo di Tyrone!» lo incitava-

no le comparse. «Magnifique! c'est magnifique!»

tentava di tenerlo su di morale Fer-nandel e, ogni volta che Guareschi si preparava a ricominciare, fingeva d'essere il secondo che sul ring mas-saggia e rincuora un pugile pestato. L'altro partiva, camminava, incespi-cava. Rifare. Alla quindicesima ri-presa, Guareschi crollò coi piedi do-loranti e pieni di vesciche. Per qual-che giorno dovette farsi pediluvi in una bacinella e starsene con una ca-viglia fasciata. Poi Duvivier lo chiamò e, senza un solo commento, si limitò a fargli vedere gli spezzoni che aveva girato. Guareschi deglutì più volte e gettò la spugna. No, rico-nobbe, sullo schermo non era gran-ché simpatico. Per la prima volta la faccia grinzosa e bianca come la fari-na di Duvivier gli dedicò un rapidis-simo sorriso.

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rescello accoglie trionfalmente la troupe Guareschi- Duvivier-Fernan- del- Cervi che nel

paese deve girare le ripre- se del «Don Camino». Un po' per la novità, ma anche perché alla gente del po- sto si presenta l'occasione di lavorare come compar- se nel film, di svolgere un lavoro insolito e diverten- te . Nei primi giorni tutto fi-

la liscio. Poi dalla federa-zione del Pd di Reggio E-milia ariiva una squadra di attivisti, Che in un comi-zio tengono un comizio in cui definiscono «libello» il libro di Giovannino e «ne-mici del popolo» tutti quel-li che lavorano al film. Nei giorni successivi con uno sciopero riescono a bloc-care le riprese.

GUALAZZINI 2 A PAGINA I

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Beppe Gualazzini

er la parte di Peppone il regista Duvivier scelse l'attore emulano piú conosciuto in quell'epoca, Gino Cervi. Bolognese. Bisognoso d'un buon paio di baffi. che abitualmente non portava. Ma, a parte questo, con le carte in re-gola per impersonare in tutto il sinda-co comunista di Guareschi. Cervi, fi-glio d'un critico teatrale del «Resto del Carlino», nella vita privata era piutto-sto scorbuticd. Ma sulle scene trasfi-gurava in un innato alone di simpatia e comunicativa. Era stringato. Asciut-to. Di recitazione modernissima e an-tiromantica. Era nello stesso tempo anche il vicino della porta accanto. Lo zio bonario arruffone. Un uomo scatu-rito dalla terra e, come la terra, alla buona. Un uomo dal gran petto pieno d'impeto e speranza. Non poteva cer-to far fatica a interpretare il capo co-munista che di Marx non ma,sticamol-to e che vuol credere non nella Russia, ma nella «sua» Russia. Che è comuni-sta, ma nel Primo Novecento sarebbe stato un socialista alla Faraboli, di quelli cioè che ce l'hanno su coi preti, ma fan tanto di cappello davanti a Dio. E prima ancora sarebbe stato carbo-naro o ghibellino, ma con una gran paura dell'Inferno. PM che altro con una gran paura di perdere la propria dignità.

Sciopero sul set Quando Duvivier lo chiamò a sosti-

tuire Guareschi sul set, Cervi aveva cinquant'anni, sette più di Guareschi. Avi-ebbe preferito alla parte di Peppo-ne quella di Don Camillo.

«Mi truccate con i baffi, ma senza

baffi chi più di me può avere una faccia da prete?» prote-stò.

Riuscì a regalarsi un a-spetto clericale quattro an-ni dopo, interpretando un magistrale Cardinale Lam-bertini. Ma nel frattempo a-veva del tutto sfondato il tet-to della sua popolarità tea-trale interpretando a Mila-no il Cyrano di Bergerac. pubblico milanese decretò infatti in un referendum che il Cyrano di Cervi era stato il miglior spettacolo degli ultimi dieci anni.

Gino Cervi per tutta la vi-ta, dal '51 in poi, fu un ami-co-nemico fedelissimo di Fernandel-Don Camino. Tanto che nel '71 Fernandel morì e Cervi rifiutò di porta-re a termine con una con-trofigura dello scomparso il sesto film della serie che stavano finendo di girare in- sieme.

«Morto questo mio Don Camillo, muore anche questo mio Peppone disse —ne vengan altri. Io, adesso, an-che se hi quanto Cervi sono ancora fi-sicamente vivo, come Peppone sono morto quanto Fernandel e quanto Guareschi». E Guareschi era infatti morto tre armi prima di Fernandel.

Cervi se ne andò a sua volta nel '74. L'Italia della politica postsessantotto rifiutò di salutarlo come Peppone, da-

- to che Guareschi era allora stato mes-so all'indice dalle sinistre, e lo licenziò come Maigret. Ma il mondo lo salutò soprattutto come Peppone.

Guareschi riconobbe che Cervi, sí, nella vita somigliava davvero a Stalin, con quegli occhi a barchetta e i modi compassati del signorotto in dacia. Ma quando si piantava davanti alla mac-china da presa, Peppone era lui, non c'eran santi. A Guareschi non spiac-que d'avergli ceduto il posto in pellico-la.

Recuperando l'uso dei piedi, dopo le scarpinate fatte tentando d'imper-sonare egli stesso Peppone, Guare-schi trovò subito altro da fare. Quan-do ai primi di settembre la compa-gnia di Duvivier era trionfalmente entrata in Brescello con autocarri, ri-flettori, squadre di carpentieri, atto-

Gino Cervi e Fernandel (nei parmi di Peppone Don Camino, foto G.Nern, furono amici-nemici per tutta la vita. Tanto che quando nel '71 Fernandel morì, Cervi si rifiutò di recitare con una controfigura. Disse: «Morto questo mio Don Camino, muore anche questo mio Peppone»

ri, sui muri comparve un ennesimo manifesto che dava il benvenuto a tutta la troupe. I responsabili della produzione avevan subito reclutato centinaia di comparse tra la popola-zione che accettò in massa. In defini-tiva si trattava d'un lavoro divertente e, per di più, ben pagato. Per molti, un insperato sussidio alla disoccupazio-,ne.

Tutto filò per il meglio fino a che giunsero in paese un laureando in sto-ria e filosofia alla testa d'una squadra d'attivisti della federazione Pci di

Reggio Emilia. Cupi, offesi chissà da che, radunarono tutto il popolo di Bre-scello nel teatro comunale e tennero un comizio definendo «libello» il volu-me su Don Camino e nemici del popo-lo lavoratore il regista, gli attori e chiunque, anche solo come comparsa, avesse lavorato nel film.

Non ottennero però un gran succes-so tra la gente di Brescello che, fino a quel momento, aveva creduto di non far proprio nulla di male nell'aiutare quelli del Don Camino. .

Gli attivisti allora tappezzarono i

muri del paese con manifesti perento-ri che, con piú o meno velate minacce, invitavano le comparse a boicottare la lavorazione del film. Gli agit prop la-vorarono sodo di propaganda e, un mattino, le comparse non si presenta-ro sul set e si dichiararono in sciopero. Guerra aperta.

Proprio nei giorni in cui si installa-rono à Brescello Duvivier con tutta la banda. del Don Camillo, smontava dalla carica di sindaco dell'anunini-strazione socialcomunista la signora Leda Bacchi Palazzi. Donna facile al

pianto, rapidissima a schivar polemi-che, onestissima persona. Tutto som-mato, per Brescello era andata benis- I simo. Ciò perché il paese sembrava fatto a sua misura. Una borgata di gente intelligente che, qualunque fosse l'attrito tra le fazioni, alla fine trovava sempre un modo per prende-re sottobraccio gli avversari e portar-seli davanti a Lambrusco e Spongata, il dolce di Brescello famoso nel mon-do, miele, noci, mandorle, uvetta pas-sita, anzi passolita, farina di frumen-to, spezie, aromi.

' I Brescello è un paese così. Vanta u-

no dei fascismi più fiacchi d'Italia. Accadeva qualche volta che i capo-rioni fascisti del paese, per compia-cere i gerarchi zelanti di città, for-massero squadracce vocianti per dar , la caccia a qualche sovversivo e met-terlo senza troppe storie al muro. Ma, almeno 24 ore prima, avevano cura ' d'avvertire i ricercati sí che potesse- , ro nascondersi in tutta tranquillità. E, per esser sicuri che i biechi sovversi-vi si nascondessero bene e non capi-tasse di trovarseli tra i piedi durante il rastrellamento, erano essi stessi a

' ospitarli in casa o a mandarli in va-canza per qualche giorno dai parenti più neri che avevano, queW che nes-suno avrebbe sospettato capaci di fornire asilo a oppositori del regime. ,

(27 — continua) I

Gli aftivfstft del Pei igoicottano le riprese del Don Camino

Mondo comodo Sei vai per Brescello a chiedere che

cos'è stata per loro la guerra parti- I giana, allargano le braccia. Ne san so-lo per sentito dire. Quel che ricorda- i no della guerra, la seconda, è un gran freddo, la molta fame, il Fosso dove la gente del paese doveva ogni mattina andare a scavar fossi anticarro in cambio di cinque sigarette, dieci lire e una stecca di cioccolata. E, poiché ogni 300 scavatori c'era un solo tede-sco di guardia ed era impegnato so-prattutto a sorvegliare che non gli sparisse qualcosa di dosso, immanca-bilmente accadeva che, dopo aver dato qualche colpo di piccone profor-ma, a turni prestabiliti la maggioran-za della Leva civile s'imboscava nel caldo delle stalle e passava la giorna-ta a giocarsi a carte le sigarette della razione.

Guareschi, compagni s'infuriane per le riprese del «Don Camillo»

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A,erviene Giovannino, sospeso io sciopero su ama

se, i Don Camillo

Seppe Gualazzini

dunque, dicevamo, il fascismo a Brescello era stato nel Ventennio così tollerante che, quando le cose si rovesciarono, le cortesie furono ri-cambiate. Accadde, ad esempio, che la moglie d'un noto capo fascista per settimane continuò a far la spola tra autorità del paese e di città piangen-do la drammatica scomparsa del ma-rito, rapito in un'azione che pareva a-vere il marchio della terribile Volante rossa.

Invece il marito era nascosto, e ben nutrito, in casa del suo fornaio, che e-ra da sempre un gran comunista.

Nel '51, dunque, quando i comuni-sti venuti dalla città ordinarono ai compagni di Brescello di boicottare il set del reazionario Don Camillo, e-ra appena scesa dallo' scalone del municipio Leda Bacchi Palazzi, la dolce signora che era stata sindaco negli anni ruggenti e al suo posto sa-liva in podio Afro Bettati. Afro era partito militare nel '39, per Zara. Poi, dopo il solito 8 settembre, era stato spedito in un lager nazista. I-dee, o non idee, ciò era già un buon motivo per gemellarsi con Guare-schi che di lager ne aveva fatto tanto quanto lui.

Afro il colono Ultimo tra gli ultimi infatti, Afro e-

ra tornato a casa nel '46 e, poiché a-veva una mente a larghi orizzonti e non sentiva alcuna vocazione per la miseria del dopoguerra, raggiunse uno zio ricco a Moustagemen in Al-geria, nei dintorni di Orano. Lo zio, solo al mondo, lo aveva allettato con

una lamentosa lettera nella quale, piangendo la sua soli-tudine di ricca sfondato, gli proponeva di andare a fare il ricco sfondato con lui. Ma a Moustagemen Afro, invece di un tenero zio, incontrò un du-rissimo colono che, per la re-gola che le ricchezze s'accu-mulano sudando, lo spedì in un quartiere nel deserto in condizioni che Afro definì a-bominevoli.* Non si stupì nes-suno quindi se, rientrato in paese con la coda tra le gam-be, ebbe parole assai severe contro lo sfruttamento dei pa-droni. Gli capitò anche di menzionare qualche volta un certo O Ci Min del quale aveva udito parlare in Algeria e, con tale lasciapassare, i socialco-munisti ritennero che Afro fosse idoneo a entrare nella li-sta frontista. 11 listone vinse e all'elezione del sindaco, poi-ché tutti rifiutarono per altri impegni si giunse per elimi-nazione ad Afro Bettati che era tutto meno che un politico. Quindi fu un buon sindaco. Tollerante e intelli-gente.

Cinema Italia Tutto ciò spiega perché il primo a

stupirsi della crociata enti Don Ca-millo scatenata a Brescello dai comu-nisti venuti dalla città fu proprio il sin-daco Bettati che, letti e riletti riga per riga i racconti di Guareschi ed essen-dosi divertito come un pazzo, una se-ra, tanto per continuare nelle tradi-zioni pseudopolitiche di Brescello, s'intabarrò e andò a mettersi d'accor-do con un esponente della minoranza democristiana.

«Quelli di Reggio Emilia — disse A-fro — intorbidano le acque. Bisogna far smettere lo Sciopero, far tornare le comparse al lavoro».

«Ben detto — rispose l'altro — infi-schiamocene di quelli di Reggio Emi-lia e lasciamo che il cinema porti fa-ma e lavoro a Brescello. I miei son con te».

«Sì, ma io, oltre che sindaco, devo anche fare l'animale politico. Ho pen-sato di farli sfidare da Guareschi in un

Fernandel nei panni di Don Camino porta il Cristo sulla piazza di Brescello (foto: G. Neri). Durante

le riprese del film gli attivisti del Pd bloccarono il set facendo

scendere in sciopero le comparse. Solo l'intervento di Giovannino

Guareschi (nella foto Olympia qui sopra) riuscì a sbloccare

la situazione

dibattito pubblico. Né possono rifiuta-re. Hanno gettato il sasso. Non lasce-remo che nascondano la mano. Sei i tuoi son con me, i miei son coi tuoi».

Il regista Duvivier, che non era un e-roe, per calmare le acque aveva fatto affiggere piagnucolosi manifesti nei quali dissociava le proprie responsa-bilità da quelle di Guareschi dicendo che qualsiasi potessero essere le se-grete intenzioni dell'autore del Don Camillo i suoi-unici intenti erano di gi-rare un film umoristico. Guareschi, dopo aver confabulato con Afro Betta-ti, coprì quei manifesti con altri nei quali sfidava a un pubblico contrad-

dittorio lo studente venuto da Reggio Emilia e il suo codazzo d'attivisti.

Il contraddittorio avvenne su una pedana allestita sotto lo schermo del cinema Italia. Locale zeppo di gente e altra, più numerosa, riempiva le vie adiacenti. Lo studente si destreggiò bene. Sfoderò una logica che, in par-te, riusciva a nascondere le retoriche di partito. Guareschi accettò la schermaglia fino a quando zitti di col-po e fissò l'avversario. Gli chiese di dirgli in tutta coscienza se avesse mai letto Don Camino Nella sala la gente trattenne il respiro. «No» rispose lo studente, in tutta coscienza.

A questo punto Guareschi poté pro-porre una partita a briscola che quel-la ormai era finita.

Una pistola a tamburo giorno dopo le comparse tornarono

tutte sul set. Quelli di Reggio Emilia però non si diedero per vinti. Con un al-tro manifesto sfidarono Guareschi ad accettare un nuovo dibattito al teatro municipale di Reggio Emilia. Lo sfidante questa volta era l'avvocato Renzo Bo-nazzi, che fu anche sindaco del capoluo-go-e poi senatore del Partito comunista.

«Attento, signor Guareschi — am-monì Don Alberici — io quelli di Reg-gio Emilia li conosco bene. Tutta bra-, vissima gente. Ma quando c'è di mez-zo la politica, là non è come a Brescel-lo, s'accendono come zolfanelli. 'fra i. tanti può anche saltar fuori il violento che le spacca la testa a legnate». • , i

Così Guareschi, facendo finta di'; nulla, avvolse una pistola a tamburo in , vecchi stracci, la nascose sotto il ser-batoio del Guzzino 65 e partì per Reg, , gio Emilia trionfalmente seguito dal , pullman dei sostenitori di Brescello. Si calcolò che quella sera, ad aspettar,-, lo, presenti fuori e dentro il teatro mu;- nicipale ci fossero almeno settemila persone. Chi non trovò posto in teatro, poté seguire il dibattito dagli altopar-lanti messi a ogni angolo di piazza.

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Egagaingagargealenagna:mudingagginge Sopra: l'attore francese Fernandel nel film del 1953 41 • ritorno di Don Camino», che fu la seconda pellicola sul burbero prete di Brescello in perenne contrasto col sindaco comunista. A destra: Giovalmino Guareschi a caccia nella campagna di Roncole Verdi (Foto: G. Neri)

o o o La alza Tufa Do: o, ma il il diventa campione d'incassi

Beppe Gualazzini

han detto che ieri se-ra il pubblico era tutto per lei. Che per-fino i comunisti reggiani, muti e cupi fi-no a metà discussione, si sono poi spel-lati le mani per applaudirla» disse a pranzo don Alberici a Guareschi rife-rendosi al gran dibattito che c'era stato a Reggio Emilia la sera prima con i co-munisti che volevano bloccare la lavo-razione del primo film su don Camillo.

Un silenzio, poi:'«Credevo che sareb-be rimasto a dormire a Reggio Emilia. Invece l'ho sentita rientrare poco prima dell'alba» continuò don Alberici. Gua-reschi arrossì. Era accaduto che, finito il dibattito e mentre i giornalisti presenti per prudenza dato il clima acceso usci-vano dal corridoio sotto il palcoscenico, lui aveva trovato il coraggio di uscire in mezzo al pubblico. Attraversa la platea e poi la piazza tra due ali di folla strin-gendo mani. Pacche sulle spalle che non sa se proprio sono tutte amichevoli. Siede al bar dell'albergo che deve ospi-tarlo a discutere con la gente. Ma intan-to nota una ventina di ceffi con negli oc-chi odio e tante brutte promesse. Allo-ra, ad alta voce, chiede all'albergatore di preparargli una stanza perché è stanchissimo e vuol dormire almeno fi-no a mezzogiorno. I ceffi si fan più vicini. Salito in camera, vede da,lla finestra che la piazza si è svuotata di colpo e tutto at torno è sceso un silenzio da far racap-ponare la pelle. Allora lascia la luce ac-cesa e, da una porta sul retro, raggiunto il suo Guzzino 6510 mette in moto spin-gendolo di corsa. Scalpiccio alle spalle, unbrusio soffocato e rabbioso, pare stia-no per agguantarlo. Per tornare a Bre-scello taglia poi per carraie, su e giù per argini scuri tutta la notte.

«E si ravviii capelli, pare che si siapet-

tinato con un gatto idrofobo» gli sorride all'alba don Alberici.

Brescello ospitò a intervalli regolari la compgnia del don Camino per altri vent'anni. Fin o a quel giorno del '71 in cui Fer-nandel, mentre girava una delle ultime scene del sesto film, Don Camino e i giovani d'oggi, s'ab-batte in chiesa ai piedi del suo Cristo mentre gli stava parlan-do e fu portato via morente, con la faccia che pareva pitturata con la biacca. Femandel portò con sé nella tomba non solo don Camino, ma anche Peppone. Gino Cervinon se la sentì di con-tinuare le riprese senza lui e il film fu interrotto quando man-cavano solo un ventina di scene allarme. E non si riesce a sapere dove sia finita la pellicola. C'è chi la dice distrutta. Immagina-te se non lo fosse che gran suc-cesso anche a metterla in circo-lazione monca. ,

Don Camino superstar Nel '51 era da poco terminata

la lavorazione del primo film quando il grande fiume spaccò a testate gli iirgini e allagò campi e paesi della Bassa giungendo come un ariete anche alle soglie della chiesa di Brescello. Allora accadde che da migliaia di lettori stra-nieri giunsero pacchi di viveri, indu-menti, coperte, denaro. Sempre con lo stesso indirizzo: alla gente di don Ca-millo e Peppone. «E allora — scrisse Guareschi nella prefazione del secon-do volume, Don Camino e il suo gregge —io mi sono commosso come se, invece di essere un cretino qualsiasi, fossi un cretino importante». n primo film fu proiettato nel '52. In tutte le città d'Italia la gente fece la coda per settimane per vederlo e rivederlo. In pochi giorni fu proiettato in 2.700 sale e incassò più d'un miliardo e , mezzo polverizzando qualsiasi record precedente. E così ac-cadde all'estero. Soprattutto inFrancia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti e poi un po' ovunque. Nel mondo vi furono ci-nematografi che proiettarono ilfilm p er 300 giorni consecutivi.

Iù Italia la critica cinematografica d'allora tentò invano di ignorarlo. A

rompere tra i primi il silenzio fu il criti-co dell'Unità, Ugo Casiraghi, che dopo aver assistito alla prima al Capito! di Milano tornò a spron battuto inredazio-ne e sfogò il malumore scrivendo un ar-ticolo nel quale il libro era definito un pastone pseudo-umoristico e il film un modesto aborto. Riservò una distinzio-ne per il regista che, scrisse, era pur sempre Duvivier: «Duvivier non è pro-vinciale come il signor Guareschi,

tant'è vero che non l'ha neppure voluto trai piedi come collaboratore nella sce-neggiatura. Ha capito che fare dell'anti-comunismo sullo schermo è pericoloso. E tanto di più farlo secondo gli schemi grossolani del Candido, che su questa strada è già andato in malora». Casira-ghi si sbagliava: il primo film su don Ca-mino è stato l'unico nel quale la fedeltà ai racconti scritti da Guareschi fu alme-no in parte rispettata. •

Nel '53 uscì, e fu mi trionfo anche maggiore, il secondo film: Il ritorno di don Camillo. Le riprese furono girate con tecniche più raffinate e con più mezzi. Duvivier ricorse a trucchi effi-caci. A volte assai curiosi. A Brescello ricordano come la grande alluvione del '51 fu riportata sullo schermo get-tando immensi teloni impermeabili sulla piazza davanti alla chiesa e inaf-fiandoli d'acqua per dare il senso del

dilagare del Po tra i paesi. Oppure mettendo l'obiettivo rasente al pelo dell'acqua d'una bacinella posta tra ci-nepresa e altare in modo che don Camino, rimasto volon-tariamente solo nel paese al-lagato, pareva davvero reci-tare la Messa con l'acqua che

arrivava in ita.

La Lollobrigida Il ritorno di don Camino in-

cassò molto più' del primo film. Ma la sceneggiatura que-sta volta fu molto meno ri-spettata da Duvivier che ave-va subito intimidazioni politi-che dalla critica di sinistra francese e italiana e che, a vol-te ottenendo il risultato oppo-sto, rozzamente tentò di smussare certe punte che gli parevano pericolose sul piano ideologico. L'equilibrata bi-lancia ideata da Guareschi, il Cristo come fulcro, don Ca-millo in bilico a destra e Pep-pone in bilico a sinistra, ne ri-sentì. Quando fu invitato in Francia nel '53 per il Gala del Ritorno di don Camino, Gua-reschi, • offeso, accettò solo perché Albertino moriva dal-la voglia di vedere la Torre Eif-fel e quella era un'occasione per mostrargliela.

cinema non fece di lui il nababbo di cui scrissero i gior-nali. Dopo il primo fdm l'edito-re Rizzoli, consapevole d'a-vergli gettato solo un briciola, un giorno gli regalò una lunga macchina americana, di quel-le decapota,bili e con le lunghe pinne. Guareschila guidò solo quel giorno. La macchina era

rossa. Aveva parafanghi in avanti bom-bati e aggressivi, tanto che la soprannd-minò la Lollobrigida. Ma si vergognava come un ladro, diceva, ad andar in giro per la Bassa su quella vistosaggine. Re-stò ferma. Finché sul motore ci mise gli occhi Scarzina, di Polesine, per un suo motoscafo e la carrozzeria, si dice, di-venne un furgoncino per il trasporto del latte.

(29 — continua)

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o Nella casa nuova th- itovannino c'è una stanza della neve

Guareschi compra un fondo nella Bassa e disegna personalmente la casa che ci vuole costruire sopra. La vuole massiccia e bianca e con una stanza senza muri, Per poterci

andare rannicchiato a godere la neve, la pioggia e i tramonti. Sopra: Guareschi è con i figli Albertino e Carlotta

(Foto: Publifoto)

Seppe Gualazzini

I terzo film, Don Camino e l'onore-vole Peppone, fu proiettato nel '56, quando Guareschi era uscito da pochi mesi dal carcere di Parina dove aveva scontato 400 giorni per la brutta que-stione con De Gasperi. La sceneggia-tura l'aveva scritta in cella, raccoman-dandosi che fosse rispettata. Invece, anche questa volta e sotto la regia di Carmine Gallone, essa fu stravolta. Guareschi ne soffrì come un cane. Delle cifre da capogiro incassate dal film gli era stato dato ben poco. Ma non si lamentava per i compensi, ben consapevole che il colpevole per pri-mo era lui, gli affari non li sapeva fare. Era invece furente per l'abisso che s'allargava tra i racconti pubblicati nella serie Mondo piccolo e le pellico-le. Tra le due versioni restava un solo punto di contatto, Fernandel e Cervi entrati talmente nei personaggi da co-municare con occhi e gesti ciò che il regista non lasciava dire con le parole. 11 quarto film Don Camillo monsigno-re ma non troppo, uscì nel '60 e, solo in Italia, nelle prime due settimane in-cassò più d'un miliardo di allora. Fu il più debole e Guareschi perse il lume della ragione e troncò i rapporti con l'editore Rizzoli.

Ritorno alla Bassa Angelo Rizzoli, che pure aveva una

colpa assai indiretta poiché il regista sul set è come il capitano su una nave e l'armatore ha ben poca voce in capi-tolo, comprese. 11 quinto film uscì nel '65. Era il compagno don Camillo e in-cassò anche più degli altri. Guareschi dovette scrivere ben cinque versioni

della sceneggiatura col risulta-to di veder disattesa anche l'Ul-tima. Ma ormai Guareschi era stanco, ammalato, troppo solo' per poter reagire come avrei:i-be voluto al nuovo tradimento.

All'estero la critica cinema-tografica impazzì per i Don Ca-mino. Femandel e Cervi diven-nero simboli di un'epoca. Il pri-ino film su Don Camillo al Fe-stival cinematografico di Berli-no ebbe un premio speciale de-dicato all'opera di Guareschi in favore della democrazia. In America enormi cartelloni con le figure del parroco e del suo antagonista furono portati per tutti gli Stati a bordo di grossi autocarri. Altri cartelloni furo-no disposti a schiera sulle mag-giori autostrade. In Germania, Inghilterra, Svizzera, Francia, Spagna, si moltiplicarono le i-niziative piú curiose. Ristoran-ti col nome di Don Camillo, marche di sigari, sigarette, li-quori, prodotti alimentari e d'abbigliamento dedicati ai personaggi del Mondo piccolo. Rico-minciò intenso il pellegrinaggio di in-viati da ogni parte del mondo per, in-tervistare Guareschi. Film e libri si rincorrevano gli uni con gli altri, più aumentavano gli spettatori, più si moltiplicavano i lettori.

Ma continuava anche l'attività gior-nalistica di Guareschi e diveniva ogni giorno di più una dolorosa corona di spine. Già dal '49 i cattolici di certe correnti integraliste avevano comin-ciato a muovergli guerra. Guerra sor-• da. Partendo da una rabbiosa querela fatta a Guareschi da un esponente dell'Azione cattolica, gli attacchi si susseguirono con una violenza che dava dei punti ai più feroci corsivi scritti nel '48 contro Guareschi dal Partito comunista. Frattanto egli si preparava a non appoggiare più la Democrazia cristiana nelle elezioni del '53 che stavano avvicinandosi. Sa-rebbe stato, aveva deciso, al fianco so-lo di quegli uomini che non erano macchiati da peccati di clientelismo, di sorpruso di potere, di nepotismo. Di, corruzione. Quindi avrebbe appog-giato solo una parte della Democrazia cristiana, l'altra già si perdeva per vie traverse.

, «Appoggerai i monarchici, magari il comandante Lauro» gli chiedevano a-mici e nemici e Lauro tra i monarchici andava per la maggiore.

Guareschi alzava le spalle. Lauro gli era antipatico e l'aveva già scritto chiaro. Non aveva mai voluto • cono-scerlo. E poi adesso aveva da pensare ad altro. Aveva comprato un fondo giù nella Bassa: era in collina.

La «collina» non era che un rialzo di 80 centimetri sul livello del mare a Roncole Verdi, paese natale di Giu-seppe Verdi. Ma nella Bassa, piatta

come un biliardo e più sotto che so-pra rispetto al mare, quel termine po-teva anche passare. Guareschi aveva trovato quel fondo nel '51, dopo aver passato mesi a scalvare argini e fos-sati alle ricerca d'un pezzo di terra su cui costruire una casa. Roncole Ver-di, tre chilometri da Busseto, occupa un tratto di pianura subito alle spalle di Fidenza, tra la via Emula e il Po. A nebbie chete, dista. circa un'ora di macchina da Milano.

• Forse, se non avesse dovuto lavora-re a Milano, Guareschi avrebbe cer-

cato il terrenó più avanti, spingendo-si nella Bassa più profonda, verso le Fontanelle da dove più forte saliva il richiamo del sangue e déll'infanzia. Ma le Fontanelle sonò di altri 20 chilo-metri dietro Roncole Verdi e, quando nella Bassa cala la nebbia, ogni chilo-metro vale per dieci.

Non appena il terreno fu suo, si mi-se 'al lavoro. Interrogò a lungo la si-gnora Ennia e i figli per scopire quali fossero i loro più inconfessati desideri edilizi. Impugnò matita, tiralinee, ri-ga, compasso. Disegnò la casa nei mi-

nimi particolari. Quindi scelse -u-no per uno Capomastro, muratd-, ri, idraulico, elettricisti, verniciai-tori, falegnami. Stabilì lui qualibtri, dei legni, tipo di mattoni, nervat ture delle tegole; profondità de le cantine. Volle che la casa alli; fune fosse bianchissima. In stil messicano. Tutta intonaco. E vol le travature in ottima rovere e in, ferriate verdi.

Tramonti e nebbie Nel luglio '53, lo andò a trovare

a le Roncole Domenico Porzig che doveva scrivere un articolo per Oggi. Osservò da ogni lato con attenzione la casa. Quindi squadrò da ogni lato Guareschi.'

«Sì, ti somiglia. Sia detto senza offesa né per te né per la casa, ma proprio ti somiglia. Dimmi, è vero che hai dato il progetto al capomastro e, il giorno dopo, lui è tornato e ti ha indicato un ari golo del primo piano dove avevi disegnato una stanza dimenti-cando di metter pareti e fine stre?».

Sì, quella stanza doveva essere proprio così. Senza muri. Doveva servirgli per godere neve e piog-, gia. Gli era sempre piaciuto fin da ragazzo godersi la neve e la piog-gia all'aperto. Accoccolato in una nicchia. Magari stando sotto un portone. Insomma all'asciutto, ma allo stesso tempo all'aperto con im fiocco che ogni tanto, so-; spinto dal risucchio, gli si potesse posare in fronte. Quando l'aveva spiegato al capomastro, quello ei ra sbiancato, ma aveva obbedito3 se è così, padrone voi, la stanza

sarà senza pareti. In più Guareschi aveva voluto che

quella stanza guardasse a ponente. E-il ra per via dei tramonti. Se uno può go-i derseli, tanto valeva che se li godesse: no? Poi lui lavorava sempre a propra sempre d'angolo, per scaramanzia. voleva tantissima luce che venisse vanti come un mare. Senza ostacoli. Doveva essere una reazione a tutto « grigio che l'aveva oppresso nei lager.., Forse un presentimento a tutto il buio che presto l'avrebbe oppresso nelle, galere italiane.

(30 continua) 3:1Esisa,

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Beppe Gualazzlni

ile Roncole, nella nuova casa che aveva costruita nella Bassa, Gua-reschi non voleva giungessero nem-meno i giornali. ll suo paradiso doveva restare intatto. Né voleva lavorare co-me giornalista, disegnatore, scrittore. Là era il signor Guareschi, artigiano per se stesso. Quando doveva tornare a lavorare per il giornale, preferiva correre a Milano. Accadeva il sabato: andava a chiudersi nel vecchio studio della casa di via Ftighi e si buttava a te-st a b assa nel lavoro fino a quando pote-va chiudere l'ultima edizione del gior-nale, il martedì sera. Allora, stanco morto, s'alzava sulla sua decappottabi-le e ripartiva perle Roncole. Guidando a scatti. Gli occhi spiritati. I baffi tre-mendi. Uno Charlot dei primi corto-metraggi. Rallentava solo quand'era in vista di Busseto, che subito dopo c'era-no le Roncole.

Nino il contadino Non si fermò solo alla casa e al fondo

in «collina». Ogni volta che riceveva de-nero dai diritti d'autore, veniva accolto dall'ansia fino a che non gli riusciva di spenderlo tutto per acquistare un po-dere di buona terra. Andò a cercarne anche verso le Fontanelle. La formula che nel '29 aveva portato suo padre al-la completa rovina, divenne la sua: smantellare per ricostruire.

Anche se la quotallovanta era lonta-na, non ne uscì proprio rovinato, ma certo si impoverì. Cominciò col voler costruire stalle solari. Con tanta luce dentro. Dava salute e appetito alle mucche, alzava il morale dei contadini. Al posto dei vetri mise cristalli e i con-

tadiní non sapevano come diavolo fare a non spaccarli entrando con le zappe in spalla.

Nelle case coloniche che acquistava, per prima cosa rialzava il pavimento a pianterreno per isolarlo dall'umidità e sottrarlo agli insetti striscianti. ll porti-co che era a sud lo rifaceva a nord per offrire l'estate un riparo dal troppo so-le. Separò le abitazioni dalle stalle in-frangendo quella norma che voleva che dalla cucina una porta immettesse subito tra le bestie.

E continuò di questo passo tra la me-raviglia deifittavoli che da secoli, come era atroce costume, erano lasciati dai padroni dei fondi a vivere senza i piú elementari conforti. Intro- dusse nelle case acqua corren-te ed elettricità. Poi prese il co-raggio a due mani e introdusse la più sconvolgente delle inno-vazioni: il water. La cosa fun-zionò e il successo gli diede alla testa: passò a installare in ogni casa vasche da bagno complete di doccia. Poi gli accadde, disse-ro in seguito le pittoresche leg-gende che ne nacquero, di tro-var le vasche da bagno occupa-te da nidiate di paperi o da piante di limone. Ma si affidò al-le sue doti d'eccellente parlato-re e alla fine la spuntò.

Ma andò oltre ogni osare: pia-strellò tutti i pavimenti delle stanze belle con mosaici di marmo. Ci scherzava, adesso la • moglie passava a cera il pavi-mento ogni giorno e obbligava il marito a camminarvi sopra con i sottopiedi in feltro, la prova che un p avirnento p oteva basta-re a far d'un proletario un bor-ghese. Con Pieren, il suo capo-mastro, stipulò un curioso con-tratto: stabili una certa cifra per i lavori, che fossero fatti a rego-la d'arte, e tutto ciò che veniva risparmiato alla fine era diviso tra i muratori senza tornargli nelle tasche. Solo lui potrebbe dire se funzionò. Adagio e in punta di piedi, scendeva cauto nel cuore della sua gente, un cuore che il più delle volte bat-teva per una bandiera rossa co-me il fuoco, ma nella Bassa egli egualmente era rispettato co-me Un re.

La meCcanica, altra Sua Musa, com-parve presto. Scelse con pignoleria trattene macchine agricole. Voleva at-trezzi adatti a piccoli poderi, maneg-gevoli, costruiti in modo che non affon-dassero nei terreni umidi Quando non li trovava sul mercato, se li progettava da solo.

Croma toscana Indro Montanelli fabbricò un incontro

con lui alle Roncole è gli dedicò un lungo articolo che fu poi inserito nel volume Gli incontri e che trasformò poi nel '57 in

una trasmissione televisiva. 4Tu— gli ri-marcò Guareschiin quellatràsmissione —gli incontri li fai molto meglio quando non incontri la persona che devi incon-trare». Comunque lesse e rilesse l'arti-colo dell'incontro fabbricato, era il più sconcertante tra quelli Che gli avevano dedicato. Vi trovò stoccate che lo infu-riarono. Ispezioni sul suo carattere che gli svelarono lati che egli stesso non ave-va ben chiarito e che, comunque, non e-rano così. E c'era anche l'accenno di qualche carezza che lo infila ancor di più, perché gli parvero tutte:Contropelo: Del resto lo stesso Montanelli parlando

di Guareschi mi ha detto più volte «non s'andava d'accordo nemmeno a tavola. Io, toscano tutto olio. Lui; emiliano tutto burro». Ma ecco quel che ha scritto di lui con toni forse volutamente simili agli enfatici cinegiornali dell'anteguerra: «A Busseto Stalin è Guareschi, che d'al-tronde gli assomiglia. Perché a Busseto Guareschi è tutto: il re peri monarchici, il papa per i preti, Stalin per i comunisti. Giovannino è l'unico profeta in patria che registri la nostra storia nazionale, la quale non registra che profeti ingrati. E-gli derime i litigi tra Peppone e Don Ca-millo, amministra la giustizia sotto l'al-

bero di fico, cammina seguito da un co-dazzo di gente in cui c'è tutto: comunisti, e conservatori, ricchi e poveri, misere-denti e baciapile...Ora eccoci di fronte alla reggia di Sua maestà, il Re della Bassa, illuminata che sembra il Vesuvio) in eruzione nonostante l'ora di pieno, meriggio, col monarca in persona sulla, soglia del portico che, con un aratro in mano, sembra in posa per farsi monu-mentare dauno scultore deltempolitto-rio. Oltre i vetri della finestra, si vede Margherita intenta ad arrotolare col matterello le fettuccine del pantagrueli-co pranzo che ci aspetta, mentre la por-ta aperta del garage, adesso che un mu-ratore vero l'ha rifatta, lascia intravede-re le tre automobili, le tre motociclette e , le quattro biciclette di cui Guareschi, da buon emiliano innamorato di tecnica e , meccanica, si gloria. Irraggia gioia e• buonumore Giovarmino, il quale non sa esser felice che nella sua terra, in mezzo a quella sua gente e a quelle sue cose fat-te in casa.

Tutte fatte in casa, qui, esclama con or- , goglio, un orgoglio certo più grande di'.

quello che gli ispira il fenomenale successo cli Don Camillo e l'incOn- • dizionato plauso che la critica di tutto il mondo, meno quella italia-na, s'intende, tributato al suo ta-lento e piú ancora al suo tempera- il mento di scrittore in un'età in cui , di talento ce n'è poco e di tempo-ramento punto. Tutto è fatto in ca-sa, ragazzi, con le mie mani: muri;.; mobili, impianto elettrico, forneD - li, sedie. Accomodatevi, accomo- *, datevi...Mimino Carraro e io,' 0. smilzi e leggeri, eseguiamo, ma, quando è il turno di Andrea Riz-zoli, che è un po' più pesante, non so come, di colpo lo vediamo ruz-zolare per terra in un groviglio dic,, assi, chiodi, viti. Giovarmino 161,, guarda mortificato, ma nemme-vi no per un momento lo sfiora leig tentazione di porgere aiuto al suoll editore. Il problema che l' ango--1 scia in questo istante è, lo si vede' benissimo, solo quello di sviscera::' , re la ragione tecnica che ha pro-, vocato la catastrofe di quel pezzo di mobilia fatto in casa. E ne rigira tra le mani i resti con l'espressio-, ne avvilita del bambino che si de andare in pezzi un balocco ri-,. ) tenuto infrangibile». , t

(31— continua)

Giovannino si arrabbia per un articolopepato di Montanelli

soldi dei diritti d'autore Giova/mino li spende tutti per comprare poderi e cascinali, che ristruttura introducendo strabilianti novità, come il water, l'elettricità e l'acqua. corrente. Ma la sua vera passione sono i trattori e le stalle: per la prima volta separa le abitazioni dai locali dove alloggiavano le bestie (Foto: Farabola)

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Seppe Gualazzini

uigi Einaudi, liberale, da mini-stro del Bilancio nel quarto governo De Gasperi riuscì con misure eccezionali, da eccezionale economista qual era, a far abbassare il costo della vita in Italia prima del 10 e poi del 13 per cento. Co-sa che se accadesse adesso farebbe gri-dare al miracolo anche gli atei.

Luigi Einaudi abitava a Roma nel quartiere Appio, in una casa della coo-perativa dei funzionari della Banca d'I-talia, e fu là che 1'11 maggio '48 gli por-tarono la notizia della sua elezione a primo presidente della Repubblica ita-liana. «La voce del Parlamento è voce del popolo. La voce del popolo è voce di Dio. Che Dio mi perdoni il coraggio d'accettare questa funzione piena di responsabilità» disse ai latori della no-tizia.

A Guareschi la figura morale; tecni-ca e politica di Einaudi piaceva. Lo Sta-to, Dio, il Popolo che Einaudi chiamava in causa con deferenza, quasi alla ma-niera della maestra Maghenzani, era-no garanzie sufficienti. Inoltre Luigi Ei-naudi si era battuto con tutte le sue ri-sorse avversando il protezionismo in-dustriale e agrario, ogni forma di privi-legio, chiedendo, e sovente ottenendo, la moralizzazione della vita parlamen-tare e amministrativa. Sotto di lui le tangenti non crebbero.

Le bottiglie del Presidente Ma un giorno Guareschi incontrò u-

na bottiglia di Nebbiolo che proveniva dai vigneti di Einaudi a Dogliani, inPie-monte, e ne lesse l'etichetta nella qua-le sotto la scritta Nebbiolo s'aggiunge-va «Poderi Senatore Luigi Einaudi in Dogliani». Implicito il suggerimento

che quello era il vino del Presidente della Repubblica dato che a ricoprirne la carica era notoriamente proprio il Senatore Luigi Einaudi. •

Gli si arruffarono i baffi. Che presi-dente era un presidente che appofitta-va della sua carica per vendere i propri

per pubblicizzarli come un piazzi-sta? E se per caso l'idea fosse stata d'un suo fattore o d'un suo famiglio, poco importava, doveva distruggere le eti-chette, non autorizzarle. Se il primo cittadino della Repubblica si permet-teva questi arbitrii, che poteva essere concesso all'ultimo? Guareschi era sempre attento a che nella nostra de-mocrazia nascente non si seminassero semi di malapianta.

Così il 14 maggio del '50, Guareschi s'occu-po sul Candido per la prima volta del Neb-biolo di Einaudi ripro-ducendo l'etichetta nella rubrica Il giro d'Italia col motto «Brindate Einaudi!» e con un sogghigno dis-se di farlo andando contro le sue convin-zioni personali essen-do egli un partigiano del Lambrusco.

Una settimana do-po lo stesso motto «Brindate Einaudi!' campeggiava in una vignetta pubblicata in terza pagina. Fece u-na tregua per vedere se l'etichetta fosse stata giustiziata e tol-ta dalla circolazione. Ma attese invano e al-lora, a metà giugno, l'andò all'attacco vari collaboratori del Can-dido.

Fu proposto un Or-dine del Gran Cava-tappi. La bottiglia di Nebbiolo fu montata come cannone sopra un carro armato. Infi-ne Carletto Manzoni consegnò a Guare-s chi una vignetta dove le bottiglie di Nebbio-lo erano state trasfor-

mate in corazzieri che facevano ala a un ornino che nella caricatura era alto un centimetro e le passava in rassegna appoggiandosi a un bastone. Einaudi, lo sapevano tutti, era claudicante.

Guareschi apprezzò la vignetta e la pubblicò intolandola Al Quirinale. Su-bito dopo la pubblicazione due deputa-ti presentarono un'interrogazione alla Camera parlando di offesa al prestigio del Capo dello Stato.-Sul Candido pun-tualmente comparve la vignetta di due «repubblicani rispettosi» che si levava-no il cappello passando di fronte alla pubblicità stradale del Nebbiolo fatta

con il solito motto «Brindate Einaudi!». A metà luglio il Procuratore di Mila-

no, su autorizzazione del Ministero, or:- dinò la citazione per direttissima di Guareschi quale direttore responsabi-le del Candido e di Manzoni quale auto-re della vignetta delle bottiglie vestite da corazzieri. Eaccus a era di «aver offe-so in Milano l'onore e il prestigio del Presidente della Repubblica italiana,"

Da allora r argomento fu ripreso in o-gni numero di Candido. L'ornino Coi baffi sdraiato nella testata fu disegnato in piedi con atteggiamento dimesso e in catene tra due bottiglie di Nebbiolo

adorne della lucerna dei carabinieri. Quindi fu messo al muro mentre mo-schetti e cannoni, che eran sempre bottiglie di Nebbiolo, gli sparavano contro. Alla fine di settembre, l'ornino aveva sul capo la «Bottiglia di Damo-de» ed Einaudi era seduto a un tavolo presidenziale che aveva per gambe quattro bottiglie di Nebbiolo.

Assolto e condannato IL processo, fissato sulle prime per fi-

ne agosto, era stato rinviato all'inizio di dicembre. E piovvero altre vignette:

o _,--rilovanfileu conda onnato per .4 retta s Nebbilo

Guareschi pensava che Luigi Einaudi fosse un grand'uomo. Ma quando si accorse che le etichette del Nebbiolo riportavano la scritta «Poderi Senatore Luigi Einaudi in Dogliani» si infastidí e iniziò a pubblicare sul «Candido» una serie di vignette. Giovannino venne condannato a 8 mesi di carcere. (Foto: Farabola)

o di Eiris audi Carletto Ma,nzoni-disegnò un omettoi phe si rivolgeva a un'Italia sdraiata su/ un divano con una bottiglia in mano e,. addosso tante piccoli falci e martello: «La smetta di bere e si tolga i parassi-i ti!». A novembre mezza bottiglia Chi Nebbiolo Einaudi comparve accanto air mezzibusti di Vittorio Emanuele II/ Umberto I, Vittorio Emanuele lII, coniai scritta: «La Storia continua!». Nell'ulti-mo numero di Candido, subito primaa che si celebrasse il processo, Guare-schi e Manzoni si fecero profeticamen-te fotografare tra bottiglie dei vigneti, presidenziali messe come sbarre di U-3 na cella.

Del caso del Nebbiolo, essndofl pri-mo processo celebrato in Italia per ol-i traggio al Presidente della Repubbli-ca, si occuparano tutti i giorna,linazio-nali e molti all'estero. Personaggi del-la politica e semplici cittadini tempe-=, starono d'interventi e ,lettere le reda-zioni. Alcuni fecero notare che perfi-no i ministeri fascisti avevan sempre , negato ai tribunali l'autorizzazione a • procedere per imputazione di oltrag-

gio al monarca, il che non depa:i neva certo a favore della pru- ) denza e del buonsenso del nuo-) vo•regime che voleva dirsi de-mocratico.

Guareschi e Manzoni furono) assolti con formula piena perché' il fatto non costituiva reato. Mala, cos a non finì li.11 Procuratore ge-nerale non digerì la sentenza e ricorse subito in corte d'Appello. Accusa invariata: oltraggio al prestigio e all'onore del Presi-a dente della Repubblica. 11 nuovo3 processo fu celebrato il 10 aprile-) '51.11,Procuratore generale chie-se la condanna a otto mesi di car-a cere. La corte accolse ordinando. per entrambi la sospensione del-d la pena perché incensurati.

In Cassazione a Carletto Man-s zoni la corte decise la non iscri-zione della condanna, nel casel- a lario giudiziario, invece pers Guareschi la sospensione della?, pena restava valida solo se nei-i successivi cinque anni non aves-se subito altre condanne: in que-sto caso avrebbe dovuto sconta-re anche gli altri otto mesi di car-cere. Un avvertimento sinistro4 che Guareschi non considerò. + t

(32 — continua) , I

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uando Giovannin. o:Contesta 1inviato di D-e. Ga's- peri

Beppe Gualazzini

ll'inaugurazione della raffine-ria di Cortemaggiore, Guareschi si era seduto ad un tavolo in fondo al capan-none dove si teneva il pranzo ufficiale. Taciturno, si guardava attorno inquie-to. Molte delle facce dei presenti gli piacevano assai poco. Verso la fine del pranzo, il segretario di De Gasperi gli si avvicinò.

presidente del consiglio gradireb-be la vostra presenza al suo tavolo» gli disse.

Si era nel '52 e De Gasperi aveva 71 anni. I partiti di centro stavano perden-do terreno in preda a lotte di potere. Incalzati da una sinistra sempre più agguerrita e dalla destra che diventa-va rifugio per molti delusi. Don Sturzo era diventato il massimo fautore della Grande destra. Una formula che, nelle intenzioni, doveva provvisoriamente tenere a bada le sinistre atee con l'in-clusione, oltre che dei liberali, anche dei monarchici che allora avevano an-cora una discreta forza in Parlamento dove potevano schierare una quaranti-na di parlamentari.

Occhi negli occhi Nessuno si illudeva che la formula

della Grande destra avrebbe potuto reggere a lungo in un'Europa solida-mente ancorata al centro e con l'Ame-rica che preferiva alleati moderati. D'altra parte, considerava don Sturzo, dalla destra si può sempre tornare al centro, mentre da uno scivolone a sini-stra non si ritorna, l'Est insegna. Ma per De Gasperi quel progetto rappre-sentava una pericolosa involuzione e a nulla valse che fosse lo stesso Vatica-no, al quale lo statista trentino in pas-

sato s'era detto così legato, a ergersi in favore del provvisorio atteggiamento di don Sturzo che, certo, per il suo pas-sato di patimenti sotto il regime, non poteva essere accusato di compiacen-ze verso i fascisti.

De Gasperi dunque si trovò piutto-sto isolato a combattere il progetto della Grande destra. Ma, con alcuni seguaci, parve non perdersi d'animo: anzi, constatata la debolezza del cen-tro, cominciò a considerare inevitabile una prima apertura a sinistra verso i

«Aprire a sinistra, che altro? — disse subito De Gasperi a Guareschi qUan-do lo ebbe al suo tavolo — ma in tempi lunghi, sicuro. Lunghi per permettere che il partito di Nenni sia pronto. Però, adesso, su-bito, una cosa la si deve fare: opporsi alla Grande destra. Smantellare l'i-dea. Farla finita, per co-minciare, con quella stampa che spinge in quella direzione. O vo-gliamo rischiare un altro ventennio nero?'»

Guareschi allibì. Am-messo che si potesse an-cora correre in Italia e in quell'Europa un rischio di ventennio fascista, tut-tavia non si poteva per sfuggirlo rischiare un cinquantennio a braccet-to coi comunisti. Ne sa-rebbero derivati immen-si danni morali, culturali, economici. E come conta-re poi sui socialisti, se po-chi anni di frontismo era-no bastati a decimarli a favore dei comunisti? Si rischiava di buttarli verso scissioni spaventose pri-ma ancora che potessero consolidare la propria i-dentità democratica ed occidentale.

De Gasperi ascoltava duro, senza guardare in faccia Guareschi, gioche-rellando con le bricciole di mollica di pane.

«Insomma lei, Guare-schi, proprio non vuol ca-pire. La Grande destra sarebbe un errore quanto

lo è stata l'alleanza con Mussolini nel '22. Accettare i monarchici significa sulla distanza aprire ai neo fascisti. Si-gnifica non poter proseguire nelle riforme».

Guareschi allibì di più. Era lo stesso pericolo che stavano correndo nazioni risorgenti come la Germania, ma già si sapeva che i neo nazisti non sarebbero passati. E inoltre la piccola borghesia italiana, cioé la maggioranza del Pae-se, non avrebbe approvato senza rea-gire riforme caotiche che sapevano troppo di marxismo e massimalismo.

Intanto l'area democratica si stava restringendo. 'fra potere economico e potere politico ormai c'era guerra di-

chiarata. Sarebbe continuata per de-cenni a scapito della nazione, del lavo-ro, dei rapporti con l'estero, della sicu-rezza del cittadino nella vita sociale e in quel diritto al vivere onesto che ogni democrazia vera dovrebbe garantire.

«Appunto, Guareschi, ecco perché bisogna pur smantellare questa destra e zittirne i cantori. Capisca, no?» In-calzò ancora De Gasperi.

Furono scattate fotografie. Una di esse è rimasta famosa: si vedono De Gasperi e Guareschi in discussione dietro un tali* ingombro di bottiglie di lambrusco. E stata pubblicata molte volte con la didascalia: «Quando De Gasperi e Guareschi erano amici». Ma .

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è invece l'immagine di quando essi co-minciarono a farsi la guerra.

Servizio di Stato Finito il pranzo, De Gasperi salì sulla

pedana preparata nel grande spiazzo della raffineria e fece il discorso dell'i-naugurazione. Guareschi, che si era seduto in terza fila, lo ascoltò corruc-ciato. Ripeteva nel suo discorso quanto già gli aveva detto a tavola. E calcava sulle frasi, volgendosi sovente proprio verso lui e fissandolo negli occhi.

Guareschi riflette molto nei giorni se-guenti. De Gasperi era diventato un uo-mo pericoloso per l'Italia. Gli pareva

tornato l'uomo che nel '46 giungeva nei suoi comizi ai intravvedere in un lonta-no futuro cattolici e marxisti politica-mente uniti. Era. pericoloso per l'Italia e per l'Europa.

Si era ormai sotto le elezioni del '53, quando Mario Scelba, considerato allo-ra l'uomo forte del governo e imo fra i. più potenti uomini politici, invitò Gua-' raschia a una strana scampagnata. Cir-condato da un nugolo di guardie in bor-ghese e armate fino ai denti, un mattino • andò a prelevare Guareschi e lo portò a. Villa d'Este, sul lago di Como. Guare-schi accettò di malumore: era convinto che trai consiglieri di D e Gasperi peg-giore e, purtroppo il più ascoltato, fosse proprio Scelba. Carletto Manzoni, negli ; incontri che ebbi con lui negli armi Set-tanta, ricordò che Guareschi era con-vinto che fu lo stesso De Gasperi a man-dargli Scelba per saggiare cosa volesse fare o non fare per la Democrazia cri-stana nelle vicine elezioni del '53.

Quella con Scelba fu una giornata lunga e che fece molto patire Guare-schi. Non gli piacevano i poliziotti che attorniavano il personaggio politico„' l'arroganza che mostravano. Masticò '- amaro quando vide, al casello dell'au-

tostrada, tutta la numerosa 'í combriccola passare senza pa-gare pedaggio, autoprocla-mandosi servizio di Stato. Ma; quale servizio di Stato? Andar sul lago di-Como a parlare d'u-na certa politica? Era servizio i di Stato? Non gli piacque l'aria da padrone del vapore che gli - pareva ostentasse Scelba. Né che l'albergo nel quale si trovò a -) pranzare fosse stato intera- - mente sgombrato per far posto . solo a loro. ì Tornò a casa terrorizzato e fu- -, ribondo. Questo era dunque lo ; Stato. Era questa gente che ne reggeva le sorti. Erano questi i cafoni che ostentavano scarpe bianche e nere e parlavano che sembravan padreterni. Disse a à Manzoni che De Gasperi, man-dandogli Scelba, era la seconda molto grossa che gli faceva. Alla i terza sarebbe scoppiato, promi-se. E, subito il giorno dopo, se- 2 dette al suo tavolo di lavoro e 2 scrisse un articolo feroce contro Scelba cogliendolo di sorpresa. 2,

(33— continua) 7'1

De Gasperi cerca di convincere Guareschi che la svolta politica a sinistra sia necessaria. Ma Giovannino non ne vuole sapere. Ci prova anche il potentissimo Mario Scelba ma Guareschi impugna la penna e scrive un articolo feroce. (Foto: Publifoto)

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Dopo la coatta e sfortunata scampagnata conMario Scelba e le sue guardie, Guareschi fece di quel politi-co divenuto così inviso uno dei suoi bersagli preferiti. Lo attaccò prima da ministro dell'Interno, poi quando di-venne presidente del Consiglio subito dopo Pella e Fanfani. A regola di bri-scola, scrisse Guareschi su Candido, Scelba resisterà piú di Pella e Fanfani perché è il meno intelligente dei tre. Nelle sue vignette lo trasformò in un manganello brandito da un De Gaspe-ri vestito da poliziotto austroungarico. Lo vestì da Napoleone: e Einaudi sta al piccolo trafficante politico De Gasperi come Napoleone a Scelba, scrisse, e Scelba aspira al posto di Nap oleone co-me De Gasperi aspira al posto di Ei-naudi.

Sogni premonitori Gli attacchi della stampa cattolica

contro Guareschi si intensificarono su-bito dopo le elezioni del '53. Ci fu chi gli lanciò contro anatemi che avevano sa-pore di profezia e di maledizione a un tempo. Don Lorenzo Bedeschi, da un giornale cattolico: «Guareschi s'è mac-chiato di una colpa che non potrà esse-re perdonata se non in punto di morte, come nei primi secoli del Cristianesi-mo». L:orribile colpa era d'aver dichia-rato pubblicamente sul Candido dinon aver votato-per la Democrazia cristia-na nelle elezioni del '53.

Un giorno, ricordò Carletto Manzo-ni, Guareschi gli circondò con un brac-do le spalle mentre lui stava seduto, intento a scrivere l'ultimo capitolo di Giochi di società, un libro umoristico

di vicina pubblicazione. Gli disse d'a-ver sognato che l'ornino che stava sdraiato nella testata del Candido, non era più sdraiato. Si era alzato e continuava a gettarsi a capofitto con-tro una montagna nera che, a un trat-to, rimaneva immobile ma un tratto metteva le gambe e cominciava a muoversi contro l'ornino. E la terra tre-mava. E l'ornino stava li, fermo. A guar-dare quella montagna che gli piomba-va addosso. Stava per finire il '43.

In quel ristorante toscano stavo co-me può stare un emiliano in un risto-rante toscano: bellino con diffidenza.

Indro Montanelli alzò la testa da at-tore che recita il Giulio Cesare e mi piantò i suoi due fanali verdi addosso.

«Te l'ho già detto — scandì su Guareschi siamo d'accordo in tutto, ma su quanto sostenne dal Candido che De Gasperi aveva chiesto' agli alleati di bombar- dare Roma, proprio no. Aveva torto marcio. Inbuona fede, ma torto marcio. E non tirar fuori il processo, e che alla difesa di Guareschi non è stato conces-so l'ascolto di dieci testimoni a favore, e che non è stata per-messa la perizia p erigrafic a al-le lettere attribuite a De Ga-speri. Che poi, cosa contano i processi della storia? Magari in un altro clima politico il pro-cesso avrebbe potuto essere fa-vorevole a Guareschi, invece di condannarlo assolverlo e dargli piena ragione. E che si-gnifica? Potrebbero dargli ra-gione tutti i tribunali del mon-do che, tanto, Guareschi nella faccenda delle lettere avrebbe lo stesso torto marcio. De Ga-speri non le scrisse mai. Ma fi-guriamoci».

Erano mesi che, dalla secon-da metà dell'80, grandi fumé del giornalismo italiano si scontravano polemizzando su Guareschi da quando il consi-glio comunale di Busseto a 12 armi dalla sua morte aveva de-ciso, democristiani, socialde-mocratici, socialisti, comunisti all'unanimità, di intitolargli la piazza delle Roncole dove sor-ge la casa in cui nacque Giu-seppe Verdi. Vittorio Gorresio, attento barbagiarmi, era in.sor-

to: ma come, per esaltare Guareschi a Busseto distruggono Giuseppe Verdi e Alcide De Gasperi? È sconveniente, secondo Gorresio, gemellare il Mae-stro con Guareschi che non è stato un buon scrittore e ha inventato perso-naggi che «contribuiscono nel mondo al dispregio dell'Italia, personaggi da farsa come Don Camino, un pretaccio cattolico della peggior specie areli-giosa e paganeggiante, e come Peppo-ne, comunistone grossolano, rivolu-zionario da strapazzo» (vedi «La Stam-pa», 30.9.1980).

Gorresio sémpre su «La Stampa» aggiunse di ricordare benissimo: '.Guareschi aveva inconsultamente accusato, sulla base d'un falso docu-mento rozzamente artefatto, De Ga-

speri di aver esortato gli angloameri-cani a bombardare a tappeto le nostre città durante la seconda guerra mon-diale». Un mese dopo questo andazzo tra disinformazione ed esasperazio-ne, Gonesio concludeva in un faccia a faccia con Biagi su «Repubblica» del 15.10.1980: «Ricordo benissimo che in quell'epoca nelle redazioni e fuori gi-ravano numerose patacche simili a quelle pubblicate da Guareschi. I dia-ri di Mussolini si vendevano un tanto al chilo. Se Guareschi solo è rimasto scottato, doveva essere, diciamo la ve-rità, un bel coglione o, per usare una e-spressione più edulcorata, uno sprov-veduto. Ma agli sprovveduti non si in-titolano le piazze».

Ora, non so se in Italia ci sono altri

sprovveduti e anche coglioni nel senso che pretese Gorresio. Uno però lo co-nosco, per dirla alla Gorresio, benissi-mo: sono io. Convintissimo che Guare: schi avesse ragione. Per un motivo semplicissimo: Guareschi continuò fi-no alla morte a sostenere che le lettere erano autentiche e che erano giusti i motivi politici per cui le pubblicò ten-tando di avvertire il suo Paese, quella cosa che ancora chiamava Patria, di cosa gli sarebbe accaduto subendo s enza re agire quel certo tipo di politica che in quegli anni stava facendo i primi passi. Allora mi son trovato di fronte a una scelta precisa: dovevo scegliere tra i Montanelli, i Gorresio e Guare-schi. Coglione per coglione, ho scelto quello che m'assomigliava di più. Den-

tro, dico. Tra l'altro, nell'ottobre del '55, Guareschi, sprovveduto, aveva istitui-to sul Candido un immaginario PreT mio giornalistico di Obiettività Gover-nativa, il Pog. Potevano aspirare al Pog i giornalisti più conformisti, piú servi del potere, coloro che scrivevano non ' cosa pensavano, ma cosa pensava il potente. Nella graduatoria dei dieci giornalisti italiani che potevano aspi-rare con ragione al Pog, Guareschi a-veva messo Gorresio al quinto posto. E nell'80 Gorresio credo che se lo ricor-dasse ancora «benissimo».

Febbre Da una nuvola fluttuante nel cielo

ricolmo d'astri e comete, il '53, che è un gran vecchio con barba e camicio-ne bianchi, passa il mondo nelle mani del '54, un neonato ancora tutto im-bambolato: «Te lo passo tale e quale l'ho ricevuto. Era impossibile peggio-rarlo», dice il vecchio. Con questa vi-gnetta in prima pagina uscì nel gen-naio '54 il primo numero del nono an-no di Candido.

Era in carica il governo di Giuseppe Pella, uomo che Guareschi sti- mava per la rettitudine e perché, mosca bianca, era giunto a esse- re capo del governo .in punta di piedi, con una solenne umiltà da fedele servitore dello Stato. Era stato scelto dal presidente della •

Repubblica quando De Gasperi, presentatosi in Parlamento dopo lo scacco della Democrazia cri- stiana alle elezioni del '53, non a-' veva ottenuto la fiducia. Era un governo, questo di Pella, inviso alle sinistre. Osteggiato con il ri- corso a ogni mezzo lecito e illeci- to anche da una parte dei demo- cristiani. Accusato di ostilità alla riforma agraria, d'ammiccamen- ' to alle destre monarchiche, d'a2 ver inviato due divisioni ai confi- ni con la Jugoslavia per difende- re Trieste. Fu costretto a dimet- tersi a metà gennaio '54 dopo che ' in un discorso tenuto a Novara Scelba lo aveva scaricato dicen- do che non aveva più, come pre- sidente del Consiglio, la fiducia della Democrazia cristiana. Guareschi vide chiara nella ma- novra la mano di De Gasperi. ,

(34 — continua)

Dopo voto del 53

attacchi cattolici contro. Giovannino si intensificano

Beppe Gualazzini

Qui sotto: Alcide De Gasperi a pranzo con Guareschi il primo giugno del 1952 a Tavazzano, dopo l'inaugurazione della nuova centrale termica. A sinistra: Guareschi guarda un.suo ritratto (Foto: Publifoto)

Page 10: Guareschi 26 45

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Roma, 19 Gennaio 1944

Egregio Signor Colonnello,

ultima del 12 gennaio '44, ml permetto dl traserIVerle int.= ramente 11 contenuto della preeedente,r1masta fino ad oggi senza esito.

Traelte un córriere P. s. aridlamo la presente conte. mente la nostra els:, empie assicurazione che quanto Seg. 11 Generale ALBUM/GR lesiderm venga effettuato, come azione collaterale da parte dei nostri gruppi Petriot1, sera'nermv polosemente-ettuato.

CI e' purtuttarla doloroso, ma meeessarlo, insistere nuovamente effInehe. la popolazione rbmene si deolda ad ineor= gare al nostro fianco, eh. non devono •asere risparmiate a= stoni di Zoahardamente nen. •vna perireviee de11a oltta, nonche' sugli obblettivi militari segnalati.

Questa azione, che e cuore stretto Invochiamo, e. la so= le ohe potra. infrangere l'ultima resistenza morale del popolo roaano, se particolarmente verra. preso quale obbiettivo 1. =

acquedotto, punto nevralgico vitale. , CI urge inoltre, e •nel plu breve tempo possibile ti gla. eolleoltato rifornimento, essendo giunti allo stremo.

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Queste sono le due famose lettere firmate De Gasperi (poi risultate false), con le quali, su carta intestata della Segreteria di Stato Vaticana si chiedeva nel 1944 un bombardamento alleato sulla periferia di Roma

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Beppe erraUazzin

na domenica; Metà gennaio '54, Guareschi stava lavorando quan do suonò alla sua portauno Sconosciu-to con tra le mani una borsa, di pelle.

«Mi manda un amico comune da lei soprannominato gentiluomo veneto» si presentò.

Guareschi approvò, 'quell'amico ve-neto era davvero gentiluomo e galan-tuomo.

«Le consegno le fotocopie autentica-te di due lettere scritte nel '44 e firma-te da AlCide De Gasperi. Una dichia-razione del notaio Stamm di Locarno garantisce che gli originali esistono in perfetto stato sotto la sua custodia. Ec-co anche le perizie grafi.che di Umber-to Focaccia; perito calligrafo del Tri-bunale di Milano, che dichiara in pie-na coscienza che le grafie e le firme in queste lettere sono autentiche di Alci-de De Gasperi.

Sante battaglie Laprima lettera, 19 gennaio '44, ave-

va impresso lo stemma della Segrete-ria di Stato del Vaticano. Era indiriz-zata al colonnello Bonham Carter del-la base alleata di Salérno: «Egregio si-gnor colonnello, non avendo ricevuto alcun riscontro in merito alla mia ulti-ma del 12 gennaio '44, mi permetto di trascriverle interamente il contenuto della precedente rimasta fino a oggi senza esito. Tramite un corriere por-taordini affidiamo la presente conte-nente la nostra piú ampia assicurazio-ne che quanto S.E. il generale Alexan-der desidera venga effettuato come a-zione collaterale da parte dei nostri gruppi Patrioti, sarà scrupolosamen-

te attuato. Ci è purtuttavia doloroso, ma necessario, insistere nuovamente affinché la popolazione romana sj de-cida a insorgere al nostro fianco, che non devono essere risparrhiate azioni

bombardaniento nella zona perife-rica, della città, nonché sugli obiettivi militari segnalati. Questa azione, che a cuore stretto invochiarino, è la sola che potrà infrangere l'unirne resi-stenza morale del popolo romano, se particolarmente verrà preso quale o-biettivo l'acquedotto, punto nevralgi-co vitale.

«Ci urge inoltre, e nel piú breve tem-po possibile, il già sollecitato riforni-mento, essendo giunti allo stremo. La preghiamo pertanto, nel piú breve tempo possibile, di assicurarci di tutto e di credere nella nostra immutabile fede nella lotta contro il comune ne-mico nazifascista».

La lettera scritta a macchina con imprecisioni tipiche di chi non è uso a questo strumento, portava in calce, scritta amano, la firma De Gasperi.

La seconda lettera, assai più breve, era tutta autografa. Sul foglio non c'e-ra intestazione. Né era indicato a chi fosse diretta. Data, 26 gennaio '44, scritta quindi sette giorni dopo la pri-ma: «Carissimo, spero di ottenere da Salerno il colpo di grazia. Avrete pre-sto gli aiuti chiesti. Coraggio, avanti sempre, Per la Santa battaglia, auguri, buon lavoro e fede».

«Queste lettere con altri documenti d'un carteggio intercorso tra Chur-chili e Mussolini— spiegò a Guareschi il visitatore —furono consegnati in un plico sigillato dallo stesso Mussolini al tenente della Repubblica sociale Enri-co De Torna, il quale poi nel '51 di-chiarò a un quotidiano di possedere il carteggio e fu presto avvicinato dal controspionaggio. 11 carteggio non parve però interessare nell'insieme. Ogni sforzo del Servizio segreto italia-no e di esponenti di governo vicini a De Gasperi si concentrò solo sul ten-tativo di recuperare le lettere. h cor-riere scrisse che De Torna per cedere il carteggio chiese una cifra esorbitan-te e che le trattative prima di arenarsi erano durate mesi».

Ma come fece Mussolini a entrare in possesso delle lettere firmate De Ga-speri, fu chiesto al visitatore. Lui spiegò che Herbert Kappler sapeva che dal Vaticano uscivano corrieri con

documenti da recapitare oltre le li-nee. Nel gennaio '44 un suo servizio di sorveglianza fermò fuori da,lla cinta vaticana un falso monsignore che tu perquisito dalla Gestapo. Aveva le let-tere nascoste sotto un busto elastico.

Guareschi controllò e ricontrollò documenti e versioni. Si convinse: quelle lettere erano autentiche, scrit-te da De Gasperi. La lettera dattilo-scritta era confermata dall'altra scrit-ta completamente di pugno. Firma della prima lettera e l'intera seconda erano state riconosciute come scritte di pugno da De Gasperi dalle analisi di un credibilissimo e imparziale tec-nico. Laboriose trattative erano state condotte da autorità governative ita-

liane per impadronirsene offrendo somme considerevoli. Erano stati an-che tentati colpi di mano per riuscire ad averle. Non ci si arrabatta così per un documento falso. De Gasperi e i suoi erano a quei tempi al governo, non mancavano certo di mezzi per neutralizzare un falsario o un ricatta-rore.

Guareschi non si soffermò tuttavia sul fatto che De Gasperi, stando a quel-le lettere, aveva chiesto agli alleati un bombardamento sulla periferia di Ro-ma e sull'acquedotto ritenendo che, in fondo, si trattasse d'una azione dettata da esigenze eli guerra. Condannò inve-ce l'inganno compiuto scrivendo il messaggio su carta intestata dello Sta-

to Pontificio il quale, invece, agiva in quei tempi difficili con tutte le proprie risorse per evitare ulteriori catastrofi e rovine. Né era l'unico tradimento che il Santo Padre aveva dovuto sop-portare proprio da coloro che ospita-va: Guareschi seppe che proprio nel Laterano era stata installata, all'insa-puta delle autorità ecclesiastiche, una stazione radiotrasmittente facilmente localizzabile dai tedeschi. E un'ultima riflessione: De Gasperi aveva usato carta intestata del Vaticano poiché il suo nome a quei tempi diceva poco o nulla agli alleati. Togliatti parlava con alle spalle la Russia. Ebbene, De Ga-speri in quel modo poteva fra credere agli alleati d'avere alle spalle niente

meno che il Vaticano. Alfine Guareschi si decise. Sostituì

sul Candido l'articolo La pugnalata nella schiena, dedicato al siluramento del governo Pella per mano di De .Ga-speri, con un altro, Il ta-pum del cec-chino: «...quando definiamo De Ga-speri un politicante spietato, non ci basiamo su nostre personali impres-sioni. E quando diciamo che De 'Ga-speri è :un uomo che non si ferma da-vanti a nessuno e a niente, ci basiamo su qualcosa di concreto. Qui, ad esern-pio, vediamo De Gasperi che, ospite • del Vaticano, scrive tranquillamente su carta intestata della Segreteria di Stato di Sua Santità delle lettere con-tenenti richieste di bombardamenti. Non è un gesto incosciente e stolto: è. un vero e proprio sacrilegio. Non è il semplice gesto di uno che tradisce l'o-spitalità, è il gesto nefando di un catto-lico che tradisce il Santo Padre».

Traffici oscuri Quel Candido, il n. 4 cheporta,va la

data del 24 gennaio, uscì il 20 mattino con pubblicata la prima lettera. L'An-sa emanò un comunicato rilasciato la sera stessa da De Gasperi, il quale di-chiarava di essere a conoscenza del- •

l'esistenza di un falso documento a lui attribuito e ne diffidava la pubblica-zione. Ma la lettera era già stata pub-blicata lo stesso mattino: «Che signifi-cato può avere una diffida a pubblica- - re un documento che è già stato pub-blicato?», scrisse Guareschi sulnume-ro successivo del Candido. De Gaspe-ri, in un secondo comunicato Ansa del 21 ripreso dalla stampa il 22, dichiarò di «essere a conoscenza che il presun-to doctunento al quale si riferiva la sua , diffida di ieri è comparso oggi su un settimanale di Milano eccetera» preannunciando la querela. «Troppo - tardi anche qui. E troppa imprecisio-ne», scrisse Guareschi: De Gasperi a-vrebbe dovuto scrivere che: «(...) presunto documento al quale si riferi-va la sua diffida di ieri sera è compar-so ieri mattina su un settimanale di • Milano"». Sul Candido Successivo (n. 5 del 31 gennaio, uscito il 27) pubblicò la' seconda lettera. La querela verrà pre-sentata il 7 febbraio alla Procura della Repubblica di Milano.

(35- continua) ,

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Seppe Gualazzini

-nneffignangffigeng: Sotto: Milano, 13 aprile 1954. È il primo giorno del processo per le lettere di De Gasperi e Giovannino Guareschi esce dal palazzo di Giustizia di Milano. A sinistra: Guareschi e De Gasperi a pranzo nel 1952 (Foto: Farabola)

. Comincia il processo, contro Giovanniio per le lettere di De Gasperi

entre s'avvicinava il proces-so per diffamazione a Guareschi che aveva pubblicato sul Candido la lette-ra firmata De Gasperi con la quale su carta intestata della Segreteria di Sta-to di Sua Santità-Vaticano si chiedeva nel '44 un bombardamento alleato sul-la periferia di Roma e la successiva, scritta a mano su carta non intestata, all'estero diversi giornali si schieraro-no in favore del querelato: «Guareschi — scrisse il Manchner Merkur in Ger-mania — dovrà rispondere a un tribu-nale per diffamazione. De Gasperi do-vrà però rispondere davanti alla Sto-ria perché nei suoi sette anni di gover-no non solo non ha rafforzato, ma ha indebolito l'Italia». E si riferiva ai due milioni di voti perduti in favore delle sinistre.

In Italia invece feroci attacchi dai giornali di regime. Gioventù cattolica: «Guareschi, ovvero lo scarafaggio. Guareschi mira piú lontano. Per esser più espliciti, a noi pare che la sua sia u-na sparata tipicamente fascista con-tro la Resistenza». Nacque da qui la prima accusa di fascista lanciata al-l'internato militare numero 6865 nei lager nazisti.

Guareschi si difese sparando vi-gnette. In una De Gasperi con bocca famelica e passo dell'oca cammina cantando sull'aria dell'Internazionale seguito da un codazzo di parenti con tra i denti grossi cosciotti di pollo: «Su fratelli, su cognati (e generi diversi) su venite in fitta schiera...». 'Da coloro in marcia con lui spiccano: «Il cognato Romani Pietro, commissario perpe-tuo Enit, il cognato Romani Carlo, mo-nopolio cotone egiziano filato in Italia eccetera, il genero architetto Catti,

varie, il fratellissimo Augusto De Ga-speri, presidente di tutto, monopolio, distribuzione Agip Gas, eccetera, ec-cetera». Alternarsi di battute da «For-za Alcide che non sei solo!» a «Noi sia-mo una trentina di trentini prestati al-l'Italia».

Prova storica Il processo s'iniziò martedì 13 aprile

1954 (terminerà giovedí 15). Puntuale alle 9 Guarepchi entrò in aula. Andò a sedersi taciturno all'estremo limite della panca degli imputati. Alle 9,20 entrò Alcide De Gasperi accompa-gnato dai suoi avvocati, uno di questi era scorrettamente Delitala che ave-va difeso Guareschi nel processo per la vignetta sul Nebbiolo di Einaudi e che durante questo processo uscì dando del disonesto a Guareschi nell'infelice battuta «Io non credo nel-la sua buona fede: io lo conosco, l'ho difeso in un'altra causa». De Ga-speri sedette tra i due le-gali, taciturno anche lui. Pieno di pensieri. Alle 9,30 entrò la Corte.

All'inizio dell'udienza «la difesa», come scrisse Guareschi, «chiese che il Guareschi venga prima processato per uso scien-te di falso e poi per diffa-mazione. (...) Il Tribunale , dopo lunga permanenza in camera di consiglio, respinse tutte le richie-ste e dichiarò la fine del-l'udienza antimeridia-na». «All'inizio dell'u-dienza pomeridiana..», scrisse Guareschi, «i miei avvocati chiedono che, prima della mia interro-gazione, venga data la lettura di documenti ap-pena pervenuti. Il Tribu-nale si riserva di autoriz-zare la lettura in corso di causa». Guareschi fu in-terrogato per primo. Nel corso dell'interrogatorio Guareschi disse: «Pubbli-cando la prima lettera nella quale il De Gasperi

sollecitava-agli inglesi una azione ae-rea di bombardamento nella zona pe-riferica di Roma, sugli obiettivi milita-ri segnalati e sull'acquedotto, io pun-tai esclusivamente sulla "tattica spie-tata del politicante De Gasperi". Nes-suna interferenza fra il De Gasperi ca-po di un partito e il De Gasperi capo della Resistenza. Fra il politicante e il resistente. De Gasperi in qualità di uno fra i capi della Resistenza non a-vrebbe avuto bisogno di usare una carta intestata del Vaticano per comu-nicare richieste o informazioni ri-guardanti l'attività della Resistenza. Ma il De Gasperi politicante ne aveva bisogno. Erano i giorni in cui si aspet-tavano gli Alleati (...). De Gasperi, ca-

po riconosciuto della Democrazia cri-stiana, doveva "piazzarsi" come politi-co di fronte agli alleati. (...) Quella car-ta intestata doveva voler dire agli oc-chi di Alexander e degli Alleati: "Si-gnori, se dietro il Partito comunista c'è l'Urss, dietro la Dc c'è ll Vaticano! E io sono il capo riconosciuto della Dc: ricordatevelo quando arriverete". (...) Io pubblicai la lettera scritta dal si-gnor De Gasperi al tenente colonnello inglese, con la assoluta sicurezza del-l'autenticità della lettera stessa e del-la relativa lettera di conferma. Non mi appagai certamente della sola perizia grafica attestante l'autenticità della lettera e relativa appendice. La peri-zia grafica non mi servì a stabilire:

"Questa è una lettera scritta dal si-gnor De Gasperi". Mi servì invece a stabilire: "Questa è la famosa lettera che il signor De Gasperi, i suoi amici e i suoi pseudo-amici stanno da anni fu-riosamente inseguendo, e cercando di conquistare con ogni mezzo"».

Fu ascoltato De Gasperi: «Non ho mai tenuto una corrispondenza con autorità alleate, tanto meno per chie-dere azioni di bombardamento su Ro-ma. Se ciò avessi fatto, avrei tradito la solidarietà col Chi che aveva contribui-to a fare dichiarare Roma città aperta (...). Io non ho mai scritto nessuna lette-ra al signor Bonham Carter di cui igno-ravo l'esistenza. Io non avevo nessuna relazione segreta con le autorità mili-

• •tari alleate. E poi, per qual ragione a-vrei dovuto scrivere la lettera del 19" gennaio '44 su carta intestata della Se-greteria di Stato della Città del Vatica-no? Per comprometterlo oppure per coprire me stesso?». E conclude la pri-ma parte dell'interrogatorio:* «La realtà è che Guareschi avrebbe dovuto • fare una sola, semplice, onesta consta-tazione. Avrebbe dovuto chiedersi: è possibile che un uomo che scrive tali lettere assurde, che commette tali er-rori infantili, possariuscire poi a gover-nare per sette anni l'Italia?».

«Già si profila con quali argomenti vogliono farti condannare — dissero gli avvocati a Guareschi —lo stesso De Gasperi porta la sua prova storica: è mai possibile che un uomo che ha go-vernato l'Italia per sette anni possa a-ver compiuto un simile gesto»?

Senza appello Era la stessa domanda che Guare-

schi s'era subito fatto, ma formulando- la in modo ben diverso: «E mai possibi- le che un uomo che commette i più co- lossali errori politici e durante sette disastrosi anni di governo ha portato l'Italia negli angosciosi guai presenti e ha distrutto quasi totalmente il presti-

gio dell'Italia nei consessi in- ternazionali, possa aver scritto lettere di tal 'genere? E, considerata serenamente la situazione, il Guareschi a-veva risposto: "Sí"».

Terminata la deposizione di De Gasperi, dopo la lettura di una lettera del generale A-lexander dalla quale risulta che, alla data del 19 gennaio 1944, lui «non aveva nemme-no sentito parlare del signor De Gaspen», viene ascoltato,. il colonnello AD. Bonharn:',.; Carter che dichiara di non a, ver mai avuto rapporti con De Gasperi. Terminata la dei posizione viene ascoltato notaio Stamm di Locarno che i . consegna al Presidente del . Tribunale una copia della Memoria che il De Torna ha già inviato, via posta, e che è ' giunta in mattinata. L'udien-za viene rinviata alla mattina " del mercoledí. i

(36 — continua):

INIECNIERISEEEERRIECNERIBIREERkESIEMENEREOREERESEREEIRRINEEMIREEM53......MEREEINEERIEE:::::::::::::,:u..

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Condannato per c'Llarnazione, Giovannino sceglie il carcere

Seppe Gualazzini

I mattino del mercoledì», scrisse Guareschi, «il notaio Stamm consegna al presidente del tribunale le dué lettere originali». De Gasperi dichiarò che non erano sue. Viene data lettura della memoria inviata dal signor De Torna dove compaiono i nomi di padre Zucca, Enrico Mattei e Giulio Andreotti e del testo allegato dell'interrogatorio fatto al De Torna dalla polizia federale svizzera nel quale risultava che alla fine del mese di maggio del 1953 il capitano Pallini-bo del Sifar, alla presenza di tre testi-moni e un prelato, gli aveva offerto la somma di 50 milioni per mettere tut-to a tacere e consegnare a quel servi-zio originali e fotocopie del carteg-gio. «La difesa avanza allora delle ri-chieste», sci-isso Guareschi. Era «ne-cessario citare come testi tutti i per-sonaggi di cui si parla nella memoria del De Torna (...)». Inoltre la difesa chiese da perizia grafica e chimica dei due docurnenti originali». Ma, grazie al magistrale intervento del-l'avvocato Delitala, anche il pm, che era favorevole alla perizia grafiCa, ci ripensò e il tribunale, ritiratosi in ca-mera di consiglio per un'ora e un quarto, respinse tutte le richieste della difesa. L'avvocato Lener della difesa si vide costretto a gettare la to-ga «ritenendo pleonastica la ulterio-re sua presenza nel dibattimento» e il giorno dopo, giovedì 15 aprile, finita l'arringa dell'avvocato Delitala, tri-bunale si ritirò e dopo dieci minuti, alle ore 12,35, diede lettura della sen-tenza: «Il tribunale, ritenuto Giovan-nino Guareschi colpevole di diffama-zione, lo condanna a un armo di re-clusione e 100.000 lire di multa oltre

al pagamento; delle spese proces sua-li, al ristoro dei danni morali indicati nella simbolica cifra di una lira» ec- • cetera. All'anno di galera si aggiun-

. geranno, nel corso della detenzione, gli otto mesi per la vignetta di Nebio-lo Einaudi.

Per restare liberi • • • •

Il martedì sera della settimana successiva alla sentenza, scadevano i termini per presentare appello. Guareschi scrisse per il Candido l'articolo: No, niente appello! «Non è un colpo di testa, io non ho il tempe-ramento dell'aspirante eroe e dell'a-spirante martire. Io sono un piccolo borghese, un qualsiasi padre di fami-glia che, avendo dei figli, ha dei do-veri. Primo dovere: 'quello di inse-gnare ai figli il rispetto della dignità. personale. (...) Vado in prigione. Ac-cetto la condanna come accetterei un pugno in faccia: non mi in-

, teressa dimostrare che mi è stato dato ingiustamente: il pugno l'ho già preso e nessu-no potrà, far sì che io non l'ab-bia preso. Non mi pesa la con-danna in sé, ma il modo. E il modo ancor mi offende. (...) No, niente appello. La mia di-gnità di uomo, di cittadino e di giornalista, libero, è faccen-da mia personale e, in questo caso, accetto solo il consiglio della niia coscienza. Ripren-derò la mia vecchia e sbudel-lata sacca di prigioniero vo-lontario e mi avvierò tran-quillo e sereno in quest'altro lager. Ritroverò il vecchio Giovannino fatto d'aria e di sogni e riprenderò assieme a lui il viaggio cominciato nel '43 e interrotto nel '45. Niente di teatrale, niente di dram-matico. Tutto semplice e na-turale.

«Per rimanere liberi biso-gna, a un bel momento, pren-dere senza esitare la via della prigione».

Molti sbeffeggiarono Gua-reschi per aver scelto il car-cere senza interporre appel-lo. Il Popolo e altri fiancheggiatori della Democrazia cristiana lo so-prannominarono San Giovannino

Martire insinuando Che egli, agisse , così Per diventare 'deputato. Su Mil

lano Sera fu scritto che invece voleva rifugiarsi all'estero e che quindi su-bito la pubblica sicurezza gli ritiras-se il passaporto. Un commando di intellettuali si radunò al Bagutta e brindò schiamazzandb alla senten-za che lo aveva condannato,

Al Candido giunsero invece deci-ne di migliaia di lettere di solida-rietà e indignazione. Alcuni giorna-li furono quasi neutrali, come il Cor-riere della Sera. Altri, come il Cor-riere lombardo, si schierarono net-tamente: «Negata a Guareschi la possibilità di difendersi. E stato con-dannato con procedura sommaria. De Gasperi batte Guareschi in base ad un discutibile verdetto».

Enzo Biagi andò peregrinando per le redazioni milanesi per far fir-mare una petizione da presentare

all'areivescovo Montini affinché in-tervenisse per evitargli il carcere. Fu Guareschi stesso, dopo averlo ringraziato, a chiedergli di desiste-re. Altri giornalisti, nell'inseguire Guareschi che era divenuto inavvi-cinabile, giunsero fino alle Roncole. Fecero il terzo grado alla gente del-la Bassa. Alfredo Ferretti, segreta-rio del Partito comunista locale, si schierò con lui. «Qui alle Roncole si tiene tutti per Guareschi, senza sto-rie. Un agricoltore in gamba e one-sto come il signor Guareschi non

. può essere diverso quando fa il gior-nalista. Se ha fatto quel che ha fatto, deve avere avuto le sue buone ra-gioni». All'opposto il giovane curato di Roncole. Era un pretino del tipo che, nei racconti su Don Camino, quando sono addobbati paiono un attaccapanni con sopra tre paltò é un tabarro: «Se Guareschi non ha

fatto appello contro • la sentenza — ragionò — è perché si sentiva colpe-vole. Se fosse stato sicuro della pro-pria innocenza, avrebbe presentato appello». '

Camioncino giallo Nel tentativo di comporre in ex-

tremis la vertenza con De Gasperi e di convincerlo a evitare il carcere, ambienti vicini ai vertici della De-mocrazia cristiana sondarono il ter-reno • per sapere se Guareschi a-vrebbe accettato una remissione di querela. Risposta: no, non era col-pevole, non accettava perdoni.

La sera del 25 maggio '54, l'ordine di carcerazione, nei termini previsti dalla legge, giunse ai carabinieri di Busseto. A Guareschi restavano 24 ore per presentarsi in caserma ed essere portato nel carcere di San Francesco a Parma, cioè quello della

provincia nella quale era re-sidente. Guareschi decise che non sarebbe andato in ga-lera tra due carabinieri come un malfattore. Meglio da solo. Da onesto e libero cittadino. Il giorno dopo, vagò per la casa alla ricerca della sua sacca da internato nei lager, aiutato dalla signora Ennia la riempì con poche cose. Calzini, faz-zoletti, mutandoni, mezzo chilo di bicarbonato, un libro d'istruzione di Diritto carce-rario, una macchinetta da caffè inviata da un lettore con la definizione «Caffè antiUc-ciardone», ché all'Ucciardo-ne era stato ucciso un anno prima con un caffè avvelena-to il bandito Pisciotta. In cor-tile s'aggiravano Carletto Manzoni e pochi , altri amici venuti da Milano. Ma erano in gran numero quelli delle Roncole e delle Fontanelle. tempo trascorse tra cupi si-lenzi, improvvisi scoppi di dialogo tra lui e gli amici, tra lui e la moglie, tra lui e i figli.

Ogni tanto, fuggiva in alto, in soffitta. S'affacciava alla fi- nestrella. I baffi parevano vo-

ler prendere il volo. Guardava lonta- no nei campi, respirava la giornata tiepida che era una di quelle buone

per fare già, progetti di semina. Era-mi quasi le 15. Salutò i bambini.

In cortile tra le altre macchine c'e-ra un camioncino giallo. Un 615 nu- il vo, appena uscito di fabbrica. Guar - schi chiese di chi fosse quella bell bestia. Si fece avanti Luigi Tamburi-ni, vecchio amico delle Fontane110, Era uno dei ragazzi che tanti anni prima l'avevano aiutato ad imballai-re petali di rosa con la trebbiatrice che aveva costruito in miniatura. i

«Mio. Cabina a tre posti. Ti porto io in galera e vengo a riprenderti quan-do esci» disse Tamburini. Con Gua;- reschi sali la signora Ennia.

L'allegra prigionia Il piazzale davanti all'entrata era

gremito. Guareschi aveva raccoman-dato che nessuno, a parte gli amici, fosse avvertito dell'ora in cui sarebbe entrato in San Francesco. Ma i giorna-listi, saputo del mandato di carcera-zione, s'erano appostati sul 'piazzale fin dal mattino attirando l'attenzione della gente. Lo attorniarono non ap-pena scese dal camioncino.

Entrò con passo tranquillo. Lo zai-netto da internato militare a tracolla che gli segnava il giaccone divenuto. berrettaccio da carrettiere calcato sulla fronte. Prima di scomparire ol-tre la portineria, salutò con un largo gesto della mano.

La signora Ennia tornò sul piazzale un'ora dopo. Camminò a testa alta fin oltre il cancello, ma poi scoppiò in un pianto disperato. Nei giorni che segui= rono i giornali continuarono l'opera di linciaggio scrivendo che a Guareschi era stato assegnato un allegro:carce-re. Una sorta di prigione senza sbarre. Trattamento particolarre e privilegia-to, onori militari, qualunque favore chiesto subito concesso. In definitiva un periodo di riposo e villeggiatura. ;

Guareschi, 400 giorni dopo, uscen-do dall'a,llegro carcere per scontare altri sei mesi di libertà vigilata, fisso, stralunato gli amici del Candido che poi mi riferirono quanto disse: «Io non porto odio per nessuno. Ma non avrei mai pensato che gli italiani potessero: essere così feroci contro un semplice giornalista. Le Ss che mi sorvegliava-no nei lager furono angeli al confron-to».

(37 - continuai i Guareschi, condannato per diffamazione, scelse di non ricorrere in appello e

si recò da solo al carcere di Parma per scontare la pena. Nella foto CPublifoto), Giovannino guarda il carcere prima di entrare

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Poche ore dopo la condanna di Guareschi, un giornalista del Corriere lombardo aveva avvicinato De Gaspe-ri riferendogli che Guareschi non vo-leva ricorrere in appello e che, quindi,' doveva andarsene in prigione subito. «Sono stato anchlo in galera. Ci può andare anche Guareschi — rispose De Gasperi—. E le assicuro che le car-ceri dello Stato democratico son mi-gliori che nei periodi di dittatura». Spero per lui che fossero solo battute sparate nella foga della polemica. In realtà De Gasperi non ignorava chele carceri italiane dello Stato democra-tico erano rimaste, tanto lo sono tutto-ra, identiche a quelle del periodo fa-scista. In pt ú il tempo ne aveva peg-giorato le strutture. De Gasperi sotto il regime fascista aveva trascorso in cella un centinaio di giorni. Imputato di espatrio clandestino per motivo politico e di falso penale, De Gasperi venne condannato nel 1927 a quattro armi di reclusione e 20mila lire di multa. Aveva ricorso in appello e la sentenza venne modificata in solo «tentato espatrio». La pena verme ri-dotta a due anni e mezzo e 16mila lire di multa. Poi De Gasperi chiese, otte-nendola, la grazia a Mussolini nel 1928. Per quanto la vera detenzione fosse stata breve ebbe del carcere un ricor-do amarissimo. Alla fine del luglio del '54, con Guareschi in galera già da due mesi, De Gasperi senti chiari i passi della morte che s'avvicinava. L'avrebbe colto la notte del 18 agosto. La Procura di Roma gli aveva fatto sa-pere che tre cittadini, non legati a Guareschi da alcun vincolo di paren-tela, avevano presentato una doman-

da di grazia chiaramente im-proponibile, il codice stabiliva che solo il condannato o un suo prossimo congiunto da lui au-torizzato potesse presentarla. Stranamente, la Procura inol-trò egualmente la legittima domanda di grazia a De Ga-speri che s'affrettò ad acco-glierla. Un gesto senza alcun valore legale. Anzi suonava u-na forzatura al volere di Gua-reschi il quale aveva vietato a chicchessia di chiedere grazia non volendo esser messo nelle condizioni di chi chiedesse perdono, quindi d'un colpevo-le.

Murato vivo Fu quel gesto di De Gasperi, come sostennero alcuni, lo specchio del rimorso che lo colse ormai prossimo alla morte? O fu un calcolato modo di mettersi con un bel gesto in pari con la Storia anche sulla vicenda delle lettere a lui attri-buite? O ancora fu compren-sione, pietà cristiana per chi stava attraversando un infer-no che egli aveva a sua volta, seppur brevemente, conosciu-to? O, infine, fu l'ultimo mes-saggio inviato indirettamente a Guareschi, che in tempi di-versi aveva tanto stimato: ten-diamoci in extremis la mano, faccio quanto posso per indi-carti la via della libertà. Il 19 agosto Guareschi seppe in carcere della morte di De Ga-speri. «Mi ha (...) rattristato la morte improvvisa di quel po-veretto. Io, alla mia uscita, a-vrei voluto trovarlo sano e po-tentissimo come l'avevo la-sciato», scrisse dal carcere a Minardi. E nel suo quaderno annota: do non polemizzo coi morti».E non tornò più sulla vicenda delle lettere anche se mai fino alla morte riconobbe d'esser-si sbagliato. Cella 38. Lunga.2 metri e larga meno di 3. Cinque metri quadrati in tutto. L'alto soffitto a volta dava l'impressio-ne d'essere calati in un baratro. Pare-ti a calce e finestra sbarrata da una ro-bustissima inferriata con davanti solo

un muro massiccio a incombere da pochi metri. Branda, materasso di crine, un paio di pomoli per attaccapanni, lavello in pietra dell'epoca napoleonica senz'acqua corrente. Unico mobile e-ra il bugliolo, un secchio di zinco che assumeva tutti i servizi igienici. Riu-sciva a far provare acute nostalgie perfino per le nauseabonde latrine dei lager.

Guareschi s'affrettò a ornarlo. Da un giornale ritagliò la foto della faccia di Scelba e la incollò sulla parte interna del coperchio convinto che dietro la querela di De Gasperi, l'ingiusto pro-cesso e l'estrema durezza del tratta-mento riservatogli in carcere ci fosse sempre la stessa mente, la stessa ma-no: quelle dell'allora presidente del Consiglio Mario Scelba. Comandante degli agenti di custodia era il mare-

sciallo Mario Pellegrinotti, sottuffi-ciale ligio al regolamento, ma onesto: 'Guareschi — ricorda — diceva che l'effigie di quel notissimo uomo politi-co fungeva egregiamente da barome-tro. Nell'imminenza di perturbazioni atmosferiche, diveniva di color ver-dognolo e infatti poco dopo il tempo peggiorava». Nel primo mese, isolamento totale: 22 ore di cella e 2 d'aria in un cortiletto

angusto destinato ai de- tenuti che, per gravi dio- tivi disciplinari, non pote-vano aver contatto con gli altri reclusi. Gli negaro-no carta e penna. Cam-minò avanti e indietro co-me una belva in gabbia per eterne ore. A metà giugno Anit a Peri-% i sotti scrisse su Oggi quali erano le reali condizioni di Guareschi galeotto: «Orari che ne regolano l'esistenza: 6,30 sveglia, 7 una tazza di surrogató. Alle 11 pranzo. Cioè mi-nestra e due pagnotte: Dalle 14 alle' 16 passeg-giata nel cubicolo. nuscolo cortile per i dete-nuti isolati per indiscipli-na. Subito dopo cella e ce-na. Cioè un piatto di legu-mi. Niente coltello né for-chetta. Piatto, ciotola, ca-raffa per l'acqua o per il mezzo litro di vino con-cessogli alla settimana. Alle 19,30 campana del si-lenzio coi suoi tristi, lenti rintocchi». Tassativamente vietato ricevere il Candido. P ote.- va comunicare con l'e-sterno per lettera ogni 15'; giorni e ogni foglio passa-

va sotto il pennello della censura co.- ' me già nei lager le ali della Poesia nel-la Favola di Natale. Finalmente, dopo mesi, gli giunsero macchina per scri-vere, fogli di carta e matita. Ogni fo-glio timbrato, numerato e, scritto o in bianco, doveva essere restituito ogni sera alle 20. Tuttavia ricominciò a segnare e scrivere. Ma fu una tortura2 il cibo scadente, l'ulcera che s'aggraA vava, il troppo caldo o il troppo te dciipl della cella. E quell'umidità ghiacciviscida che lo costringeva d'estate a scattare in piedi a intervalli e a muo- versi a brevi passi per le diagonali della cella. Col viso congestionato. I baffi irti. Il sudore che gli colava dal.] collo. D'inverno, una coperta a qua, drettoni fissata in cintola come una_, sottana con un vecchio filo per l'elet- tricità. Batteva i denti e moriva di • . freddo.

(38 - continua)

ulcera si aggrava In carcere Giovannino soffre la fame e

Una rara immagine di Guareschi dietro le sbarre del carcere di Parma. Sopra, lo scrittore nella sua casa di Roncole di Busseto prepara lo zaino con la roba da portare in cella (Foto: Publifoto)

Beppe Gualazzini

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Giovanmio incarcere era trattato più duramente di un comici

Uno stramaledetto altoparlan- te gracchiava a tutto volume subito fuori dalla cella. Ogni giorno così. Per ore. In quelle condizioni Guareschi non riusciva a lavorare. Perdeva rit-mo. A vOlte si gettava gemendo sul pa-gliericcio con la testa sotto il cuscino. Doveva ricominciare daccapo mille volte. La notte del 24 dicembre '54, do-po l'inferno per un attacco d'ulcera piú feroce del solito che l'aveva co-stretto a boccheggiare come un mori-bondo sul pagliericcio, disegnò se stesso a forma di albero di Natale. bugliolo, cioè l'unico l'unico servizio i-gienico della cella, era il vaso. Lui con braccia e baffi allargati era il pino. Ca-tene e palla da carcerato gli ornamen-ti. Un'espressione allocchita negli oc-chi rotondi e segnati. Buffissimo, ma anche un Cristo in croce. Stavano ap-plicando su di lui il regolamento car-cerario del 1888 in maniera restrittiva. Massimo rigore. Censura totale nel controllo di pacchi e corrispondenza col censore così zelante che finì per timbrare anche la foglia di magnolia, lembo minuscolo dell'estate che poi fiorì fuori, giunto in una busta per il suo onomastico, San Giovanni, 24 giu-gno.

Umiliazione e digiuno La signora Ennia chiese al direttore

che fossero concessi al marito almeno ogni tanto cibi adatti poiché sapeva che l'ulcera lo faceva impazzire di do-lore. 11 direttore, burocrazia personifi-cata, fece chiamare Guareschi e gli disse freddamente che la consegna dei viveri dall'esterno era tassativa-

mente limitata a una sola volta alla settimana ed erano esclusi i cucinati, cioè paste in brodo, minestroni, carne fresca. Cioè le uniche cose che Guare-schi avrebbe potuto digerire. Nello stesso carcere c'era un certo Pollastri, ergastolo per omicidi e rapine, che ri-ceveva tutto quanto gli pareva, mine-stre, polli, bistecche spesse così, vino nella quantità che voleva.

Guareschi digiunò. Perse chili e sof-frì più che nei lager. Benso Fini, diret-tore del Corriere Lombardo, uscì con un fondo in prima pagina intitolato: Guareschi prigioniero di Stato. Ma la pressione dell'opinione pubblica or-mai avvertita di quanto stava passan-do Guareschi, non riuscì a far allenta-re la morsa del regolamento che, ap-plicato in quel modo, divenne sempre più tortura per corpo, mente, spirito.

Guareschi • non poté neppure piú confessarsi. Per avvicinarsi al cappel-lano del carcere doveva accettare la presenza di una guardia tra loro due. La sua cella era in una delle ali più esposte alla Tramontana. L'abitava da solo e col solo suo fiato do-veva correggerne la tem-peratura che d'inverno scendeva sotto i 20 gradi. TI maresciallo Pellegri-notti ogni mattina lo tro-vava sul pagliericcio co-me morto stecchito. Ca-daverico. Con i denti che battevano. Si fece corag-gio e andò dal direttore.

«Una di queste mattina entrerò e troverò il signor Guareschi morto asside-rato. Sempre che non gli venga un colpo di giorno, che neanche di giorno là dentro la temperatura s'alza d'un solo grado».

11 direttore chiamò Guareschi.

•Se lei mi autorizza, chiederò al ministero cOn regolare procedura, che le installino una stufa in

Guareschi chiese se gli altri carcerati avessero la stufa. «No. Però occupano

le celle in diversi e ciò già rende gli ambienti meno freddi. Inoltre, hanno locali meno esposti del suo», conven-ne il direttore.

Guareschi rifiutò: se gli altri non a-vevano stufa, neanche lui la voleva. direttore scrisse egualmente al mini-stero aggiungendo che il detenuto era affetto da ulcera gastrica cronica. E il

ministero, laconicamente: se il dete-nuto era sofferente, si poteva farlo ri-coverare in infermeria perché quei lo-cali erano riscaldati. Guareschi, ov-viamente, rifiutò anche l'infermeria.

Quanto accadeva fuori dal carcere, gli giungeva attutito. Come colpi di martello dietro un grosso muro. Gli arrivò la notizia d'aver vinto il Premio

Bancarella. Scrisse all'amico Minardi: «Il premio Bancarella mi ha colmato di soddisfazione». Da Angelo Rizzoli, Sano Urzi, che fu il Brusco nei film di don Camillo e gli era amicissimo, a Carletto Manzoni, tutti lo scongiura-vano di chiedere la grazia. Lo vedeva-no soffrire come un cane, invecchiare prematuramente. Lui ascoltava tutti

attentamente. Ma poi ritornava in cel-la. Lo si sentiva borbottare per, ore., Oppure quand'era in cortile per le po-che ore d'aria, si metteva a cammina-re a passi furibondi ai margini del mu-ragione. Con la testa bassa. Le mani-che della camicia scozzese rimbocca-te fino alle spalle. I baffi dritti corre gli aculei d'un riccio in combattimento. E continuava. Finché era esausto. '

Pasqua '55. 11 maresciallo Pellegri-notti gli portò una colomba salvata dai punteruoli della sorveglianza per po-tergliela consegnare intera.

«Lei ha già scontato metà della pe-na. Può chiedere la libertà condizio,í_. nata. A qualifica di buono per ave sempre tenuto buonissima condott4-,

Niente benefici A Guareschi parve egualmente la

concessione d'un beneficio. No. Ci ri-provò il giudice di sorveglianza, Rino Mezzatesta, galantuomo che, ricam-biato, stimava Guareschi. Riuscì ,a convincerlo: la libertà condizionata non era un beneficio, ma un diritto conquistato col suo comportamento i-neccepibile. Dopo settimane di medi-tazione, Guareschi compilò il docu-mento per il ministero. Avrebbe avuto diritto a uscir dal carcere dopo dieci mesi, trecento giorni. Ma tra i suoi ten-tennamenti e il ritardo con cui il mini-stero si preoccupò di dare il nulla osta, ne passarono cento in più.

Tre luglio '55. Già sera inoltrata. Il silenzio era suonato da un pezzo. 11 maresciallo Pellegrinotti sbloccò senza far rumore lo spioncino della cella di Guareschi. Lo vide che stava leggendo un giornale e, aperta ada-gio la porta, gli si avvicinò in punta di piedi.

•Da domani sera non verremo più a importunarla battendo di notte le in-, ferriate», disse sottovoce.

Guareschi gli chiese anch'egli abas-sa voce se avesse saputo qualcosa.

«Sono lietissimo di comunicarle che' , domani sarà rimesso in libertà. Me l'ha detto poco fa il giudice Mezzatel_ sta».

«Grazie. Mille grazie». «Arrivederci a domani. Buon ripo-

so». «Grazie, altrettanto».

(39 — continua)!

Beppe Gualazzinli A destra: Giovannino alle sbarre del cancelletto che porta nella cantina della sua casa a Roncole di Busseto Foto: Farabolal. Lo scrittore si appre-sta a entrare in carcere e guarda le casse con le 200mila firme frutto di un referendum indetto dal giornale «Il secolo d'Italia» CFoto: Publifot&

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Il ritorno di Guareschi dal carcere fu accolto da un grande applauso delle centinaia di persone che si erano radunate nel cortile della sua casa alle Roncole. La moglie, la signora Ennia (nella foto mentre lo abbraccia) aveva preparato una grande torta con la scritta «Viva la libertà!», che fu annaffiata con abbondante Lambrusco (Foto: Publifoto)

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Amammo esce stremato carcere dopo 1,00 giorni di prigionia a

Beppe Gualazzini

metà pomeriggio, Guareschi riebbe il suo zainetto da deportato mi-litare. Nel corridoio centrale si fermò a salutare alcuni detenuti. Ne aveva aiutati molti, i piú indigenti, pagando per loro avvocati che li assistessero nelle cause, facendo giungere generi di conforto. Ebbe un momento di com-mozione e dovette voltarsi verso un angolo per nasconderlo.

Tentò di sorridere. Salutò a denti stretti il direttore. Strinse forte la ma-no al maresciallo Pellegrinotti e usci. Camminò adagio. Era sbarbato di fre-sco. Indossava lo stesso giaccone di velluto cammellato di quando 400 giorni prima aveva varcato il cancello per seppellirsi vivo. Ma aveva occhi cerchiati e spalle curve, il corpo era molto più pesante. Dimostrava alme-no 10 anni in piú.

La notizia della scarcerazione era stata tenuta segreta. Fuori dal carcere eran pochi ad attenderlo, i più intimi. Ma alle Roncole s'eran radunate cen-tinaia di persone nel cortile della sua casa. Lo attesero con i cavatappi già infilati nel collo delle bottiglie di Lam-brusco e Fortana, attorno a una colos-sale torta sulla quale la signora Ennia aveva scritto a caratteri di scatola «Vi-va la libertà!».

Passi pesanti Lo accolsero con un lungo applauso.

Poi tacquero quando scese dalla mac-china e camminò incontro ad Alberti-no, Carlotta ed Ennia che lo abbrac-ciarono tutti insieme e restarono gon-fi da scoppiare stretti a lui senza dir niente fino a quando i tappi saltarono tutti insieme. A decine. E la gente si ri-

scosse. E cominciò una gran festa. tramonto scese coloratissimo sulla sua riacquistata libertà, che poi a leg-gere il decreto di scarcerazione era u-na satira di libertà. Per sei mesi, fino al gennaio '56, aveva il divieto di intratte-nersi fuori casa oltre le 23 e, prima di intrattenersi a colloquio con chicches-sia doveva accertarsi che l'interlocu-tore avesse il certificato penale pulito. Poteva circolare solo entro i territori dei comuni di Busseto, San Secondo, Sorania, Polesine parmense, Zibello e Roccabianca. In poche parole era con-finato nel «Mondo piccolo».

Gli restavano da Vivere dodici armi. Subito aveva pensato di raccogliere stracci, famiglia ed espa-triare in un Paese lonta-no dall'Italia. L'avesse fatto, chissà, forse sareb-be scampato di pii. Inve-ce col passar dei giorni, rientrò come un robot nella vita quotidiana. I propositi d'andar via e la-sciare tutto s'affievoliro-no. Ma era pieno di com-plessi e sonno. Faceva fa-tica a riabituarsi al cibo normale. Sostituiva so-vente il mangiare col be-re e il fumare. E bicarbo-nato a etti. E lunghe ore Sfinito su una poltrona o sul materasso. Tentò di lavorare alla traccia d'u-na commedia pensata in carcere. Doveva intito-larsi li dannato. Ma l'ab-bandonò dopo le prime battute.

Venne il 26 gennaio '56 e fu libero del tutto. Ave-va finito di pagare allo Stato quello che per lui non era e non sarebbe mai stato un debito. Ora doveva cominciare a pa-garne le conseguenze so-ciali. Come ogni ex dete-nuto.

Fuggi a Napoli, da ami-ci. Girò per la città. In-sonne, cercò il mare. Ma sentiva l'ansia crescere anziché attenuarsi. La gente lo riconosceva o-vunque, lo inseguiva, non

lo lasciava mai solo. Non l'avevano di-menticato, ma Guareschi sentiva che solo pochissimi l'avevano capito, ave-vano intuito che ciò che era stato fatto a lui era, in fondo, stato fatto anche a loro. Che le conseguenze che egli a-vrebbe pagato ogni giorno della sua vita prima o poi l'Italia che egli aveva combattuto e che tuttavia andava in putrefazione, le avrebbe fatte pagare a tutti gli italiani.

Risalì verso Nord. Si fermò ad Assisi e gli piacque il potersi confondere trai pellegrini ma trovare, al tempo stesso,

sentieri silenti e orizzonti dolcissimi. Ascoltare tenui concerti di campane nel vespro. Si sistemò in una camera d'albergo. Si fece raggiungere dalla signora Ennia e restò tre mesi ad Assi-si lasciando il suo recapito solo a po-chissimi.

«In certi momenti — mi raccontò molti anni dopo la signora Ennia — sembrava che s'acquietasse. Ma subi-to dopo lo riprendeva il terrore. Era come una bestia inseguita. E come soffriva, poveretto: d'animo e di sto-maco. E aveva sonni brevi. Inquieti. Al

chiuso gli mancava l'aria, all'aperto si i metteva a camminare a testa bassa fi-no ad essere esausto».

Madame Simplon Quando ritornò a casa, il bisogno di

solitudine sembrava diventato invin-cibile. Alla fine di giugno riuscirono à portarlo quattro giorni a Parigi. Erano già trascorsi 5 anni da quando aveva visitato la città per la prima volta, ri-petendo il sacro pellegrinaggio di suo

padre, Primo Augusto, fino alla tomba di Napoleone.

Ma della Ville Lumière questa volta vide soprattutto i lampi dei fotografi che lo bersagliavano in ogni angolo. Lo portarono sulla rive gauche, lo fecero posare con alle spalle la Senna, al , mercato delle pulci, sulla Torre Eiffel. Gli appesero un bimbo ai baffi e lo ap-piattirono contro il muraglione della , Santé e non gli dissero che era il car-cere di Parigi finché non gli ebbero scattate centinaia di fotografie. «Verrà anche Margherita? gli chiesero».

«Malheuresement» rispondeva Guareschi facendo smorfie da marti-re. Per la prima volta, dopo tanto tem-po, tornò a sorridere sereno. Un po' di colore nel volto. Le vecchie doti di gran parlatore a riemergere. Giunse la signora Ennia ed andarono a Saint Germain des Prés e, quando con i suoi baffi fece a gara con le barbe e i mu-stacchi degli esistenzialisti, non sfi-gurò. Si diverti soprattutto quando i francesi concessero alla signora En-nia il titolo di Madama Simplon per-ché avevano scoperto che la sua età e-ra piú o meno quella della celebre gal-leria.

Fu portato in trionfo nel ristorante Don Camillo che era stato più addob-bato del solito con motivi del «Mondo piccolo». Alle pareti cappeli da prete, salami, prosciutti. Sulle mensole mal-vasie, fortanelle, lambruschi. E i ca-merieri tutti vestiti da Peppone con i _ baffi posticci e i cappelli alla dio ti ful-mini. Qui Guareschi ebbe un'idea e la disse a madama Simplon: e s'aprisse un ristorante alle Roncole?

I francesi lo vollero alla kermesse aux étoiles, manifestazione benefica che raccoglieva alle Tuileries i nomi più famosi di teatro, cinema, lettera- _ tura. «Non servirà il cannocchiale per = veder le stelle» diceva lo slogan. Gli o-spiti d'onore infatti dovevan prender ' posto ognuno in un box e restare per ore in pasto alla gente. Come in un gran museo delle cere con i personag-gi in carne e ossa. Nel suo box si vede passare davanti 300 mila persone che lo applaudivano, volevano toccalo. Con la coda dell'occhio ogni tanto sbirciava la Lollobrigida che pimpava, nel box vicino al suo e non lo degnava d'uno sguardo. Firmava più autografi lui e sogghignava divertito.

(40 — continua)

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Sopra: Guareschi con il figlio Albertino nel luglio del 1955. A destra: Giovannino nella stalla della sua casa a Roncole di Busseto. Da quando era tornato in libertà dopo 400 durissimi giorni di carcere, lo scrittore si muoveva il meno possibile dalla sua amata Bassa (Foto: Farabola)

Beppe GuallowWrini

Musa la parentesi di Parigi e ri-tornato a casa, riprese a lavorare. Scricchiolava. Si sentiva arrugginito. Di malavoglia ogni settimana tornava a Milano e ci restava due o tre giorni, il tempo di compilare il Candido. In pra-tica ormai aveva ceduto la direzione ed erano sempre meno coloro che a Mila-no riuscivano ad avere contatti con lui. S'inorsisce sempre più, dicevano gli a-nnoi.

Ma no, in fondo era sempre lui, spiegò a Enzo Biagi uno dei pochi che riuscivano ad avvicinarlo. ll fatto era che la sua terra, confidò a Biagi, lo chia-mava sempre piú forte. Era nato per vi-vere in un paese. Lo rallegrava vedere arriva,re un contadino con la secchia del latte, andare in giro tra i pioppeti, sugli argini del Po quando tirava il ven-to, tossire nell'umidità della nebbia, i-nalarsi odori di caseificio. E gli piaceva cpiacchierare col falegname, vestirsi dome gli pareva. Mettersi alla finestra e girar-dare la pianura che era, un gran-de spettacolo e non mutava mai. Pen-sava: allora che anche piú in là, oltre l' o-rizionte, c'era ancora tanta terra, altri d'ampi e altri ancora. Il tempo passava rapido e non gli rimanevano poi molti tiamonti.

L'etichetta d'uomo di estrema destra clié gli avevano appiccicato gli avver-sari, gli veniva rinfacciata in ogni mo-mento. Enzo Biagi lo difendeva. Anco-ra oggi lo difende: «Non è politicamen-te un uomo definibile. A un interVista-tOre ha detto d'essere socialista, mo-narchico e cristiano e s'è rammaricato perché il socialismo di oggi non è più qiiello della sua infanzia. E, io credo, un anarchico sentimentale che cerca di conciliare anche posizioni impossibili,

di mettere d'accordo Don Carnillo e Peppo-ne „Ha però convinzio-ni molto ferme».

•Pian piano, quasi senza avvedersene, Guareschi comindiò la ritirata da Milano. Si-stemò a soffitta il s otto-tetto della casa delle Roncole e vi trasferì lo studio. Ottenne due locali, l'uno sopra l'al-tro collegato da scale strettissime e quasi verticali. Disagevoli al punto che l'unica volta in cui la signora Ennia provò a salirvi, non vo-leva più scendere per paura di precipitare e dovettero portarla giù a braccia. •

Diventò gelosissimo di quel nido sotto il tet-to. Giocò: foderò di a-bete lucido le pareti. Appese caricature, stampe, lettere che l'avevano particolar-mente toccato, scatole vuote di sigari e sigarette marca «Don Camillo», menù dei ristoranti che nel mondo portava-no il nome di qualche suo personaggio. Diceva d'avere dei segreti suoi. Apriva lo sportello d'una scansia e apriva una finestra spalancata sulla campagna. Faceva scorrere i battenti d'un riposti-' glio e compariva, al completo, lo sche-dario delle migliaia di lettere ricevute

* in carcere. Indicava una porticina e si entrava in una camera da letto da cac-ciatore, col tetto spiovente di muri fo-derati di tiglio naturale, mobili inven-tati da lui, rustici e di curiose propor-zioni.

L'archivista Dietro uno sportello c'era un secchio

che poteva essere calato fino al pian-terreno per raccoglier posta o ricevere la colazione quando si chiudeva lassù per 48 ore filate a lavorare. Dietro un altro sportello aveva nascosto il giradi-schi che faceva andare con canzoni de-gli anni Trenta.

In cassetti scorrevoli mise in bell'or-dine raccolte di Candido, Bertoldo, Do-menica del Corriere, Corrierino dei Pie-

co/t. Poi grandi buste di foto divise per argomento e spiegate: me, il papà, la Bassa, la casa delle Fontanelle, il vec-chio tram.

Per scrivania usava un tavolinetto a muro davanti al quale . aveva appeso l'immagine d'un Cristo del Sacro Cuo-re, sguardo dolcissimo e mano tesa a offrire il suo cuore circondato di luce. E di sopra, oltre l'ultima botola, un'altra stanza per l'archivio, dai linoleum scol-piti in gioventù alla sentenza che l'ave-va condannato. Al bugliolo con, verdo-gnola sotto il coperchio, la foto della faccia di Scelba. Alle edizioni dei libri su «Don Camillo» in tutte le lingue del mondo, russo, polacco, giapponese, turco, fmnico, lituano, esquimese.

Nell'ottobre '57 diede le dimissioni

da direttore di Candido e anche uffi-cialmente cedette il timone. Poté così collaborare restando più sovente a ca-sa. E, mentre il Guareschi fattore di campagna, seduto in osteria a bere un bicchiere di Lambrusco col falegname, il capomastro e il contadino assumeva contorni sempre più precisi, nei suoi scritti su Candido s'avvertiva un tra-passo più profondo del semplice cede-re il timone e diventare fuochista, come lui chiamava i collaboratori. Le vignette erano inquiete e dure. Gli articoli so-vente non più diritti come una lama, ma a volo concentrico. Ispezioni volte più a sondare chi scriveva che chi leg-geva.

Anche Don Camino andava mutan-do: vivevanuove storie, ma invecchiava

rapidamente assumendo profili stabili, netti, che rifiutavano l'avventura e sce-glievano la meditazione. Ancora una volta Don Camillo era quella gran par-te di lui che voltava le spalle alla cele-brità, al ruolo di fenomeno, per starse-ne al paese. Come appunto Don Camil-lo che, fatto monsignore per esigenze cinematografiche e immerso nella vita di Roma, fuggiva e tornava al Mondo piccolo per vivere da semplice prete. I personaggi del Corrierino delle fami-glie invece si rafforzarono con un dialo-go casalingo eppure profondo tra pre-sente e passato. In essiriaffioravala sua adolescenza. I ricordi dell'infanzia era-no teneri. Lavita d'ogni giorno aveva la filosofia un po' critica, un po' rassegna-ta che sosteneva la me dia e piccolab or-

ghesia italiana. Aveva adoc-

chiato un vec-chio rustico a pochi metri dalle aiuole della casa nella quale era nato Giuseppe Ver-di. L'acquistò e decise di ' tra-sformarlo in ri-storante con bar e sala da ballo. Forse in quei giorni s'ac-corse di poter essere ancora un uomo felice. Bastava non pensare a Mila-no, all'ambien-te di lavoro, a quanto accade-va attorno alla Bassa e a tutte le Basse d'Ita-lia. Non era fa-cile, no. Ma pro-gettando muro dopo muro, in-fissi e sedie, banconi e cuci-ne e tutto, dalla taglierina per il pane alla le-gnaia, gli parve che, al fine, fos-se possibile riu-scirci.

A Milano andava ormai solo per por- tare il compito. Lo compilava chhiso nella sua tana aerea lavorando ininter- rottamente una volta la settimana pbr 30, 40 ore consecutive. Alla vecchia ma- niera, bicarbonato, sigarette, alcol, caffè. E simpamina, quando sentiva di perder colpi. • Poi sulla spider stanco morto, scappottata per avere l'aria in faccia e non addormentarsi, correre a Milano, gran fermata nel cortile della Rizzoli, discussione per l'impostazione di Candido, ritorno a Roncole. Una dor- mita e poteva tornare a progettarsi il ri- storante che già in giro chiamavano la Piramide di Cheope per tutto il cemen- to armato previsto. Male sfuriate sul la- voro erano fatiche pagate care, ogni mese che passava lo segnava per due.

(41 — continua)

lavami° s„- cimele dal «Candido» e si ritira ne n A_

a sua campagna

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Sopra: Gino Cervi e Fernandel, indimenticabili interpreti dei film tratti dai libri di Guareschi. Nel 1961 fu girato il quarto della serie, «Don Camino monsignore ma non troppo» con la regia di Carmine Gallone. Una scena tagliata provocò un vivace scontro tra il regista e lo scrittore. Il 14 ottobre 1961, tre giorni dopo le dimissioni di Guareschi, il suo «fogliaccio» cessò le pubblicazioni. A sinistra: Giovarmino fotografato a Milano conia figlia Carlotta (Foto: Grazia Neri e Farabola) •

Mai

«Candido» non sopravvive alle thrThissiorii. Giovannino

Beppe Gualazzini

128 ottobre '58, Giovanni XXIII di-venne Papa. Guareschi, che alla morte di Pio XII aveva provato un grande smarrimento poiché aveva temuto che con lui fosse tramontata una coscienza ferma ed eterna che altri non avrebbero saputo rimpiaz-zare, osservò con curiosità e appren-sione il nuovo pontefice che, lungi dal rispettare cerimoniali, getteva a dritta e a manca la propria umanità. Lo studiò quando appariva sul video: chiunque avesse avuto la taglia del nuovo Papa avrebbe tentato di sorve-gliarsi temendo di cadere in goffag-gini. Giovanni XXIII invece si muove-va proprio per quello che era e come poteva. Non dissimulava fatica nello scendere e salir scale. Sembrava in ogni momento sul punto di rotolare. Lo zucchetto gli traballava sempre in procinto di cadere.

Il nuovo Papa era lo stesso che, nunzio apostolico a Parigi, aveva do-nato una copia del primo Don Camil-lo tradotto in francese al presidente Auriol e all'ambasciatore sovietico. Alessandro Gnocchi, nel suo libro appena uscito «Don Camino e Pep-pone: l'invenzione del vero», scrive: Il 4 luglio 1959 Giorgio Pillon, capo

della redazione romana di Candido, scrisse una lettera a Guareschi per parlargli di una proposta che veniva da Oltretevere. "(...) Sono stato ad As-sisi da don Giovanni Rossi, alla Pro Civitate Christiana. Don Giovanni — che il giorno prima era stato dal Papa — trovò modo di dirmi che parlando con il Pontefice della necessità di ri-modernare i testi religiosi, si era la-sciato scappare l'idea di domandare

a Guareschi di scrivere tu a nuo-va, più moderna e più spigliata dot-trina cristiana. Il Pontefice non a-veva affatto trova-to troppo ardita una simile propo-sta. Ecco perché don Giovanni a mio mezzo ti do-manda se trovi la propOsta interes-sante (...). Don Giovanni (...) mi ha detto testual-mente" (...) Natu-ralmente noi for-niremmo a Gua-,reschi tutto il ma-teriale e l'assi-

! stenza di cui egli avrebbe bisogno per questa ope-ra". Don Giovan-ni, infine, mi ha detto che se tu ac-cetti, egli è pronto a portarti dal Pa-pa (...)". Guare-schi sulle prime non seppe dir no. Prese tempo. Pensò. Ripensò. Alla fine, decise di non essere al-l'altezza. Imba-razzatissimo, fece chiedere al Papa mille volte scusa. Ebbe, come rispo-sta, una doman-da: il Guareschi di dieci anni prima avrebbe accetta-to?

Cominciò a scri-vere la sceneggia-tura del quarto film su Don Camillo, Don Camino Monsignore ma non troppo. Considerando le delusioni che aveva avuto dal terzo film la cui sceneggiatura era stata massacrata, accettò con molta riluttanza di far ri-tornare sul set i suoi personaggi. Ma le spese fatte nei poderi lo avevano dissanguato, gli serviva denaro per fi-nire la sua Piramide di Cheope, il ri-storante.

Candido addio A Brescello seguì con attenzione le

riprese fatte sotto la regia di Carmine Gallone. S'impuntò quando il regista volle eliminare la scena del trattore regalato dalla Russia al paese di Pep-pone. «Esigenze cinematografiche — si giustificò Gallone —. Un conto è narrare per iscritto, un altro è farlo in pellicola. Quella scena mi spezza il

ritmo». La verità era invece che la sce-na faceva politicamente paura in un'Italia che già stava paurosamente sbandando a sinistra. Guareschi af-frontò l'intera Cineriz e la spuntò. La scena fu girata con grande dispendio dimezzi e a Brescello la ricordano co-me una tra le più fastose delle centi-naia che furono riprese. Ottanta mi-lioni di spesa e si era nel '61. Addobbi a non finire in tutta la piazza. Canti-

naia di comparse. Il trattore che a-vanzava tra due a-li di folla e, sopra, tra bandiere ros-se e fiori che pio-vevano da ogni parte, una cantan-te famosa intona-va Bandiera rossa.

Com'era ormai consuetudine, il quarto film su Don Camillo fu proiet-tato in anteprima a Busseto. Erano i primi d'ottobre del '61. Alla fine del primo tempo Guareschi s'alzò col volto paonazzo e uscì gesticolan-do dalla sala. La scena del trattore era stata tagliata. Più tardi fissò fu-rente Carmine Gallone con la stessa faccia con cui aveva guarda-to i giudici che l'a-vevano condanna-to alla galera. Era-no seduti alla trat-toria del Sole a Busseto e Gallone ancora ripeteva le proprie ragioni. Guareschi a un tratto troncò bru-scamente la di-scussione. Disse che quella notte stessa si sarebbe dimesso dal Can-dido. E attorno scese un improv-viso silenzio.

Il giorno dopo Angelo Rizzoli ricevette la lettera di dimissioni di Guareschi. Irrevocabili.

«Non posso dargli soddisfazione: il film è già stampato, ormai in circuito. Può il Candido continuare senza Guareschi?» chiese agli amici e colle-ghi del dimissionario.

«No!» risposero tutti. Il Candido morì il 14 ottobre '61, tre

giorni dopo le dimissioni di Guare-schi. In Italia alcuni giornali lo saluta-

rono con rimpianto e rispetto. Altri gli resero almeno l'onore delle armi. Ci fu, al solito, chi sparò a zero. In testa l'Unità: «L'anticomunismo si vergo-gna d'aver riso con Candido».

Guareschi ora non aveva al fine neppure un suo foglio da cui reagire. Era del tutto inerme.

Pudore Si sentiva muto. Paralitico. Gli te-

lefonò Mario Tedeschi, direttore del Borghese. Dopo qualche esitazione, Guareschi accettò d'incontrarlo a Roma in un albergo dalle parti di via Ludovisi, sale sempre in penombra, camerieri decrepiti e vecchi divani. Come al caffè dei Preti a Parma quand'era giovane e in cerca d'un la-voro fisso. Come tornare al punto di partenza.

Se avesse accettato di collaborare al Borghese, lo sapeva, sarebbe stato ancor più facile per gli avversari bol-larlo come fascista poiché avrebbero potuto collocarlo in un'area che non si era ritagliato da solo. Ma chi altro gli avrebbe ancora offerto di lavorare come giornalista d'opinione? Il biso-gno di confrontare ancora le proprie idee su un foglio di carta stampata e-ra fortissimo.

«Sul Borghese — gli disse Tedeschi — sei assolutamento libero di scrive-re ciò che vuoi. Rispetteremo le tue i-dee. Anche contro noi stessi».

E fu un rapporto davvero corretto: Guareschi, anche a rileggerlo oggi, non concesse nulla di suo alla linea politica del Borghese. Caso mai fu il Borghese a preparargli certi spazi. Ecco Mario Tedeschi nella prefazio-ne di L'Italia in graticola, volume che raccoglie alcuni scritti e disegni di Guareschi sii quel settimanale: «Nac-que così il rapporto con il collabora-tore più orso che il Borghese abbia mai avuto. Rare lettere e telefonate. Avevamo in comune, Guareschi e noi, quel pudore dei sentimenti, quella timidezza negli affetti e quella saldezza nelle convinzioni sulle qua-li gli uomini fondano la loro amicizia. Non avevamo bisogno di scrivergli per dargli direttive. Né lui doveva chiedercene. ll nostro era un patto di libertà».

(42 - continua)

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Sopra, un'immagine giovanile di Guareschi nella cantina di casa sua mentre esibisce una bottiglia di lambrusco. A destra, le amarezze e la malattia han-no segnato Giovannino, qui accanto alla moglie En-ma (Foto: Farabola e Olympia).

MI

O

Beppe Gualazzini

tempi che avanzavano incattiviva-no Guareschi: non si riconosceva nella civiltà dei consumi, tanto meno nella cultura sempre più massificata. Lana marea dei compromessi di sinistra, del Pateracchio tra governi e opposizioni consociate nel potere e nella corruzio-ne lo isolava. Sul Borghese le vignette che pubblicò rispecchiarono quello sta-to d'animo: l'Italia divenne una bambo-la allucinata costretta a un eterno ban-chetto nel quale le portate erano gli scandali degli anni Sessanta. La Demo-crazia cristiana a volte era un donna in preda à gnomi famelici. Altre un essere mostruoso e berciante, un Franken-stein femmina con le membra, che era-no poi le varie con-enti, rattoppate e ri-cucite le une sulle altre col filo spinato. Oppure, infine, era una donna immen-sa con tre sederi p erp oter occupare tre poltrone in una volta sola. A Roma due poliziotti scortano tre austere signore che vengono cacciate dalla capitale col foglio di via obbligatorio: sono la Com-petenza, laDignità e l'Onestà. Nel '62 e-ra estate, Guareschi stava seduto al suo' tavolo di lavoro nella tana aerea sotto il tetto della casa delle Roncole quando sentiun gran dolore al petto e capì che era infarto. Non c'era nessuno in casa. Albertino era sotto le armi, la signora Ernia e Carlotta eran fuori per unabre-ve vacanza. Mentre si piegava su se stesso, rammentò di aver letto da qual-che parte che l'unica speranza di sal-vezza quando si è colti da infarto è re-stare immobile e calmo per almeno 24 ore. Riuscì a raggiungere adagissimo il letto. Si coricò. Restò immobile un gior-no e una notte. Vide tramontare il sole due volte e poi, sicuro che ormai le 240-re erano trascorse, si girò piano, alzò il

Il passero infreddolito L'amico Giorgio Torelli, che a vederlo oggi con baffi e capelli d'argento pare un Guareschi scampato al diluvio, andò a in-tervistarlo alle Roncole per E-poca. Erano i primi del gennaio '63. Torelli trovò GuareaChi se-duto su una sedia a dondolo, da-vanti al camino. Sorbiva aran-ciata con una cannuccia. «E dunque tu sei qui, solo tra i

tuoi re>> disse Torelli. Guareschi lo fissò dalle orbite cerchiate e Sofferenti. «I tuoi re, cioè i tuoi personaggi, la gente che hai descritto e per la quale hai scritto». Quel segno parmigiano nella parlata di Torelli, gli occhi tondi, un amico, certo, un amico: Gua-reschi permise una conversa-zione pacata. S'alzò in piedi, staccò il tabarro dal portaman-telli e portò Giorgio a vedere il ristoran-te vicino alla casa di Verdi. Torelli tra-scrisse il monologo di Guareschi: «La Piramide di Cheope. È stato Albertino a rotolare quasi tutti i massi. Visto che plinti? Visto che ardate in cemento ar-mato? Il primo pezzo era una stalla, bellissima, antica, poi il grande salone e ipiani superiori sono stati proprio un'e-manazione della, prima struttura. E sul-la Porta c'è un Verdi in piedi ad altezza naturale e ho lasciato un albero chiuso tra i muri nel piccolo vestibolo. E guar-da in quell'angolo là in fondo: quella che pare una cappella a volta alta è una culatelliera e qui, appesi a queste funi che corrono su carrucole, invecchiano in silenzio i culatelli. Pensa: per avere un culatello bisogna sacrificare un inte-ro prosciutto! E poi bisogna saperli pal-pare, annusare e guidarli con piccoli,

sapienti tocchi verso l'alto, piano piano, settimana dopo settimana, perché la stagione sia perfetta. Ritto ciò mi di-strae. «Mi ricordi Cincinnato». Camminarono sulla neve e ritomaronó a casa. Guareschi ansimava unpo'. «Cincinnato?» rise forte e buttò giù una manciata di bicarbonato. Ricominciò a dondolarsi. Ma, prima, Torelli gli aveva chiesto che si facesse ritrarre dal foto-

grafo di profilo, , davanti alla campagna bianca: un sorriso timido, schivo, pieghe sulle guance, l'occhio del passero infred-dolito, la lunga visiera del berretto più corta del n aso, i baffi come un rastrello. Gli restavano cinque anni da vivere.

.La rabbia Verso la primavera del '63 gli fu propo-

sto da un produttore romano di scrive-re la sceneggiatura d'un film a metà con Pier Paolo Pasolini: La rabbia, e a Guareschi toccò la sceneggiatura del secondo tempo. Doveva commentare, come già faceva Pasolini nel primo tempo, dieci anni della vitaitaliana visti con la sua ottica. Era certamente una bella sfida. Accettò. Chiese e ottenne dal produttore di evitare di presentar-gli Pasolini. li Pier Paolo non era tra i ti-

Pi di campione che egli predilige-va. Enzo Siciliano nel suo lAta di Paso-lini parte dalla considerazione che Pasolini fosse caduto ingenua-mente in una trappola accettando d'essere affiancato a Guareschi «esempio corrivo del qualunqui-smo italiano». «Mettere il proprio nome, da par-te di Pasolini — scrive Siciliano — accanto a quello di costui, signifi-ca cedere alle ragioni dei suoi av-versari che lo stimavano niente al-tro che un personaggio da scan-dali, sia pure siglato a sinistra. Pier Paolo ebbe la leggerezza di consentire a un simile stratagem-ma. Quando l'intero film fu pronto e lo visionò, ritirò la firma, ne im-pedì la circolazione. Si disse vitti-ma della propria ingenuità». Prima che Pasolini negasse la pa-ternità del primo tempo, il film era stato in circolazione nelle sale ita-liane per alcune settimane. 11 se-condo tempo fatto da Guareschi e-ra un'analisi precisa e gustosa del-la re altà it aliana. Fuggiva la retori-ca annientando e, per induzione, ridicolizzando la platealità appic-cicosa e conformista che Pasolini aveva profuso nella sua prima parte con «ingenuità». E mentre Pier Paolo, dopo il confronto con Guareschi, correva attraverso tut-ta Italia con il suo Comizi d'amore «chiedendo ovunque —scrive Sici-liano — a calciatori famosi, a igno-ti contadini del Crotonese, cosa pensassero dell'amore e dell'e-ros», Guareschi accettò di tornare a scrivere una sceneggiatura su Don Camillo. La quinta e ultima. La trasse dal Compagno Don Ca-mino, pubblicato nell'ottobre '63. Una nave che affonda all'orizzon-te, una zattera conmaglietta sdru-

cita e tricolore che sventola a mo' dive-la e l'angioletto e il diavoletto seduti su un lato della zattera, inunusoniti a fis-sare Guareschi che, viso smagrito e baffi cadenti, saluta come un capitano deciso ad affondare con la propria na-ve. Questa è la vignetta che chiude la prefazione de Il compagno Don Camil-lo, l'ultima di Guareschi che abbia or-nato una raccolta di racconti sul Mondo piccolo.

(43 — continua)

• fiovannmo, solo ir casa alle: Roncole, viene capito da infarto telefono e chiese aiutò. Ai ricoverato inuna clinica e cu-rato. Gli dissero che se nonfosse rimasto immobile quelle 24 ore, sarebbe sicuramente Morto. Il cuore era ridotto male. ilfegato peggio. I medici aggiunsero di evitare da quel momento in poi di bere, fumare, salire e scender scale, di affidarsi a una dieta ri-gorosa, a lunghi e regolari ripo-si.

A

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L'ultima, profetica vignetta di Giovannino sulla Cecoslovacchia

Gli occorreva spazio per dar sfogo alla voglia di sognare. Di tra-dursi non solo in parole, ma anche in immagini. Dalla fine del '64 comin-ciò a pubblicare vignette su La Not-te. Lavorò con l'entusiasmo dei suoi vent'anni. Il pubblico de La Notte gli piaceva. Era quello spicciolo e sem-pre in rotazione che aveva avuto quando scriveva alla Gazzetta di Parma. Lo contringeva a essere ag-giornato. A tenere sempre accanto a sé la radio accesa o i quotidiani per seguire l'evoluzione dei fatti senza perder battute che, se no, la vignetta risultava subito quella di ieri. In me-no di quattro anni ne pubblicò oltre mille. Gran parte sono di stretta po-litica interna: la Democrazia cristia-na, grassa e tronfia, prega un po' Cristo, un po' Marx: «Bisogna inten-sificare la lotta contro i nostri avver-sari, specialmente quelli democri-stiani!».

Altri disegni di politica interna-zionale. Sullo sfondo del Cremlino un gruppo di alti dirigenti sovietici ammonisce il mondo con un discor-so: «Da oggi il popolo russo non sarà più costretto a stringer la cinghia: l'industria di Stato è in grado di for-nire a ogni cittadino un paio di bre-telle!».

Una gran parte delle vignette, infi-ne, hanno taglio casareccio. Da tipi-ca provincia italiana. Piazze con portichetti bassi e in penombra, mercatini di periferia, strade sprofondate tra campi pieni di neve, giardini pubblici con bambini che corrono tra cartelli dove c'è scritto «Vietato calpestare i vecchia.

Al tempo delle vignette su La Not-

te, Guareschi aveva definitivamente perduto ogni contatto con la cultura e gl'intellettuali italiani. Per questi ultimi poi lui non era, eppure quan-to, quanto lo era, un intellettuale. A-veva voltato loro per sempre le spal-le, felice d'averlo fatto, d'essere e-merso da quel mondo morto in cui i Beniamino Placido, tanto amico di Montanelli, ancora gli attribuiscono il ruolo di pessimo scrittore «con u-na visione dell'Italia e della Bassa Padana ispirata a una ipocondria mediocre, malsana e maligna».

A Guareschi interessava ormai solo la gente e il futuro della gente. E aveva un suo gran cruccio: riusciva ancora a parlare con la gente? «Io vi-vo come un vecchio merlo impania-to nella cima di un pioppo. Fischio, ma come faccio a sapere se quelli che stanno giú mi sentono fischiare o mi scambiano per un cornacchione?». Prese a vagabondare. Tre mesi in inverno alle Ronco-le, gli altri tre in Svizzera dai parenti di Cademario, altri tre in una villetta di Cervia. Quindi ancora alle Roncole per ricominciare il ciclo.

I figli si sposarono. In un racconto che fu pubblicato in Vita in famiglia, Guare-schi li salutò: «Un povero scribacchino s'arrabatta per creare dei personaggi da usare nelle sue storie ed ecco che, quando li ha trova-ti, questi personaggi a uno uno li abbandonano. Io ne a-vevo trovati sei: Don Camil-lo e -Peppone .per le storie diciamo esterne, tipo espor-tazione, Albertino, la Pasto-nana, Margherita e il cane Amleto. Amleto è stato il primo a lasciarmi: in modo banale, finendo i suoi giorni sotto un carro. Il secondo è stato Albertino, in modo an-cor più banale, diventando cioè capofamiglia. Adesso anche la Pasionaria ha ab-bandonato la mia piccola a-zienda passando dal settore letterario al settore lattiero-caseario».

Vennero i nipoti e furono loro in certi giorni d'ulcera e di male a tut-to, a renderlo trattabile. A volte,• chiuso a lavorare .sotto il tetto della casa delle Roncole, sporgeva la te-sta per urlare contro qualcosa o qualcuno dalla botola del montavi-vande. Ma come vedeva in basso in-

filarsi nel riquadro la testolina di u-no dei nipotini, zittiva all'istante. Sorrideva. Si placava.

Venne il febbraio del '68 e, a Cade-mario in Svizzera, Guareschi scrisse le sue ultime cose. Si tratta del fasci-colo L'Albania è vicina, accadde do-mani. Il primo capitolo (L'invasiohe)

è stato pubblicato sul Borghese. Il se-condo (La flotta russa nell'Adriatico) è solo abbozzato. La Repubblica ita-liana è ormai nelle mani di politican-ti molli e corrotti. Il compromesso e la corruzione serpeggiano ovunque nel governo e nel sottogoverno che unisce tutti, comprese le sinistre, tra

il disgusto e la quasi assuefazione_ degli italiani.

La putrefazione dello Stato si specchia anche nella politica inter-nazionale. L'Italia infatti cerca di guidare anche i rapporti con l'estero all'insegna del compromesso. Ac-cetta di stanziare aiuti economici proprio per quei Paesi che più chia-ramente le sono ostili. Ed ecco che compare Aldo Moro, presidente del Consiglio, unico ad accorgersi della pericolosità della situazione. Vuol fare marcia indietro. Correggere la fallimentare politica italiana so-spendendo, per cominciare, gli aiuti all'Albania.

Una mattina a Brindisi sbarcano in forze gli albanesi. Sono armati fino ai denti. Sono gli stessi che fino a quel momento, in nome della politica compromissoria e conciliare, l'Italia aveva sostenuto. Cominciano ad oc-cupare centri vitali. Il governo insi-ste sulla sua politica dissennata. Al-do Moro, l'unico che potrebbe inter-venire, ora che sembra definitiva la sua intenzione di cambiare politica viene rinchiuso con la forza in una cantina di Maglie, nel territorio già occupato dal nemico. Con Moro bloccato la Repubblica potrà restare saldamente nelle mani dei politican-ti molli e corrotti. Il racconto s'inter-rompe qui. E probabile che Guare-schi volesse continuarlo dopo averlo sottoposto al giudizio di alcuni amici ma nonne ebbe il tempo. Quando so-no salito sulla sua aerea tana sotto i tetti della casa delle Roncole, e lui se ne era già andato nel '68 per sempre, e c'era un gran silenzio tra gli scaffa-li e le «avventure» tra le pareti, eppu-re lo stesso pareva lui ci fosse, sul suo tavolo di lavoro era aperta un'a-genda e sul foglio era disegnato un albero spoglio dal quale pendevano, disarticolati e tragici, tanti impicca-ti. Sotto il disegno scritto: «Primave-ra di Praga». La data: '68.

«Aveva previsto l'invasione della Cecoslovacchia con molti mesi d'an-ticipo», ho detto sottovoce. Già, per-

' ché lui era morto il 22 luglio '68 e l'in-vasione sovietica di Praga è del 21 a-gosto.

Albertino non ha risposto. Ci son momenti in cui la voce non vien su.

(44 - continua)

Beppe Gualazzini Giovannino in un'immagine serena fra gli amici di Roncole Busseto (sotto). A destra,

Guareschi davanti alla sua casa. Nel febbraio del 1968 Giovannino iniziò il suo ultimo libro, «L'Albania è vicina, accadde

domani» di cui terminò solo il primo capitolo (Foto: Publifoto e Olympia)

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1 'Italie, ufficiale tace

Beppe Gualazzini

è mort Zvanì», e «puret, l'è mort Zvanì!» diceva il pescatore pas-sando di bottega in bottega. Dal fondo di viale Bellucci si avvicinavano alla casetta di Guareschi donne vestite di nero e uomini in maniche di camicia con qualcosa di lungo e bianco in ma-no. E potevano sembrar candele, ma erano invece i cartoncini avvoltolati con i quali gli istituti di beneficenza e le parrocchie di Cervia attestano che un obolo è stato versato in memoria di un defunto.

Guareschi aveva acquistato quella, casa in via Bellucci pochi armi prima dal proprietario d'un cantiere di im-barcazioni di diporto.

Wanda, la suocera del bagnino, la mattina di quel 22 luglio '68, poco dopo le 7 aveva spalancato la finestra della camera da letto e aveva dato il buon-giorno a Guareschi che stava aprendo la sua: bel giorno, signor Guareschi!

Guareschi aveva alzato lo sguardo verso il cielo terso. Era in pigiama e vestaglia. Morì in quell'istante. Il cuo-re gli si fermò di colpo. Riuscì a far due passi verso il letto e vi cadde in ginoc-chio di fianco, con la testa appoggiata alle coperte, la bocca aperta.

Lo trovò Carlotta. La signora Enni a divenne bianca bianca. Già da mesi te-meva potesse accadere: il volto di Guareschi s' era fatto sempre pM stan-co. Accumulava pieghe di tensione e dolore. Qualcosa in lui si stava spe-gnendo velocemente. La sua voglia di vivere era al lumicino.

Il corpo di Guareschi fu riportato al-le Roncole il giorno dopo. Ad atten-derlo c'era qualche amico venuto da Milano. Poi, cappelli in mano e occhi bassi, gli amici delle Roncole, di Bus-

seto, delle Fontanelle. I contadini, i muratori, i briscolanti lo vegliarono.

Era stato composto nella sua giacca di velluto a coste, camicia a scacchi.' Nel preparargli la giacca avevano tro-vato nelle tasche una scarpetta di Carlotta quando aveva ancora pochi mesi, un pezzo di roba dura che pare-va legno pietrificato ed era invece il pezzetto di parmigiano con le im-pronte dei dentini di Albertino, che Guareschi aveva stretto tra le mani e portato sul cuore per mesi sulle sab-bie dei lager nazisti.

Quindici giorni prima, nel suo bar, Guareschi aveva fissato negli occhi il capomastro Pirén e non si capiva cosa fosse quel sorriso che gl to i baffi. Gli aveva det-to di scavargli, dopo morto, una buca profonda. Poi di pren-dere una benna di ter-ra sul greto del Po e coprirlo, che per ripo-sare bene, il corpo de-ve stare a contatto con la terra fresca in una buca profonda, senza mattoni, marmo o al-tre porcherie del ge-nere.

Giunsero messaggi di cordoglio dall'Italia. Moltissimi dall'estero. Erano della gente co-mune e semplice alla quale Guareschi ave-va donato se stesso. Nessun messaggio giunse dalle ' autorità di governo. La televi-sione di Stato, a quei tempi sola e incontrol-lata. O meglio troppo controllata, liquidò in pochi secondi, ma proprio in pochi se-condi, la milizia e il riassunto lampo della vita di Guareschi in giornalismo e lettera-tura. I giornali di regi-me buttarono la noti-zia nelle pagine inter-ne. Titolarono con un certo sforzo: Un uomo solo fu tutto ciò che seppe inventare il

Corriere della Sera. «È morto lo scritto-re che non era mai sorto'', sfotté /U-nità. La politica e cultura ufficiali del-l'Italia di allora ebbero una gran fretta di seppellirlo. Dì non sentirne mai piú parlare. Di toglierselo dai piedi, che il suo fantasma, nemmeno quello, tor-nasse mai più. Baldassarre Molossi, l'amico direttore della Gazzetta di Parma, a denti stretti dovette scrivere «Italia Meschina»: «L'Italia ufficiale meschina e vile, l'Italia provvisoria co-me lo stesso Guareschi con amara in-tuizione la definì nel 4 luglio '47, ci ha fornito ieri l' es atta misura del limite e-stremo della sua insensibilità morale,

o

della sua pochezza spirituale...L'ab-biamo capito ieri, mentre ci contava-mo tra noi vecchi amici degli anni di gioventù e qualche giornalista, sulle dita delle due mani. Ma la gente della Bassa, chiusa nel suo dolore, vestita di nero, muta sotto la pioggiabattente, e-ra accorsa in massa. Guareschi sape-va parlare agli animi semplici. Il suo messaggio, ignorato e rifiutato dagli Intellettuali, è stato perfettamente compreso dalla gente comune. Gli al-tri, che contano?».

cielo era a teloni grigi e bassi. A tratti pioveva. A tratti correva il vento.

signora Ennia salutò il feretro del

9 marito sulla soglia di casa. Non ebbe la forza per seguire il corteo. Sarebbe caduta a terra dopo pochi passi, lo sa-peva. Il corteo si mosse alle 10. Lo pre-cedette il gonfalone di Busseto che la giunta comunale di allora, tutta rima-sta al completo in ferie, si degnò di mandare. La bara fu portata a spalle da Albertino, dal marito di Carlotta, dagli amici delle Roncole.

La gente s'incamminò dietro il fere-tro. Ora aprendO, ora richiudendo gli ombrelli. C'erano i chierichetti. 'bim-bi delle scuole. Il parroco di Roncole, don Adolfo Rossi, che salmodiava. E solo due corone di fiori. Niente musi-

ca. La sirena d'una fornace soffiò forte tre volte unendosi allo scalpiccio dei passi della gente. I tre sibili s'allarga-rano nella Bassa e gli operai, nelle lo-ro tute di lavoro, stavano in piedi si-lenziosi accanto ai finestroni. A Gua-reschi sarebbe piaciuto.

Prima d'officiare il rito funebre, don Rossi, il parroco, si piantò davanti al-l'altare tenendo tra le mani un libro di Guareschi. Ne lesse un brano e la vo-ce, bassa, rotolò come un tuono che s'avvicina.

«Così scrisse una volta: adesso vi racconto tutto di me: ho l'età di chi è nato nel 1908, conduco una vita molto semplice, non mi piace viaggiare, non pratico nessuno sport, non credo in tante fantasticherie, Ma in compenso credo in Dio».

Dopo la messa in latino la bara fu portata nel cimiterino di Roncole. Era stata scavata una fossa sulla sinistra, subito vicino al cancello d'entrata. Ed era stata portata una benna di terra presa dal greto del grande fiume. La bara fu calata molto in fondo, nella terra viva. Pirén, il capomastro, gettò la prinaa palata. Come a un segnale la gente cominciò lentamente ad allon-tanarsi per lasciare accanto alla tom-ba solo i parenti più stretti.

cielo s'era fatto più basso. Fuori, nel mondo, la gente continuava le va-canze e i carri armati russi stavano per piombare su Praga. Insomma, tutto, come prima. A parte Roncole. Più vuoto, senza i baffi di Guareschi ad affacciarsi ogni tanto nel ristoran-te o a forare le nebbie, nascosti tra le pieghe d'un. tabarro tirato fino al na-so. •

E sapevo d'essere proprio fuori dal mondo. Eppure mi pareva di udir Guareschi parlare da una delle sue storie: «Tutto bene— diceva— perché è l'ampio, eterno respiro del fiume che pulisce l'aria. Del fiume placido e maestoso sull'argine del quale, verso sera, p assa rapida la Morte in biciclet-ta. O passi tu sull'argine di notte e ti fermi e ti metti a sedere e guardi den-tro un piccolo cimitero che è lì, sotto l'argine. E se l'ombra d'un morto vie-ne a sedersi vicino a te, tu non ti spa-venti e parli tranquillo con lei».

Sì. (45 —Fine)

i tremava sot-

lwarllanc e morto, a SUI Bassa,

La

Giovanni Guareschi Mori all'improvviso una mattina d'estate, il 22 luglio 1968. Per la sua scomparsa giunsero moltissimi messaggi di cordoglio dall'Italia e dall'estero, la stampa di regime liquidò la notizia in poche righe. La gente della Bassa accorse in folla al suo funerale. (Foto: Olympia)

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Giovannino Guareschi e la casa dov'è nato a Fontanelle di Roccabianca.

ROCCAMANCA Il sindaco: «L'idea va valutata attentamente». Giovannino farà ancora discutere

gglr'i Alano il borgo a Guareschi» Il Msi-An propone di aggiungere il nome dello scrittore a quello di Fontanelle

ROCCABIANCA — Fon-tanelle Guareschi: così il Msi-An parmense-vorrebbe ribattezzare Fontanelle di Roccabianca, la frazione dove, il 1° maggio 1908, nacque il celebre Giovan-nino, autore della saga di Peppone e Don Camillo.

L'idea è stata lanciata dal commissario federale della Fiamma di Parma, Manlio Molinari, in una lettera indirizzata al sin-daco di Roccabianca Fran-co Tedeschi, eletto nella li-sta Dc: «Tale proposta — scrive Molinari — reputia-mo possa trovare ~corde non solo Lei, la Sua po-polazione, la Sua Giunta, tutti gli estimatoni di Gua-reschi, i circoli culturali che ad esso si ispirano (Cir-colo "G.Guareschi", Club dei 23, Amici di Guareschi etc.) e la stupenda gente della nostra Bassa, ma an-che coloro che hanno in passato combattuto con squallida volgarità il can-tore del "mondo piccolo" ed ora, in clima di completa revisione culturale, stanno apprezzando le sue opere e la sua filosofia, che si rifà a quei principi intramonta-

rispetto della Patria, della famiglia e di Dio».

Ma se il commissario del Msi-An si dice sicuro di in-contrare il plausi) generale intorno al nuovo nome, il sindaco Tedeschi lo è molto meno: «Non ho ancora avu-to modo di esaminare la lettera — ha risposto in proposito —ma sicuramen-te questa vicenda ha delle implicazioni politiche: le associazioni intitolate a Guareschi non rappresen-tano l'intera popolazione di Roccabianca». Insomma, non è affatto detto che la «revisione culturale» sul conto di Guareschi sia così completa e unanime, e tan-tomeno che la proposta tro-vi tutti entusiasti. Anzi, la vicenda sembra di quelle destinate a scatenare un caso politico e a dividere la gente della Bassa generan-do decine di Peppone e Don Camillo. Al di là delle doti letterarie dello scrittore, infatti, è in questione la controversa figura intellet-tuale di quell'inafferrabile Giovannino, accusato di essere reazionario da sini-stra e di eccessivo anticon-formismo da destra, e bol-

vente anti-comunismo che per le sue scelte politiche senza quartiere. Così, sul nuovo nome di Fontanelle, l'intera polemica potrebbe tornare a infiammare gli animi dei sostenitori e dei detrattori di Guareschi. E questi ultimi, in particola-re, di sicuro saranno rin-focolati dal fatto che la pro-posta sia nata al chiarore della Fiamma.

Nella lettera al sindaco di Roccabianca, comun-_

Msi-Dn Manlio Molinari glissa sulla questione, sot-tolineando l'assoluta «ov-vietà» della proposta: «al-tri centri italiani ed anche stranieri, per onorare la memoria dei propri figli più illustri hanno voluto ab-binare la denominazione del centro stesso al nome del personaggio che in quella terra ha avuto i na-tali. Basti pensare, tanto per citare alcuni esempi a noi vicini: Roncole Verdi, _ _ _

re del Lago Puccini, Sasso Marconi ecc». Insomma, Guareschi e l'inventore della radio meritano alme-no lo stesso trattamento: tutti e due famosi e dunque da consacrare nel nome del borgo natio. «Fontanelle Guareschi — prosegue la lettera — dunque, paese natale dello scrittore, de-lizioso centro padano ad un tiro di schioppo dal "gran-de fiume", perla di quel "mondo piccolo" nel quale _ . . _ . .

castonò i suoi intramon-tabili personaggi, dove esi-ste ancora la casa del 'pa-pà" di Peppone e Don Ca-millo, potrebbe veramente divenire una realtà». . A questo scopo, dice Molina-ri, sedi e uomini del partito sono a disposizione «sia in sede locale che centrale» per abbattere eventuali steccati burocratici.

Ma gli «steccati» che se-parano Fontanelle di Roc-cabianca da Fontanelle Guareschi sono tutt'altro che burocratici: ora la pa-rola passa all'amministra-zione comunale ed ai con-cittadini di Giovannino.

«L'eventuale proposta di cambiamento del nome di Fontanelle - precisa per il momento il sindaco Franco Tedeschi - deve essere for-malizzata e comporta una lunga serie di adempimen-ti. L'idea va verificata in-nanzitutto in Giunta e poi eventualmente in Consi-glio comunale come atto politico». Ci sarà prima da discutere molto, dunque, e il sindaco premette: tutti dovranno poter dire la pro-pria attraverso apposite consultazioni.

l'aula ~unti bili e inviolabili nel pieno lato tanto per il suo fer- que, commissario del I Lalatta del Cardinale, 1or- I Giovannino Guareschi in-