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GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI
RASSEGNA STAMPA
Anno 6°, n..7 - Luglio 2013
Sommario:
Nascita di una nazione. al Metropolitan di New York... ....................(pag. 2)
L'altalena del fotogiornalismo...........................................................(pag. 4)
Basilico, spazi vuoti in cerca di umanità............................................(pag. 8)
L'anti-paparazzo...............................................................................(pag. 9)
Il tempo infinito dell'arte..................................................................(pag. 12)
Come sintonizzarsi su una fotografia................................................(pag. 14)
Israëlis Bidermanas, il grande maestro della fotografia... ...............(pag. 18)
Se non si vede non si va....................................................................(pag. 20)
Phil Stern - Sicily 1943 .....................................................................(pag. 22)
A spasso per Googlezia.....................................................................(pag. 24)
Spilimbergo Fotografia 2013.............................................................(pag. 27)
Le immagini non sono tutte uguali....................................................(pag. 33)
Faingenbaum a Villa Medici. Le foto..................................................(pag. 34)
Markus Reugels, scatti d'acqua... ...................................................(pag. 36)
Willy Ronis, il reporter della quotidianità..........................................(pag. 37)
H. Cartier Bresson.Il maestro della fotografia in mostra a Lucca......(pag. 40)
Jerry Uelsmann, il maestro che ha rivoluzionato il linguaggio... ....(pag. 42)
Gabriele prima di Basilico.................................................................(pag. 44)
Peter Keetman, maestro della fotografia soggettiva.........................(pag. 46)
Fotografate, fotografate: ma poi cosa resterà? ................................(pag. 48)
Mimmo Jodice, il maestro della sperimentazione..............................(pag. 49)
...........................
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Nascita di una nazione. Al Metropolitan di New York le
fotografie della guerra di secessione americana
di Marcello Barison da http://www.ilfattoquotidiano.it
“Confesso che, quando considero lo stato del Sud, scopro per la razza bianca
che lo abita due sole maniere di agire: o liberare i neri e fonderli con se stessa,
o restare isolata da essi e tenerli più tempo possibile nella schiavitù. I mezzi
termini mi sembrano portare prima o poi alla più orribile delle guerre
civili [...]”. Così Tocqueville, nella famosa opera su La democrazia in
America. Parole profetiche, le sue. Anticipano infatti di oltre un ventennio
la Guerra di secessione che vide contrapporsi abolizionisti e schiavisti: da un
lato l’Unione del Nord, le ‘giacche blu’ capeggiate dal generale Ulysses
Grant ‒ ma anzitutto da Abraham Lincoln ‒, dall’altro gli Stati Confederati del
Sud, i Dixies presieduti da Jefferson Davis.
Proprio in questi mesi il Metropolitan di New York dedica un’importante
retrospettiva al massiccio impiego della fotografia durante la Guerra civile
del 1861-’65. È iniziativa tutt’altro che antiquaria, che aggira anzi con
intelligenza ogni semplice intento ricostruttivo. A tema non è tanto una più
accurata rappresentazione del conflitto, ma il rapporto stesso tra immagine
ed esperienza storica, come sia possibile, dunque, costruire in termini
mediali la percezione collettiva di un evento ‒ e così la sua impronta
memoriale.
Quella di secessione fu infatti guerra a tutti gli effetti moderna: oltre all’elevato
numero di vittime (circa 700.000, secondo stime accreditate) e al dispiego di
avanzatissime tecnologie militari (che anticiparono palesemente quelle poi
impiegate nella Grande Guerra), si trattò altresì del primo conflitto ad
essere documentato in presa diretta. È il primo, cioè, di cui si
possegganoimmagini autentiche ‒ le quali, catturate dall’iride dei
protagonisti, non attenuano ‒ ma riportano con fedeltà ‒ l’efferatezza del
campo di battaglia.
Moltissime le firme di quei pioneristici reportage. A cominciare da Alexander
Gardner e Mathew Brady, eminenze grigie della fotografia dell’epoca, i cui
lavori già pronosticano il grande Robert Capa. O Henry P. Moore il quale, con
tocco faulkneriano, racconta la vita degli schiavi nel profondo Sud. C’è spazio
inoltre per una composizione in posa di John Reekie ‒ A Burial Party (Party
funebre)‒ dall’ambiente surrealmente macabro, tra Ensor e Otto Dix: quattro
braccianti afroamericani apprestano le fosse, mentre un quinto, in primo piano,
regge una barella ricoperta da teschi e cadaveri scarnificati.
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Ma lo scatto più rappresentativo è senz’altro A Heravest of Death ‒ Messe di
morte. Opera di Timothy O’Sullivan, condensa in sé tutto l’orrore della
guerra: quasi fossero carcasse d’animale, i corpi riversi dei soldati si perdono
a ridosso d’orizzonte, dove si stempera, offuscato, un cavallo che ricorda Zoran
Mušič. La violenza dissemina i suoi morti, recisi come il grano dalla falce. È ciò
che resta dopo lo scontro di Gettysburg, tra i più feroci dell’intero conflitto,
che vide le truppe secessioniste battere per la prima volta in ritirata. “Credevo
che i miei uomini fossero invincibili” ‒ commentò, punto sul vivo, il leggendario
generale Lee.
La foto venne inclusa nel Photographic Sketch Book of the War di Alexander
Gardner, che così glossava: “questa foto è portatrice di una morale assai
propizia: mostra l’assoluta atrocità e realtà della guerra di contro alla
sua celebrazione retorica. Qui emergono i dettagli più terrificanti! C’è da
augurarsi possano servire per evitare che una stessa calamità colpisca di
nuovo la nazione”. Parole che risuonano nel vuoto, almeno a giudicare da
quanto che ne è seguito ‒ non ultimo l’impegno statunitense sui teatri
della ‒ presunta ‒ guerra al terrorismo ‘globale’.
Tornando alla mostra, sempre a Gardner dobbiamo alcuni tra gli scatti più
incisivi, come quelli che immortalano le rovine dei Gallego Flour Mills di
Richmond, allora capitale degli Stati Confederati, abbandonata quando ormai
perduta. Come i russi incendiarono Mosca per vanificare l’occupazione
napoleonica, così i Sudisti rasero al suolo i maggiori insediamenti produttivi,
per renderli inutilizzabili alle incombenti armate federali. Gardner ritrasse gli
esoscheletri degli edifici demoliti, spettrali come sarebbero state, esattamente
ottant’anni dopo, le rovine di Dresda o Berlino subissate dai bombardamenti
alleati.
Ma non è questo l’unico preludio alla barbarie ‒ e al suo infaticabile ripetersi.
Mortifica lo sguardo il corpo, macilento, di un prigioniero del carcere di
Andersonville, famigerato per le condizioni inumane e le abominevoli
torture perpetrate ai reclusi. Impossibile non porre mente agliinternati
dei Lager nazifascisti e alle cavie dei medici della morte. Vale forse la
pena riportare le impressioni di Walt Whitman che vide sfilare i detenuti
appena rilasciati. Per unmacabro ricorso della storia, sembra, il suo, un
ritratto dei reduci dai campi di sterminio: “La vista è ben peggiore di quella
di qualsivoglia campo di battaglia o di qualsiasi gruppo di feriti, per quanto
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sanguinanti [...] Sono uomini questi ‒ che sembrano scimmie rachitiche,
piccole e livide, cosparse di cenere e dalla pelle bruna? Non sono piuttosto
cadaveri mummificati e in deperimento? [...] Non c’è forse spettacolo più
spaventoso che sia stato visto su questa terra. (Ci sono crimini e azioni che
possono essere dimenticati, ma tutto questo non appartiene al novero).” Ecco
allora che, dopo Auschwitz, il pensiero corre a Guantanamo o alle sevizie
di Abu Ghraib. E vige la cronica, sconfortante constatazione per cui “chi non
conosce la storia è costretto a ripeterla”. O ‒ forse è peggio ‒ ad infliggerla. Commenti (34)
Più informazioni su: Fotografia, Guerra, Secessione, Usa.
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L’altalena del fotogiornalismo
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
“La pubblicazione di immagini realizzate da fotografi spontanei è la tendenza
del futuro”.
Suscitando qualche sorpresa, è un’agenzia di stampa a scriverlo, e anche
una delle più potenti: l’Associated Press.
Forse è una resa. Si prende ormai attodi una tendenza inarrestabile. I
fotografi professionisti grideranno al tradimento?
Del resto, così ormai vanno le cose: negli ultimi mesi ben due grandi testate
giornalistiche americane hanno aperto le loro pagine alle fotografie dei lettori,
scattate e spedite dai teatri di guerra del mondo intero.
Una testata britannica ha perfino messo in palio un premio
scandalosamente sostanzioso, 250 mila sterline, per la migliore foto
“spontanea” pervenuta.
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Imprecheranno anche i fotografi professionisti che mi leggono. Maledetti
smartphone, maledetta Internet, disgraziati i giornali che pubblicano certa
robaccia pur di non pagare il lavoro dei professionisti.
Può darsi che abbiano ragione. Ma sappiano che le loro maledizioni devono
avere una validità molto retroattiva.
Le notizie contenute nei primi cinque paragrafi di questo articolo, infatti,
sono vere (le copio dall’interessantissimo Private Pictures di Janina Struck), ma
risalgono a quasi un secolo fa.
Era i 1915, e i giornali erano decisamente insoddisfatti dal materiale
fotografico che arrivava nelle redazioni. Da circa un ventennio, con i progressi
delle tecniche di traduzione fotomeccanica, era possibile stampare fotografie
invece di farle ridisegnare a mano dagli incisori, ma non pochi direttori
rimpiangevano la teatralità, l’impatto, la narratività di quelle vecchie immagini
pittografiche, di fronte alla insignificanza, alla noia e spesso
all’incomprensibilità delle fotografie rilasciate dai fotografi ufficiali dell’esercito.
Che erano professionisti rifiniti in verità, arruolati e spediti sui campi di
battaglia. Ma la loro visione della guerra era quella che veniva imposta loro dai
comandi militari dell’esercito di cui vestivano le mostrine. Erano fotografie
controllate, frenate, reticenti e mute.
Per questo, e nel libro della Struck troverere decine di esempi e immagini, i
giornali, sfidando censure e divieti, cominciarono a pubblicare le foto
clandestine dei fotografanti in divisa, ufficiali e fanti, fotoamatori e dilettanti ai
quali la Kodak vendeva a carrettate le sue nuove folding economiche e facili
da usare.
Nelle trincee del ‘15-18 ce n’erano più di quante riusciamo oggi a
immaginare, fatte le debite proporzioni era un fenomeno che stupiva i
contemporanei come stupisce noi l’esplosione odierna dei fotocellulari.
Questi fotografanti vedevano un’altra guerra, quella del fango e del sangue,
la loro guerra, forse non vera neanche quella, ma non così sterilizzata e finta
come l’altra. La fotografavano epr sé. Poi i giornali se ne accorsero, e volelro
quelle immagini.
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Poi che accadde? Che qualcuno inventò il fotogiornalismo moderno. Che un
piccolo numero di fotografi di talento fece capire che per far saltare il lettore
sulla sedia, per farlo emozionare e ragionare, per trasmettergli la “sensazione
di essere lì” non bastava, quella sensazione, averla provata come testimoni
diretti, avere avuto in tasca un apparecchio fotografico e avere premuto un
bottone.
Le emozioni, quando vengono comunicate, diventano informazioni.
Letteralmente: immagini messe “in forma”, che “formano” una impressione in
chi le guarda. E questo lo sa fare chi lo sa fare. Un giornalista. Quei giornalisti
con fotocamera riuscirono a convincere i giornali che è proprio così.
E i giornali cominciarono a comprare, prima, poi a pagare e a mandare in
giro, i loro fotografi esclusivi; e questi, anche quando vestivano la divisa,
fotografarono quel che vedevano e non quel che c’era scritto nei bollettini dei
comandi. La Seconda Guerra Mondiale fu fotografata come nessun’altra mai
prima da quei fotografi coraggiosi e spregiudicati.
Cosa sto cercando di dire? Che rimpiagere mitiche età dell’oro è una
consolazione vuota, che le sciagurate tendenze che si vogliono attribuire a
un’invenzione del presente forse sono già state vere nel passato, che la storia
non è un piano inclinato ma un’altalena.
Insomma che i fotografi professionali, compresi gli amici con cui mi è
appena capitato di incrociare i commenti su Facebook, quelli che maledicono
quest’epoca in cui i giornalisti cattivi e tirchi delle redazioni faranno a meno
delle loro splendide foto per pura incompetenza o malafede, e le sostituiscono
con le schifezze dei lettori, forse dovrebbero rileggere un po’ meglio la storia
del loro mestiere.
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Scoprirebbero, appunto, che quella tendenza è stata una tentazione
ricorrente (gli esempi sarebbero molti, ancora), ma che il fotogiornalismo
d’autore è già riuscito più d’una volta a invertirla, inventando se stesso,
inventando qualcosa che i media non potessero ignorare, perché era
l’ingrediente necessario di un prodotto migliore degli altri.
Attenzione allora. La storia rischia di ripetersi. Di nuovo il mondo dei
media può essere indotto a pensare che le fotografie che arrivano dai canali
abituali (e oggi quei canali abituali siete voi, sono le agenzie) non siano più
così interessanti, non facciano la differenza, non valgano la spesa.
Del resto, una lunga stagione di censure politiche e militari, di
fotografi embedded, di fotografie controllate e filtrate, non ha certo aiutato. Le
new war sono state di fatto infotografabili nello stile del fotoreportage
tradizionale. Per quali immagini, in fondo, ricordiamo la guerra in Iraq? Per le
tremende foto-torture dei secondini di Abu Ghraib. Siamo sinceri.
Tutta colpa delle censure? Proviamo a riflettere con un po’ di onestà. Il
fotogiornalismo ha inventato qualcosa di nuovo nell’ultimo ventennio?
Non voglio equivoci. Guai a negare il coraggio e il sacrificio di tanti reporter
che hanno rischiato e a volte perso la vita per portare i nostri occhi dove non
andrebbero mai da soli. Ma il prezzo del buon fotogiornalismo non può essere
questo.
Ma bisogna chiedersi se non c’è stata anche un’inerzia professionale, una
bonaccia di idee. Quanta ripetitività, quanti schemi un po’ troppo facili per fare
un servizio dal fronte (i ritratti dei soldati, i ritratti delle mamme dei soldati con
in mano la foto dei figli morti…) abbiamo visto e rivisto in questi anni?
E quanta disperata ricerca del colpo grosso, della foto da premio, quanti
affollamenti di fotografi sullatop-story dell’anno, sulle tragedie da prima
pagina, che poi portano a casa reportage magari belli, sudati e coraggiosi, ma
sovrapponibili? Quante corse in massa sui teatri del “disastro da premio”, a
scapito della ricerca lunga, del servizio che scava dietro gli eventi e va a
cercare quelli fuori dall’occhio dei media?
Certo, lo capisco: proprio perché sono “fuori dall’occhio dei media”, quei
reportage rischiano di restare invenduti. Ma quanti reportage da Gaza possono
essere venduti contemporaneamente sul mercato mondiale dei media? Cinque?
Dieci? venti? E quanti fotoreporter invece sono andati contemporaneamente a
Gaza a scattare, anche bene, anche professionalmente, anche
coraggiosamente, più o meno le stesse foto?
Capisco bene. Con il lavoro lungo non si mangia, non ci si pagano le
spese, il colpo grosso è la condizione per fare un mestiere precarizzato e senza
paracadute dovo infierisce il darwinismo spietato del mercato. È un mestiere
bellissimo e tanti lo vogliono fare, ma ci sarà posto per tutti? E ci saranno idee
originali per tutti?
Fate un un lavoro importante, cari amici e colleghi della lente, necessario,
indispensabile per la democrazia dell’informazione. Lo so e non ho mai detto il
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contrario. Ma non sempre basta. Avere coraggio, curiosità, competenza tecnica
e un bello stile, anche quando queste qualità sono vere e non un po’
presupposte, non basta: bisogna chiedersi se il prodotto giornalistico che si fa
è così unico e nuovo che non possa essere ignorato dalle abitudi inerziali delle
redazioni, sostituito, scavalcato dalla presunta “immediatezza” delle fotografie
casuali.
In altre epoche la risposta e stata sì. La vostra risposta di oggi?
Tag: Associated Press, fotogiornalismo, Janina Struck, Kodak
Scritto in fotogiornalismo, massificazione | 42
Basilico, spazi vuoti in cerca di umanità
di Marco Vallora da http://www.lastampa.it
Dalla serie «Dancing in Emilia», 1978
Già il viaggio di accostamento (o avviamento?) dal centro di Milano alla mostra
di omaggio, a tre mesi dalla scomparsa, Gabriele Basilico, nel primo museo di fotografia italiano a Cinisello Balsamo, è «puro» stile-Basilico: tram
neorealisticI, la nuova linea 5 del metrò, viali post-industriali di grattacieli
sbrecciati, segnaletiche incongrue). Nel museo di Villa Ghirlanda, una parete di volti anonimi o amici, infilzati da Jochen Gerz, c’è anche lui, che ci assiste,
protettivo e come rassegnato a questa precoce latitanza: barbosamente melanconico. Ben vengano queste incursioni parziali, in questo caso a scelta di
Roberta Valtorta, entro il fondo del museo (dunque a partire da sue stesse illuminanti donazioni) che permettono di rimescolare un poco le idee ricevute.
Non c’è soltanto, infatti, il Basilico prevedibile e «classico» della campagna
Datar nei porti di Francia, o nell’algida periferia antonioniana di Milano, dopo la «lezione» sessantottina di Aldo Rossi, a un giovane architetto ribelle, anche
alla professione. Ma che architetto rimane, nella sua nuova inventata professione, «costruttiva» comunque di paesaggi. Sempre alla ricerca di una
«misura» umana, affabile, per comunicare lo spazio abitato, anche se ventosamente sgombro, svuotato, per teatralizzare «i luoghi affettivi-urbani»
della città amata.
«Armonico benessere di comprensione», in cui il «narcisismo» dell’io artistico-
fotografico si fa piccolo, piccolo, lezione dei coniugi Becher, sino a smaterializzarsi ( in uno di questi scatti s’intravede come un involontario
congedo simbolico dalla fotografia umanistico-neorealista, dei maestri mai rinnegati, alla Berengo Gardin, un vecchio sbraitante, formicuzza urbana
perduta, che avanza brandendo il suo loquace bastone, da Uccellini,
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Uccellacci). Infatti, c’è anche il «primo», talvolta insospettato Basilico, quello
«polemico» e sarcastico: quando per esempio documenta l’effetto corporeo del design milanese, sulla pelle stessa delle «vittime»: striature Mangiarotti o bolle
Magistretti, indelebili «ferite», risibili, del nudo funzionalismo architettonico, insensibile alla comodità.
Ma non è possibile dimenticare anche il breve incontro tangenziale con l’epopea celatiana del Viaggio in Italia di Ghirri, in cui anche lui esplora la
«ricca povertà» consumistica degl’interni piccolo-borghesi, alla Diane Arbus, o le arzigogolate piroette barocche delle balere vernacolari-emiliane. La
differenza fondamentale con Ghirri, è che se questi canta la desolazione brulla degli oggetti plastificati del Moderno, anche quando si addentra negli inferni
periferici, Basilico esalta comunque lo stratificato aggregarsi degli insiemi. La corale assoluzione dell’umano vivente, che può filtrare anche attraverso
l’addensarsi pigro delle molli amache dei fili di elettricità e telefoni, mai evitati, perchè carichi comunque di bisbigli, conciliaboli, affettività, segreti bonari e
bonariamente riscattati.
OMAGGIO A GABRIELE BASILICO CINISELLO BALSAMO - MUSEO DI FOTOGRAFIA CONTEMPORANEA
FINO AL 6 OTTOBRE
L’anti-paparazzo
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Sandro Becchetti, Pier Paolo Pasolini, 1971, © Sandro Becchetti, g.c.
A Gore Vidal non piacquero le foto di Sandro Becchetti, e allora gli sfuggì
«un’offesa per me imperdonabile: paparazzo».
Nel ritratto, riflesso nello specchio, di fianco a un leone di giada e
pietrificato come quello, lo scrittore americano appare proprio come Becchetti
lo descrive: «insopportabile, tutto proiettato sulla propria immagine di star
hollywoodiana che non era. Occhio per occhio, dente per dente».
Nel rapporto fra un fotografo che non sia un puro funzionario dell’obiettivo
e il suo soggetto ci sta anche questo, il dispetto e il contro-dispetto. Del resto,
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fu proprio Gore Vidal a forgiare l’aforisma del rapporto ambiguo fra celebrità e
fotografi: “È terribile quando non la smettono di fotografarti. Ma quando
smettono è ancora peggio”.
Non è detto che un ritratto fotografico sia sempre «il silenzio interiore di
una vittima consenziente»: per Cartier-Bresson, forse. Per Becchetti era un
incontro che non escludeva lo scontro, era una relazione tra umani, a volte
superficiale, a volte entusiasmante e rivelatrice, sempre carica di emozione.
Insomma Vidal aveva proprio sbagliato bersaglio. Quella che si
può vedere alla Galleria Nazionale di Perugia, nella terra dei suoi avi, e che la
sorte ha voluto fosse la sua prima mostra antologica postuma (Becchetti è
mancato il 5 giugno scorso, a 78 anni), è la storia di un anti-paparazzo
assoluto.
I ritratti dei suoi “protagonisti”, centinaia di grandi della cultura e dell’arte
passati per decenni davanti alla lente delle sue fotocamere e poi sulle pagine di
mezzo mondo, Repubblica inclusa, quei ritratti non sono rubati, neppure
“presi”, sono intagliati con la ruvida rapida precisione di uno scultore del legno:
che era poi il suo mestiere di vocazione, lo testimoniano i mobili costruiti per il
suo eremo di Lugnano in Taverna: «Ho qualche dubbio sulla mia abilità di
fotografo ma nessuno su quella di falegname».
Però la grande bellezza di Roma, «caput mundi retorica e goduriosa», lo
aveva catturato giovane, e il regalo di una macchina fotografica lo aveva
indotto a farle il ritratto «ciottolo per ciottolo».
Sandro Becchetti, Dustin Hoffman, 1971, © Sandro Becchetti, g.c.
Solo che era ormai la fine degli anni Sessanta, e i ciottoli tendevano a
volare nel cielo, sopra i cortei studenteschi, e Becchetti era dalla loro parte,
anche se mancò il colpo più grosso: «Ma no», disse a un compagno-collega, «a
Valle Giulia non ci vengo, tanto non succede nulla». Se lo sarebbe ricordato
anni dopo, facendo il ritratto a Pasolini, «occhi gelidi sguardo tagliente», con Le
ceneri di Gramsci in mano, forse la sua foto più famosa.
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Era insomma sulla strada del reportage militante, ma qualcosa lo
deragliò: il servizio sui funerali di Piazza Fontana. Il disgusto per un paese
«assuefatto a conciliare cibo e sangue davanti al televisore», l’amara
constatazione che le fotografie «non riuscivano a spostare di un’acca la paura e
l’indifferenza», e allora «nel profondo cessai di essere fotografo e diventai
ritrattista».
Glielo consentì un incontro fortunato, con Pasquale Prunas, capo della
terza pagina delMessaggero, che non esitò a mettergli a disposizione anche un
quarto, di quella pagina, per un ritratto che stesse su un piede di parità con
l’intervista al personaggio.
E Becchetti s’inventò il suo stile speciale, fatto di vuoti, di grigi sfumati,
uno stile tutto in sottrarre, da artista, a dispetto del grossolano retino
tipografico dei quotidiani di allora.
E dire che Becchetti, alla storia del ritratto “specchio dell’anima” eccetera,
mica ci credeva. Lo considerava «un inganno mediocre: non condensa mai una
vita, i segni di una faccia dissimulano più che rivelare».
Difficile credergli fino in fondo. Neppure i suoi soggetti ci credevano. Rafael
Alberti si rivide nei suoi scatti come «maschera funebre della Repubblica
spagnola». Vidal fu un’eccezione: i fotografati si scioglievano di fronte a quel
fotografo barbuto e chiacchierone, con tre fotocamere a tracolla, inclusa una
Leica bistrattata, il mitico coperchietto d’alluminio legato con lo spago per non
perderlo.
Carmelo Bene improvvisò per lui una danza col coltello, Francesco De
Gregori gli cantò Bob Dylan, Alan Resnais gli fece confessioni imbarazzanti: «In
fondo ho fatto sempre lo stesso film…». Li conquistava perché un po’
personalità era anche lui, nella vita scrisse poesie e racconti (uno pubblicato da
Attilio Bertolucci su Nuovi Argomenti), e snche soggetti per la tivù.
Sandro Becchetti, Alfred Hitchcock, 1972, © Sandro Becchetti, g.c.
A volte la chimica dell’incontro non riusciva, magari per una gaffe, come
con Ornella Vanoni («Buongiorno, mi annuncia alla signora?», «Sono io la
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signora»), o con Tino Buazzelli («Nero Wolfe?», «Piccolo di Milano. Si accomodi
alla porta, grazie»).
Ma la foto riusciva sempre, e c’era dentro quell’«inganno del vero» che
doveva esserci, ossia il suo giudizio, le sue simpatie e antipatie esplicite e
perfino sfrontate: uno strepitoso Dustin Hoffman epoca Uomo da
marciapiede solitario in un corridoio d’albergo, lo sbadiglio di Alfred Hitchcock
annoiato dall’intervistatore, il «tanfo di cavoli» della casa di Julius Evola che
sembra davvero di annusare, un Giulio Andreotti Nosferatu che ghermisce
dall’alto una platea.
Innamorato di Berlinguer, disgustato dai craxiani anni Ottanta, per un
quindicennio Becchetti non fotografò più: intagliò figurine di legno che poi
dipingeva.
Quando ricominciò, fu ancora Roma a sedurlo: si appostava in un angolo di
Campo de’ Fiori, «trincerato come un cecchino austriaco», a caccia della
«zoologia umana» sempre diversa che pascolava sotto lo sguardo di bronzo di
Giordano Bruno.
Ritratti di nessuno e di tutti, scattati finalmente in libertà, «unico
committente l’esiguo tempo che mi rimane».
Tag: Alain resnais, Alfred Hitchcock, Bob Dylan, Carmelo Bene, Dustin Hoffman, Francesco De
Gregori,Giulio Andreotti, Gore Vidal, Lulius Evola, Nero Wolfe, Ornella Vanoni, Pasquale Prunas, Pier
Paolo Pasolini, Rafael Alberti, Sandro Becchetti, Tino Buazzelli
Scritto in Autori, ritratto | 3 Commenti »
Il tempo infinito dell'arte
Anna Li Vigni da http://www.ilsole24ore.com/art/cultura
Non c'è domanda più urgente, per l'essere umano, di quella che interroga il
tempo e la sua natura. L'arte è capace, forse ancor più della filosofia, di
trovare sempre nuove domande su nuove idee di tempo. Dai dipinti di Giorgio
De Chirico, alla fotografia, arte temporale per eccellenza che – come nota
Roland Barthes – non dice nulla sull'oggetto rappresentato, ma dice molto sul
fatto che esso "è stato" e sul preciso momento in cui è stato. Fino
all'istallazione The Clock, di Christian Marclay, che ha vinto la 54ma edizione
della Biennale di Venezia: un filmato di 24 ore, nato dal montaggio di centinaia
di spezzoni di film famosi, in cui ogni minuto viene inquadrato un orologio che
indica l'ora, in perfetta sincronia con il tempo reale dello spettatore. Si tratta di
un grande omaggio al cinema, l'arte che più di ogni altra ha scardinato il
tempo, liberandolo, come afferma Gilles Deleuze, dalla mera narrazione per
restituirlo alla sua vera dimensione, quella interiore, quella infinitamente
estendibile della coscienza. I tanti orologi ironicamente inquadrati
nell'istallazione di Marclay perdono la loro consistenza cronografia per
13
assumere, in realtà, il valore degli «orologi molli» del dipinto La persistenza
della memoria (1931) di Salvador Dalì.
Lo splendido volume dell'Enciclopedia delle Arti contemporanee, curato da
Achille Bonito Oliva, e dedicato a Il tempo interiore, è un'articolata e filosofica
interrogazione sul tempo a partire dall'esperienza delle arti – Musica,
Architettura, Arti Visive, Cinema, New Media, Teatro, Fotografia, Letteratura –
che per natura loro sono «forme temporali» (Maurice Merleau-Ponty), perché
catturano il ritmo della Storia individuale e collettiva e lo trasformano, o lo
deformano, in qualcosa di diverso, di fondamentalmente interiore. Nel tempo
dell'arte le immagini non possono essere spiegate, acquistano un senso in virtù
della loro enigmaticità: «L'opera dell'artista – afferma Bonito Oliva – non è
regolata da un movimento tendente a un unico bersaglio, quello del significato,
ma si dischiude verso derive aperte. (…) L'opera d'arte corrisponde al puro
interrogare». L'arte contemporanea è dunque capace di capovolgere
letteralmente il tempo, di realizzare quella che Rella definisce, nella sua bella
introduzione ispirata all'estetica di Walter Benjamin, la «rottura del tempo
lineare» progressivo e unidirezionale: rottura dalla quale scaturisce un risveglio
improvviso della coscienza dello spettatore, lo choc di un'immagine che balena
improvvisa e, provenendo dal passato o dal futuro, è capace di liberare.
Come accade nella scena finale del romanzo di Don DeLillo, Cosmopolis, in cui
il video-orologio del protagonista rappresenta, con un anticipo di qualche
istante, la sua morte. O come avviene nella musica di Gérard Grisey, un autore
che riesce a "spazializzare" la melodia, contraddicendo l'idea che la musica sia
solo incarnazione di un tempo astratto senza luogo: nei suoi Quatre chantes
pour franchir le souil, infatti, egli materializza musicalmente la "soglia" che
determina il passaggio dalla vita alla morte. Nella megalopoli contemporanea,
poi, l'architettura è invitata, laddove possibile, a contrastare la grande fobia
che scaturisce dalla labirintica assenza di un centro: «in essa – così Hans
Sedlmayr – il tempo interiore del soggetto si incrocia e combina con ritmi
pubblici e privati modellandosi sulla metropoli; un tempo scandito da
accelerazioni, sospensioni, fughe in avanti e indietro». L'arte dei nuovi media,
infine, contrasta criticamente l'onnipotenza mediatica della postmodernità, che
dissolve il tempo in un eterno presente, inducendo una sorta di "cronofobia"
che azzera la profondità storica per ridurre la realtà a fittizio surrogato di un
vasto immaginario pubblicitario. Interrogarsi sul tempo è uno degli esercizi
filosofici più difficili. Forse, suggerisce DeLillo, l'uomo contemporaneo ha
bisogno di «una nuova teoria del tempo». O forse ha bisogno solo di tornare a
esperire dentro di sé – come ai tempi di Seneca e Agostino – le infinite forme
del tempo. In questo l'arte può aiutarlo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Enciclopedia delle Arti contemporanee. Il tempo interiore, a cura di Achille Bonito
Oliva, introduzione di Franco Rella, postfazione di A. B. Oliva, Electa,
pagg. 428, € 75,00
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TAG: Arte, Gérard Grisey, Walter Benjamin, Gilles Deleuze, Salvador Dalì, Hans Sedlmayr, Maurice Merleau-
Ponty,Giorgio De Chirico, Achille Bonito Oliva, Franco Rella, Roland Barthes, Christian Marclay
Come sintonizzarsi su una fotografia
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Fotografia e radio, simbiosi in immagine. Foto di Daniele Ferrini, g.c.
Sembrerebbe un dialogo impossibile. La radio non può mostrare una fotografia
(del resto, una fotografia non fa udire i suoni).
E invece le affinità elettive tra radio e fotografia sono molte e sorprendenti.
Fino a qualche anno fa c’erano solo esperimenti coraggiosi come, se non
ricordo male, una serie di trasmissioni sulla National Public Radio, l’emittente
pubblica degli Usa.
Ma adesso, basta qualche ricerca online per scioprire un’infinità di
programmi che trasmettono interviste, dibattiti, servizi e storie di fotografia.
Complice anche qualche sito Web collegato che recupera a volte quel che le
onde hertziane non possono trasportare.
Anche in Italia non mancano gli esempi intelligenti e curiosi. Tempo fa
Fotocrazia ebbe uno scambio di riflessioni con una web radio, Poliradio, e in
particolare con Daniele Ferrini, conduttore radiofonico e assieme appassionato
di fotografia, nella sua trasmissione pictures.of.you.
Ho pensato di cedergli la parola in Fotocrazia, chiedendogli di farci capire
come si “parla” la fotografia, come si discute di un’immagine che l’interlocutore
non vede, ma che magari ha già visto e conosce bene, e che deve richiamare
dalla memoria: ma come? Quali particolari, quale immagine mentale di una
foto famosa riemergono quando se ne parla senza vederla? Insomma, leggete
voi. Se l’argomento vi appassiona, ci risentiremo nei commenti.
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Daniele Ferrini a Poli.Radio. Foto di Sonia Orsucci, g.c.
La trasmissione sulla fotografia pictures.of.you nasce per una serie di
fortunate coincidenze, ma credo si possano trovare spunti e riflessioni
interessanti sul binomio immagini e radio. Sono un ascoltatore avido e negli
ultimi anni ho voluto provare a cimentarmi con il mezzo in modo attivo.
Dall’altra parte mi sono avvicinato al mondo della fotografia con l’esplosione
della tecnologia digitale, gestisco i rudimenti a livello amatoriale ma quello che
più mi ha colpito è come questo linguaggio permetta una visione privilegiata
della realtà.
C’è qualcosa che unisce radio e fotografia: entrambe mettono in
comunicazione il singolo con ciò che lo circonda, entrambe riescono in modo
complementare a creare relazioni. E allora nel mio piccolo ho pensato, perché
non donare occhi all’una e voce all’altra? Niente di così proibitivo, ho pensato.
Pensaci, di trasmissioni radiofoniche dedicate alla cucina non c’è penuria e
si accetta che il cibo e i vini vengano spogliati della loro fisicità, negando la
possibilità di esperirli con i sensi più adatti: vista, olfatto, tatto e gusto. Rimane
solo una eco di ricette e sensazioni. D’altra parte non mancano nell’etere
appuntamenti dedicati al cinema: qui l’udito e il suono ne escono vincitori, ma
che resta delle immagini? Eppure non sembra essere un problema.
Ma parlare di fotografia in radio sembra quasi un tabù: forse perché ci
vuole una padronanza dell’argomento, forse perché si pensa che la fotografia
debba essere muta così come i suoi autori, che non sono certo famosi per la
loro capacità dialettica. Forse perché non tutti hanno gli strumenti e
l’educazione di apprezzare scatti e immagini, e senza un riferimento visivo il
tutto diventa più difficile.
Sarà un mix di questi motivi, o scuse, è un fatto che di programmi
“radiografici” si hanno pochi esempi non solo in Italia ma nel mondo. Se
oltralpe la Radio France Culture può permettersi di dedicare speciali e dirette
da Arles (d’altra parte loro hanno un festival internazionalmente riconosciuto),
in Italia fino a qualche anno fa vigeva il diktat: “niente fotografia in radio,
perché le immagini non si vedono”… Così mi ha confessato un ospite che vive
di fotografia da anni e che ne divulga estetica e significato con passione e
forza.
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Fortuna che c’è Radio3 con Radio3 Suite, un calderone culturale che dedica
una rubrica alla fotografia e ai suoi protagonisti. In passato, sempre sulle
frequenze della terza rete, si poteva ascoltare Camera Chiara di Francesca
Vitale, ma anche qui si parla di un piccolo angolo all’interno di una
trasmissione. Siamo nella dimensione di piccole riserve indiane per i pochi
appassionati all’interno di programmi generici.
Daniele Ferrini e Sandro Iovine discutono l'interpretazione di "The Americans". Foto di Sonia Orsucci, g.c.
Eppure si tratta quasi di scoprire l’acqua calda: quale particolare limite
impedisce di parlare di immagini e del mondo ad esse collegato? A ben
pensarci la fotografia non è una mera ripresa di oggetti tridimensionali su una
superficie, non è solo creare forme e figure per una ricerca estetica
significante. È anche un modo diverso di conoscere e interpretare i fatti,
registrarli e condividerli per avvicinarsi alle persone in una forma comunicativa.
È un linguaggio e come tale ha tutto il diritto, e la dignità di essere
approfondito.
Nel mio approccio personale di investigare il mondo delle immagini con il
microfono, mi sono calato nei panni di un ascoltatore medio non
particolarmente pratico del mondo della fotografia ma curioso. È stata una
scelta anche dettata dalla radio di appartenenza: Poli.Radio, la web radio degli
studenti del Politecnico di Milano: ciò mi ha permesso di impostare un taglio
non dico didattico ma attento ai giovani, a chi vuole imparare, dedito
all’avvicinamento ad un panorama culturale a cui è lasciato poco spazio nel
mondo accademico istituzionale.
Il filone dello spinoso legame fotografia-editoria ha fatto da trait
d’union per molte puntate, dando risalto ad una vitalità nel sottobosco
fotografico italiano. È stato educativo e interessante scoprire l’arcipelago dei
collettivi (ad esempio Microphotographers, Collettivo Fotosocial, Cesura e ASA
Cube) che recentemente sono nati a macchia di leopardo nello stivale e che
realizzano appieno il concetto che “l’unione fa la forza”, in un momento storico
in cui la professione del singolo fotogiornalista deve relazionarsi con un
mercato con nuovi paradigmi e nuove tecnologie.
Se il fotografo si sente spaesato (ma ho avuto l’opportunità di approfondire
possibili modi diversi di vivere la professione oggi con Gianmarco Maraviglia di
Echo) figurarsi un fruitore della fotografia! Per questo ho puntato molto su
questo argomento: penso ai progetti indipendenti realizzati tramite
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crowdsourcing che realizza un link diretto tra i fotografi e il proprio pubblico,
saltando i tradizionali snodi. Ne abbiamo parlato con Luca Nizzoli Toetti e il
suo Almost Europe e Piergiorgio Casotti con il lavoro ad ampio respiro Arctic
Spleen. Ovviamente abbiamo intervistato anche dei grandi autori, italiani
(Fontana, Branzi, Toscani) e stranieri, ma con quelli si vince facile.
A ben vedere a “pictures.of.you” si è parlato di uomini e storie, abilitando
una disciplina timida e poco loquace come la fotografia a mostrare i suoi lati
meno noti. Il nome della trasmissione non è casuale, oltre ad essere un titolo
di una canzone dei The Cure, uno dei miei gruppi preferiti, vuol essere un
modo per mettersi in relazione con quel “tu” che diventa oggetto e soggetto:
può essere il fotografo stesso, può essere la direttrice tecnica del Museo di
Fotografia Contemporanea, può essere la proprietaria di una libreria
specializzata sulla fotografia e alla fine, in una sorta di dialogo, può essere
anche l’ascoltatore.
L’aspetto più affascinante e difficile, a mio parere, rimane quello di
rendere a parole la fotografia: saper creare atmosfera e sensazioni con la
trasposizione vocale delle immagini. Ma per far ciò non basta avere un
microfono davanti, ci vuole competenza e rispetto. Per questo mi sono fatto
aiutare da “chi ne sa di più”, come nel caso dell’interpretazione radiofonica
di The Americanscon Sandro Iovine che per me è la realizzazione più intima del
connubio fotografia/parole che ho realizzato, tra musiche, descrizioni,
contributi storici e culturali.
Semmai ho provato a dar voce agli scatti in modo diverso con il momento
“musigrafia”, abbinando immagini iconiche a canzoni: note e testi che
sapessero accompagnare e fare da sottofondo a scatti. Alcuni esempi:
Nuvolari di Dalla non è il sottofondo perfetto dello scatto Grand Prix de
l’Automobile-Club de France di Lartigue? E American Girl in Italy di Ruth Orkin
non sembra poter pensare It Is a Man’s World come James Brown?
Per chiudere, ho sempre rifuggito il lato tecnico, questi discorsi li lascio
volentieri ai forum dei fotoamatori. Di diaframmi, tempi e obiettivi migliori non
abbiamo parlato, mi interessa il lato caldo e non freddo della fotografia.
Cosa rimane della fotografia alla radio? Un riverbero di immagini modulate
nell’etere che nella loro impalpabilità permettono di apprezzarne in modo
diverso le sfumature con un diverso impatto emozionale e sensibile, un
momento di approfondimento che aiuta a completare il significato di storie
registrate con un obiettivo fotografico e puntare al lato umano, un modo per
guardare oltre le immagini e dare voce a quello che è (e forse non vorrebbe
essere) muto?
Daniele Ferrini
Tag: Daniele Shantaram Ferrini, Francesca Vitale, Franco Fontana, Gianmarco Maraviglia, Jacques-
Henri Lartigue, James Brown, Luca Nizzoli Toetti, Lucio Dalla, Oliviero Toscani, Piergiorgio Branzi,
Piergiorgio Casotti, Poliradio, radio, Radio3, Ruth Orkin, Sandro Bini, Sandro Iovine
Scritto in Testo e immagine, critica, fotografia e società | 37 Commenti »
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Israëlis Bidermanas, il grande maestro della fotografia del XX secolo
da http://www.libreriamo.it
Facente parte della corrente della “fotografia umanistica”, Izis ha fatto
suoi i più diversi soggetti, tutti immortalati in scatti perfetti dal punto
di vista dello stile e della tecnica
MILANO - Israëlis Bidermanas, detto Izis, è considerato uno dei più grandi
fotografi del XX secolo. Facente parte, insieme ai colleghi Brassaï, Robert
Doisneau, Willy Ronis e Cartier-Bresson della cosiddetta “fotografia
umanistica”, corrente sviluppatasi nel Secondo Dopoguerra, Izis sviluppò una
visione dello scatto che, partendo da un dato realistico, rielaborato attraverso
la propria personale esperienza, rende l’immagine un insieme di perfezione
formale, contenuto, tempo, azione ed emozione.
LA VITA E GLI ESORDI COME FOTOGRAFO – Izis nacque a Marijampole, in
Lituania, il 17 gennaio 1911. Attratto in giovane età dalla pittura, a soli 19 anni
decise di trasferirsi a Parigi, l’allora capitale universale delle arti. Senza
conoscere la lingua ed in difficoltà economiche, Izis trascorse un periodo
piuttosto difficile, dopo il quale venne assunto in un laboratorio fotografico. Nel
1933 riuscì ad aprire un proprio studio fotografico. Nel 1934 sposò Nina
Rabkina, dalla quale ebbe un figlio, Manuel. Nel 1941 l’occupazione tedesca
costrinse Bidermanas a rifugiarsi ad Ambazac, comune nel cuore della Francia
a poca distanza da Limoges. Fu in questo periodo che adottò lo pseudonimo di
Izis. Nonostante la fuga, venne catturato e torturato. Liberato dalla resistenza
nel 1944, decise di entrare a farne parte. Subito dopo la liberazione, Izis
divenne fotografo. Durante la resistenza realizzò una straordinaria serie di
ritratti partigiani, come per esempio quelli al Colonnello Georges Guingouin.
Questi scatti lo misero letteralmente al centro dell’attenzione, in quanto si
distinguevano per stile e tecnica. Ad occuparsi per la prima volta delle sue
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fotografie fu il poeta e compagno nella resistenza Robert Giraud. Izis realizzò
in particolar modo una fortunata serie di fotografie dei membri del Maquis che
gli valse una grande fama.
LA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE – Al termine del secondo
conflitto mondiale tornò subito a Parigi, dove strinse amicizia con numerose
personalità di spicco dell’epoca, tra cui Jacques Prevert, Aragon, Vercors e
Marc Chagall. Le sue conoscenze e il suo talento cominciarono ad essere noti,
tanto che fu proprio in questo periodo che incominciò ad essere visto ed
identificato come personaggio di un certo calibro. Nel 1926 si sposò in seconde
nozze con Luisa Trailin, dalla quale ebbe una figlia, Liza. Dal 1949 Izis cominciò
a collaborare regolarmente con la rivista Paris-Match. Attraverso questo
incarico ebbe modo di fotografare molti volti noti dell’epoca, trai quali Grace
Kelly, Jean Cocteau, Colette, Colette, Gina Lollobrigida, Édith Piaf e Orson
Welles. Realizzò inoltre importanti reportage fotografici in Algeria, Israele,
Portogallo ed Inghilterra.
LE PUBBLICAZIONI - Nel 1951 pubblicò, con i testi dell’amico Prévert, quello
che da molti viene considerato il suo capolavoro: “Paris des Rêves”. Nello
stesso anno le sue fotografie vennero esposte in una mostra al Moma di New
York. Nel 1965 uscì il circo di Izis, opera fotografica per la quale si avvalse
della collaborazione di Chagall e, ancora una volta, di Prevert. Gli scatti
ritraevano i personaggi che caratterizzano tutto il mondo circense: dallo
sputafuoco ci pagliacci, dagli animali al pubblico che, divertito, assiste allo
spettacolo. Nel 1968 dedicò gli scatti di un intero volume all’amico Chagall. La
sua attività proseguì incessante tra grandi mostre ed opere stampate. Izis morì
il 16 maggio 1980 a Parigi.
LA POETICA DELL’ARTISTA - La fotografia di Israëlis Bidermanas ricercava
sempre ed assiduamente una perfezione formale, non solo nelle tonalità e nei
rapporti geometrici, ma anche nella simbiosi tra contenuto, tempo ed azione.
Nonostante le sue foto appaiano molto semplici, risultano fortemente cariche di
realismo poetico. Con uno scatto forse meno romantico di Doisneau, ma
immerso da una malinconia mista a dolcezza, Izis riflette nei suoi soggetti la
dura esperienza della guerra. Nelle immagini dei quartieri popolari, dove la
strada è teatro della vita, ogni dettaglio diventa motivo per raccontare la realtà
umana. Bidermanas usa a suo piacimento le forme e la luce per plasmare dei
mondi che prediligono atmosfere notturne e misteriose per rivelarci l’atmosfera
di libertà ritrovata e ritorno alla vita.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Tags: Israëlis Bidermanas, maestri della fotografia, storia della fotografia, fotografia
Se non si vede non si va
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Non so se contravvengo al regolamento del concorso, ma lo dico lo stesso.
La mia preferenza assolutadi giurato del concorso Italiani On The Move,
organizzato all’interno del festival di fotografia Cortona on the Move in
collaborazione con repubblica.it, è andata senza il minimo dubbio a questa
fotografia.
Concorrevano immagini“ uscite dai cassetti”, non professionali, familiari,
souvenir di vacanza e di viaggio.
Come da regolamento, non conoscevo nulla dell’autore e delle circostanze di
questo scatto, e a questo punto non lo voglio neppure sapere.
La storia che mi si è composta nella mente guardando solo la muta
superficie di questa fotografia è già completa, coerente, sicuramente irreale, e
ormai mi spiacerebbe vedermela contraddire dal racconto familiare che
sicuramente accompagnava questa fotografia, quando veniva mostrata agli
amici e ai parenti.
Non è mancanza di rispetto, è la tentazione dello storytelling che si
nasconde in qualsiasi fotografia “orfana” di contesto. Io mi tuffo nel messaggio
senza codice di questa immagine. E le strappo, a dispetto della sua reale
biografia, una fiction. Andrò lontano dal vero? Quanto?
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Chissà. Il fotografo è stato bravo o inconsapevole? Nel secondo caso, è
stato fortunato. Propendo però per il primo. La cornice trabocca di indizi,
suggerimenti, spunti, tracce. Questa fotografia voleva raccontare, prepotentemente,
voleva parlare dall’aldilà della sua vita vissuta. E io, come un mediumspiritista,
provo a darle voce.
Primavera. Fa più caldo di quel che pensavamo, a Roma. Olga, se vuoi
togliti pure la giacca, hai già quel golfino finisce che sudi. Mamma non ti pesa
quel cappotto? Come vuoi, almeno sbottonalo.
Siamo scesi verso il sud. L’hanno chiamata Autostrada del Sole, non per
niente: c’è il sole. Un vero spettacolo di strada. L’Italia è più corta adesso.
Siamo partiti a notte fonda, per viaggiare col fresco, da Padova, un caffelatte e
via, ed ecco, vedete? Non è ancora tarda la mattinata, le ombre cominciano
solo adesso ad accorciarsi un po’, e siamo già a Roma. Freschi e ancora
riposati.
Del resto, col mio novo lavoro possiamo permetterci un’auto come si
deve, non sarà una fuoriserie, ma neppure un’utilitaria. Una berlinetta, si sta
comodi. Bisogna che mettiamo un paio di cuscini all’uncinetto, dietro, nel
lunotto, possono servire per un pisolino, e poi “fanno casa”. L’auto è una casa,
è l’appendice mobile della nostra casa. Si viaggia stando a casa.
Abbiamo fatto il giro del Raccordo Anulare, per entrare dalla Colombo. Ne
valeva la pena. Bella Roma da qui, non è vero? Moderna. Ecco, quello in fondo
è il Palasport, quello delle Olimpiadi. Le abbiamo viste in televisione. L’Italia è
un grande paese. Moderno. Guarda che bella strada. Sgombra, libera, liscia
come un biliardo. Viaggiare adesso è libertà. L’Italia è piccola. Macché Cavour,
sono i distributori dell’Agip che hanno fatto l’Italia unita. Non ti lasciano mai a
piedi. Ce n’è uno da una parte e uno dall’altra della strada. Non rimarrai mai a
secco. L’Italia si muove, cammina, corre, non si fermerà.
Noi invece adesso ci fermiamo un attimo, ma un attimo solo, perché un
momento così bisognerà ricordarselo. Farlo vedere agli amici. Che viaggio è se
non lo fai vedere a nessuno?Se non si vede, non si va. Allora io che guidavo
scendo, apro il baule, prendo la Ferrania dalla borsa. Dai, scendete anche voi.
Bisogna proprio? Un minuto solo! Però Mamma chiudi le portiere sul lato della
strada, non si sa mai.
Un sorriso. Mamma, Olga, forza su, un po’ più spontanee. No così no, non si
guarda il fotografo, fate finta di fare qualcosa, che so, di guardare da un’altra
parte. Vabbé mamma, la mano dala tasca potevi toglierla, ma fa lo stesso, non
voglio sprecare il rullino, ci saranno tante altre cose da fotografare. Andiamo,
che i cognati ci aspettano per pranzo. Domani visiteremo il Colosseo. La vita è
bella.
Tag: Cortona On the Move, Viaggi
Scritto in Viaggi, fotografie private, vernacolare | 8 Commenti
Phil Stern - Sicily 1943
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redazione di http://www.politicamentecorretto.com
Giusto settant’anni dopo l’avvio dell’Operazione Husky che portò le truppe alleate a conquistare la Sicilia, la Galleria Credito Siciliano, ad Acireale,
propone una grande mostra in cui lo Sbarco rivive nelle immagini del celebre
fotografo statunitense Phil Stern.
La mostra offre l’opportunità a Stern, oggi 93 enne, di tornare sui luoghi da lui raccontati nel 1943 e questo suo viaggio nel tempo, le impressioni a
settanta anni di distanza saranno oggetto di un documentario curato da Ezio Costanzo per la regia di Filippo Arlotta.
La mostra “Phil Stern. Sicily 1943” è curata da Ezio Costanzo con una ricerca dall’Imperial War Museum di Cristina Quadrio Curzio e Leo Guerra.
Attraverso le potenti immagini di Stern e quelle di taglio documentario
dall’Imperial War Museum rivivono i diversi momenti di quella che è stata una delle più imponenti operazioni della seconda guerra mondiale.
Al comando di Patton (VII Armata Usa) e Montgomery (VIII Armata
britannica) nelle prime ore del 10 luglio 1943 sbarcarono sull’isola 160 mila
soldati anglo-americani. Le truppe americane raggiungono Gela, Scoglitti e Licata, mentre le truppe
britanniche occupano il litorale sud orientale dell’isola, tra Marzamemi e Siracusa.
La difesa della Sicilia è affidata a 220 mila soldati italiani e a 30 mila tedeschi.
Il 22 luglio Patton conquista Palermo e il 17 agosto raggiunge Messina, ultima meta dell’Operazione Husky.
La conquista dell’isola non sarà una semplice passeggiata per gli anglo-americani che lasceranno sul campo oltre 5000 morti in soli 38 giorni.
Il 3 settembre, a Cassibile (Sr) l’Italia firma l’armistizio (reso pubblico alla
radio l’8 settembre dal generale Badoglio) con gli Alleati che sancisce la resa incondizionata.
La mostra prodotta dalla Fondazione Gruppo Credito Valtellinese è certamente una rilettura di una pagina di storia siciliana e italiana ma è
anche una grande mostra di fotografia. È la prima ampia monografica dedicata a Phil Stern “fotografo di guerra”. Viene infatti presentato un aspetto
tra i meno noti della sua produzione fotografica con il quale ha iniziato la carriera.
Maestro del bianco e nero, Stern è celebre per i ritratti dedicati ai grandi divi
dello star system americano. Sue sono molte delle più intense immagini di James Dean, di cui fu amico personale, e di Marilyn Monroe, così come di
Louis Armstrong, Ella Fitzgerald, degli altri grandi del jazz o di Frank Sinatra. Era il fotografo che “si trovava sempre al posto giusto al momento giusto” e
che in più sapeva creare un’empatia intesa con il soggetto fotografato, catturandone immagine e vezzi sempre con garbo e ironia. Spesso il suo è un
lavoro dietro le quinte, che umanizza il soggetto, lo avvicina al lettore.
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Stern, discendente da ebrei russi immigrati negli States, cresce nel Bronx. La
sua carriera, non ancora conclusa, inizia con le collaborazioni a Friday e poi a Life, Collier’s, Look. Quindi il lavoro per il cinema e la collaborazione con
Orson Welles in Citizen Kane.
Nel ’41, Stern parte per il fronte; volontario in nord Africa viene ferito in Tunisia. Come corrispondente di guerra per la rivista delle forze armate Usa
segue lo sbarco in Sicilia dove è ferito e a seguito di questo riceve, con il rimpatrio, una decorazione di guerra. Anche nelle foto sui diversi campi di
battaglia, Stern conserva la propria freschezza d’autore. Alla necessaria ufficialità accompagna la capacità di racconto di umanità viva e vera. Non
dissimilmente da quanto faceva nei set delle grandi produzioni hollywoodiane.
Accanto a 70 immagini di Stern in grande formato, a documentare il periodo
che va dalla notte tra il 9 e il 10 luglio, data di avvio dello sbarco, all’annuncio dell’Armistizio italiano dell’8 settembre (date non a caso scelte
come data di inizio e conclusione della mostra) sarà allestito un video slideshow - documentario a cura di Carmelo Nicosia responsabile del
dipartimento di Fotografia e Video dell’Accademia di Belle Arti di Catania, che darà allo spettatore un’idea di alcuni dei luoghi dello Sbarco oggi anche
attraverso le impressioni a commento di Stern. Ulteriori 100 immagini, provenienti dagli archivi dell’Imperial War Museum di Londra, scattate dai
combat cameraman nel corso dell’invasione dell’Isola, concluderanno il percorso della mostra dedicata a Phil Stern.
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Data Inizio:11 luglio 2013 - Data Fine: 08 settembre 2013 / Costo del biglietto: gratuito.
Per informazioni 095 600280 - Luogo: Acireale (CT) , Galleria Credito Siciliano, Piazza Duomo n. 12.
Orario: da mercoledì a domenica 18.00 - 21.30 aperture straordinarie su prenotazione chiuso lunedì e
martedì
A spasso per Googlezia
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Un gondoliere mi fotografa mentre mappo Venezia. Foto © Marco Sabadin / Vision Venezia, 2013
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Sto mappando Venezia. Vorrei dire: mi stopappando Venezia. Il fungo
tecnologico da diciotto chili che mi hanno issato sulle spalle è un grande
cucchiaio che raccoglie tutto quel che trova, turisti collanine gelati marmi
mosaici gondole, e lo ingoia nella sua pancia di bit.
Cammino come l’istruttore di Google mi ha insegnato, ben dritto, in linea
retta, mi lascio a sinistra San Marco, sfioro il Palazzo Ducale, aggiro la colonna
col leone alato, svolto su Riva degli Schiavoni, sfilo davanti al Ponte dei Sospiri.
Non devo azionare comandi né controlalredisplay, devo solo camminare: ci
pensa il grande occhio blu da mosca del trekker a inghiottire la città più bella
del mondo.
“Per restituirla a tutti!”, obietta Daniele Rizzetto, responsabile delle
operazioni di ripresa di Google Street View per l’Europa, il Medio Oriente e
l’Africa. È venuto giù da Zurigo perché questo è un evento. Venezia
panoramica sarà online fra pochi mesi sul servizio di mappe più cliccato del
mondo.
Il tempo di fondere le immagini piatte in vedute girevoli a 360 gradi, di
inserirle sulla cartina, e chiunque potrà camminare per calle del Pistor o in
campo Santa Margherita, girando gli occhi tutto attorno, da casa propria e
senza neppure togliersi le ciabatte.
Larry Page ce l’ha fatta. Venezia era la sua preda più ambita, e lo era fin dal
2007, quando il fondatore di Google lanciò la follia della riproduzione
panoramica integrale del Pianeta, strada per strada. Ma Venezia resisteva. E
non serve a nulla avere fotografato metro per metro tremila città in cinquanta
paesi se non hai catturato l’utopia delle città.
Se una città potesse sognare, sognerebbe Venezia. Duecento milioni di
utenti di Gsw cominciavano a reclamarla, “A quando Venezia?”. Ma son passati
sei anni, un’era geologica per i ritmi della tecnologia, prima di conquistarla.
La Google-Car, è ovvio, a Venezia non gira, così pure il Trike (la Google-bici),
il Trolley e gli altri aggeggi inventati dalla multinazionale di Mountain View per
intrufolarsi ovunque.
Ma un anno fa gli ingegneri hanno inventato il Trekker. Uovo di Colombo:
uno zaino. Sperimentato nel Gran Canyon. Poi l’ordine dal quartier generale:
subito Venezia.
Uno zaino. Che ci voleva? Ma provate a concentrare un computer, batterie al
litio con autonomia di otto ore, stabilizzatori, recettori Gps e quindici
fotocamere a raggiera in qualcosa di sopportabile per le spalle di un uomo.
Oberato da questo robot sgraziato, che con i suoi colori troppo vivaci, i fili a
vista e le lucine verdi sembra uscito da un film di fantascienza anni Cinquanta,
il vostro Fotocrate suda e sbuffa, ma il divertimento è troppo.
I turisti attorno si danno di gomito: “It’s Google Maps, smile!“, grida Harry
da San Diego, California. Capiscono al volo, sanno già tutto. Ma per loro sono
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comunque un alieno buffo, un’attrazione. Le comitive trascurano il cicerone e i
capitelli scolpiti e mi seguono ridendo.
Si mettono in posa: a casa si cercheranno, ma rimarranno delusi: un
software offusca tutti i volti. Privacy. Ma quale privacy? Tutti vogliono far parte
dell’autoritratto panoramico del Pianeta. Dal ristorante Acciughina un
cameriere si fionda fuori e fa ciao con la manina, i genitori protendono i
bambini come a una benedizione, del resto il fungo del trekker somiglia a un
aspersorio.
Un gondoliere da cartolina zompa su dal canale e chiede con la dolce
cantilena lagunare: “Posso fare una foto?”. Prego, lo fanno tutti. Entro poche
ore finirò in centinaia di album sui profili social network di mezzo mondo. Buffo
gioco di specchi: fotografano la macchina che fotografa il mondo.
È ora di restituire il trekker al legittimo operatore. Con sollievo. “Se non
hai le spalle, te le fai…”, ride. Denis Feradov forse è stato scelto per questo,
perché è un robusto agile bulgaro ventiseienne. “Fantastica città”. Non c’eri
mai stato prima? “Avevo dodici anni, non ricordo nulla, volevo solo mangiare la
pizza”.
Denis Feradov mappa piazza San Marco. Foto © Marco Sabadin / Vision Venezia, 2013
Clac-clac, bretelle e moschettoni,è incredibile quanto vecchio alpinismo
sorregga una tecnologia d’avanguardia; poi parte, hop hop, col passo
dell’orsetto delle pile Duracell.
La tecnologia non fa ancora tutto da sola. Nell’angolo cieco di 70 gradi
sotto l’occhio da mosca c’è un essere umano. Ogni volta che cliccate sull’icona
dell’omino giallo, il Pegman, che sulla mappa virtuale localizza l’iper-foto che
state per aprire, pensate che è esistito in carne ed ossa.
Eccolo infatti, lo inseguo a fatica sui gradoni di Rialto, mentre l’Argo
elettronico poliocchiuto, dai suoi due metri e trenta d’altezza, scatta una multi-
immagine ogni tre secondi, la geolocalizza e la archivia. Schiva d’un pelo
tendoni e balconcini, Denis ha preso bene le misure, non vuole far prendere
zuccate al suo compagno di viaggio, ormai c’è affezionato. “Per me, è una
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ragazza…”. Ma certo: con chi altro si può passare una settimana a tu per tu a
passeggio per la città più romantica del mondo?
Denis consulta ogni tanto il navigatore del suo smartphone. Per non
perdersi, per non ripassare due volte nello stesso psoto, per non dimenticare
nessul posto. Il rilevamento deve essere completo: ogni ruga, calle, salizada.
L’iper-atlante di Google è una delle ambizioni più sfrenate dell’era del Web,
vorrebbe essere il contenitore di tutto: ogni cosa, se ci pensi, ha un posto nel
mondo, dunque ogni cosa puo “cliccare fuori” da una carta geografica.
Vien da pensare alla mappa dell’Impero immaginata da Jorge Luis Borges:
così minuziosa da diventare il doppio perfetto della realtà, quindi insensata.
“Non sarà mai così”, reagisce Alessio Cimmino, delle public relations di Google,
“le nostre mappe sono anticipazione, non sostituzione. Non è un’esperienza
vicaria, è il resoconto visuale, per quanto molto spettacolare, di una singola,
lunga passeggiata, che serve per chi la vorrà ripercorrere nella realtà”.
Denis sbircia il navigatore, per non tralasciare neanche un metro. Il
rilevamento deve essere completo: tutta la città, comprese le isolette, bisogna
arrivare in ogni ruga, calle, salizada. Anche nella Venezia dove i turisti non
passano, i vicoli appartati di Cannaregio e Dorsoduro, tutto. È per questo che il
Comune di Venezia ha accolto bene l’arrivo dell’occhio bulimico di Google.
Conta che aiuti i turisti a scoprire di più, a non fermarsi agli spot celebri e
intasati.
Alla fine Denis avrà coperto 250 chilometri, l’equivalente di sei maratone. E
i canali? La Venezia vista dall’acqua? “Avremo anche quella”, conferma
Rizzetto, “un po’ di pazienza”. Gli sviluppatori stanno già progettando la
Google-gondola.
È curioso che la città più fotografata del mondo abbia bisogno di un’altra
mega-cartolina che ne accarezzi le bellezze infinite. Dopo aver fatto la fortuna
della Kodak, Venezia diventa Googlezia? È presto per dire come il Second
World di Google, un mondo dove non è mai notte, dove non piove mai,
cambierà l’immaginario della città di Marco Polo.
Una persona, però, vedrà sempre Venezia con gli occhi di un uomo e non di
una macchina: Denis. Che sa a memoria i nomi dei sestrieri, si muove meglio
di un gondoliere, che avendola misurata metro per metro, libero di guardarla
mentre il robot lavora, ora ama Venezia come se fosse sua, “non la
dimenticherò mai”, e per ricordarla non avrà bisogno di un clic.
Tag: Alessio Cimmino, Daniele Rizzetto, Denis Feradov, Google Street View, Jorge Luis Borges, Venezia Scritto in Geografie, Global,
Spilimbergo Fotografia 2013 PALAZZO TADEA, SPILIMBERGO (PN)
La 27ma edizione del festival presenta 5 mostre personali - Uwe
Ommer, Mario Cresci, Mauro Paviotti, Roberto Salbitani e Pietro Marubi - insieme a tre iniziative collaterali: fotomodelle in posa,
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fotomercato e lettura portofolio. Sabato 20 luglio cerimonia di
consegna dei premi.
COMUNICATO STAMPA
50 years and more to come... retrospettiva di Uwe Ommer
20 luglio – 1 settembre
A cura di Uwe Ommer
Uwe Ommer (Colonia, 1943) nel 1963 si è trasferito a Parigi, inizialmente
assistente di Jean Pierre Ronzel, poi professionista autonomo. Negli anni Sessanta e Settanta ha lavorato al fianco di rinomati stilisti, curando servizi per
linee di moda femminili e per l’infanzia. Negli anni Ottanta e Novanta Uwe Ommer raggiunge la celebrità con nudi
esotici, realizzati in Asia e Africa, apparsi in libri e magazine di settore. Ommer ha curato inoltre un’edizione del Calendario Pirelli nel 1984.
Dal 1995 in sei anni ha fotografato i membri di oltre 1000 nuclei familiari, conosciuti durante una serie di viaggi attraverso i cinque continenti.
I servizi, raccolti nel volume 1000 families, sono completati da interviste ai soggetti ritratti, realizzate dallo stesso Ommer.
A Uwe Ommer viene assegnato l’International Award of Photography 2013.
Inaugurazione: sabato 20 luglio, ore 20
Palazzo Tadea - piazza Castello, 4 - Spilimbergo Apertura: giovedì-venerdì: 16.00-20.00 ; sabato e domenica: 10.30 - 12.30 /
1 6.00-20.00
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Mario Cresci, Dispiegati 1968-2013
20 luglio – 1 settembre
A cura di Guido Cecere
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Mario Cresci (Chiavari, 1942) ha studiato al Corso superiore di Industrial design di Venezia e dagli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta si è dedicato
alla ricerca nell’ambito della comunicazione visiva. Dal 1974 ha partecipato alla Biennale di Venezia in Muri di Carta, fotografia e paesaggio dopo le
avanguardie a cura di Carlo Arturo Quintavalle, a note esposizioni di fotografia
in Italia e all’estero. Alcune delle sue opere sono presenti nella collezione del Museum of Modern Art di New York.
Ha realizzato installazioni temporanee e permanenti in gallerie, musei e spazi pubblici in tutto il mondo e dal 1992 al 2000 ha diretto l’Accademia Carrara di
Belle Arti di Bergamo e dal 2004 è docente di Teoria e metodo della Fotografia al biennio di specializzazione in fotografia all’Accademia di Belle Arti di Brera a
Milano.
Inaugurazione: sabato 20 luglio, ore 20
Palazzo Tadea - piazza Castello, 4 - Spilimbergo Apertura: giovedì-venerdì: 16.00-20.00 ; sabato e domenica: 10.30 - 12.30 /
16.00-20.00
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Mauro Paviotti - I nuovi guardiani
20 luglio – 1 settembre
A cura di Lorella Klun
Mauro Paviotti (Palmanova, 1956) si occupa di fotografia dal 1982 e ha esposto presso numerose gallerie italiane ed estere, in particolare nel 1991 alla 4a
Biennale di Cordoba (Spagna), nel 1995 alla 46a Biennale di Venezia. Sempre nel 1995 è stato premiato dall'Italian Art Directors Club per le immagini
realizzate a favore della Lega Antivivisezione della Campagna Istituzionale "L'Uomo è una Bestia”.
Nel 1996 una selezione di sue opere sono state esposte al Forte Belvedere di Firenze e a Milano al Castello Sforzesco. Nel 1997 ha partecipato pure alla 1a
rassegna Mois de la photo al Carousel du Louvre a Parigi.
A Mauro Paviotti viene assegnato il Premio Friuli Venezia Giulia Fotografia 2013 per un autore della regione.
Inaugurazione: sabato 20 luglio, ore 20 - Villa Ciani
Via Friuli 2 - 33090 Lestans (PN) Apertura: giovedì-venerdì: 16.00-20.00 ; sabato e domenica: 10.30 - 12.30 /
16.00-20.00
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Venezia circumnavigazioni e derive - Roberto Salbitani 20 luglio- 1 settembre
A cura di Roberto Salbitani
La Venezia rappresentata è il luogo per eccellenza delle stratificazioni culturali e materiali, saldate tra loro. 30 anni di lavoro sono stati necessari a Salbitani
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per concentrare le sue visioni in singolari tondi bianconero: non è certo il
classico menù turistico di gondole, vongole e riflessi policromi sull’acqua. Quello che l’artista costruisce lentamente è una sequenza mirata di emozioni
avvolgenti nel tentativo di restituire la struttura profonda e gli invisibili abissi della città, la sua vera anima.
Traspare dietro a queste immagini simboliche una Venezia mai vista prima nel
pur affollato panorama di illustrazioni fotografiche che la riguardano.
Inaugurazione: sabato 20 luglio, ore 11 - Corte Europa, Spilimbergo
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Pietro Marubi 20 luglio – 18 agosto
A cura di Lucien Bedenj
Pietro Marubi, o Pietro Marubbi, (Piacenza, 1834 – Scutari, 1903), è stato un patriota, fotografo e pittore italiano, naturalizzato albanese: coinvolto nei moti
risorgimentali, sostenitore di Garibaldi fu costretto nel 1856 a riparare in
Albania, allora territorio ottomano. Trasferitosi a Scutari inaugurò il primo laboratorio fotografico albanese,
l'Atelier Marubi, che in breve tempo divenne uno dei più importanti del territorio. I negativi originali, riconosciuti patrimonio internazionale
dall'UNESCO rappresentano un patrimonio storico-culturale per il paese balcanico e sono conservati nell'Archivio Fotografico Marubi.
Inauguraz.: domenica 21 luglio, ore 18 - Mulino di Ampiano, Pinzano al
Tagliamento Apertura: giovedì-venerdì: 16.00-20.00 ; sabato e domenica: 10.30 - 12.30 /
16.00-20.00
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Il programma della rassegna include tre iniziative collaterali GRATUITE per le
quali però è necessario iscriversi:
Sabato 20 e domenica 21 luglio: Fotomodelle in posa
ore 11-13 /15-17 con Gianni Cesare Borghesan e Sara Corsini
Galleria Furlan, Palazzo Tadea - Spilimbergo
Per info e adesioni: segreteria del CRAF 0427-91453 oppure [email protected]
Sabato 20
Fotomercato ore8-18
Per info e adesioni: segreteria del CRAF 0427-91453 oppure [email protected]
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Lettura di portfolio ore 10-13 / 15-18
con Giuliano Borghesan, Guido Cecere, Cesare Colombo, Fulvio Merlak. Enoteca La Torre, Corso Roma
Regolamento di «PORTFOLIO A SPILIMBERGO
1. Nell’ambito di “SPILIMBERGO FOTOGRAFIA 2013” il CRAF, Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia, organizza la prima edizione di «PORTFOLIO A
SPILIMBERGO», Selezione Fotografica Nazionale a lettura di Portfolio aperta a tutti i Fotografi.
2. La Selezione è a tema libero e i Portfolio presentati (in numero massimo di due per Autore, ognuno opportunamente identificato da un titolo) non saranno
soggetti ad alcuna limitazione, né per quanto concerne la quantità delle immagini, né per il formato delle stesse.
3. La Selezione non è suddivisa in Sezioni; saranno accettate tutte le tecniche di ripresa e tutti i procedimenti di stampa (su qualsiasi tipo di supporto) ma
saranno rifiutate le presentazioni di diapositive e di file digitali ancorché proposte da Autori muniti dell’attrezzatura necessaria per una corretta visione,
e saranno altresì rifiutate le presentazioni di lavori esibiti sotto forma di libri
auto-prodotti. 4. L’Autore (con detto termine s'intende anche l’eventuale Gruppo composto da
più Autori), ad ogni effetto di legge, è l’unico Responsabile del contenuto delle proprie immagini.
5. L’iscrizione alla prima edizione di «PORTFOLIO A SPILIMBERGO» potrà essere effettuata compilando la scheda di partecipazione presso la Segreteria
dell’Organizzazione sita presso i tavoli di lettura (durante gli orari di lettura Portfolio) oppure via mail a [email protected]
6. A tutti gli Autori che faranno visionare i loro Portfolio sarà omaggiata una pubblicazione edita dal CRAF.
7. Ogni Autore avrà diritto ad un massimo di due incontri con i Lettori/Selezionatori della durata massima di 20 minuti ciascuno
(indipendentemente dal numero di portfolio presentati). Ulteriori incontri saranno fissati dalla Segreteria compatibilmente con le disponibilità dei
Lettori/Selezionatori. Gli incontri di lettura saranno aperti al pubblico.
8. La Segreteria provvederà a numerare ciascuna scheda e, in base alla priorità d’ordine d’iscrizione, a fissare l’ora approssimativa di lettura del/i Portfolio da
parte dei Lettori/Selezionatori scelti dall’Autore (oppure, qualora già impegnati, dei primi Lettori /Selezionatori liberi) ed a comunicarla all’Autore.
9. Ogni Autore sarà tenuto a presentare, nel momento dell’incontro prefissato, i propri Lavori accompagnati dalla scheda di partecipazione al
Lettore/Selezionatore assegnatogli. La mancata presentazione all’ora stabilita farà decadere l’appuntamento.
10. La Commissione Selezionatrice sarà composta dai Signori:
Giuliano BORGHESAN, Guido CECERE,
Cesare COLOMBO, Fulvio MERLAK
11. Gli incontri di lettura dei Portfolio si terranno a Spilimbergo, presso l’ Enoteca La Torre, Corso Roma nella giornata di sabato 20 luglio 2013.
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12. Gli orari previsti per la lettura dei Portfolio sono i seguenti:
Dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 18.00. 13. Tra i Lavori presentati, i Lettori/Selezionatori sceglieranno (ancorché con la
segnalazione di un unico Lettore/Selezionatore) e tratteranno (con il benestare dell’Autore) i Portfolio da ammettere all’esame finale della Commissione
Selezionatrice. Tra questi Lavori la Commissione Selezionatrice sceglierà i due
migliori Portfolio dandone pubblica comunicazione lo stesso sabato 20 luglio 2013, alle ore 19.00 presso Palazzo Tadea.
14. I Portfolio ammessi e non ritirati dai Partecipanti al termine della Manifestazione saranno restituiti con pacco postale a carico del destinatario.
15. Il giudizio della Commissione Selezionatrice sarà inappellabile e la partecipazione alla Selezione implica l’accettazione incondizionata del presente
Regolamento. 16. Ognuno dei due Autori Premiati riceverà due libri editi dal CRAF.
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Cerimonia di consegna dei premi
sabato 20 luglio ore 19
Palazzo Tadea / Spilimbergo
International Award of Photography
patrocinato da:
Unione Industriali Pordenone
a Uwe Ommer
Friuli Venezia Giulia Fotografia
patrocinato da:
Banca Mediocredito del FVG
a Mario Cresci
e dalla Banca di Cividale
a Mauro Paviotti
Amici del CRAF
alla Famiglia Toni Nicolini
venerdì 19 luglio ore 20.30
Incontro conMario Cresci e Roberto Salbitani
Villa Ciani / Lestans
sabato 20 luglio
ore 8-18
Fotomercato
Corso Roma /Spilimbergo
Lettura di portfolio
ore 10-13 / 15-18
con Giuliano Borghesan, Guido Cecere, Cesare Colombo, Fulvio Merlak.
Enoteca La Torre, Corso Roma
sabato 20 e domenica 21 luglio
ore 10.30-13/15-18
Fotomodelle in posa con Gianni
Cesare Borghesan e Sara Corsini
Palazzo Tadea, Fondazione Furlan / Spilimbergo
Calendario delle mostre:
Selling Dreams - la fotografia di moda in Croazia
Museo dell’Arte Fabbrile e delle Coltellerie, Maniago / 1 giugno-21 luglio
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Liebe Lausitz - Elf fotografen zu Gast
Biblioteca civica, Lignano Sabbiadoro / 3 luglio - 5 settembre
Carlo Leidi, Cina 1972
Galleria Tina Modotti, Udine / 5 luglio - 15 settembre
Burkard Kiegeland - Willie Osterman, Saltstrasse
Pilonova Galerija, Ajdovscina / 12 luglio - 31 agosto
Il ’900 contadino in Friuli Venezia Giulia
Palazzo Altan, San Vito al Tagliamento / 13 luglio-27 ottobre
Pier Paolo Pasolini tra i suoi film e il mondo friulano
Sala Brumat, Ufficio Turistico, Valvasone / 18 luglio - 31 agosto
50 years! and more to come... retrospettiva di Uwe Ommer
Palazzo Tadea, Spilimbergo / 20 luglio - 1 settembre
Mario Cresci, Dispiegati 1968-2013
Palazzo Tadea, Spilimbergo / 20 luglio - 1 settembre
Mauro Paviotti, I Nuovi Guardiani
Villa Ciani, Lestans / 20 luglio - 1 settembre
Roberto Salbitani, Venezia circumnavigazioni e derive
Corte Europa, Spilimbergo / 20 luglio - 1 settembre
Pietro Marubi
Mulino di Ampiano, Pinzano al Tagliamento / 20 luglio - 18 agosto
Branko Lenart. Blicke auf die Steiermark
Sale espositive della Provincia, Pordenone / 7 settembre - 6 ottobre
Arkadyi Shaikhet e il mondo contadino russo negli anni Trenta
Museo Territoriale Bassa Friulana, Torviscosa / novembre 2013 - marzo 2014
L’immagine pubblica - dalla collezione del Rupertinum di Salisburgo
Parco 2, Pordenone / gennaio 2014
Palazzo Tadea
Piazza Castello 4 - 33097 Spilimbergo (Pn)
Le immagini non sono tutte uguali
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Sei un grafico pubblicitario e per lavoro ti serve un bambino? Non un bambino vero, ovviamente, un bambino astratto, universale, generico, l’immagine di un
bambino, la bambinità fatta immagine? Che problema c’è? Googlalo.
Il festival del jazz di Montreux, in Svizzera, storica istituzione della musica
dal vivo, apre unkindergarden, iniziativa lodevole, ottimo servizio per papà e
mamme jazzofili. Per lanciarlo, si fanno disegnare da un’agenzia un banner da
pubblicare ogni giorno sul quotidiano del festival. E l’agenzia se la cava così, in
economia, col metodo della pesca a strascico: si getta la rete nella Rete e si
vede cosa vien su.
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Ma questa volta è andata male. Malissimo. La storia finita su Libération è
desolante. Il “giovane grafico pubblicitario” ha pescato la più inappropriata
immagine di infanzia spensierata che potesse capitargli sotto mano.
Quel viso sorridente e giocondo, l’immagine della felicità e dell’innocenza,
apparteneva a Grégory Villemin, piccolo di quattro anni il cui cadavere, mani e
piedi legati, fu trovato nell’estate del 1984 sul greto di un torrente nei Vosgi, a
pochi chilometri dalla casa dei genitori. Un delitto che sconvolse la Francia,
rimasto insoluto.
Un internauta riconosce quel viso e pubblica una foto dell’annuncio via
Twitter. Il caso esplode. Dolore e indignazione dei parenti, giornali ritirati con
affanno e scuse, non del tutto accettate, e qualche strascico di sospetti sulla
possibilità di un errore non ingenuo, di un “colpo mediatico”, piuttosto
inverosimile in verità: difficile che un genitore si senta invogliato ad affidare
suo figlio a un babysitteraggio che si fa volutamente réclame con l’icona di un
infanticidio.
Doveva capitare, prima o poi. Il meccanismo del meme è implacabile e
insensibile. La Rete frulla le immagini e confonde le storie, ma non sempre
quel che ne esce è la marmellata di un divertente equivoco.
Questa mi pare una storia esemplare, dove la responsabilità maggiore non
è forse da attribuire solo a fretta, mancanza di professionalità e di controllo di
qualità, trascuratezza documentaria (bastava unareverse search di pochi
istanti su Google Images o TinEye per capire da dove veniva la fotografia e
cosa rappresentava), nozze iconografiche fatte coi fichi secchi di una ricerchina
in Rete.
Non si è neppure pensato di comprare una foto low cost da qualche seria
banca di foto di stock che utilizzi baby-modelli autorizzati. Ed è questo che mi
fa pensare a un altro tipo di errore, più grave e sistemico.
Questo è un apologo morale, un monito da ascoltare a orecchie ben dritte
su quel che potrebbe accadere a un mondo dell’immagine che non facesse altro
che riprodurre se stesso, riciclare all’infinito se stesso, come in un gioco di
specchi, perdendo ad ogni riflesso un po’ di senso, di verità e quindi di
umanità.
La Rete è una grande opportunità di condivisione di pensieri, parole,
immagini. Ma non è un magazzino senza chiave dove si possa entrare e
portare a casa una cosa a casaccio. La disponibilità di una massa enorme di
immagini sta invece inducendo a pensare che le immagini trovate in Rete siano
tutte a disposizione ler tutto, siano tutte fungibili, intercambiabili, una vale
l’altra.
Invece ogni immagine ha una storia, un senso, un contenuto umano,
relazionale preciso, circostanziato, unico: pescarla a caso, sopratutto quando la
si trasferisce in un contesto commerciale, è operazione sempre e comunque
rischiosa e delicata. Riusare, ri-mediare immagini non è proibito, può anzi
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essere una nuova opportunità creativa e cognitiva, di fatto è una nuova forma
di arte, la archive art.
Ma le pratiche di rimediazione devono essere prudenti, evidenti,
esplicitamente dichiarate, consapevoli. L’uso di un’immagine di provenienza
non chiara richiede la stessa attenzione, gli stessi guanti che lo storico adopera
con le sue fonti (la ricerca della provenienza innanzitutto) per non farsene
travolgere e ingannando i lettori.
Se la Rete ci rende, tutti, prosumer, produttori e consumatori insieme, allora
cerchiamo tutti, almeno un po’, di usare le prudenze del consumatore e di
rispettare le regole del produttore. Non si è mai al sicuro da errori, ma
cerchiamo almeno di evitare quelli evitabili.
Tag: Grégory Villemin, Libération, Montreux-
Scritto in Immagine e Internet, Storie, condivisione | 9 Commenti »
Faigenbaum a Villa Medici. Le foto
di Gianfranco Ferroni da http://www.formiche.net
L'Accademia di Francia a Roma – Villa Medici presenterà dal 4 ottobre e fino al
19 gennaio 2014 la prima importante mostra in Italia dedicata al fotografo
francese Patrick Faigenbaum.
Un’esposizione organizzata dall’Accademia di Francia a Roma in collaborazione con la Vancouver Art Gallery, che ne ha ospitato nel marzo 2013 la prima
tappa. Curata dal critico Jean-François Chevrier e dall’artista Jeff Wall, si
inserisce nell’ambito della XII edizione di Fotografia – Festival Internazionale di Roma e propone per la prima volta in Italia un centinaio di opere di diverse
dimensioni dell’artista, ripercorrendone quarant’anni di carriera: ritratti intimi, paesaggi rurali e periferie urbane, nature morte, un corpus d’immagini che
traccia una cartografia dell’Europa, dove le profondità della storia sono indissolubilmente legate al presente, in una narrazione complessa e
molteplice che rivela alcuni aspetti fondamentali dell’identità nazionale e di classe dei soggetti ritratti.
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Patrick Faigenbaum è una delle figure più significative nel panorama della fotografia contemporanea. Le sue opere sono presenti nelle principali istituzioni, dal Metropolitan Museum of Art di New York al Centre Pompidou di
Parigi. Nel 2008 il Museo di Grenoble gli ha dedicato un’importante retrospettiva. Lo scorso 10 giugno ha vinto il prestigioso Premio Henri Cartier-
Bresson, un autorevole riconoscimento che gli permetterà di realizzare il
progetto “Kolkata” dedicato alla città di Calcutta.
Faigenbaum acquisisce una notorietà internazionale negli anni ’80. Ed è proprio dal 1985 al 1987 che è ospite come borsista presso l’Accademia di Francia a
Roma – Villa Medici, dove inizia a lavorare alla celebre serie di ritratti delle famiglie aristocratiche italiane, realizzata tra Firenze, Roma e Napoli. La mostra
celebra quindi il ritorno dell’artista parigino a Villa Medici.
Da principio il suo lavoro di artista si iscrive nella tradizione pittorica, concentrando l’attenzione su personaggi e ritratti in un contesto che sembra
essere fuori dal tempo. Successivamente il suo percorso lo porta a lavorare sulla realtà del mondo: la città e la natura, sia attraverso la tecnica in bianco e
nero che quella a colori.
Il critico e curatore d’arte Jean-François Chevrier, che ha seguito Faigenbaum sin dagli esordi della sua carriera, conoscendo la sua arte come nessun’altro,
così ne descrive la poetica: “L’alternanza di bianco e nero e colore indica la coesistenza di due mondi che corrispondono a due epoche, oggi
contemporanee. Il colore è arrivato dopo i ritratti delle famiglie, quando
Faigenbaum ha iniziato a interessarsi all’attualità delle metropoli urbane. Ma il bianco e nero, ossia il gioco sui valori di grigio, persiste. È il dominio e la fonte
del chiaroscuro, la condizione del corpo nella comprensione del volume atmosferico. Dona all’aria il peso delle ceneri che favorisce una modulazione di
luce e forme modellate. Più astratto del colore, ha introdotto con discrezione l’immagine fantastica nella realtà possibile, se non veritiera del quotidiano.”
E aggiunge Jeff Wall: “Patrick lavora per costruire quella che si potrebbe definire ‘un’immagine storicamente rivelatrice’, ovvero un’immagine che rivela aspetti fondamentali dell’identità di un Paese. Naturalmente si tratta di un
esperimento completamente riuscito, egli infatti riesce a catturare i sentimenti dei suoi personaggi nella loro algida dignità e la piena conoscenza del loro
status, caratteristiche che li hanno sempre distinti attraverso i secoli”.
Venerdì 4 ottobre alle ore 18 un incontro presso il Museo Macro al quale, insieme a Patrick Faigenbaum, partecipano i due curatori dell’esposizione Jeff
Wall e Jean-François Chevrier e il Direttore dell’Accademia di Francia a Roma –
Villa Medici Éric de Chassey.
Patrick Faigenbaum nasce nel 1954 a Parigi dove vive e lavora. È attualmente professore presso l’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi. I suoi
lavori sono esposti presso la Galerie Nathalie Obadia (Parigi, Francia), Barbara Mathes Gallery (New York, USA), Metropolitan Museum of Art (New York,
USA), MANM, Centre Pompidou (Parigi, Francia), MACBA (Barcellona, Spagna), Le Point du Jour (Cherbourg, Francia), Gladstone Gallery (New York, USA),
Galerie de France (Parigi, Francia).
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Il catalogo della mostra è pubblicato dalla casa editrice Punctum. Un’esposizione realizzata grazie a Edwige e Olivier Michon, sostenitori affezionati delle attività culturali dell’Accademia di Francia a Roma – Villa
Medici.
Markus Reugels, scatti di acqua con l'Highspeed Photography
da http://www.libreriamo.it
Il fotografo tedesco ha fatto della macro ed highspeed photography il
proprio tratto distintivo e caratterizzante, attraverso immagini che
ritraggono l’acqua in tutte le sue forme possibili
Gocce d’acqua, di forme e colori diversi, immortalate in innumerevoli scatti. E’
questo il soggetto prediletto dal fotografo tedesco Markus Reugels.
Attraverso la tecnica dell’Highspeed Photography, Reugels riesce ad
immortalare veri e propri spettacoli non visibili ad occhio nudo. Sul
magazine In a bottle è apparsa recentemente una intervistaall’artista
tedesco, il quale spiega la sua passione per la fotografia e soprattutto per
questo soggetto così particolare ed estremamente affascinante.
MARK REUGELS - Markus Reugels è un fotografo tedesco che ama fotografare
forme liquide che si generano soltanto con l’aiuto di acqua ed inchiostro
colorato. Utilizzando la sua immaginazione, l’artista immortala immagini di
“arte liquida”, immagini che l’occhio umano non riuscirebbe a cogliere. Grazie
al talento di Markus e ai mezzi messi a disposizione dalla fotografia ad alta
velocità hanno la possibilità di prendere vita esplosioni di colori vivaci.
HIGHSPEED PHOTOGRAPHY - Reugels ha iniziato a fotografare pochi anni
fa, scoprendo la sua passione per la fotografia in un modo tutto particolare:
desiderava fare una bella foto che ritraesse la sua famiglia. Completamente
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autodidatta, ha trascorso molto tempo navigando su Internet per capire come
utilizzare la sua macchina fotografica e soprattutto comprendere le dinamiche
dei fluidi, così da riuscire a sincronizzare e calibrare in modo esatto i tempi.
Sono queste infatti le basi imprescindibili dell’ dell’Highspeed Photography.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Tags: In a Bottle Magazine, Markus Reugels, Highspeed Photography
Willy Ronis, il reporter della quotidianità
da http://www.libreriamo.it
Fotografo umanista, Ronis ha dedicato quasi tutta la sua carriera alla
fotografia aneddotica, attraverso scatti raffiguranti la semplicità del
vivere quotidiano
Willy Ronis è stato un fotografo francese che ha dedicato la sua intera carriera
alla fotografia dal vivo, sempre e rigorosamente in bianco e nero. Attraverso la
sua opera ha attraversato buona parte del Novecento come figura centrale
della fotografia umanistica francese. Il suo sguardo, nelle sue fotografie, è
quello di un reporter amante ed affascinato dall’apparente semplicità della
quotidianità.
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WILLY RONIS - Ronis nacque a Parigi il 14 agosto 1910. Il padre, ebreo
ucraino, arrivò in Francia sei anni prima della nascita del figlio e qui aprì uno
studio di fotografia. Ronis studiò, seppur con scarso profitto, al Liceo Luis-le-
Grand. Grande appassionato di arte, disegno e musica, per il sedicesimo
compleanno chiese in regalo la sua prima macchina fotografica, una Kodak
dall’insolito formato 6,5×11. Le prime esperienze da fotoamatore si svolsero
nello studio del padre. Lo interessavano soprattutto i ritratti ma, non avendo a
disposizione modelli, si dovette accontentare di autoritratti e scatti in esterni,
che sviluppava e stampava da sé, avendo appreso sin da piccolo l’arte grazie
all’osservazione del padre al lavoro. Nonostante fosse grande amante della
musica, per accontentare i desideri dei genitori che lo volevano funzionario, nel
1929 Ronis si iscrisse alla facoltà di diritto. L’anno seguente fu costretto ad
intraprendere il servizio militare. Ritornato a casa dovette sostituire al lavoro il
padre gravemente malato. Il lmestiere non lo entusiasmava affatto, se non
quando doveva assolvere alle commissioni di fotografie industriali. Questa
esperienza, tuttavia, lo avvicinò fortemente al mondo della fotografia. Nei
momenti liberi, Ronis cominciò a girare la sua Parigi a caccia di immagini.
Durante le vacanze in montagna iniziò a costruire quella che in seguito chiamò
“fototeca sulla neve”, un archivio che, anno dopo anno, si arricchì a tal punto
da garantirgli collaborazioni con riviste specializzate.
I PRIMI PASSI NEL MONDO DELLA FOTOGRAFIA ILLUSTRATA – Alla
morte del padre, avvenuta nel 1936, Ronis chiuse lo studio per dedicarsi a
tempo pieno al mestiere di fotografo illustratore, poiché considerava
intollerabili le discrepanze tra la propria concezione di fotografia e le richieste
della clientela. L’incontro con due mostri sacri come Chim Seymour e Robert
Capa fece comprendere a Ronis come la fotografia fosse davvero la sua
vocazione primaria. La sua amicizia e collaborazione con il fotografo Naf gli
permise di realizzare progetti ambiziosi, tra cui il primo scatto a Guernica di
Picasso, in mostra all’Expo 37. Le sue prime personali furono “Neige dans le
Vosges” e “Paris la nuit”. La guerra costrinse il fotografo ad una lunga pausa
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dalla sua attività, durante la quale fu costretto ad improvvisarsi in vari
mestieri. Dopo la liberazione, tornò a fotografare a pieno regime.
LA NOTORIETA’ – La notorietà di Willy Ronis aumentò di pari passo con gli
apprezzamenti del suo lavoro. Insignito di vari e diversi premi, negli anni
Cinquanta intraprese un nuovo e stimolante progetto, quello della fotografia di
moda. Nota è la sua collaborazione con la celebre rivista Vogue. In questo
periodo cominciò anche a lavorare nel campo della pubblicità. Nei suoi libri e
nelle interviste rilasciate il maestro francese ribadì spesso quello che si poteva
ben intuire dalla sua fotografia, cioè una passione profonda per la narrazione
aneddotica, sviluppata negli anni andando a caccia di immagini, soprattutto per
le strade di Parigi. Nel 1983, su consiglio di Guy Le Querrec, Claude Nori
pubblicò la prima monografia intitolata “Sur le fil du hasard”. L’opera ottenne il
premio Nadar, e fu una nuova spinta per il fotografo ad intraprendere nuovi
progetti. Ronis morì nella notte tra l’11 ed il 12 settembre 2009, all’età di 99
anni.
LA FOTOGRAFIA COME SPACCATO DI VITA QUOTIDIANA - Tutta la
fotografia di Ronis è incentrata sul suo vivo e sincero interesse per la
condizione umana. Questo ha portato il fotografo a porsi in maniera empatica
di fronte alle più semplici azioni d’ogni giorno, per scoprirvi un significato
esistenziale universale. Tutto ciò ha reso Ronis un grande fotografo umanista
più che un semplice reporter sociale. Forma e tempo sono due concetti chiave
nella sua arte . Come nella realtà circostante, anche nel proprio esprimersi
fotograficamente egli cercò sempre la semplicità, ma nell’accezione più alta del
termine, quella cioè di chiarezza ed immediatezza. Nei suoi scatti l’attenzione
alla forma diventa ricerca continua e tenace di un equilibrio, non da intendersi
come pura perfezione tecnica, quanto piuttosto come geometria interamente
dettata dal cuore e dai sentimenti. “Una foto significativa è una foto
funzionale. La funzione di una foto consiste nella sua capacità immediata di
sintetizzare la propria intenzione”.
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Tags: Willy Ronis, storia della fotografia, maestri della fotografia, fotografia
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Henri Cartier Bresson. Il maestro della fotografia
in mostra a Lucca
di Sara Filippi da http://www.teladoiofirenze.it
Henri Cartier Bresson. Photographer è il titolo della mostra ospitata al
Lucca Center of Contemporary Art, 133 fotografie per un’antologica
bellissima.
In fotografia, come in pittura ci sono delle figure mitiche, nomi che quando li
senti ti fanno alzare lo sguardo da cosa stai leggendo o interrompere le
chiacchiere che stai facendo. Insomma, nomi che destano interesse sempre e
risvegliano curiosità indipendentemente dal grado di conoscenza. Henri
Cartier Bresson è sicuramente uno di quei nomi.
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Henri Cartier Bresson è un mito della fotografia, pioniere del foto-
giornalismo e teorico dell’istante decisivo tanto da essere definito “l’occhio del
secolo”. Un secolo, il Novecento, che Cartier Bresson ha vissuto e attraversato
con una macchina fotografica tra le mani.
Molti anni fa, mio nonno, quasi coetaneo di Cartier Bresson e grande
appassionato di fotografia mostrandomi la sua Laica, mi parlava di un fotografo
francese di cui aveva visto una mostra al MOMA molti anni prima. Sfogliando
insieme un libro, per il quale, ho scoperto poi, Henri Cartier Bresson stesso
aveva scelto gli scatti da pubblicare, si definiva ai miei occhi l’idea di maestro
della fotografia e perché no, di mito.
Oggi, a trent’anni dalla pubblicazione di quel libro, Henri Cartier Bresson.
Photographer, diventa una mostra antologica imperdibile, il racconto di
quei momenti decisivi che hanno segnato la sua storia e per noi, un
immaginario del mondo della fotografia pieno di istanti capiti, fermati e resi
immortali.
Istinto, talento, intraprendenza e forse un po’ di fortuna sono gli elementi
fondamentali per definire il lavoro di un maestro della cattura dell’istante
che con la sua Laica ha raccontato eventi, attimi di quotidianità e reso icone i
suoi ritratti.
I campi di deportazione di Dessau, gli ultimi giorni del Kuomintang in Cina,
il funerale di Ghandhi, ritratti di personaggi come Jean Paul Sartre, Truman
Capote, Ezra Pound edHenri Matisse, paesi e città tra cui Istanbul, Berlino,
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Parigi, Firenze, Londra, Messico, Siberia, Arizona e una galleria di dettagli
umani, di espressioni e emozioni.
Sono solo alcuni dei temi di questa mostra davvero molto speciale, fatta di
scatti scelti e organizzati da Henri Cartier Bresson stesso. Una mostra che non
si deve perdere, un incontro che sarete felici di aver fatto, e che si aggiunge a
un'altra rassegna su un mostro sacro della fotografia, in corso in in corso in
Toscana: Steve McCurry a Siena.
Henri Cartier-Bresson. Photographer - A cura di Maurizio Vanni
dal 22 giugno al 3 novembre 2013 - Lucca Center of Contemporary Art
Lucca, Via della Fratta, 36 - Orario: dal martedì alla domenica 10.00 - 19.00, Lunedì e 15 agosto
chiuso. Biglietti: intero 9,00 euro; ridotto 7,00 euro
Photo credits: per l'immagine di copertina: © Claire Yaffa, undated, Portrait of Henri Cartier
Bresson and Martine Franck. La prima immagine nel testo: © Henri Cartier Bresson/Magnum
Photos. La seconda immagine nel testo: © Jane Bown, undated.
Jerry Uelsmann, il maestro che ha rivoluzionato il
linguaggio fotografico
da http://www.libreriamo.it
Considerato il precursore del fotomontaggio nell’America del XX secolo, con i
suoi esperimenti il grande maestro ha liberato la fotografia dal suo status di pura testimone del reale, portandola a nuova forma d’ arte
Jerry Uelsmann è uno dei più grandi maestri della fotografia moderna e
contemporanea. Fa parte di un selezionato gruppo di artisti che, attraverso sperimentazioni e approcci diametralmente opposti all’estetica dominante del
periodo, hanno rivoluzionato totalmente il linguaggio del mezzo fotografico. Uelsmann, per la sua tecnica innovativa utilizzata nel campo della fotografia è
considerato il precursore del fotomontaggio nell’America del XX secolo.
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JERRY UELSMANN – Uelsamnn è nato a Detroit l’11 giugno 1934. Mentre frequentava la scuola, all’età di quattordici anni manifestò i suoi primi interessi
per il mondo della fotografia. Egli credeva che attraverso la fotografia si potesse vivere in una sorta di mondo parallelo, ovvero quello catturato ed
immortalato attraverso l’obiettivo della macchina fotografica. Nonostante gli
scarsi rendimenti scolastici, è riuscito ad intraprendere già in giovane età alcune esperienze lavorative, e conseguire la laurea presso il Rochester
Institute of Technology nel 1957, dopo la quale ricevette la sua prima offerta di lavoro: insegnare fotografia presso l’Università della Florida. Nel 1967
Uelsmann ha esposto per la prima volta i suoi scatti in una personale allestita presso il Museo d’Arte Moderna, che ha aperto le porte alla sua carriera
fotografica. Sin dagli esordi della sua carriera, risalenti agli anni Cinquanta, divenne il pioniere di un approccio totalmente innovativo rispetto all’immagine
e al gusto tipici del tempo, che influenzò un’intera generazione di artisti e fotografi. La ricerca innovativa di Uelsmann è iniziato in particolar modo dal
lavoro sul negativo, rimaneggiato in camera oscura. L’artista ha incentrato tutto il suo spirito innovatore sul fatto che la fotografia finale non dovesse
essere legata ad un unico negativo, bensì essere composta da molti negativi diversi, ognuno dei quali serviva ad apportare un particolare dettaglio all’opera
finale. Il suo obiettivo era quello di creare un immaginario surrealista, che
riporta ad inevitabili associazioni e riferimenti all’opera pittorica di Renè Magritte, alla psicologia di Carl Jung e alla fotografia di Man Ray.
TECNICHE E LINGUAGGI INNOVATIVI – L'artista combina di volta in volta
immagini diverse per dar vita a sempre nuove creazioni. Un singolo negativo può essere reinterpretato e ridefinito nel suo significato infinite volte. Si tratta
di una vera e propria “ars combinatoria”, pensata e progettata per travalicare qualsiasi tipologia di barriera razionale. Questa teorizzazione ha fatto di
Uelsmann uno tra i più radicali ed influenti fautori della rivoluzione fotografica degli anni Sessanta. Tralasciando il concetto di istantaneità legato allo scatto,
ha ampliato e rivoluzionato il concetto stesso di fotografia, liberandola dal suo status di pura testimone del reale, per ampliarla a quella di arte, anticipandone
i tempi.
EFFETTI DIGITALI ATTRAVERSO L’ANALOGICO – Oggi, con l’avvento delle
macchine fotografiche digitali e dei diffusissimi programmi di fotoritocco è possibile realizzare prodotti molto simili a quelli di Uelsmann. La forza
innovativa del grande maestro sta proprio nell’essere riuscito a creare questo tipo di effetto soltanto attraverso l’uso delle tecniche analogiche, ed in
particolare attraverso la precisa ed attenta sovrapposizione di vari negativi su di una unica stampa. Nonostante questo carattere innovativo ed
anticonformista per il tempo, nelle immagini di Uelsmann la plausibilità del visibile non viene mai contraddetta: il reale non risulta mai deformato; ogni
elemento della scena, considerato singolarmente, non va ad interferire con la nostra capacità percettiva. Ciò che destabilizza è l’insieme della visione. Il
coinvolgimento estremo che si prova di fronte alle immagini del grande fotografo deriva in gran parte proprio da questo loro essere delle 'opere
aperte', suscettibili di illimitate interpretazioni. Nonostante l’avvento degli strumenti digitali, Uelsamnn, pur non essendone contrario, continua ad
utilizzare strumenti tradizionali, affermando “Io sono in sintonia con la
rivoluzione digitale in corso ed entusiasta delle opzioni visive create attraverso
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l’impiego del computer. Tuttavia, sento che il mio processo creativo rimane
intrinsecamente legata all’alchimia della camera oscura”.
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Gabriele prima di Basilico
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Gabriele Basilico, Glasgow, 1969, © Gabriele Basilico, g.c.
Fine anni Sessanta. Nel mondo esplode l’impazienza ribelle degli studenti, in
Italia la soggettività proletaria degli operai.
Ma a Glasgow uno studente d’architettura già intuisce il declino dell’era
industriale, la marginalizzazione sociale del lavoro di fabbrica, la
periferizzazione di classe.
Vede i relitti morenici della ristrutturazione capitalista, controffensiva che
cova sotto un’apparente ritirata. E fotografa tutto questo.
Gabriele Basilico non ha ancoraventicinque anni quando scrive con la
fotocamera questi veloci appunti di working class scozzese.
In questi anni ha appena cominciato a fotografare ed è ancora incerto sulla
strada da prendere: la sua storia lo spinge verso il reportage sociale, verso la
fotografia militante.
Ma in questo lavoro giovanile, che qualcuno avrà forse trascurato per i suoi
lavori maggiori quando è apparso in mostra al MuFoCo di Cinisello Balsamo,
pochi mesi dopo la scomparsa prematura di Basilico, ma che si potrà
intercettare fra pochi giorni allo Spazio Lavì di Sarnano, in provincia di
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Macerata, in questo lavoro giovanile, dicevo, abbiamo la preziosa, rara
occasione di capire come un fotografo agli esordi diventa un fotografo maturo.
Gabriele Basilico, Glasgow, 1969, © Gabriele Basilico, g.c.
È il 1969, dunque. Basilico, ancora studente, è molto interessato alle new
town, le città di fondazione. Viaggia assieme a Giovanna Calvenzi (curatrice
della mostra, che ringrazio per avermi messo a disposizione i suoi ricordi)
attraverso la Francia, sulla 124 di suo padre, senza una precisa meta. La
strada pian piano li spinge fino in Scozia. Si fermano alla periferia di Glasgow.
In una lunga conversazione videoregistrata con Amos Gitai, Gabriele
ricorderà poi “la sensazione di sofferenza, le case semiabbandonate in attesa di
essere demolite, lo strano silenzio, l’assenza di auto e la presenza invece di
bambini incuriositi dal nostro arrivo”.
Scatta una trentina di foto, solo un rullino. Al ritorno a Milano le stamperà
nella sua camera oscura domestica, le mostrerà a Lanfranco Colombo, che
entusiasta le esporrà nella sua galleria Il Diaframma. La sua prima mostra.
Del Basilico rigoroso, ortogonale, da cavalletto “a piombo” che conosciamo,
sembra esserci ancora poco. Vediamo piuttosto un reportage di strada, figura
ambientata, attenzione all’attimo e al movimento, c’è il mosso, ci sono gli
orizzonti non orizzontali, ci sono le composizioni di sbieco…
Gabriele Basilico, Glasgow, 1969, © Gabriele Basilico, g.c.
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Ci sono molti di quei bambini. Basilico non ha ancora scelto di diradare la
presenza fisica, individuale dell’uomo per mostrare i segni della sua presenza
sociale, storica. Scrive bene Pippo Ciorra nel testo che accompagna la mostra:
Come sarà poi nelle foto del Parco Lambro e in qualche altra occasione,
l’autore sembra attribuire un valore particolare alla presenza dei bambini,
come fossero attori più naturali e veloci di altri della scena urbana, interpreti
perfetti di quella incerta trasformazione cominciata col dopoguerra e ancora in
atto che Gabriele si è dedicato a raccontare per tutta la vita.
C’è un’eco di Bill Brandt in queste immagini: Basilico lo conosceva bene. C’è
anche qualcosa di Winogrand, che forse invece non conosceva altrettanto
bene, non so.
C’è la tradizione della fotografia sociale che annusa però il fremito
della street photography dell’era dell’incertezza.
Questo per me è un esempio di bildungsfotografie, è un fotoreportage di
formazione, ricco di promesse e fertile di tentativi ancora aperti. In pochi
scatti, l’occhio di Basilico cerca cose diverse fra loro, quasi divergenti.
Gabriele Basilico, Glasgow, 1969, © Gabriele Basilico, g.c.
Ma a tratti l’orizzonte si stabilizza, gli edifici si mettono in piedi, muti, i
piani prospettici si dispongono, misurabili come nelle sue fotografie di qualche
anno dopo.
È come assistere allo spuntare di un germoglio dalla terra, la forma finale
non si intuisce ma una fogliolina è già perfetta…
Tag: Amos Gitai, architettura, Gabriele Basilico, Giovanna Calvenzi, Glasgow, Il Diaframma, Lanfranco
Colombo, Mufoco, Sarnano, street photography
Scritto in Venerati maestri, paesaggio, street photography | Un Commento
Peter Keetman, maestro della fotografia soggettiva
da http://www.libreriamo.it
Membro del gruppo Fotoform, Keetman è passato alla storia per essere
stato uno dei maggiori esponenti della Fotografie Subjektive
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Peter Keetman, grande maestro della fotografia, è considerato uno dei
principali rappresentanti della fotografia soggettiva. Fu inoltre membro del
gruppo Fotoform, che ebbe una grande influenza nel periodo postbellico della
seconda guerra mondiale.
PETER KEETMAN - Peter Keetman si appassionò all’arte fotografica in tenera
età, grazie alla passione trasmessagli dal padre. Diciottenne, decise di studiare
fotografia presso la Scuola di Stato della Baviera a Monaco. All’età di ventun
anni riuscì a superare l'esame come apprendista. La sua carriera iniziò a
Duisburg, con il fotografo Hesse Gertrud. Questa esperienza durò due anni,
dopo i quali decise di dedicarsi alla fotografia industriale, lavorando per
l'azienda CH Schmeck a Aachen. Durante la seconda guerra mondiale venne
ferito gravemente e fu costretto a smettere di fotografare.
FOTOFORM - Nonostante le difficoltà non si arrese e decise di continuare a
studiare per diventare maestro nella scuola di fotografia a Monaco di Baviera e
poi a Stoccarda. Nel 1949 fu uno dei membri fondatori del Fotoform con Otto
Steinert, Toni Schneiders e Siegfried Lauterwasser. Fotoform fu un movimento
fotografico che esplorava le tecniche sviluppate dalla Bauhaus, la più avanzata
scuola di progettazione in Germania tra le due guerre mondiali. La fotografia
soggettiva seguita da Keetman attribuiva una considerevole importanza
all'apporto della visione dell'autore sull’immagine creata. Tale concezione,
anche se naturalmente insita a livello inconscio in qualsiasi attività artistica,
divenne determinante nelle scelte estetiche del movimento, affiorando a livello
di coscienza come guida del proprio lavoro.
LA POETICA DELL’AUTORE - Le fotografie di Keetman nascevano da una
sorta di protesta nei confronti della visione fotografica del periodo, invocando
un approccio sperimentale che ignorasse le convenzioni tecniche ed estetiche.
Attraverso le sue opere emergeva l’uso di una ricerca della forma astratta,
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derivata dai modelli presenti in natura e da un uso artistico della manipolazione
dell’immagine in camera oscura. L’ opera più conosciuta a livello internazionale
di Keetman è una collezione di fotografie sperimentali, chiamata "Gocce
iridescenti d’acqua", una serie di quadri sistemici concepiti su temi che
includono i primi piani di gocce d'acqua e di olio.
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Tags: Maestri della fotografia, Peter Keetman, fotografia soggettiva, Fotografie Subjektive, Fotoform, storia della fotografia
Fotografate, fotografate: ma poi che cosa resterà?
di Cesare Cavalleri da http://www.avvenire.it
Estate, vacanze, viaggi, fotografie. È un buon depurativo rileggere i saggi che Susan Sontag riunì nel 1977 sotto il titolo Sulla fotografia, testo prontamente
tradotto da Einaudi e più volte ristampato (l'edizione del 2004 è tuttora disponibile su Amazon).
«Viaggiare diventa una strategia per accumulare fotografie«, scrive Sontag. «L'attività stessa del fotografare è calmante e placa quella sensazione generale
di disorientamento che i viaggi rischiano di esacerbare. Quasi tutti i turisti si sentono costretti a mettere la macchina fotografica tra sé stessi e tutto ciò che
di notevole incontrano. Malsicuri delle altre reazioni, fanno una fotografia. Questo dà una forma all'esperienza: ci si ferma, si scatta una foto, si riprende
il cammino. È un metodo che garba soprattutto ai popoli handicappati da una spietata etica del lavoro, come i tedeschi, i giapponesi e gli americani.
Adoperare una macchina fotografica allevia l'angoscia che l'ossessionato dal lavoro prova non lavorando, quando è in vacanza e dovrebbe teoricamente
divertirsi. Può comunque fare qualcosa che è come una simpatica imitazione
del lavoro: può sempre fotografare». Qualcuno si riconosce in queste parole? Non è tutto, il bello deve ancora
venire. «Attraverso le fotografie – spiega Sontag – seguiamo, nella maniera più intima
e più conturbante, la realtà di come la gente invecchia. Guardare una vecchia fotografia di sé stessi, o di una persona che si conosce, o di un personaggio
pubblico molto fotografato, significa per prima cosa pensare: quanto più
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giovane ero (o era) allora. La fotografia è l'inventario della mortalità». Non
basta: «Il fascino che le fotografie esercitano, oltre che un memento della morte, è anche un invito al sentimentalismo. Le fotografie trasformano il
passato in un oggetto da guardare con tenerezza, sopprimendo le distinzioni morali e disarmando i giudizi storici con il pathos generico del passato».
È proprio così, la fotografia fissa in una frazione di secondo un volto, un
paesaggio, lo immobilizza per sempre. È l'antitesi della vita, che è un fluire dinamico: dopo una frazione di secondo, quel volto non è più lo stesso, e
neppure il paesaggio, abbiamo fatto un passo in là e lo guardiamo da un'altra prospettiva. Invero, la funzione peculiare delle fotografie è quella di
immortalare su ovali di porcellana la fisionomia dei defunti. Anche il film, anche la televisione invecchiano, ma, conservando il movimento, sono meno mortuari
della fissità cadaverica delle fotografie. Ben diverso è un quadro: dipingendo un ritratto, l'artista fissa un'interpretazione psicologica, quindi dinamica, del
soggetto, ben lungi dalla meccanica frazione cronologica della fotografia. Sontag è implacabile: «La fotografia trasforma la scoperta della bellezza delle
rovine, fatta dagli intellettuali settecenteschi, in autentico gusto di massa. Il fotografo, volente o nolente, è impegnato nel compito di rendere oggetto di
antiquariato la realtà, e le fotografie sono oggetti di antiquariato istantanei». E, quasi a conclusione: «Il più logico degli esteti ottocenteschi, Mallarmé, diceva
che al mondo tutto esiste per finire in un libro. Oggi tutto esiste per finire in
una fotografia». Con ciò, Susan Sontag nel suo libro ammira molti grandi fotografi e loda la
funzione museale delle fotografie. Del resto (certe cose è meglio saperle) dalla fine degli anni '80 alla morte, avvenuta quando aveva settantun anni nel 2004,
Sontag ebbe una relazione non ostentata ed estranea alle lobby gay e lesbo con Annie Leibovitz, la fotografa dei Rolling Stones. Insomma, non bisogna
sentirsi troppo in colpa se in vacanza si scattano fotografie. Basta conoscere i pregi (pochi) e i limiti (molti) del mezzo.
Mimmo Jodice, il maestro della sperimentazione
Da http://www.libreriamo.it/a/4654/mimmo-jodice-il-maestro-della-sperimentazione.aspx
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Tra i grandi maestri della fotografia italiana contemporanea, Jodice si
distingue per essere stato un fotografo di avanguardia, aperto a
continue sperimentazioni su diversi fronti
Mimmo Jodice è uno dei nomi più illustri della fotografia italiana
contemporanea. Fotografo di avanguardia sin dagli anni Sessanta, è stato
molto attivo sul piano della sperimentazione e delle possibilità espressive del
linguaggio fotografico. Strenuo sostenitore della fotografia in quanto arte, è
stato uno dei protagonisti che si è maggiormente battuto per l’affermazione
della fotografia italiana a livello internazionale.
MIMMO JODICE – Mimmo Jodice è nato a Napoli nel 1934. Amante dell’arte,
del teatro e della musica classica e jazz, da autodidatta si dedica al disegno e
alla pittura. Soltanto agli inizi degli anni Sessanta scopre il mondo della
fotografia. Questo mezzo gli consente di mettere a frutto tutto il suo estro
creativo, attraverso numerose sperimentazioni. La fotografia creativa è rimasta
il soggetto di maggior interesse dell’artista. Dal 1970 al 1994 insegna
fotografia all’Accademia di belle arti di Napoli. La sua prima esposizione viene
presentata al Palazzo Ducale di Urbino nel 1968 e nel 1970 al Diaframma di
Milano un’altra mostra dal titolo “Dentro Cartelle Ermetiche” con un testo di
Cesare Zavattini.
FOTOGRAFIA DI SCENARIO - Nel 1980 pubblica “ Vedute di Napoli”
attraverso cui avvia una nuova indagine sulla realtà, lavorando alla definizione
di uno spazio urbano vuoto ed inquietante di metafisica memoria. La sua
fotografia sociale non si colloca nel quadro del reportage tradizionale, in
quanto la sua attenzione si rivolge più allo scenario che all’azione stessa. In
questo periodo le storie degli uomini escono di scena, lasciando spazio alla
città vuota come metafisico contenitore. Gli anni novanta si caratterizzano per
un approccio orientato verso uno studio profondo delle impronte del passato
sul presente. Il volume Mediterraneo, pubblicato nel 1995 dalla casa editrice
Aperture di New York, rappresenta, infatti, frammenti di sculture e di edifici,
che appartengono alle origini greche condivise dai paesi del Mediterraneo,
esaltati attraverso un bianco e nero nettissimo.
POETICA E RICONOSCIMENTI - Nel 2003 Jodice è il primo fotografo a
ricevere il Premio "Antonio Feltrinelli" dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Nel
2006 l'Università Federico II di Napoli gli conferisce la Laurea Honoris Causa in
Architettura. Jodice fotografa in pellicola con un Hasselblad medio formato. La
sua opera è caratterizzata da un bianco e nero di gran contrasto. Gran parte
del suo lavoro viene svolto in camera oscura, dove ridipinge le immagini
scattate rendendo i bianchi accecanti e neri tanto profondi da ingoiare quasi
completamente le figure. Oggi Jodice è una figura centrale di riferimento per le
nuove generazioni che riconoscono nel suo lavoro una sensibilità ed una
capacità unica nel coniugare sapientemente innovazione e raffinatezza classica.
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Tags: Mimmo Jodice, maestri della fotografia, storia della fotografia, fotografia
Rassegna Stampa del Gruppo Fotografico Antenore BFI a cura di Gustavo Millozzi, MFIAP-HonEFIAP-SemFIAF
www.gustavomillozzi.it
www.fotoantenore.org [email protected]