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Editore Associazione Amici dei Musei d’Abruzzo | S.S. 5 bis n. 5, 67100 L’Aquila Tribunale dell’Aquila n°553 del Registro Giornali 18.03.2006 I MUSEI DI MU6 A CURA DI MASSIMILIANO SCUDERI CLAIRE BISHOP, CRISTIANA COLLU, MARK DION, XAVIER DOUROUX, FRANÇOIS HERS, RAFFAELLA MORSELLI, DAN PERJOVSCHI, PIERLUIGI SACCO E MOLTI ALTRI… A R T E | C U L T U R A | I M P R E S A | P A E S A G G I O | T E R R I T O R I O F I D A M Periodico Trimestrale Gratuito - Poste Italiane Spa - spedizione in abbonamento postale - 70% - Pescara Anno IX / I Trimestre n° 30 - 2014

Gennaio 2014 - I MUSEI DI MU6

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Page 1: Gennaio 2014 - I MUSEI DI MU6

Editore Associazione Amici dei Musei d’Abruzzo | S.S. 5 bis n. 5, 67100 L’AquilaTribunale dell’Aquila n°553 del Registro Giornali 18.03.2006

I MUSEI DI MU6A CURA DI MASSIMILIANO SCUDERI

CLAIRE BISHOP, CRISTIANA COLLU, MARK DION,XAVIER DOUROUX, FRANÇOIS HERS, RAFFAELLA MORSELLI,DAN PERJOVSCHI, PIERLUIGI SACCO E MOLTI ALTRI…

A R T E | C U L T U R A | I M P R E S A | P A E S A G G I O | T E R R I T O R I O F I D A M

Periodico Trimestrale Gratuito - Poste Italiane Spa -spedizione in abbonamento postale - 70% - Pescara

Anno IX / I Trimestre n° 30 - 2014

Page 2: Gennaio 2014 - I MUSEI DI MU6

Ritengo importante aver potuto curare questo numero di MU6 perché credo sia giunto il momento di ap-

profondire la riflessione sull’arte in relazione ad acuni aspetti importanti della contemporaneitàquali quelli relativi al suo rapporto con le strutture sociali, con le problematiche del progetto o con tutti

quei processi che regolano, ad esempio, le qualità dello spazio pubblico contemporaneo. il progetto pro-

pone quindi un approccio metodologico che permette di considerare la rivista una piattaformaper uno scambio informale, un luogo aperto dove accogliere idee e delineare possibili modelli che ten-

gano conto delle urgenze che la contemporaneità stessa ci pone e che possiedano un valore intrinseco

progettuale, mettendo in relazione il passato con ciò che è immanente.

Per questo motivo mi sono chiesto ad esempio quale fosse la necessità, oggi, di inaugurare così tan-

ti musei, tenendo conto quanti siano gli spazi in totale abbandono o in disfunzione e quali forti difficoltà

economiche affliggano ad esempio l’Europa e, quindi, come fare ad affermare un principio che, a mio pa-

rere, si colloca diametralmente all’opposto. Questo principio nasce dalla mia personale esperienza di Fuo-

ri Uso e dall’aver condiviso progetti, professionali e di vita, con molti artisti che sono stati per me le ‘bus-

sole’ per comprendere la realtà e talvolta per risignificarla. Quello che ho capito, infatti, è che l’arte si pre-

senta al giorno d’oggi come qualcosa di completamente sublimato, in una forma che potremmo facilmente

assimilare al concetto del servizio, qualcosa che potrà trovare luogo ovunque e che nel futuro costituirà

uno strumento importante per ognuno di noi come soggetto collettivo.

Per comprendere meglio questo, ho fatto ciò che mi sembrava più ovvio ovvero quello di mettere insieme

alcune persone (una comunità riunita intorno ad un focus tematico centrale, ma anche al di là di unruolo o di specifiche competenze) alle quali chiedere di spiegare le caratteristiche di un museo ‘vera-

mente’ contemporaneo, intendendo con questo un’entità complessa, anche contraddittoria, in cui il pro-

cesso di costruzione sia più importante del contenitore e di cui noi, e solo noi, possiamo es-sere il vero edificio.

Peter Sloterdijk parla di un postumanesimo e di una costituzione ontologica, ovvero dell’idea di supera-

mento della frontalità dei limiti e delle frontiere. Penso che questi saggi parlino anche di questo, oltre la

loro specificità, ovvero di una rivoluzione democratica, di una svolta che unisce in modo trans-disciplinare i linguaggi, le discipline e gli individui nell’ottica di una condivisibile prospettiva culturale.

Voglio infine ringraziare tutti coloro che hanno voluto contribuire a questo progetto, oltre a Germana Gal-

li, Walter Capezzali, la redazione e Franco Mancinelli perché questo numero rappresenta oltretutto il mio

personale riconoscimento al loro impegno e alla loro onestà culturale.

Massimiliano Scuderi

i MUSEi Di MU6

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Numero a cura di Massimiliano Scuderi

MU6 n.30Periodico Trimestrale ideato da Germana Galli

EditoreAssociazione Amici dei Musei d’AbruzzoS.S. 5bis n.5, 67100 L’Aquila

[email protected]

Direttore ResponsabileWalter Capezzali

Coordinamento editorialeGermana Galli

RedazioneNicla Cassino, Angela Ciano, Giovanni Di Bartolomeo, Paola Mulas, Antonella Muzi, Massimiliano Scuderi, Filippo Tronca.

Si Ringraziano:Daniela Bigi, Antonio Brizioli, Antonella Bruzzese,Claire Bishop, Cristiana Collu, Andrea Crismani, Mark Dion,Giacinto Di Pietrantonio, Domenico D’Orsogna, Xavier Douroux, Francesco Garofalo, François Hers, Cesare Manzo, Raffaella Morselli, Francesco Nucci, Dan Perjovschi, Alfredo Pirri, Pierluigi Sacco.

Si Ringraziano inoltre:Atelier Le Balto; Manuela Blasi; Jean-Jacques Boutaud; Renee Coppola, Emily Ruotolo, Annie Rochfort - Tanya BonakdarGallery, NY; Eugenio Coccia; Laïla Farah - Insitu Gallery, Parigi;Flavia Fossamargutti; Friends of the High Line, NY; Franck Gautherot, Irene Bony - Le Consortium, Digione; Silvano Manganaro; Claude Patriat; Lia Perjovschi; Mariette Schiltz e Bert Theis; Dana Sherwood; Antonella Varaschin.

Progetto graficoAd.Venture / Compagnia di comunicazioneimpaginazione a cura di Franco Mancinelli

TraduzioniNicla Cassino, pag 6Paola Mulas, pagg 8, 9, 10, 11Massimiliano Scuderi, pagg 5, 7

FotoIwan Baan, pag 27Christopher Burke Studio, pag 5Giulia Caira, pag 9Riccardo Carabelli, pag 24Amanda Dandeneau, pag 5Art Evans, copertinaCarlo Furgeri Gilbert, pag 21Fernando Guerra, pag 21Antonello Idini, pag 13Ela Bialkowska e Attilio Maranzano, pagg 8, 19, 29André Morin, pagg 10, 11Salvatore Prestifilippo, pag 16Bert Theis, pag 28Lia Perjovschi, pag 6Ufficio Comunicazione INFN, pag 31Zarko Vijatovic, pag 11- Maria Zanchi, pag 20Stefania Zocco, pag 15

StampaPoligrafica Mancini - Sambuceto / Chieti

DistribuzioneSpedizione postale

© MU6 / 2014 stampato in Italia

Per ricevere a casa la rivista è sufficiente un contributo annuo

di Euro 10,00 per la spedizione postale.

Per sostenere l’attività di MU6invia Euro 30,00.

Il pagamento può essere effettuato sul sito della rivista

www.rivistamu6.it/abbonamenti.html

o con bonifico bancarioIBAN IT39T0604003797000000131713

intestato Associazione Amici dei Musei d’Abruzzo

DOVE TROVARE MU6: WWW.RIVISTAMU6. IT | MUSEI DELLA REGIONE ABRUZZO | ALBA ADRIATICA:LIBRERIA LA NUOVA EDITRICE (LUNGOMARE MARCONI , 270 - ALBA ADRIATICA) | ASCOLI P ICENO:LIBRERIA LA NUOVA EDITRICE (P IAZZA DEL POPOLO, 26 - ASCOLI P ICENO) | AVEZZANO: LIBRERIAMONDADORI (V IA MONSIGNOR BAGNOLI , 86 - AVEZZANO) | L IBRERIA LA NUOVA EDITRICE (CORSODELLA L IBERTÀ, 110 - AVEZZANO) | BOLOGNA: LIBRERIA FELTRINELLI (P IAZZA RAVEGNANA. 1 -BOLOGNA) | L IBRERIA P ICKWICK (GALLERIA 2 AGOSTO 1980, 3/2 - BOLOGNA) | CHIETI : LIBRERIA DELUCA (V IA C . DE LOLLIS , 12/14 - CHIET I ) | FIRENZE: LIBRERIA LA FELTRINELLI (V IA DE ’ CERRETANI ,30/32R - F IRENZE) | L’AQUILA: CAFFÈ POLAR (V IA SANTA G IUSTA, 17/21- L ’AQUILA) | L IBRERIACOLACCHI (V IA ANDREA BAFILE , 17- L ’AQUILA) | L IBRERIA LA NUOVA EDITRICE (CORSO FEDERICO I I ,28- L ’AQUILA) | MILANO: LIBRERIA FELTRINELLI (V IA ALESSANDRO MANZONI , 12 - MILANO) | PESCA-RA: LIBERNAUTA (V IA TERAMO, 27 - PESCARA) | L IBRERIA FELTRINELLI (V IA MILANO, ANGOLO V IATRENTO - PESCARA) | RIETI : LIBRERIA LA NUOVA EDITRICE (V IA ROMA, 35 - R IET I ) | ROSETO DEGLIABRUZZI : LIBRERIA LA NUOVA EDITRICE (V IA NAZIONALE, 212 - ROSETO DEGLI ABRUZZI) | ROMA:LIBRERIA FELTRINELLI (V IA DEL CORSO, 506 - ROMA) | L IBRERIA FELTRINELLI (V IA G IULIO CESARE,88 - ROMA) | SALERNO: LIBRERIA FELTRINELLI (V IA TORRETTA,1 - SALERNO) | SULMONA: LIBRERIALA NUOVA EDITRICE (CORSO OVIDIO , 190 - SULMONA) | TERAMO: LIBRERIA LA NUOVA EDITRICE(CORSO SAN GIORGIO, 81 - TERAMO) | L IBRERIA LA NUOVA EDITRICE (V IA P. TACCONE, 12 - TERAMO)| VASTO: NUOVA L IBRERIA (P IAZZA BARBACANI , 9 - VASTO) | WWW.RIVISTAMU6. IT

MU6: Padiglione Editoria - Centro Servizi

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I MUSEI DI MU6

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COVER PAGINA 2

in copertina:

Mark Dion, 2012Phantoms of the Clark Expedition, The Explorers Club, New York

Photo: Art Evans © 2012 Sterling and Francine Clark Art institute,Williamstown, Massachusetts and Mark DionCourtesy l’artista e Tanya Bonakdar Gallery, New York

I MUSEI DI MU6Massimiliano Scuderi

PAGINA 5

MARK DIONiNTERViSTAa cura di Massimiliano Scuderi

PAGINA 7

CLAIRE BISHOPintervista a cura di Massimiliano Scuderi

PAGINA 6

DAN PERJOVSKYintervista a cura di Massimiliano Scuderi

PAGINA 8

ARTE E SOGGETTO DEMOCRATICO:FRANÇOIS HERS E I NOUVEAUX COMMANDITAIRESintervista a cura di Paola Mulas

PAGINA 10

L’ARCHITECTURE C’EST TOI, YOU ARE THE BUILDING!Una conversazione traMassimiliano Scuderi e Xavier Douroux

PAGINA 14

IL MUSEO E IL TERRITORIO (A SUD)Daniela Bigi

PAGINA 13

ALFREDO PIRRI - PASSIAlfredo Pirri

PAGINA 16

I POLITICI NON SI FIDANO DELL’ARTEPERCHÉ L’ARTE NON SI FIDA DI LOROUna conversazione traMassimiliano Scuderi e Cesare Manzo

PAGINA 17

PARCO NOMADEintervista a Francesco Nuccia cura di Massimiliano Scuderi

PAGINA 20

DiRETTORi A CONFRONTO: GIACINTO DI PIETRANTONIOintervista a cura di Massimiliano Scuderi

PAGINA 19

LA CULTURA COME MOTORE D’INNOVAZIONE PER IL TERRITORIOPierluigi Sacco

PAGINA 21

DiRETTORi A CONFRONTO: CRISTIANA COLLUintervista a cura di Massimiliano Scuderi

PAGINA 22

IL MUSEO E I SUOI PUBBLICI: ESPRIMERSI PER IMPARAREAntonella Muzi

PAGINA 24

BEING FOR SOMEBODYiL MUSEO COME LUOGO Di PRATiCHE QUOTiDiANE E COiNVOLGiMENTOAntonella Bruzzese

PAGINA 23

CONDIVIDERE IL PATRIMONIO DEL MUSEO: LE SPERIMENTAZIONIDEL RIJKSMUSEUM DI AMSTERDAMRaffaella Morselli

PAGINA 25

ARCHITETTI E COMMITTENTIFrancesco Garofalo

PAGINA 26

BIODROID NAViGARE NELLA RETE DELLA ViTAFilippo Tronca

PAGINA 28

ISOLA ART CENTER E I VANTAGGI DEL CENTRO DISPERSOAntonio Brizioli

PAGINA 27

IL VERDE NON È UN COLOREGiARDiNi ‘Più O MENO’ SPONTANEi NELLOSPAZiO PUBBLiCO CONTEMPORANEONicla Cassino e Giovanni Di Bartolomeo

PAGINA 29

MUSEI: PROBLEMI GIURIDICIDomenico D’Orsogna e Andrea Crismani

PAGINA 31

DAL GRAN SASSO SCIENCE INSTITUTEPARTE LA SFIDA DELLA CONOSCENZAAngela Ciano

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Massimiliano Scuderi: Collezionare e clas-sificare è un modo per rappresentare ilmondo o cos’altro? Qual è il tuo modusoperandi?Mark Dion: Collezionare e classificare è unmodo per iniziare una conversazione sulmondo. È parte della costruzione di un vo-cabolario, una costellazione condivisa di ter-mini attraverso i quali indagare un discor-so. Le cose sono strumenti sorprendenti perraccontare storie, narrare costruzioni, con-trasti e comparazioni. inutile dire, ci sonomolti differenti tipi di cose da collezionaree ragioni per riunirle. Ci sono numerosimodi per acquisire materiale, dalle più im-portanti forme etiche di scambio a quelle piùavide e preziose.Quello a cui sono particolarmente interes-sato è la storia delle collezioni: nel tentati-vo di comprendere quale siano gli impeti fi-losofici, politici e pratici che sottengono allacostruzione e all’organizzazione di una col-lezione. Quali siano le storie ufficiali, e an-che quali siano le agende segrete e i moti-vi reconditi per raccogliere oggetti, questesono le mie domande. Molto del mio lavo-ro tenta di esaminare i metodi e le strate-gie delle collezioni del passato in qualchemodo per delucidare la loro logica e il loroordine e per connettere questo con l’ideo-logia e la storia sociale. in qualche modo, fac-cio enciclopedie di metodi per colleziona-re e di spiegazioni razionali. Oltre vent’an-ni fa o giù di lì, ho lavorato con una varietàdi organizzazioni che mantengono dellecollezioni. Questo insieme di istituzioni uf-ficiali come musei, zoo, archivi, giardinibotanici i quali hanno collezioni molto for-mali per organizzazioni che non riconoscononeanche se stesse come istituzioni sul col-lezionismo come università e anche città.il cuore di queste indagini non rappresen-tano tanto ciò che queste collezioni diconodel mondo, quanto ciò che dicono di noi.

MS: Nel libro Collezione di Sabbia Italo Cal-vino scriveva che: questo campionario del-la Waste Land universale stia per rivelarciqualcosa di importante: una descrizione delmondo? Un diario segreto del collezionista?O un responso su di me che sto scrutandoin queste clessidre immobili l’ora a cuisono giunto? Qual è la relazione tra ‘sog-getto’ e ‘oggetto’ nel tuo lavoro?

MD: il mio lavoro è fortemente conte-stuale. Gli obiettivi, le metodologie, le con-dizioni di ciascun progetto sono comple-tamente dipendenti dal sito, il che includeil contesto temporale o zeitgeist e il mio ca-rattere. Così ogni progetto è terribilmen-te diverso anche se vincolato ad un’inda-gine impegnata sulla storia della culturanaturalistica e sulle questioni legate acome e cosa apprendiamo. il mio rappor-to con il soggetto e con l’oggetto del miolavoro è un setacciare quindi. Sento che arivelare di più sarebbe un po‘ come se Hou-dini avesse dato via il segreto del funzio-namento di un trucco.

MS: Neukom Vivarium è un lavoro ibrido cherappresenta un complesso sistema di ciclie processi. Quanto è importante il proces-so nel tuo lavoro ?MD: il processo è uno dei cardini del mio la-voro. il lavoro è attivo e spesso raggruppalo spazio espositivo, lo studio e il laborato-rio. in numerosi progetti sono presentecome una sorta di performer per almenoparte del progetto. Si tratta di un rapportocomplesso con l’attività performativa, datoche non ho mai finto o non mi sono maicomportato come qualcun altro (un biolo-go marino o un archeologo per esempio), machiaramente non sono neanche me stesso.Anche nei progetti in cui il processo in attonon sia visibile, vi è spesso una rappresen-tazione teatrale che incarna il processo. Mi sento abbastanza avido circa l’inclusio-ne del processo, dal momento che sonospesso privilegiato nel condividerne la ric-chezza avendo accesso a studi di artisti ea laboratori di scienziati. C’è una profonditàe complessità circa quegli spazi che possonoessere produttivi nel condividere. Non ho maiincontrato un dipinto che fosse più inte-ressante nella galleria di quanto non lofosse nello studio.il processo di esporre aiuta anche a con-trastare l’autorità di un lavoro in modoproduttivo. Ciò permette allo spettatore dicapire la contingenza della produzione; pervedere che c’erano strade non percorse, de-cisioni che non erano inevitabili o naturali espazio per errori. Ciò taglia dal basso l’au-torità di un lavoro in senso partecipativo pergli spettatori.

MARk DiONiNTERViSTA

Mark Dion, Providence Cabinet, 2001, Tecnica mista, cm 254 x 187 x 48. Courtesy l’artista e Tanya Bonakdar Gallery, New York

Ritratto di Mark Dion. Photo Amanda Dandeneau, 2010. Courtesy l’artista

Mark Dion, The Octagon Room, 2008, installazione, cm 254 x 838.2 x 838.2. Photo: Christopher Burke Studio. Courtesy l’artista e Tanya Bonakdar Gallery, New York

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DAN PERJOVSCHI

Massimiliano Scuderi: All’inizio del tuo la-voro di artista, hai iniziato a ricoprire di car-ta l’appartamento e a disegnare sulle pa-reti come per la frustrazione dovuta allamancanza di possibilità e alla censura(tratto da una recente intervista su Arter-ritory). Quando e dove hai iniziato?Dan Perjovschi: in realtà era più destina-ta a essere una sorpresa per mia moglie Lia,che aveva la sua prima vacanza dall’acca-demia d’arte di Bucarest. Ed è stata una sor-presa! Vivevamo a undici ore dalla capita-le sul confine occidentale. Lia ha lottato perentrare a scuola per anni… centinaia di can-didati per sei posti (per non parlare del ne-potismo e del rapporto con il partito). Dicoquesto perché al tempo in cui ho fatto ciò,non avevamo alcuna conoscenza di “in-stallazione”, “performance” o altri mezzicontemporanei. Le nostre educazioni nel-la storia dell’arte si fermavano a prima di Pi-casso… Beh, la censura era un problema.Non si poteva fare nulla ufficialmente,senza passare attraverso tre commissio-ni di censura. È stato più umiliante che tra-gico. Ma abbiamo trovato modi (fuori suicampi e dentro le nostre case) per eserci-tare un po’ di libertà. Era più un istinto di so-pravvivenza che una tattica dissidente.Volevo fare qualcosa di diverso e volevocreare qualcosa di speciale per Lia. E que-sto è come ho cominciato. Ho realizzato ilprimo disegno in una stanza privata nel1988 e di nuovo in pubblico nel 1991 in oc-casione della prima “libera” mostra nazio-nale per giovani artisti dopo la caduta delcomunismo. Ma, come pratica artistica, ini-zierò a utilizzare costantemente il “walldrawing” solo intorno al 2000. Studio arteda quando avevo dieci anni. Ho frequenta-to la scuola d’arte, il liceo artistico e l’ac-

cademia d’arte. Dopo dodici anni sonouscito dal sistema educativo come “artista”senza pormi nessun interrogativo. Mi sonolaureato nel 1985. Ma onestamente misono sentito un artista molto più tardi… Fac-ciamo un riassunto: mi laureo nel 1985, pri-ma mostra personale nel 1987, primo“drawing action” nel 1991, la prima mostrapersonale che ho amato è stata nel 1995presso il Franklin Furnace di New York, il pri-mo interesse internazionale nel 1988 a Ma-nifesta in Lussemburgo, grande attenzio-ne internazionale alla Biennale di Veneziadel 1999, primi grandi disegni in stanze mul-tiple nel 2003 a kokerei Zollverein (un’ex mi-niera di Essen) e un dibattito costante in-dirizzato al disegno dalla personale del2005 del Ludwing Museum di Colonia, nel-lo stesso anno la Biennale di istanbul… Daqui Tate, Moma, Pompidou e il resto…

MS: Di solito lavori disegnando scene umo-ristiche e politiche sulle pareti di musei egallerie. Qual è il tuo rapporto con il pub-blico?DP: il mio stile e il mio modo di disegnaresono stati influenzati lavorando per unsettimanale politico, il primo settimanale in-dipendente nel mio paese dopo la cadutadel comunismo… Dovevo disegnare con l’i-dea del pubblico nella mente. i giornali de-vono vendere e la gente deve leggerli… i mieidisegni si aprono all’attualità e a cosa le per-sone sperimentano ogni giorno. Ho dise-gnato del mio paese e della sua transizio-ne ogni settimana fin dal 1990. Quando lamia carriera è decollata, ho iniziato a di-segnare sul resto del mondo e sui suoi pro-blemi… Dal 2000 quest’approccio locale-globale mi da una profonda visione della so-cietà di oggi. Sono diventato popolare siaper il portiere che per il direttore del museod’arte. Le persone possono relazionarsicon ciò che disegno, perché parla delle lorovite… Utilizzo l’umorismo, ma con grandeserietà. E non considero i miei disegni de-gli schizzi. Sono disegni. Per alcuni di essiho necessitato di anni per definirli. Non c’èlinea o punto che possa essere eliminato omodificato. Si tratta di un disegno in unaforma pura stabile e definitiva. L’essenzadell’essenza…

MS: Il tuo lavoro è focalizzato su questio-ni globali e locali come una sorta di visio-ne politica ed io ritengo molto interessan-te quando sostieni di essere più “time

specific” che “site specific”. Qual è la tuaopinione sul ruolo dell’artista nella con-temporaneità?DP: Dico “time specific” perché costruiscole mie mostre sugli eventi di quel mo-mento… per quanto possano essere noti-zie di carattere internazionale e locale. Lastruttura concettuale della mostra è datadalla predominanza della narrativa. Natu-ralmente riutilizzo i disegni e alcuni temirimangono fissi e stabili per decenni, maci sono eventi nuovi e particolari che pos-sono influenzare i miei disegni. il pubblicoavrà i riferimenti e sarà esso stesso a es-sere collocato nell’“ora” e nel “qui”. Beh, iopenso che gli artisti contemporanei devo-no contribuire, non alla propria carriera per-sonale, ma ad una profonda comprensio-ne dei tempi e della politica che stiamo vi-vendo. Noi siamo un supporto qualificatoe competente per assistervi in una visio-ne più profonda e più ampia… io ho la miainterpretazione personale dei fatti. Lo fac-cio con umorismo, tenerezza e vuoto, masenza pietà. il mio humour è pungente.Posso svegliarti. Devo fare questo! Pensoche istituzioni d’arte, musei, fiere, gallerie,sono in generale piattaforme molto artifi-ciali… Se avete guardato le immagini di “Oc-cupy Gezi” di istanbul e le confrontate conle immagini della Biennale di Venezia, l’e-vento artistico era cosi noioso e falso. Comeartisti dobbiamo avere indietro il nostroruolo nella società e uscire dalle nostre lus-suose prigioni. Ciò diminuisce il mercato,ma incrementa l’arte…

MS: Michael Foucault ha sostenuto che nonc’è una sola cultura al mondo dove sia per-messo fare di tutto. Qual è il tuo rapportocon le istituzioni? È possibile oggi una li-bera espressione?DP: Si, ma sostengo una libera espressio-ne con responsabilità. Oggi è facile far ar-rabbiare la gente per umiliare o creare scan-dalo. È facile innescare una guerra. Ma è piùcomplicato creare comprensione e dialo-go. Evito di rendere aspri i miei disegni. Vo-glio che le persone che io critico lo faccia-no. Quando disegno un banchiere in unaschiera di vampiri e una maschera di “scarymovie” per Halloween, il messaggio può es-sere compreso dal banchiere stesso…Quando scrivo “il nuovo angelo custode”sotto un drone, il messaggio può essere ca-pito da una persona che usa un drone… Manoi dobbiamo (e con “noi” intendo tu, il pub-

blico, gli artisti, le persone che lavorano nel-le istituzioni) combattere e resistere perpreservare la libera espressione. Dobbiamoessere innovativi, intelligenti, onesti e de-terminati…

MS: Tramite questo tema, vogliamo capi-re quale potrebbe essere il museo del fu-turo e che tipo di forma potrebbe avere. Inun certo senso tu hai appena dichiarato inuna recente intervista che le migliori isti-tuzioni sono i modelli tedeschi di Kunstve-rein e Kunstahalle perché: “Sono spazipubblico-privati, dove puoi realizzare qual-siasi cosa tu voglia”. Infine, potresti darciun suggerimento per un museo del futuro?DP: Beh, come si legge nel libro di Claire Bi-shop “Radical Museology” ci sono musei in-teressanti in tutto il mondo. Lei ne menzionaproprio alcuni: Van Abbemuseum di Eindho-ven, Moderna Galerija di Lubiana, il Macbadi Barcellona, etc. Probabilmente tu hai i tuoipreferiti. Ci sono posti e persone che stan-no riformando il “museo”. Ho ammirato ilmodello “kunstverein” perché sono riu-sciti a sopravvivere alle crisi economiche,essendo allo stesso tempo di interesse peril paese, la regione, la città e la comunità.Sono più per la sperimentazione che per laconservazione dell’arte. Anche la pressio-ne del mercato non è applicabile in misu-ra cosi grande come in una situazione digalleria… Ma probabilmente ci sono altrimodelli. Penso che i musei del futuro deb-bano essere più aperti, più coraggiosi. Do-vrebbero bilanciare progetti e sperimen-tazione di attualità con chiari riferimentiprovenienti dalla storia dell’arte. Devono ri-confermare la loro autonomia, ma allostesso tempo incrementare il loro rappor-to con le comunità. Devono ridefinire il rap-porto con il pubblico. Più accessibilità, piùsignificato. Consentiamo di aggiungerequalche cantina ai ristoranti di lusso. Apria-moci al resto della “cultura”. Ci sono modiinnovativi di visualizzare, mostrare e co-municare. Possono imparare dagli artisti eformare nuove persone. i musei e le piat-taforme di arte indipendente sono molto im-portanti in un mondo di profitto… Ci sonoterritori in cui le idee prendono forma,crescono, e si mostrano. incredibile! Dob-biamo tutti sostenere, aiutare, criticare econtribuire.

Dan Perjovschi. Tate Modern, 2006. Photo Lia Perjovschi

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Massimiliano Scuderi: Il tuo nuovo libro èintitolato Radical Museology. In che cosaconsiste la tua riflessione?Claire Bishop: il mio nuovo libro è una ri-sposta a diversi problemi. in primo luogo,risponde alle misure di austerità che sonoattualmente imposte in tutta Europa, chestanno avendo un effetto negativo sui fi-nanziamenti pubblici e sui musei. La mag-gior parte dei musei stanno rispondendoattraverso blockbuster populisti e spon-sorizzazioni. Tuttavia, tre dei più interes-santi musei in Europa non stanno pren-dendo questa strada, ma hanno usato i ta-gli ai finanziamenti per la produzione di in-novativi, programmi politicizzati: il ReinaSofia (Madrid), il Van Abbemuseum(Eindhoven) e la MSUM (Lubiana). Tutti etre hanno i direttori di sinistra, e questo im-

pegno politico ha generato allestimentiestremamente creativi della collezionepermanente.in secondo luogo, il libro risponde ai recentidibattiti sul ‘contemporaneo’ (come ca-tegoria distinta dal moderno e dal post-moderno). il mio libro propone quindi unalettura della contemporaneità non comeuna periodizzazione (diciamo ‘arte dal1960’ o ‘arte dopo il 1989’), ma come me-todo dialettico: un modo di guardare in-dietro e pensare storicamente che è infor-mato dalle urgenze dell’oggi. Queste ur-genze (che potrebbero includere que-stioni sociali e politiche) determinanoquali narrazioni storiche diciamo nel pre-sente, che a loro volta influenzano il modoin cui guardiamo al passato.

MS: Molti artisti hanno concentrato leloro ricerche su aspetti specifici dellacontemporaneità, andando oltre i limiti im-posti dalle aree di riferimento in modo in-terdisciplinare. Pensi che questo atteg-giamento influenzerà i musei nel futuro?CB: Penso che questo stia già interessandoalcuni dei più avventurosi, i musei impe-gnati che ho citato sopra. Tuttavia, per lamaggior parte dei musei, questo tipo di la-voro interdisciplinare è principalmenteda ricercare negli spazi per i progettitemporanei, più che nelle collezioni per-manenti. La maggior parte delle collezio-ni museali sono ancora sposate ad oggettiportatili nei media tradizionali che formanouna chiara continuità con il lavoro già fat-to nella collezione esistente.

MS: Jacques Rancière parla del rapportotra estetica e strutture sociali. Per te, qualè il ruolo dell’estetica nella società?CB: Questa è una grande domanda! ilruolo dell’estetica è sempre stata in ulti-ma analisi, per me, un contrappunto di alie-nazione. Una buona opera d’arte (conqualsiasi mezzo o genere) ti fa sentire piùvivo e rassicura che non siete soli nel mon-do. Oggi, l’esperienza estetica assumemolte forme. La mia preferenza è per unlavoro che si impegna con le contraddizionie le difficoltà del nostro tempo, e che creaun nuovo vocabolario che ci permette dipercepirlo.

CLAIREBISHOP

Radical Museology, Edizioni Walther koenig, iSBN 9783863353643

Claire Bishop è docente di Contemporary Art,Theory and Exhibition History presso il GraduateCenter di New York. I suoi interessi si focalizzanosui pubblici e sul rapporto tra arte e politica.Scrive regolarmente su Artforum ed altre riviste.

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Osservando la relazione tra società e arte contemporanea, l’impressione che si riceve è quel-la di traiettorie che non si intersecano se non saltuariamente. Nonostante i meritevoli sfor-zi di tanti artisti e professionisti del settore, nella realtà dei fatti avviene che il pubblico, am-bito interlocutore, resti invece solamente il fruitore di un evento culturale e si muova solo inoccasione di circostanze di grande richiamo o di approcci ludici all’arte, risultato di un’ideavaga di politica culturale. Non che in questo vi sia qualcosa di catastrofico: l’intrecciarsi diistituzioni blasonate, artisti e professionisti di grido e grandi capitali economici offre con-tributi di alto livello permettendo a chi ne abbia gli strumenti, come diceva Bourdieu, di ap-propriarsi dell’opera d’arte in quanto bene simbolico1. Ma com’è possibile che oggi, in un mon-do che si confronta con l’urgenza di una nuova rappresentazione di sé, l’arte debba dimo-strarsi così elitaria e limitarsi al punto di esaurire il proprio contributo critico e simbolico nelsusseguirsi di una serie di episodi di grido, incomprensibili ai più? Con questo non si deve intendere che sia necessario trovare per l’arte una dimensione so-ciale, come tante volte è già avvenuto nella storia passata e recente. Piuttosto che sia ne-cessario non confinare a visioni utopistiche una riflessione su quale contributo l’arte pos-sa offrire e ricevere dal grande numero di soggetti che, vivendo dei privilegi di uno stato didiritto, stanno costruendo oggi una versione del mondo, e della società, di domani. Questoprofondo legame tra arte e soggetto democratico sta al cuore di Nouveaux commanditai-res, che François Hers propose ormai più di vent’anni fa alla Fondation de France come ar-tista e che si è evoluto in un Protocollo declinato, ad oggi, in oltre duecento opere e sei pae-si. il Protocollo dei Nuovi committenti2 prevede che chiunque possa commissionare un’operad’arte contemporanea: la scelta del mezzo espressivo (arti visive, musica, danza, architet-tura… ), dell’artista che meglio può dar seguito alla committenza, il coinvolgimento di me-diatori, fondazioni e della comunità che risiede e governa laddove il progetto viene realizzatosono tutte variabili, così come la forma finale dell’opera che viene discussa da tutti i parte-cipanti al processo. Questa qualità in divenire (“Non cerco la definizione. io tendo verso l’in-finizione”3, scriveva Georges Braque) e l’indagine continua non solo dello statuto dell’arte maanche delle soluzioni alle tensioni inerenti ad una ricerca tanto libera, rappresentano la gran-de forza di questo progetto: da un lato, esso si apre a chiunque e a qualunque tema, esigenza,luogo anche periferico rispetto al sistema dell’arte, coinvolgendo comunque i maggiori ar-tisti contemporanei; dall’altro, fa del processo e non solo dell’opera un valore che può es-sere “acquisito”, stavolta dall’intera comunità che vi partecipa e verosimilmente lo tramanderà.in questo modo, il susseguirsi di speculazioni teoriche e atti pratici manifesta la vita di ciòche un giorno sarà storia, facendo della cultura un percorso sia soggettivo sia comunitario

e non soltanto un oggetto patrimoniale. L’esperienza dei Nouveaux commanditaires è divenuta oggi un punto di riferimento impre-scindibile per chi voglia confrontarsi con la relazione tra arte e società o con una certa ideadi sviluppo del territorio; per questo, rivolgersi a François Hers e sollecitare un suo interventoin merito ai temi qui introdotti è sembrata la cosa più naturale. A seguire, pubblicato inte-gralmente, il suo contributo.

L’ARTE AL TEMPO DELLA DEMOCRAZIALA RiVOLUZiONE DEi NUOVi COMMiTTENTiPoche generazioni hanno il privilegio di assistere ad una di quelle grandi svolte della storiadell’arte che vedono un’epoca compiersi ed una nuova emergere, sulla base di paradigmi ine-diti. Una situazione che non è facile capire quando tutte le forme di relazione con il mondosubiscono dei cambiamenti fondamentali e la funzione stessa dell’arte è senza preceden-ti. Mai, nella storia, la creazione artistica è stata così slegata dalla dimensione collettiva. Visi è sempre trovata legata, che fosse per via di pratiche rituali , convinzioni religiose o po-teri politici. Le ambizioni rivoluzionarie d’arte nel periodo moderno si iscrivevano entro un de-siderio collettivo di progresso. La conquista dell’autonomia dell’arte era anche quella dellapersona. A partire dal Rinascimento, gli artisti hanno svolto un ruolo cruciale: nessuno, me-glio di loro, ha saputo rendere così visibile e tangibile la possibilità per l’individuo di eman-ciparsi e di essere libero. Ma questa conquista è ora acquisita, l’individuo è diventato sovrano,se non di fatto, almeno nel diritto. È stata decisiva, ma è necessario ormai superarla perchéne ha determinato un’altra.È stato negli anni Ottanta che la constatazione secondo la quale l’arte non si iscriveva piùentro un racconto collettivo si è veramente imposta. Era diventata privatizzata. Da qui, sen-za opposizione fondamentale, seguì che la finanza, il commercio, l’industria, le città, gli sta-ti, hanno investito molto nell’arte a proprio uso e consumo. indubbiamente, l’arte contem-poranea ha così acquisito un valore economico e un’audience eccezionale, ma le espressionidello spirito, della libertà e dell’etica si sono ridotte ad essere uno spettacolo tra gli altri. Trale manifestazioni di ogni genere che non cessano di moltiplicarsi4, trascinando folle di spet-tatori sempre più numerose, la contemplazione di un’opera contemporanea riporta ormai cia-scuno solo a sé stesso. in questa strutturazione completamente individualistica della pro-duzione e dell’uso di questo bene culturale, gli artisti non perdono di certo la loro capacitàdi invenzione. Tuttavia, una delle capacità essenziali dell’opera si affievolisce: quella di darecorpo ad una presa di coscienza che possa servire come punto di riferimento nella marea

ARTE E SOGGETTO DEMOCRATiCO:FRANÇOIS HERS E I NOUVEAUX COMMANDITAIRES

Ettore Spalletti, Salle des départs, 1996, Garches, hôpital Raymond Poincaré. Photo Attilio MaranzanoProgramma Nouveaux Commanditaires promosso da Hôpital Raymond Poincaré e Fondation de France

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di trasposizioni simboliche che ci vengono offerte per percepire la realtà.Quando l’arte non ha più un senso comune, il suo statuto, finora privilegiato, può essere ri-messo in causa e diventa sempre più difficile, per una collettività, giustificare l’investimen-to importante richiesto dalla creazione, e oltre, l’acquisizione, la conservazione e la promo-zione delle opere. Senza dubbio, non vanno cercate oltre le ragioni di una diminuzione sem-pre più brutale delle risorse finanziarie devolute a questo. L’autonomia dell’arte non ha al-cun valore intrinseco e non sono i dibattiti e processi fatti all’arte contemporanea, alle po-litiche, ai mercati o ad una cultura edonistica che le restituiranno un ruolo maggiore. Non sipuò ritardare ancora la presa di coscienza di tutte le conseguenze delle rivoluzioni politichee artistiche che hanno portato alla situazione attuale.infatti, da due secoli a questa parte, nessuna politica culturale pubblica o privata ha sapu-to tener conto della rivoluzione copernicana imposta dalla democrazia: partire dal partico-lare per arrivare al generale e non l’inverso; partire dalla persona e dal luogo in cui vive perconoscere le esigenze culturali del tempo e trovare una risposta, piuttosto che partire da un’au-torità superiore per arrivare al particolare, con la vana speranza di democratizzare l’arte peril tramite di una generosa offerta o di intenzioni benevole. Con questo genere di politiche cul-turali e la relazione con gli artisti che esse presuppongono, la nostra società si è condan-nata al silenzio; esse impediscono alle opere stesse di avere una vera vita sociale. Accon-tentandosi delle relazioni anonime stabilite dalle istituzioni e dai mercati, che cosa poteva-mo aspettarci se non di confinare le opere contemporanee in un ruolo patrimoniale e di dareun’importanza sclerotizzante alla nostra eredità artistica? Quanto agli artisti, non sono sta-ti in grado di trovare la bicicletta che mancava alla ruota di Marcel Duchamp, per uscire dalmuseo e fare esperienza del mondo così da dare tutto il loro senso e la loro portata alle no-tevoli possibilità che offre alla creazione la totale emancipazione delle forme avviata dallaavanguardie storiche e in particolare dal movimento Dada. Dal XiX secolo fino ad oggi, i pro-positi degli artisti per mettere l’arte nella vita non hanno avuto successo e si sono trovati mu-sealizzati qualunque fosse la loro rilevanza o la forza del desiderio di coinvolgere il pubbli-co. Per riuscire, occorreva senza alcun dubbio attendere che ci fossero le condizioni perchéche il solo, vero interlocutore dell’artista in democrazia, ovvero ogni cittadino che incarna ilpubblico, potesse prendere da solo l’iniziativa e non dipendere da quella dell’artista o di chicommissiona un’opera, per mettere l’arte nella vita.È paradossale che sia proprio l’accento messo sugli interessi privati , con l’estinzione delleoriginarie funzioni dell’arte che induce, ad aprire all’arte la possibilità di assumere, di nuo-vo, un ruolo sociale forse più importante di quanto non sia mai stato. Questo è ciò che rive-la l’attuazione del Protocollo dei Nuovi committenti, che fa dei desideri della società stes-sa, con le tensioni e i conflitti inerenti ad ogni espressione libera, il principale motore del-l’arte contemporanea. Per farlo, il Protocollo implica la condivisione paritaria, da parte di tut-ti gli attori sociali coinvolti, delle responsabilità legate all’emergere di un’opera d’arte. Offrea chiunque lo desideri la possibilità di affermare pubblicamente una ragion d’essere dell’artee di un investimento nella creazione assumendo, quindi, la responsabilità della commissio-ne di un’opera. Qualunque sia il medium in questione (arti visive, architettura, musica, … ),toccherà poi all’artista inventarne le forme, fuori dai contesti abituali e a partire dalle que-stioni sollevate da una coscienza divenuta comune; ai rappresentanti politici di assumere ilproprio ruolo politico assicurando ogni mediazione necessaria relativamente agli interven-ti nella vita pubblica e diventare committenti alle stesse condizioni di ogni altro cittadino;ai mediatori artistici di arricchire il proprio ruolo sociale assicurando a tutti le competenzenecessarie per rivolgersi agli artisti e produrre un’opera. infine, ai ricercatori è offerta l’oc-casione di sviluppare la conoscenza dei nostri problemi culturali e di mettere in prospetti-va delle modalità di intervento appropriate.Sfidando i pregiudizi, da oltre vent’anni ormai questo protocollo viene messo in opera consuccesso da una rete di mediatori europei5. La loro azione, con quella dei Nuovi commit-tenti, rivela che l’interazione tra arte e democrazia promossa dal Protocollo incoraggia un’e-mulazione reciproca rafforzata dal fatto che esse non hanno finalità prevedibili. Devono en-trambe interrogarsi incessantemente sulla forma da trovare per adattarsi ai cambiamen-ti e inscrivervisi in modo soddisfacente. Questa azione ha messo in luce quanto l’arte pos-sa diventare uno strumento privilegiato per aiutarci a raccogliere quella che è probabilmentela più grande sfida culturale che abbiamo di fronte; e questo, tanto più che essa si globa-lizza: come fare società con individui che hanno concezioni, credenze e interessi diversi, di-venuti liberi e uguali? Assumendo un ruolo nella realizzazione di questo progetto politico, ancora giovane e di cuideve essere ricordata la straordinaria audacia, la creazione artistica partecipa così nuova-mente alla scrittura di un grande capitolo nella storia degli uomini. Una storia animata daldesiderio ampiamente condiviso di segnare il mondo in cui vivono e ricrearlo, e da un desi-derio altrettanto forte di pensare e agire con gli altri, entro una democrazia che governa leloro relazioni ma non li preserva dall’essere messi in disparte.È ai migliori artisti contemporanei che hanno diritto i committenti. Artisti che partecipanotanto più volentieri all’azione quanto più possono nutrire le loro opere delle problematichedel loro tempo e superare così una duplice difficoltà: l’isolamento e l’esaurimento. inoltre,in questa nuova fase storica, è lo stesso statuto dell’arte a cambiare, poiché essendo l’operagiudicata in funzione della pertinenza della risposta che da ai quesiti dell’epoca contempo-ranea, il suo valore e il suo riconoscimento come opera d’arte divengono potenzialmente ap-pannaggio di ogni frazione della società e non più solamente delle istanze degli specialisti,delle istituzioni o del mercato.Ad ognuno degli individui che fanno parte di una democrazia, questa vicenda offre l’occa-sione di sperimentare ciò a cui può portare l’azione comune quanto si assoggetta alle esi-genze di un’arte impermeabile alle ipocrisie. E ancora: entro questo sistema, l‘arte esorta al-l’impegno, alla fiducia in se stessi e negli altri, a chiarire le proprie necessità, esorta all’im-maginazione e ad assumere dei rischi senza i quali nessuno può sperare di creare un’ope-ra che valga. Siamo ben lontani dalle situazioni ricreative che offre la “partecipazione” tan-to sostenuta al giorno d’oggi.in una democrazia, per la quale anche la religione è diventata una questione privata, nes-suno ha l’autorità di affermare cosa sia bene o cosa sia giusto. Sta ad ognuno di noi defi-nirli, a meno di ridursi ad un’esistenza che sia retta solamente dal diritto o da regole e de-terminata dagli sviluppi tecnologici o dalle esigenze dell’economia. Dunque, per testare leproprie scelte, esiste un campo d’azione più appropriato di quello dell’arte, la cui ragion d’es-sere è quella di inventare le nostre forme di relazione allo spazio e al tempo, a noi stessi eagli altri? Esistono altri ambiti in cui la parola sia altrettanto libera, dove si può essere al-

trettanto padroni delle proprie azioni e dove il pensiero debba condurre al fare e al realiz-zare un’opera?L’altro cambiamento di paradigma è che l’azione può svolgersi ovunque sul territorio e chenon deve essere gestita o controllata da un’autorità politica o finanziaria ma dagli attori stes-si del processo, con l’aiuto di mediatori indipendenti e competenti in materia d’arte. Quan-to alla loro azione, essa si concretizza grazie al sostegno di corpi intermedi la cui utilità pub-blica e indipendenza sono anch’esse riconosciute. istituzioni in grado di incaricarsi dell’ini-ziativa privata, di agire sul lungo termine e di assicurare una ridistribuzione delle risorse di-sponibili che sia sempre oltremodo vicina alla contingenza, al fine di non scoraggiare l’ini-ziativa e di tener conto dei vincoli specifici di ogni produzione. in questa economia del donopiuttosto che di mercato, le fondazioni e altri grandi mecenati sono chiamati a coprire un ruo-lo fondamentale, come spesso è stato nella storia. Di fatto, è proprio una grande fondazio-ne, la Fondation de France, che ha assunto un ruolo pionieristico decidendo di attuare il Pro-tocollo dei Nouveaux commanditaires che proponevo come artista. Quanto alle amministrazionipubbliche, se anche sono poco adatte ad assumersi delle responsabilità del genere, esse pos-sono nondimeno sostenere la missione di interesse generale condotta dai mediatori o con-tribuire in modo puntuale alla produzione di opere nella forma di un sostegno alla creazio-ne. D’altronde, per mettere non solo nello spazio, ma nella vita pubblica, delle opere che ab-biano un significato comune, questa azione offre prospettive nuove a quei luoghi di eccel-lenza dell’arte che sono i musei, per la nostra società. Molti di essi, aprendosi a tutti i modidella creazione, cominciano a sentire il bisogno di rafforzare la loro missione sociale offrendoal pubblico non più solamente la storia dei nostri grandi gesti, ma anche il servizio di una retedi mediatori che agiscono, sotto la sua egida, fuori dal museo. L’etica che guida le azioni diquesti partecipanti è determinante anche per convincere il pubblico a prendere la parola ediventare, infine, attore a parte intera nell’elaborazione della cultura contemporanea; e ol-tre, un attore della vita pubblica per il bene comune. Emerge così una nuova età della sto-ria dell’arte che potrebbe essere chiamata Arte della Democrazia.François HersIntervista a cura di Paola Mulas

1. « L’œuvre d’art considérée en tant que bien symbolique n’existe comme telle que pour celui qui dé-tient les moyens de se l’approprier, c’est-à-dire de la déchiffrer. » Bourdieu P., Darbel A. (avec Sch-napper D.), L’amour de l’art. Les musées d’art européens et leur public, Paris, Éditions de Minuit,1966, p. 71

2. L’italia è tra i paesi che lo applicano, con il contributo sinora della Fondazione Olivetti e del colletti-vo di curatrici a.titolo

3. « Je ne cherche pas la définition. Je tends vers l’infinition ». Braque G., Le Jour et la Nuit, Cahiers1917-1952, Gallimard, Paris, 1952, p.30

4. Non si contano più i nuovi musei di arte contemporanea, le biennali, i festival, le fiere, etc.5. www.nouveauxcommanditaires.eu

Massimo Bartolini, Laboratorio di Storia e Storie, 2002-2007, Cappella Anselmetti, quartiere Mirafiori Nord, Torino. Photo Giulia CairaProgramma Nuovi Commmittenti promosso dalla Fondazione Adriano Olivetti, Roma.

François Hers è un artista concettuale. I suoi interventi hanno assunto varie forme fino a giungere nel 1990 alla definizione del protocollo dei Nouveaux commanditaires di cui è l’ideatore.

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Massimiliano Scuderi: Per questo numerodi MU6 nomi nazionali e internazionali sonostati invitati a discutere su quale sia oggi larelazione tra contemporaneità e una nuo-va idea di museo. Relativamente a questotema il suo lavoro, e quello del Consortium,rappresentano una best practice. Quindi vor-remmo capire meglio: come fare un museo?Xavier Douroux: Come fare, questa è la do-manda! Una sola domanda e potrei rispon-derti per dieci pagine… Noi non siamo unmuseo né abbiamo un’empatia forte con l’i-dea di museo, che è un’idea comunque ingran parte francese, venuta fuori dai Lumidel XViii secolo e dall’idea di bene comune.La storia del Consortium è una storia che hauna sua peculiarità e anche uno statuto par-ticolare, perché siamo nati prima delle de-finizioni e delle decisioni istituzionali dicreare dei centri d’arte o i FRAC. Esisteva-mo prima dunque alla base c’è essenzial-mente un’avventura umana, e questa di-mensione umana è davvero molto impor-tante nel rapporto che ho con il museo. Sonoconvinto che dentro ci sia allo stesso tem-po un’energia personale, individuale (che èmolto importante) ma anche un’energia col-lettiva. Ecco, per me il museo oggi deve es-sere uno dei luoghi dell’energia collettiva. Lanostra storia è fondata su questa dimen-sione di energia, sulla capacità di mettereinsieme le persone, i savoir faire e le intel-ligenze. Abbiamo creato una sorta di ibridoche è insieme un luogo di produzione, diesposizione ma anche una sorta di piat-

taforma dove avvengono altre attività e cheviene ad addizionarsi allo spazio pubblico,allo spazio dell’economia, allo spazio sociale.Un luogo dove siamo in tanti a cooperare,siamo sei direttori, non uno! E già questa èuna situazione particolare.

MS: Avete molti collaboratori?XD: Non molti, siamo un piccolo team. Cisono tanti direttori (ride) ma in tutto siamoin quattordici. Le Consortium è una sorta dipiattaforma: c’è la casa editrice, les pres-ses du réel, che è proprietà dell’associazione;c’è Anna Sanders Film, che abbiamo crea-to con Philippe Parreno… e molto altro. Tut-te sono situazioni che gravitano intorno al-l’idea di piattaforma. E dunque questa idea,che è molto deleuziana, è un po’ come unarcipelago, con l’isola principale e le altre pic-cole isole.

MS: Mi interessa capire come è stato pos-sibile realizzare questo progetto, questapiattaforma, a Digione.XD: Oggi lo si può fare ovunque, a Digione,a Pescara… poiché l’ossigeno viene ancheda altrove. Ad esempio molte delle nostre at-tività sono in Corea, in Qatar, in Asia… atti-vità remunerative che apportano denaro ecostituiscono la metà del nostro budget,mentre l’altra metà viene da sovvenzionipubbliche. Ad esempio, stiamo lavorandocome consulenti strategici per un nuovocentro in Qatar. Franck (Gautherot, ndr) adesempio, insieme ad una direttrice del no-

stro gruppo, lavora come consulente mu-seografico per un museo coreano. Dunqueci serviamo del nostro savoir faire e dell’e-sperienza fatta lavorando con numerosi ar-tisti per offrire consulenze e servizi, e ci pa-gano per questo. L’esempio coreano è in-teressante per il forte investimento fatto nel-la creazione di musei che non funzionano,non dal punto di vista gestionale ma intel-lettualmente. Dunque non offriamo un ser-vizio nel senso propriamente utilitaristico,ma un servizio di concetto, di riflessione. Ma-gari si tratta di un progetto in cui le operenon sono state prese sufficientemente inconsiderazione.

MS: Nouveaux commanditaires ha cambiatoil concetto urbano di site specific. Cosa, ecome, sta cambiando e cambierà?XD: Oggi il programma dei nuovi committentiè un programma di portata internazionale.Anche in italia ci sono alcune esperienze, conla Fondazione Olivetti e a.titolo, ma è diffi-cile… in Germania il programma è preso incarica dal Goethe institut e svolto in Africa:ovvero il Goethe in Africa si serve del pro-gramma per cercare di trovare un legametra l’arte contemporanea e la popolazione.Qui e là comincia anche negli Stati Uniti… noisosteniamo queste azioni e cerchiamo ditrovare i buoni interlocutori, i buoni dibat-titi, cerchiamo di fare entrare questa cosanella sfera intellettuale e dei pensatori. Adesempio avremo una piattaforma di dibat-tito l’anno prossimo a New York, con la Co-

lumbia e la New York University. Verrà Bru-no Latour, che è un grande sostenitore delprogetto, Boris Groys e tante altre personeche verranno per discutere.

MS: Crede davvero sia possibile arrivare dap-pertutto?XD: La difficoltà in italia è che non ci sonostrutture come questa, come Le Consortium,per accogliere ed essere la base del pro-gramma. in canada, questo è interessante,a Ottawa, il Museo Nazionale del Canada havotato per diventare la base per i Nouveauxcommanditaires nel paese.

MS: Hanno istituzionalizzato la loro ade-sione…XD: Non è sempre facile. Le faccio l’esem-pio di Torino. Conoscevo molto bene idaGiannelli, poi Andrea Bellini… tuttavia, era im-possibile che Rivoli diventasse una base delprogramma Nouveaux commanditaires,per il contenuto della struttura, lo spirito del-l’istituzione etc. Dunque è stato un bene chesia stato un piccolo gruppo di curatrici in-dipendenti, a.titolo, a proporsi.

MS: Per me questo è un discorso molto in-teressante. A Pescara per vent’anni abbia-mo fatto Fuori Uso…XD: Si ne ho sentito parlare.

MS: … ma i nostri committenti non hannomai compreso l’importanza del trasfor-mare la mostra in un processo, un modus

L’architecture c’est toi, you are the building!

Photo André Morin

INTERVISTA A XAVIER DOUROUX

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operandi. Per questo Nouveaux comman-ditaires è importante: rappresenta ciò cheun museo potrebbe essere oggi: non un con-tenitore, ma un processo.XD: Esatto. in Francia abbiamo un proble-ma, peculiare ma interessante: quello dei“corpi intermediari”. Prima erano le chiese,i sindacati, le corporazioni… Oggi i sindacatisono culturalmente finiti, le chiese … (ride)e dunque non abbiamo più corpi interme-diari. Penso che oggi un museo, che ha la re-sponsabilità di essere un attore che parte-cipa alla costruzione del bene comune,potrebbe proporsi in nome della cultura edell’arte nel ruolo di corpo intermediario.Dunque essere utile. Amo molto questa ideadell’essere utile.

MS: In Italia, durante gli ultimi dieci anni, lapolitica ha tagliato i nastri di molti musei,uno per tutti il MAXXI, una white box fattada Zaha Hadid che poco sembra aver a chefare con l’arte, se non quella frutto del suodisegno. Nello stesso museo e sulla stessalinea la Presidentessa del MAXXI, che ap-partiene al mondo della politica e non del-l’arte. Sembra che la cultura sia, se mi pas-si il gioco di parole, un ‘problema cultura-le’ e noi, con questa free press, stiamo cer-cando di capire come si può intendere.XD: in italia la politica è una presenza ubi-quitaria. Così è anche in Francia, anche seforse meno. Negli Stati Uniti ci sono i boardof trustees. Sono dei poteri che rispetto, nonho niente contro ma penso che non debbanostare dentro i musei. il museo deve essereun legame tra gli eletti, ad esempio (la de-mocrazia rappresentativa è molto impor-tante); gli agenti economici (che hanno imezzi ma non possono determinare la po-litica di un museo perché il museo deve es-sere un mediatore); il museo ha anche unruolo importante da giocare in relazione allacomunità (questa parola mi fa un po’ pau-ra) degli artisti, del mondo dell’arte. Ma dob-biamo fare in modo che, con strumenti qualiad esempio Nouveaux commanditaires,siano gli attori della società i primi a parla-

re. il che può voler dire che a volte il primoa parlare sia l’artista, oppure il sindaco di unpiccolo villaggio, altre volte gli operai di unafabbrica, o i notabili di una città… chi par-la per primo? Chi parla di cosa? Comunque,il nostro ruolo è far sì che la conversazionecontinui, che una conversazione abbia luo-go. Questo è il ruolo del museo e alla fine ilmuseo troverà così anche la legittimità diconservare delle opere nella propria colle-zione: perché quello che rende un museo taleè in fin dei conti la sua collezione. Accantoad una visione innovativa, c’è anche un latomolto classico che bisogna mantenere:cioè che un museo è anche una collezioneche conta delle opere d’arte che dobbiamoproteggere e trasmettere, anche se maga-ri accade che le opere non siano dentro ilmuseo ma in un paesino. Si tratta di que-stioni importanti anche sul piano filosofico;un amico, Didier Debaise, lavora su questo,ovvero sull’idea che il possesso non sia uni-camente la proprietà.

MS: Le questioni giuridiche ed economichesono fondamentali quando parliamo diarte. XD: il background e l’evoluzione giuridicasono fondamentali. Anna Sanders Film, adesempio, è una società di produzione nelmondo dell’arte (produce i film di PhilippeParreno e Pierre Huyghe) ma ha prodottoanche il film di Apichatpong Weerasethakul,Palma d’Oro a Cannes. Ebbene, oggi AnnaSanders Film ha venduto la propria presenzaal Museo di Arte moderna di New York. Unasocietà non la si può vendere ad un museo,non abbiamo venduto le opere… abbiamovenduto la possibilità di mostrare le operecome una presenza, e questo è completa-mente nuovo. il contratto è magnifico! È laprima volta che c’è un contratto del gene-re, un po’ come, con i dovuti distinguo, quan-do Siegelaub inventò il contratto per l’arteconcettuale: fece un contratto per quelleopere che sono protocolli, programmi… ilcontratto firmato per Anna Sanders Film vain quella direzione, non è un contratto per

la proprietà di un oggetto ma è basato so-lamente sull’idea di una reciprocità e diun’attività condivisa che porta ad una pre-senza in una sala. Conduce ad uno scam-bio economico e ovviamente alla possibilità,in futuro, di fare delle cose insieme. Ed è in-teressante vedere che sia il museo piùgrande a fare questo passo: vuol dire che ilpossesso, in rapporto alla proprietà, può in-dividuare una relazione a degli “oggetti vi-venti”, alle attività legate a questi oggetti.Tutto questo mi affascina: il museo resta perme un oggetto intellettuale estremamen-te interessante.

MS: Gli interventi del numero che stiamo pre-parando ruotano intorno ad uno stesso ap-proccio, che è in qualche modo anche il tuo.XD: Perché ora stiamo fronteggiando unaguerra! Qui ad esempio, al Consortium:facciamo vedere il lavoro di artisti molto fa-mosi… ma è interessante per esempio ve-dere Christopher Wool, che è una star delmercato con cui ho lavorato e che si senti-va molto a disagio, sempre, discutere com-pletamente a suo agio con l’artigiano, il ma-stro vetraio che stava lavorando alle sue ope-re. Finalmente respirava… io credo che ab-

biamo bisogno di questo. Adesso sto lavo-rando con Oscar Tuazon, Matias Faldbakken… tutti questi artisti sono assolutamenteaperti a questo genere di condizioni perchépensano siano importanti anche per loro. Enon stiamo facendo interventi sociali, per-ché il fine è quello di avere delle opere.

MS: Parlavamo prima con Franck di questecose. La mia esperienza con Fuori Uso è sta-ta così: artisti e curatori vivevano fianco a fian-co, lavoravano insieme. Appartenevano aduna comunità temporanea in cui si viveva in-sieme, persino cucinando e dormendo nel luo-go in cui si esponeva, trascorrendo molto deltempo insieme, e così il lavoro cambiava…XD: Perché l’arte non è un problema di spa-zi. Sono le conversazioni a dare la struttu-ra; la buona architettura, oggi, è quellache ha a che fare con gli uomini e con le re-lazioni. L’architecture c’est toi, you are the building!

Le Consortium - Digione. Mostra Alex israel, 2013. Photo Zarko Vijatovic

Phillip king, Blue Slicer, Relief, 2010; Spectrum, 2007-2008; Bottom Pink, 2010; Moonstruck, 1983Le Consortium - Digione. Courtesy l’artista. Photo André Morin

Xavier Douroux, co-direttore del Consortium diDigione e fondatore della casa editrice Pressesdu réel, mediatore dell’azione Nouveauxcommanditaires, è il primo ad essersi impegnatonella sua messa in opera.

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un dado sul metallo, evoca un corpo espanso, enorme, virile, convesso, dilaniato e spar-so ovunque nelle molte sale del museo, ma qui assente, morto e raccontato da un voltodi gesso che tecnicamente è più vicino alla fotografia che alla scultura. Un volto piccolo,umano, che starebbe nella cavità di due mani raccolte a coppa come per raccogliere l’ac-qua fresca che sgorga dalla fonte. Un volto di gesso attorniato da sculture femminili, in-fantili e letterarie dallo sguardo chino, che si riguardano nello stagno ghiacciato della lororappresentazione ritrovando in essa nuova vita in una luce che le accomuna con la vita rea-le degli spettatori. Alfredo Pirri

Sala delle CerimonieL’accesso al museo è una soglia simbolica, una zona di trapasso auto-critico e insiemecelebrativo, attraversarla è una cerimonia che accentua la percezione di una dimensionespaziale e temporale irreale ma allo stesso tempo radicalmente e intimamente materia-le; forse il congiungimento di questi due estremi è quello che si chiama esperienza (?). Conquest’opera vorrei dare allo spettatore l’impressione che, muovendosi nello spazio, ne pos-sa modificare la visione compiendo una doppia azione contemporanea di demolizione ericostruzione dell’immagine (anche della propria). La sua esperienza, lo porta a pensareche sia egli stesso soggetto dell’opera e che, sperimentando l’azione del guardarsi capo-volto, del sentire quello spazio infinitesimale come una pelle che lo lega e separa dalla pro-pria immagine il motore che lo proietta dentro uno spazio (solo all’apparenza) già cono-sciuto in precedenza lo conduca a farne parte in maniera “naturale” allo stesso modo dicome si fa parte del mondo, allo stesso modo di come l’immagine parrebbe parte del mon-do. Piuttosto, stare dentro quest’opera, allontana dall’idea che l’arte si proponga a noi comespecchio del mondo poiché, al contrario, quella minuscola, pellicolare, porzione di spazioche divide il proprio piede dal proprio doppio è sufficiente a produrre un romanzo che proiet-ta lo spettatore al centro di una narrazione spezzata che annulla ogni partecipazione con-solatoria. Un romanzo che celebra la bellezza (insieme alla sua caducità), la gloria (insiemeal suo fallimento), il desiderio (insieme alla sua perdita). L’esperienza di questa narrazione,l’insieme di questi sentimenti e modi di conoscere, le immagini che ne scaturiscono, ren-dono il passo dello spettatore incerto e simile a quello di chi si trova su un ghiacciaio inliquefazione dove per via dei mutamenti rapidi di temperatura si aprono crepe che ne as-sottigliano lo spessore permettendo all’acqua sottostante di lambire i piedi facendoci sen-tire parte di un processo di mutamento e in bilico su di esso. Spettatrici privilegiate e sep-pure immobili, paritarie con lo spettatore umano, sono le sculture ottocentesche privatedei loro basamenti e restituite alla loro dimensione reale, umana. Esse ci appaiono comeangeli caduti e responsabili (insieme agli spettatori) della rottura del cielo sotto di noi. Nonpiù specchio prospettico dei nostri sogni, ma luogo di pietra disegnato per accogliere lenostre debolezze dentro una luce differente da quella che ci siamo lasciati alle spalle en-trando nel museo. Quella di fuori (o di prima) era luce terrestre, luce della vita, quella didentro (o di ora) è luce del trapasso verso un luogo dove la distinzione fra mondo e nonmondo oppure fra vita e non vita perdono il loro senso abituale. Lo scultore Arturo Marti-ni, col titolo del suo noto testo “Scultura lingua morta”, insisteva sull’urgente bisogno diuna fuoriuscita da una visione della scultura che definiva troppo carica di rimpianti per av-venturarsi in una dimensione spaziale ai limiti dell’architettura “… fino ad oggi le formefurono fatte consistere in volumi solidi positivi. Penso che forme vere siano invece idea-li matrici … ogni seme, a cominciare da quello dell’uomo, ha una certa possibilità di svi-luppo, un certo spazio virtuale attorno a sé. La scultura dovrà saper rappresentare que-sto spazio … ”.io penserei che oltre a guardare al linguaggio della scultura celebrativa come una linguafinita, morta, bisogni pensare alla scultura stessa come “materia” della morte. Materia gra-zie alla quale la morte, l’assenza, trova accoglienza e forma spaziale. La scultura che sifa spazio, trova quindi nell’atmosfera, nell’aria concava e risuonante che circola fra le cosepresenti il suo modo di manifestarsi e farsi rappresentazione. in questo senso la mascherafunebre dello scultore Antonio Canova, racchiusa in una teca che la serra al suolo come

… l’architettura è l’unica ragione della scultura.Lo spirito dell’architettura è la scultura, e costruzione della scultura è architettura …

Arturo Martini, Scultura lingua morta, 1945

ALFREDO PIRRI - PASSI

Alfredo Pirri, Passi, Galleria Nazionale d’Arte Moderna - Roma, 2011. Photo Antonello idini

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il dibattito museologico degli ultimi vent’an-ni, accelerato dalla proliferazione globale deimusei (oltre che dalla nascita dei musei glo-bali), scandito dalla fantasmagorica ap-parizione dei buildings delle archistar, os-sessionato dalla topica del pubblico, attrattodall’articolazione di mirabilanti offerte diservizi, intento a bilanciare istanze diffor-mi come conservazione, interpretazione, va-lorizzazione, intrattenimento, marketinge produzione di valore, si è inevitabilmen-te concentrato su una tipologia istituzionalelegata alla metropoli di scala mondiale, unatipologia che, come alcuni hanno tempe-stivamente individuato, altro non era che ilprecipitato esemplare delle strategie del tar-do capitalismo – o, come direbbe qualcunaltro, del capitalismo della fase totalitaria.Una tipologia che però non poteva adattarsia qualsiasi paese, a qualsiasi territorio, unmodello incapace di esprimere, o di inclu-dere, la vastità potenziale delle esperien-ze immaginabili. E l’italia si può considerare un esempio cal-zante delle falle di quel modello, non cre-do soltanto per un’arretratezza organiz-zativa o per una inadeguatezza formativaquanto, più probabilmente, per una natu-rale, fisiologica, resistenza ad una omolo-gazione incondizionata ai flussi globaliz-zanti, dovuta probabilmente alla sua maicompletata trasformazione in un paese mo-derno, nel senso di quell’occidentalizzazionecon la quale certi filosofi intendono la per-vasiva/totalizzante/totalitaria dominazio-ne del capitalismo. D’altronde è ormai acquisito che non bastala cifra dell’architetto o la ricetta del pro-gettista/museologo (o addirittura del mu-seografo, come è avvenuto sempre piùspesso negli ultimi quindici-vent’anni) a faredi un museo un’istituzione capace di espri-mere autenticamente la dimensione cul-turale di una comunità, di rispondere allesue istanze di crescita sociale, attrezzataper rileggerne e interrogarne il passato, in-tenzionata a svilupparne il potenziale crea-tivo e produttivo. Né, per continuare a giu-stificare l’enorme costo del museo in ter-mini di spesa pubblica, si può perpetrarel’errore della verifica quantitativa dei rien-tri, tra biglietteria e servizi aggiuntivi. il ca-pestro dell’audience non ha certo salvatola televisione (e continuo a riferirmi so-prattutto all’italia) dal progressivo svilimentodi contenuti, qualità e autonomia cultura-

le… Anzi, va ricordato che il dibattito inter-no alla Nouvelle Muséologie ha sottoli-neato abbastanza presto l’allarmante dif-ferenza tra pubblico audience e pubblico co-munità1 e credo che, a distanza di qualchedecennio, si debba ripartire proprio daquella distinzione e riaffrontare priorita-riamente in sede politica la questione cru-ciale che ne consegue.Tornando al Sud, e alla condizione cheesso esprime nella congiuntura storicaattuale, bisogna innanzitutto evidenziareche è la prima volta nella storia recente cheviene assunto allo stesso tavolo progettualedelle altre aree italiane e non per political-ly correctness, come è avvenuto per de-cenni, ma in quanto effettivo portatore dicontenuti nuovi, e questo ribaltamento diprospettiva, prima ancora che dai percor-si istituzionali, è desumibile da quelli spon-tanei, autogestiti, giovanili, basti guarda-re all’importantissimo lavoro svolto dagli ar-tist run spaces. Lo scenario al quale mi riferisco, di certo ine-dito rispetto a quello preso in esame negliultimi decenni dal dibattito museologico (eche nulla ha a che fare anche con quello,pure per qualche verso assimilabile, tocca-to dagli studi post-coloniali), è quello in cuil’aggiornamento culturale e la determina-zione costruttiva dei più giovani si sono in-nestati in un sistema di valori – e in molti casiin un paesaggio – che ha difeso e custodi-to l’ancoraggio ad una storia plurimillena-ria ove eredità mediterranee, saperi tradi-zionali, ritualità collettive, colture secolarihanno disegnato e ridisegnato, ininterrot-tamente, equilibri e squilibri, in una laten-za tutt’altro che immobile, tutt’altro che in-dolente, tutt’altro che inconsapevole. il fat-to che oggi, quelle terre, in certi casi anco-ra a carattere rurale o comunque micro in-dustriale, traboccanti di segni e sapienza an-tica, meta e approdo di etnie diverse, rap-presentino una piattaforma ove esprimeree verificare istanze aggiornate, competen-ze giovanili acquisite sulla scena interna-zionale, relazioni intessute su scala globa-le, costituisce un potenziale che proprio inun momento di acuta crisi valoriale oltre cheeconomica non può sfuggire neppure al piùglobalizzato degli osservatori.C’è una storia significativa da raccontare intal senso ed è quella di RiSO - Museo d’ar-te contemporanea della Sicilia, che all’at-to dell’istituzione, nel 2007, ha scelto di do-

tarsi dell’identità del museo diffuso2, un mo-dello che trova le sue radici nel dibattitofrancese degli anni settanta e che si strut-tura proprio a partire da una concezione delpubblico come comunità (e non come au-dience). Nato su presupposti che l’italia nonaveva ancora accolto negli anni della pro-liferazione dei musei e dei centri per l’artecontemporanea (non dimentichiamo cheancora alla metà degli anni novanta i luo-ghi istituzionali vocati esclusivamente alcontemporaneo in italia erano pochissimie quindi la nascita e lo sviluppo della mag-gior parte di essi è avvenuta negli ultimiquindici/venti anni3), gestito per quattro ocinque anni con grande intelligenza degliobiettivi, è stato poi smantellato nel 2012per funzionamento troppo virtuoso (l’ana-lisi delle ragioni politiche di quello sman-tellamento necessita di altro spazio e altrasede, ma di certo si rende necessaria, cosìcome si fa urgente una riflessione schiet-ta su quanto sta avvenendo a Rovereto, aTorino, a Bologna, a Roma, a Prato… Se il di-battito museologico non si confronta conil pensiero politico rischia di rimanere ste-rile esercizio accademico).Quell’idea di museo diffuso nasceva dallostudio e dal rispetto delle peculiarità sto-riche, culturali, geografiche, economiche diuna terra straordinaria e difficile come la Si-cilia, e si poneva come possibile modello disviluppo non attraverso l’imposizione di mo-delli eteronomi e globalizzati bensì attra-verso una sorta di processo maieutico ge-nerato da una serie di azioni volte a rileg-gere e valorizzare il patrimonio culturale iso-lano attraverso il motore del pensiero e del-le metodologie del contemporaneo.il progetto era evidentemente ambizioso epensato a medio e lungo termine, incardi-nato all’arte contemporanea per rivolger-si alla cultura in termini estensivi, ancoratoad un edificio cittadino (Palazzo Belmon-te Riso a Palermo), quindi con vocazione

urbana, ma presente, attraverso attività di-versificate e partnership di diversa natu-ra, nell’intera regione, anche nelle areemeno urbanizzate. Le direzioni di lavoroportate avanti in quei pochi ma densi annidi attività, se da una parte hanno seguitoun percorso museale tradizionale – dallanascita di una collezione permanente allaprogrammazione di una attività espositi-va e alla conseguente predisposizione deiservizi connessi, dalla didattica alla caf-fetteria al bookshop – dall’altra hannoespresso a diversi livelli l’idea che il museonon fosse altro che un dispositivo atto a darvoce alle proposizioni culturali più recen-ti di una terra che bisognava tornare a con-siderare come il più importante avampo-sto mediterraneo in Europa, ma al con-tempo un volano per il recupero di discor-si interrotti, per la riemersione di testi-monianze artistiche d’eccellenza, per la ri-lettura di storie più o meno lontane neltempo da sottrarre all’oblio.La prima azione in tal senso è stata quel-la di ripartire da una sorta di mappatura delpresente al fine di meglio comprendere qua-le futuro poter progettare, e inevitabil-mente le prime tre realtà coinvolte in un pro-getto congiunto sono state Gibellina, Fiu-mara d’arte e il Museo di Montevergini a Si-racusa, realtà che in tempi diversi (rispet-tivamente gli anni settanta, ottanta e no-vanta/duemila) e con modalità differentiavevano lottato per l’affermazione del por-tato artistico contemporaneo. Parallela-mente veniva inaugurato uno Sportellodedicato alla scena siciliana emergente(S.A.C.S), pensato come archivio ma anchecome una specie di agenzia, volto alla va-lorizzazione dei giovani artisti siciliani at-traverso programmi condivisi con istituzionistraniere (per lo più di area mediterranea).Sulla stessa linea di intervento nascono leprime due mostre a Palazzo Riso, centra-te sulla ricognizione delle più importanti col-

PARLARE DI SUD, E NELLO SPECIFICO DI SUD ITALIANO, SIGNIFICA OGGI RACCONTARE DI UNA CONDIZIONE

DEL TUTTO ORIGINALE, INEDITA, TRA LE PIÙ STIMOLANTICHE SI POSSANO OFFRIRE ALLA SPERIMENTAZIONE

DI MODELLI MUSEALI CORAGGIOSI.

iL MUSEO E iLTERRiTORiO

(A SUD)DI DANIELA BIGI

Massimo Bartolini, Una volta trasparente, performance, Fortezza Carceraria, Ficarra, 2010. Produzione Riso, Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia, Palermo

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lezioni d’arte contemporanea della Sicilia.Dunque un museo poco glamour, moltoconcentrato sulle istanze del suo territorio,ma con una strutturale inclinazione al dia-logo internazionale. Mentre realizza queste iniziative RiSO pro-getta gli step successivi, che vanno dai la-boratori scientifici sulle problematicheconservative del Cretto di Burri a Gibellina(museo come attore della conservazione),all’ampliamento della collezione (museocome scrittura della storia), al potenzia-mento delle attività di SACS (museo comeosservatore e promotore delle espressio-ni più significative del suo tempo), alla mes-sa in atto di una rete di collaborazioni isti-tuzionali mediterranee (mostre/scambiocon le Biennali di Atene, istanbul e Mar-rakesh, ovvero museo come attore di unapolitica culturale internazionale), all’idea-zione di un progetto su scala regionale,“Germogli di Riso”, che prevedeva la cir-cuitazione delle opere della collezione (di li-vello e di provenienza locale, nazionale e in-ternazionale purché per qualche motivo col-legate alla Sicilia, per motivi ideativi, orealizzativi, o per committenza, o per te-matica, e via dicendo) in aree mai toccatedalla ricerca artistica contemporanea, lon-tane dagli itinerari consolidati, ma custo-di di patrimoni architettonici superbi da re-stituire alla collettività (museo come vola-no turistico, economico, ma anche di ricercae di occupazione in territori sfuggiti agli in-granaggi dello sviluppo regionale). Nel frattempo, di mese in mese, si stringela collaborazione con le istituzioni sicilia-ne del contemporaneo, fondazioni, gallerie,accademie, università, associazioni, concoinvolgimenti di vario genere e a vario li-vello, mentre una sorta di house organ, i“Quaderni di Riso/Annex”, enucleano le te-matiche portanti del lavoro museale, rac-contano i progetti in corso e ospitano con-tributi di esperti nazionali. in pochi anni RiSOmette in piedi e valorizza il sistema dell’artesiciliano, mai esistito in precedenza, per-mette alla comunità dell’arte di costituir-si come tale, di riconoscersi, di sostener-si in una azione condivisa, difende e diffon-de il pensiero contemporaneo.intanto l’attenzione al territorio cresce, simette a fuoco, e presto si traduce nell’at-tivazione di un programma di residenze stu-diato con l’obiettivo di portare gli artisti inluoghi distanti dalle mete turistiche abituali,di inserirli all’interno delle comunità localicome interlocutori e attivatori di processi

di conoscenza, di invitarli alla lettura delpaesaggio nella sua duplice dimensione, vi-sibile e invisibile, e all’interazione concre-ta con le emergenze architettoniche loca-li. il progetto4 – che ha interessato Enna, Ter-mini imerese, Capo d’Orlando, Ficarra, ov-vero centri urbani differenti per dimensio-ne demografica, estensione territoriale,importanza storica, consistenza economi-ca, condizioni di sviluppo – ha avuto un ri-scontro straordinario sia sul piano delcoinvolgimento locale sia nei risultati arti-stici conseguiti, riattivando iniziative cul-turali abbandonate da tempo (per esempioil Premio Vita e Paesaggio a Capo d’Orlan-do, dove ha lavorato Hans Schabus), rilan-ciando l’impegno di gruppi di lavoro inten-ti già da anni nella rilettura del proprio ter-ritorio (come il Museo Lucio Piccolo di Fi-carra, al quale si è dedicato Massimo Bar-tolini), facendo riaffiorare brani importan-ti ma rimossi della storia locale recente(come è avvenuto ad opera di Marinella Se-natore che ha lavorato con le comunità diminatori dei dintorni di Enna), attivando ildibattito civile intorno a questioni colletti-ve (come nel caso di Flavio Favelli e ZafosXagoraris che si sono infiltrati nel tessutocritico di Termini imerese a ridosso dellachiusura degli stabilimenti Fiat). Un progettodi forte coesione tra museo, artisti, istitu-zioni e attori locali, i cui risultati sono sta-ti poi ricongiunti, ampliati e ridiscussi, nel-la sede ufficiale di Palazzo Riso

5, con un mo-

vimento complesso che nelle sue variefasi – ascolto, ricerca, collaborazione, sin-tesi, valorizzazione, ampliamento – ha te-stimoniato dell’importanza di una regia uni-taria e condivisa capace di stimolare e al-tresì di accreditare processi locali di crescitache rischierebbero di esaurirsi senza l’in-serimento in un corso più ampio e ambi-zioso di sviluppo, così come istanze di ri-cerca che troppo facilmente potrebbero ri-cadere dentro il recinto di una autorefe-renzialità erudita. Progetti analoghi, nellestagioni successive, avrebbero dovuto ap-profondire ed estendere questa tipologia diintervento, ma proprio a quel punto è arri-vato l’intervento politico ad arrestare lamacchina, ormai ben lanciata, del museodiffuso. La politica non ha capito, o non havoluto capire. RiSO ha chiuso i battenti, equando li ha riaperti, qualche mese dopo,si trovato ad indossare la veste usurata del-la vecchia inutile istituzione museale di pro-vincia.

1. Torna a farne menzione di recente Joelle LeMarec nel suo Public et musées. La confian-ce éprouvée, L’Harmattan, Paris, 2007

2. La progettazione e la conduzione di RiSO dal-l’apertura nel 2007 alla chiusura nel 2012, aldi là delle varie figure dell’amministrazione re-gionale coinvolte nel corso del tempo e dei cu-ratori di volta in volta incaricati, vanno defi-nitivamente ricondotti a Renato Quaglia, di-rettore artistico, che ne ha progettato l’iden-tità come museo diffuso, e Antonella Amorelli,che lo ha fortemente voluto e coordinato intutta la complessità progettuale che lo ha ca-ratterizzato.

3. Mi sembra utile a tal fine rimandare ad un nu-mero speciale di “Arte e Critica” (n.13, set-tembre 1997) che riportava gli interventi di unagiornata di studi tenutasi a Bologna nel gen-

naio dello stesso anno, dedicata al “Ruolo del-le Gallerie Pubbliche nell’arte contemporanea”.

4. Curato da chi scrive, il progetto si intitolava ETI-CO_F. 5 movimenti sul paesaggio, e si svolsenel luglio 2010. (Catalogo Mondadori Electa)

5. Sempre per la cura di chi scrive, la mostra cheriunì a RiSO le opere e gli artisti di ETICO_F in-sieme ad altri interventi progettati ad hoc in-torno alle stesse tematiche ebbe come tito-lo Sotto quale cielo?, e si tenne dal 10 giugnoal 31 dicembre del 2011 (Catalogo MondadoriElecta)

Zafos Xagoraris, Indicatore, ETiCO_F, Termini imerese, 2010. produzione Riso, Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia, Palermo.Photo Stefania Zocco

Flavio Favelli, Alfasud 1x2, 2010, neon e light box Palazzo del Comune Termini imerese (Pa), produzione Riso, Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia, Palermo

Daniela Bigi è co-direttrice della rivista Arte e Critica e docente di Storia dell’ArteContemporanea presso l’Accademia di Belle Artidi Palermo.

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Massimiliano Scuderi: Questo numero s’in-titola, come sai, il museo di MU6, per capi-re quali possano essere le caratteristiche diun museo veramente contemporaneo. Par-tiamo dalla tua esperienza con Fuoriuso, chenasce dalla carenza di spazi per l’arte con-temporanea a Pescara. Quello che vorrei ca-pire è com’è nata l’idea e quando?Cesare Manzo: Ho iniziato ad organizzareFuori Uso perché non vedevo nessuna pos-sibilità per la città, che aveva avuto in un re-cente passato un interessante storia graziead alcune gallerie. Ad un certo punto mi sonoritrovato da solo, ma ero riuscito ad aggre-gare tanti giovani che mi seguivano. io ave-vo una piccola galleria ai tempi e non sape-vo come fare. C’era bisogno di fare delle gran-di mostre, ma non c’era un museo o co-munque qualsiasi altro spazio utile.

MS: Cosa intendi per grandi mostre?CM: Mostre, anche di giovani, ma importan-ti. Cioè occasioni per cui i giovani si impe-gnassero, assumendosene la responsabilità.i grandi artisti non venivano qui. Oltretuttoc’era il timore di invitarli ad esporre in spa-zi poco convenzionali.

MS: Quindi, se ho capito bene, la tua è sta-ta quasi una “chiamata alle armi” o, meglio,la richiesta di un’assunzione di responsabilità,più che la necessità di inaugurare un con-tenitore espositivo?CM: Del contenitore non mi fregava niente.Certo se ce ne fosse stato uno e fosse sta-to possibile utilizzarlo… ma la scommessaera più importante: fare vedere alle perso-ne, del posto e non solo, come fare delle mo-stre interessanti in assenza di un museo. Cioètutto tirato a lucido ecc. Un quadro bello ointeressante poteva essere attaccato ad unaparete non pulita.

MS: È l’opera che crea lo spazio…CM: Certamente. Ero molto convinto di que-sta idea e pensavo che veramente fosse ri-voluzionaria. in quanto in italia, ai tempi, nonc’erano tanti musei d’arte contemporanea. il rapporto con gli artisti e i critici mi aiutò acapire che impegno mi aspettava. Ma tuttopartiva sempre dal trovare uno spazio cheavesse un carattere interessante.

MS: Ma Fuoriuso iniziò prima del novanta?CM: Si, ad Ortona. Rimisi in sesto un Palaz-zo in cui non facevano alcuna attività. Lo rea-lizzai grazie ai privati, gente generosa. Era-no anche tempi floridi. La prima mostra fucurata da Giorgio Cortenova che però noncapì lo spirito dell’iniziativa e, come spessocapita, si trincerò dentro la sua mostraescludendo tutti. A me la cosa non piacquee lasciai perdere. Poi chiamai Achille Boni-to Oliva.

MS: Hai lavorato molto sul territorio?CM: Certo. Ho lavorato tantissimo, mode-stamente ero molto bravo! (ride)Poi vidi l’edificio dell’Aurum progettato da Mi-chelucci ed ebbi una folgorazione! La primamostra del novanta la curai direttamente io,ci misi dentro alcuni giovani artisti, unamostra di Schifano e altre cose. Ci avevanodato lo spazio per soli sette giorni e poi ven-ne prorogata, tanta era stata l’affluenza dipubblico. Ero rimasto molto colpito dalla mo-stra di ABO a Montepulciano, con dei lavorisite-specific. Nel 1991 mi recai da lui a chie-dergli la mostra e le persone erano incredule,tutti pensavano che rifiutasse. Non avevo unalira, ma mi impegnai molto a fargli capirebene quello che avevo in testa. Achille mi dis-se che c’era la guerra del Golfo ed io rispo-si: meglio! Sarebbe stato un modo interes-sante per impegnarsi ed essere presenti.

MS: Quello che mi interesserebbe capirebene con te è che quindi non è importan-te prendere uno spazio abbandonato perfarci dentro le mostre, è importante ilmodo in cui lo fai. Una presa di posizioneprecisa, una dichiarazione sul fare arte, checolloca il pensare all’arte attraverso ilpensiero stesso dell’arte.CM: Esattamente. Le persone che più han-no contribuito sono stati Achille Bonito Oli-va e Giacinto di Pietrantonio. Con loro è sta-to molto facile lavorare e “giocare”, perchéavevano capito lo spirito di Fuori Uso.Ogni tanto ci si aggiungeva un po’ di tea-tro, la musica, in modo che le persone delteatro e della musica venissero a vederele mostre. E qui si incominciarono ad in-trecciare alcune situazioni innovative. An-che il cinema con Enrico Ghezzi che sta-va fino alle cinque del mattino a proietta-re i film, ti ricordi?

MS: Certo. Questo secondo me rappre-senta la tua vera forza ovvero la capacitàdi aggregare tante persone diverse, anchenon vicine all’arte, in modo semplice. Da lìsono nate tante esperienze importanti e

tante competenze. Fuori Uso è stato unasorta di incubatore, non è stata solo unamostra, giusto?CM: Chiamavo le persone a divertirsi conl’arte. E li invitavo a dare una mano, per en-trare in questo mondo.

MS: Una formula vincente è stata forsequella di accostare figure professionali a neo-fiti dell’arte. Ma dopo cos’è successo?CM: La cosa è diventata sempre più impor-tante, ma la politica non ha capito.

MS: Com’è possibile che una manifestazio-ne così interessante negli anni non abbia tro-vato una sponda o amministratori in gradodi cavalcare un’occasione vera per il terri-torio? Pensa in Francia a Jacques Lang.CM: Qualcuno c’è stato. Gli altri non aveva-no interesse.

MS: Fuori Uso è stato importante perché èriuscito a giustapporre ambienti diversi,culturali e non. Cioè hai fatto capire che l’ar-te non è una cosa per pochi, ma neanchequalcosa da consumare o la cui compren-sione sia necessariamente immediata atutti. Tu parli di responsabilità, la necessitàdi fare arte con una visione alta, non dicoidealistica, ma rigorosa. Ma ora il Fuori Usonon si fa più?CM: Si.

MS: Pensando anche all’arte come qualcosain grado di aggregare le persone, le ener-gie, quale potrebbe essere un modello dimuseo veramente contemporaneo?CM: Bella domanda… il segreto, che vale perchiunque, è di fare propria l’occasione chesi presenta, di farsi coinvolgere per poter-si esprimere. ABO e Giacinto hanno capitoquesto, anche Bourriaud, anche tu. Altri sela giocavano solo per un tornaconto per-sonale.

MS: L’arte, quindi, come luogo della gene-rosità?CM: Certamente. Anche molti giovani ne han-no capito il senso e sono riusciti a non esa-gerare.

MS: Ovvero?CM: Sai chi esagera nel mondo dell’arte? chipensa di farsi vedere a tutti i costi, chi cre-de di non farcela e allora esagera. Chi nonesagera ha fatto opere meravigliose.

MS: Tipo? fammi un esempio che ti viene dalcuore?CM: Cucchi e Chia quando si misero a dipin-gere e chiamarono anche Montesano a far-lo con loro, nel Fuori Uso del ‘95. Quando ar-tisti diversi, per idee o età, si sono uniti e han-no fatto una magia. Dei veri e propri miracoli.Getulio Alviani che disse di voler fare una “co-settina piccola, piccola…” e poi ci son volu-te venti persone per dipingere un tunnel. Eraun modo per coinvolgere le persone e far lorovedere come nasce un pensiero.

MS: Forse servirebbe anche adesso?CM: Anche più di ieri.

MS: Ma forse oggi si è persa quell’idea di co-munità, presi come capita più da se stessiche dagli altri. Sarebbe possibile indurre an-cora le persone a sentirsi parte di un progettocomune?CM: io ho ancora questa visione e sono con-vinto che mai come in questo momento sto-rico ce ne sia bisogno. Basterebbe solo dire“chi vuole venire?” e ti trovi tutta la città adarti una mano. E solo quando c’è questa ge-nerosità vengono fuori le cose importanti.

MS: Insomma come ti immagini un museocontemporaneo?CM: il luogo non è importante, ma non si devefare in una grande città. Non si deve fare aRoma, a Milano, a Bologna o a Torino. Per-ché ce l’hanno già e fanno grandi disastri.Hanno tutto, ma non riescono mai a metterciquel piacere del fare. Ti mollano la “botta” coni quadri del Metropolitan di New York, ma que-sto non è detto che ti restituisca una gran-de emozione. il fascino sta nel saper mostraretutta l’energia che l’artista ci mette perfare un’opera.

MS: Negli ultimi dieci anni c’è stata la “ne-cessità” di inaugurare musei d’arte con-temporanea. E se andiamo a vedere, inItalia dietro ogni angolo si nasconde un mu-seo. Tu che ne pensi?CM: Ne hanno prodotti in abbondanza. Po-trebbero essere necessari se avessero unacerta freschezza, invece è tutto collegato almercato, con gli interventi a ‘gamba tesa’ deigalleristi. E lì casca l’asino! Perché c’è un in-teresse economico reale.

MS: Progetti per il futuro?CM: Salvare la galleria. E poi sto ancora cer-cando un luogo dove poter fare delle cose fis-se, un vero luogo per l’arte contemporanea.

MS: Ti capita ancora di perderti e scoprire deiluoghi per caso?CM: Si, ancora adesso mi capita.

Conclusa l’intervista mi allontano dalla gal-leria, ma subito vengo richiamato da Man-zo, anzi da Cesare. Come al solito, dopo averripensato alle cose che ci eravamo appenadetti e volendo precisare altro: “Fuori Uso nonera istituzionale per cui nessun politico,nessuno, poteva metterci le mani sopra o telo poteva togliere. Si decideva con gli artistie con i critici e basta. Perché di litigate, e tune sai qualcosa, ce ne erano tante, non era-vamo d’accordo su tutto e su tutti.”

MS: Quindi cosa mi vuoi dire, che l’arte ap-partiene all’arte e non alla politica?CM: L’arte non appartiene assolutamente allapolitica. E per questo il politico ha paura del-l’arte, perché l’arte fa quello che gli pare. Eccoperché. Non si fidano dell’arte, ne hanno pau-ra. Non si fidano dell’arte perché è l’arte a nonfidarsi di loro.

I POLITICI NON SI FIDANODELL’ARTE PERCHÉ L’ARTENON SI FIDA DI LOROUN DiALOGO CON CESARE MANZO, DA GiORNALAiO A GALLERiSTA, S’iNVENTò NEGLi ANNi NOVANTA FUORi USO, UNA MOSTRA D’ARTE iNTERNAZiONALE ORGANiZZATA iN SPAZi ABBANDONATi

Gunilla klingberg, Mantric Mutation, veduta dell’installazione. Fuori Uso 2006, Altered States – Are you experienced, Ex Cofa Pescara.Photo Salvatore Prestifilippo

A destra Cesare Manzo

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Massimiliano Scuderi: Nata da una tua idea,sulla base dell’esperienza maturata con laFondazione Volume!, il Parco Nomade è unprogetto pensato su un’area di 40 ettari,una riserva naturale, vicino al Corviale aRoma. Un’idea che pone al centro il ruolodell’arte nel rapporto con il territorio. Cosati ha spinto ad intraprendere questo pro-getto, ce ne puoi parlare?Francesco Nucci: Fin da subito ho pensa-to che tutto quello che si faceva dentro VO-LUME! dovesse avere una sua continuazioneall’esterno: dare un certo grado di perma-nenza a quello che, per statuto, non può cheessere effimero. L’artista quando viene aVOLUME! cambia gli spazi, crea ambienti edemozioni nuove. L’idea di portare tuttoquesto fuori e, addirittura, farlo viaggiare,è stata una necessità. Se un artista e un ar-chitetto lavorano insieme alla realizzazio-ne del “modulo-opera” da collocare all’a-perto, questa creazione può rigenerare unterritorio, senza stravolgerlo ma ponendo-si come dispositivo di attivazione. Nel casodel progetto a Corviale l’idea era quella diintervenire sull’Agro Romano, valorizzarlomantenendo inalterato il suo ecosistema.

MS: In Italia quali sono state le difficoltà chehai incontrato dal punto di vista burocra-tico e culturale, in un Paese che attraver-so la riforma Gelmini elimina l’insegnamentodella storia dell’arte in alcuni istituti su-periori? Quali fraintendimenti, se ci sonostati, hai incontrato durante tutto l’iter rea-lizzativo?FN: Le difficoltà sono stata enormi, so-prattutto perché è facile con questo pro-getto suscitare entusiasmo… a parole! Piùdifficile è trovare nel concreto, sia da par-

te delle istituzioni che da parte di sponsorprivati, la volontà di sostenerlo. Gli artisti egli architetti a cui abbiamo chiesto di col-laborare si sono dimostrati disponibilissi-mi e propositivi: abbiamo già i progetti di 10moduli pronti per essere realizzati. La Fon-dazione VOLUME! però non ha alle spallegrosse aziende, banche o il mondo dell’in-dustria. il nostro patrimonio è fondamen-talmente un patrimonio di idee, relazioniumane, entusiasmo e, perché no, visiona-rietà. Per me che sono un neurochirurgol’arte e la cultura sono sempre stati un in-vestimento culturale, mai economico. Pur-troppo la visione economicistica si è ormaiinsinuata nelle nostre menti e anche nelleistituzioni. Diventa sempre più difficile tro-vare compagni di viaggio. A Roma poi por-tare avanti progetti come questo, che ri-chiede sinergie su molti livelli, diventaquasi impossibile per i motivi che tuttisappiamo o immaginiamo, senza starequi ad elencarli tutti.

MS: A che punto è il Parco Nomade, qual èlo stato di avanzamento del tuo progetto equale il futuro, in Italia o all’estero?FN: Proprio a causa delle difficoltà trova-te a Roma non escludo che il progetto pos-sa articolarsi su più fronti, in italia e in al-tre nazioni. Abbiamo già stabilito diversicontatti in proposito. All’estero se hai unabuona idea le istituzioni fanno di tutto perfarla propria e realizzarla; in italia a limiteavviene solo la prima fase. Entro il 2014 por-remo fine a questa fase di stallo e chiari-remo tempi e luoghi di realizzazione. Pro-prio perché nomade, il Parco può spo-starsi e mettere radici in altri luoghi … più“fertili”.

PARCO NOMADEQUANDO iL MUSEO PUò SPOSTARSi E METTERE RADiCi iN ALTRi LUOGHi … Più “FERTiLi”

Progetto del modulo GiUSEPPE GALLO/MASSiMiLiANO FUkSASiN ALTO: Progetto di João Nunes

INTERVISTA A FRANCESCO NUCCI

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L’opera ha una circonferenza di 36 cm e uno spessore massimo di 2 cm.Al centro c’è l’impronta di un uovo portato da un’aquila in volo dal Gran Sasso.

Per la rinascita di L’AQUILA.

DIEGO ESPOSITO, Aquila, 2013, Resina colorata - Edizione per MU6, 40 esemplari

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La storia dello sviluppo locale a base culturale in italia è lastricata di belle intenzioni e di tan-ti fallimenti, per lo più dovuti ad una carenza di cultura amministrativa che, nei casi miglio-ri, ha avuto il merito di dare avvio ad un percorso di reale di cambiamento ma ha perso perstrada il coraggio di perseguirlo fino in fondo, e nei casi peggiori lo ha pregiudizialmente ri-fiutato preferendo rifugiarsi nelle formule più immediatamente remunerative, dal punto divista dell’immagine e del consenso, dei grandi eventi e del taglio dei nastri di strutture de-stinate prima o poi a soccombere sotto la scure della sostenibilità finanziaria.in italia mancano dunque esempi compiuti di sviluppo a base culturale, anche se certamentein alcuni casi, ad esempio Torino, si è fatta molta strada e si sono in ogni caso ottenuti ef-fetti permanenti non trascurabili. Ma cosa vuol dire in ultima analisi un modello ‘compiuto’?L’aspetto più importante da considerare è l’auto-sostenibilità del processo, che non vuol direl’indipendenza dalle risorse pubbliche (alcune attività, soprattutto in settori come le arti vi-sive, il patrimonio storico-artistico e lo spettacolo dal vivo non sono semplicemente non sonopossibili senza risorse pubbliche), ma la sostenibilità politica dell’impiego di risorse pubbli-che nello sviluppo a base culturale. il che vuol dire soprattutto una comunità capace di ri-conoscere e apprezzare l’importanza di una simile traiettoria di sviluppo in tutte le sue im-plicazioni, comprese quelle economiche, sociali e di sviluppo umano, senza cadere nelle so-lite trappole retoriche della contrapposizione tra soldi alla cultura e soldi agli asili o ai ser-vizi sociali. Questo tipo di espedienti viene invece usato correntemente nell’arena del dibattitopolitico nel nostro paese per manipolare strumentalmente l’opinione pubblica, e il proble-ma è che proprio perché manca quasi completamente una reale consapevolezza del con-tributo della cultura nel garantire, tra le altre cose, obiettivi fondamentali quali la qualità del-la vita, la coesione sociale e la capacità competitiva, tali espedienti si rivelano normalmen-te piuttosto efficaci.il punto è che queste condizioni di sostenibilità mancano in italia in primo luogo a livello na-zionale – non a caso il nostro paese è l’ultimo nell’Europa a 28 per la spesa pubblica in istru-zione e cultura: un dato quantomeno sconcertante che però, eloquentemente, non ha scos-so più di tanto un’opinione pubblica forse ormai rassegnata allo stillicidio di primati nega-tivi inanellati dal nostro paese negli ultimi anni. E questo significa quindi che se qualcosa devecambiare, questo può presumibilmente avvenire a partire da esperienze a livello locale resepossibili da una nuova generazione di amministratori disposti ad investire tempo ed atten-zione nella comprensione del rapporto spesso contro intuitivo ed apparentemente elusivotra cultura e sviluppo, a partire dall’aspetto fondamentale, e in italia particolarmente trascurato,della partecipazione culturale attiva.Capita così che anche quando si studiano gli esempi più interessanti, non li si comprendo-no proprio perché si tende a leggerne in maniera distorta soltanto gli aspetti che rispondo-no alla logica già familiare: il caso più eclatante è naturalmente quello di Bilbao, che portatuttora molti amministratori locali a credere che la chiave del successo sia stata la costru-zione di una architettura-feticcio capace di attirare folle di turisti, e non la creazione di un

sistema di produzione fondato sul capability building e sullo stimolo dell’imprenditoria cul-turale e creativa. Per capire queste dinamiche non si può decidere con approssimazione oper sentito dire come si fa normalmente in italia quando si parla di politiche culturali. Oc-corre capire e conoscere davvero ciò di cui si parla. La nuova generazione di amministrato-ri locali italiani che vorrà raccogliere davvero questa sfida deve quindi prepararsi a fare quel-lo che fanno molti dei loro colleghi stranieri: documentarsi, dedicare tempo, riflettere. Sen-za una cultura amministrativa adeguata, lo sviluppo a base culturale in italia non decolleràmai. E sarebbe probabilmente l’occasione perduta che rimpiangeremmo di più negli anni avenire. Perché negli anni a venire, che ci crediate o no, sarà soprattutto la cultura a fare ladifferenza, tra città e città, tra regione e regione, tra paese e paese.

LA CULTURA COME MOTORED’iNNOVAZiONEPER iL TERRiTORiO

Michelangelo Pistoletto, L’universo speculare, Nuovo Palazzo di Giustizia - Pescara, 2004. Photo Ela Bialkowska e Attilio Maranzano

Pierluigi Sacco è Professore Ordinario di Economia della Cultura, con delega rettorale all’innovazione e allerelazioni internazionali, e coordinatore del corso di laurea magistrale in Arte, Patrimoni e Mercati presso loIULM di Milano. Scrive per il Sole 24 Ore e per Flash Art.

DI PIERLUIGI SACCO

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Massimiliano Scuderi: Cosa significa dirigere un museo in Ita-lia e, per di più, in tempo di crisi?Giacinto Di Pietrantonio:Per chi, come me, ha lavorato in con-dizioni estreme come Fuori Uso la crisi non può che prender-la con filosofia nel senso di crisis, quindi un’opportunità, un’oc-casione per la rinascita. Quindi, senza piangerci addosso neabbiamo approfittato per riorganizzare la nostra program-mazione, anche nel senso di aumentare collaborazioni con al-tre istituzioni pubbliche e private. Paradossalmente conmeno risorse economiche abbiamo aumentate le attività. in-somma, abbiamo seguito la massima di Mies van der Rohe:“il meno è più.”

MS: Quanto è importante il rapporto tra struttura museale eterritorio?GDP:Per vocazione la GAMeC è un museo che si rivolge a tut-ti, quindi all’italia e all’estero, potendo tra l’altro Bergamo van-tare il terzo aeroporto italiano di Orio Al Serio. Tuttavia, è na-turale che si abbia una particolare attenzione al territorio e perquesto facciamo molto lavoro con e sulle scuole di ogni ordi-ne e grado, dall’asilo all’università. Con quest’ultima dallo scor-so anno abbiamo attivato anche una lavoro di partenariato chia-mato Art fellowship con seminari sull’arte che la GAMeC offreai corsi universitari, lo scorso anno se ne attivarono con unadecina di corsi e questo nuovo anno accademico siamo in au-mento già del 50%. Quello che possiamo osservare è che lamaggior parte del pubblico della GAMeC è un pubblico prove-niente da Bergamo e provincia, poi da Milano e man mano checi allontaniamo da Bergamo percentualmente il pubblico di-minuisce, ma questo accade per tutti i musei. Ma consenti-mi di spiegare ancora meglio questo, perché è uno dei nostripunti di forza. Come detto ciò avviene soprattutto attraversola formazione con le scuole ed in questo i servizi educativi han-no un’importanza fondamentale. Ma anche attraverso la re-lazione con i collezionisti che a Bergamo sono numerosi e digrande qualità internazionale. Poi abbiamo attivato il Club Ga-mec (amici della GAMEC) che raccoglie circa 200 soci. Poi consocietà di consulenza di comunicazione come la Multiconsultcon un’attività di consulenza reciproca, quindi a costo zero. Mavorrei segnalare che tra le tante iniziative i nostri Servizi Edu-cativi hanno creato, in aggiunta alle preesistenti guide GAMeC,già dal 2006, i mediatori museali che sono guide di 30 nazio-nalità diverse presenti nel nostro territorio, un unicum, con loscopo di portare al museo i loro connazionali e di fargli da gui-da nella loro lingua. Quindi la GAMeC, credo caso unico al mon-do, oltre all’italiano offre visite guidate in 30 lingue diverse acui dal nuovo anno si aggiungerà anche la possibilità di ave-re le visite in dialetto bergamasco. D’altra parte per me que-sto non è una novità assoluta, come sai nel 1995 pubblicai untesto in dialetto abruzzese sul quotidiano d’Abruzzo “il Cen-tro”, testo relativa al lavoro di Enzo Cucchi in mostra allora daCesare Manzo. Ma tornando alla GAMeC e alla relazione con ilterritorio vorrei citare un brano dell’intervista rilasciata dallamediatrice libanese Maedeh Ziarati alla rivista online dei no-stri Servizi Educativi “Zona Franca” a cui racconta la sua pri-ma visita guidata: “La mia prima visita l’ho fatta per 15 don-ne arabe/marocchine. Tutte erano alla loro prima visita ad unmuseo. Ho dovuto andarle a prendere e accompagnarle du-rante tutto il tragitto verso il museo. Sentivo la loro agitazio-ne e curiosità. il personale della GAMeC è stato meraviglioso,le ha accolte molto bene e si sono sentite a loro agio. Senti-vo la loro agitazione svanire man mano che la visita proseguiva.Tutto era bello, tutto nuovo, tutto meritava la loro attenzione.Ma davanti all’opera di Pistoletto Venere degli stracci le don-ne si sono impietrite ad un primo momento!!! Mi raccoman-davano di non dire niente ai mariti!!! Ma dopo un attimo d’im-barazzo la complicità femminile si è fatta avanti e sono co-minciati gli scherzi e il divertimento vero e proprio. È come sequest’opera le avesse fatte sentire a loro agio!!! Strano ma vero.Sono ritornate a casa contentissime e mi hanno ringraziatomolto. il fatto che mi ha reso ulteriormente contenta sono state le maildi complimenti che ho ricevuto da alcuni educatori, mediato-ri e formatori che erano lì al momento della mia visita e sonorimasti colpiti dalle espressioni di felicità delle mie donne. L’han-no descritta come una visita ‘storica’. Queste donne sono tor-nate altre due volte al museo; una volta con i mariti e un’al-tra volta con un’altra educatrice del museo.”

Un altro episodio che mi piacerebbe raccontare è quello di grup-po di donne marocchine sempre alla loro prima visita ad unmuseo e particolarmente di una di loro che è rimasta colpitain un modo esagerato dall’opera di Dorazio “Verso il raffred-damento”. Non staccava l’occhio e rimaneva sempre davan-ti al quadro a guardarlo e mi faceva delle domande per cer-care di capirlo. Abbiamo fatto tutto il percorso ma lei conti-nuava a ritornare ogni tanto per guardarlo di nuovo. Di sera michiama per ringraziarmi per averle regalato un’emozione in-dimenticabile e per aver spezzato la monotonia della sua vitain un modo bello. Le sue parole mi hanno fatto capire comel’arte può accorciare le distanze fra le persone a prescinderedalle loro appartenenza.

MS: Come intendi il rapporto tra patrimonio e contemporaneità?GDP:Beh, anche qui siamo avanti, perché non intendiamo, mafacciamo. Vedi, oggi sono in molti a tentare questo rapportoe a vantarlo come una novità, ma noi in GAMeC -grazie ancheal fatto che il nostro museo è parte del sistema Carrara com-posta dalla Pinacoteca e dall’Accademia di Belle Arti e che quin-di posso disporre di un patrimonio storico non indifferente cheva dal medioevo all’ottocento con importanti opere come Raf-fello, Pisanello, Mantegna, Lotto per non fare che qualche nome-già dalla prima mostra, che feci dopo un mese che ero statonominato nel gennaio 2001 e chiamata “Dinamiche della Vitadell’Arte”, esponevo a confronto opere dal medioevo fino al 2001,dimostrando la stretta relazione che corre nell’arte, perché,come diceva Gino De Dominicis: “L’arte è tutta contempora-nea”. Esperimento che abbiamo poi ripetuto con la mostra“Esposizione Universale” nella primavera del 2009 sempre conopere antiche, moderne e contemporanee e che nell’autun-no esportammo alla Fondazione Proa di Buenos Aires. Qui, comescrissero i giornali locali, la mostra ebbe un tale impatto da cam-biare la prospettiva della curatela in Argentina. Ora stiamo la-vorando ad una mostra che inauguriamo il 6 febbraio 2014 in-titolata “Modernità della Memoria dell’Arte”, in cui confrontiamoancora una volta le diverse epoche storiche a partire dal Quat-trocento ad oggi con autori come Bernini e Beecroft e Pisto-letto, o Lorenzo Costa, Leonardo e allievi con Pirri per non fareche qualche esempio, il resto dei confronti lo scoprirete visi-tando la mostra.

MS: Se ci sono o ci sono stati, quali sono i musei che reputi piùinteressanti? GDP: Tralasciando l’ovvietà di supermusei come la Tate Mo-dern di Londra, citerei la Whitechapel sempre a Londra nelladirezione di iwona Blazwick, o lo SMAk di Gent nella gestioneJan Hoet, ma ora anche Philippe van Cauteren si difende bene.Da noi è più difficile dire per la situazione ballerina in cui si tro-vano i musei, ad esempio Pietromarchi, ma anche Luca Mas-simo Barbero stavano facendo un buon lavoro con il MACRO,ma la situazione politica li esonera senza dargli il tempo di con-solidare il museo. Qui da noi, non parlo per me, spesso non siè ancora cominciato un lavoro che già bisogna ricominciaredaccapo. Oppure Torino considerata l’avanguardia e un’isolafelice in senso museale che si trova a vivere una situazione distallo, perché anche qui la politica si è ultimamente messa ditraverso, mettendosi in testa di voler fare una superfondazioneche dovrebbe accorpare sotto una direzione unica competenzemuseali e non diverse tra loro come la GAM con il Castello diRivoli e la fiera d’arte Artissima. Gli esempi potrebbero con-tinuare e non per difendere la categoria, ma credo che in unasituazione come questa tutti i direttori italiani fanno dei mi-racoli per far si che il nostro sistema museale non scompaia.

MS: Provincia o metropoli. Ammettendo che possa dipende-re anche da una questione di scala, qual è l’ambito in cui si puòfare meglio il tuo lavoro?GDP:Come dici non è una questione di scala, ma in italia la pic-cola provincia è il grande motore, anche perché un po’ più alriparo dalle questioni destabilizzanti di cui dicevamo sopra. Main senso generale credo che il buon lavoro si possa e si deb-ba fare ovunque e comunque.

MS: La riforma Gelmini ha eliminato la storia dell’arte dall’in-segnamento di alcuni istituti superiori. Cosa ne pensi equanto conta la formazione e la didattica?GDP: Che dire di chi dice che c’è una galleria tra il laboratorio

di ricerca fisica del CERN di Ginevra e quello LNGS del Gran Sas-so. Mi dirai, ma che c’entra la fisica con l’arte? C’entra perché,a parte che sono due sistemi immaginativi astratti, dimostrache da noi, soprattutto nella politica, spesso si mettono per-sone al posto sbagliato. La storia dell’arte non dovrebbe maiessere eliminata in nessuna nazione al mondo, ma farlo in ita-lia che l’Unesco considera depositaria del 50/60 % del patri-monio artistico dell’umanità vuol dire commettere un vero eproprio delitto. Ma questo fatto, unito a quello dell’eliminazionedei laboratori dalle scuole d’arte la dice lunga sul progetto d’e-liminazione che è volto a mio avviso a ridurre quelle materielegate all’arte e quindi alla creatività. Sono materie che fan-no sí che la gente pensi, perché essere creativi vuol dire vo-lere che le cose cambino e questo non sta bene a chi vuole chele cose restino come sono, per meglio controllarci.

MS: In Italia dietro ogni angolo si nasconde un museo. Secondote questo rappresenta un valore indiscutibile o bisognereb-be ripensare la logica dei sistemi museali in un’ottica soste-nibile sia per impiego di risorse che per una migliore gestio-ne delle reti?GDP:Non vorrei fraintendere, ma la tua domanda fa suppor-re che questo sia una cosa italiana, perché dell’estero spes-so si conoscono solo i grandi musei come la già citata Tate, ilPompidou, eccetera, ma guarda che all’estero ogni piccola cit-tadina ha uno o più musei e/o istituzioni d’arte contempora-nea e nessuno si pone la questione, perché sono coscienti chela loro presenza è fondamentale per la crescita della cittadi-nanza. Ora questo non può che essere lo stesso per l’italia an-che perché, ad esempio, l’italia è molto più comunale ed iden-titaria in tal senso della Francia, o della Germania e quindi nonpuò che esprimere queste località, il che rappresenta un va-lore mondiale, località e non localismo, perché come dicevaAndy Warhol è il locale che può aspirare all’universale.

MS: Qual è secondo te il ruolo che attende al museo del futu-ro o come auspichi che possa diventare?GDP: Come diceva il corrispondente da Londra Sandro Pa-ternostro: “Ecco ora la domanda delle cento pistole.” Ma ti ri-spondo con quanto mi disse il rappresentante della Tenaris Dal-mine, socio fondatore GAMeC insieme al Comune di Bergamo:Noi facciamo tubi e apparentemente l’arte con noi non c’en-trerebbe un tubo, ma noi siamo convinti che un museo, so-prattutto d’arte contemporanea come la GAMeC, è utile alla cre-scita culturale dei cittadini e noi come industria del futuro, comeindustria tecnologicamente avanzata abbiamo bisogno che cisia un innalzamento del livello d’istruzione. Quindi direi che unmuseo deve comunque mantenere una parte della sua voca-zione illuminista da cui è nato e ampliare la sua vocazione inlinea con i mutamenti dell’arte, perché è sempre l’arte a det-tare le regole come a trasgredirle.

GiACiNTODi PiETRANTONiO

Lo staff della GAMeC all’interno dell’opera di Luciano Fabro 1962 (Habitat), 1981.Photo Maria Zanchi - Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporaneadi Bergamo

DIRETTORE GAMEC - BERGAMO

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Massimiliano Scuderi: Cosa significa dirigere un museo inItalia e, per di più, in tempo di crisi?Cristiana Collu: Probabilmente è fondamentale non entraretroppo nel ruolo, non credere alla crisi e nello stesso tem-po non fare finta che non esista, in quanto la crisi è una si-tuazione così prossima alla normalità che è davvero diffi-cile distinguerle. Bisogna provare, almeno provare, a por-tare determinazione e leggerezza, bisogna farsi carico ditutta la responsabilità e condividere tutto il merito se ve nefosse.

MS: Quanto è importante il rapporto tra struttura musea-le e territorio?CC: Cruciale sempre perché parlare di territorio significa par-lare di comunità, dunque di appartenenza e appropriazio-ne. La risonanza che questi due fattori costruiscono è unasorta di scudo magnetico per il museo, lo rafforza e lo ren-de indispensabile. Si crea un’osmosi che genera conti-nuamente nuovo senso, da identità e vigore all’istituzione

MS: Come intendi il rapporto tra patrimonio e contempo-raneità?CC: La vedo così: il patrimonio è contemporaneità, la con-temporaneità è già patrimonio. Se non c’è questa ugua-glianza e questa equivalenza significa che qualcosa non fun-ziona nel nostro modo di guardare le cose, nel nostro mododi guardare al tempo e alla gestione dell’eredità del pas-sato e per il futuro, a partire da adesso.

MS: Se ci sono o ci sono stati, quali sono i musei che re-puti più interessanti?CC: Ci sono dei musei sorprendenti, è questa la cosa più in-teressante dei musei, alcuni lo sono per la loro collezione,altri per la loro attività, alcuni sempre, altri ogni tanto, marispondono a questa logica persino quando sono stanchie dimenticati, ma si lasciano ogni volta riscoprire.

MS: Provincia o metropoli. Ammettendo che possa dipen-dere anche da una questione di scala, qual è l’ambito in cuisi può fare meglio il tuo lavoro?CC: Si può sempre fare bene, nonostante sia evidente checi sono condizioni che rendano più semplice questa pos-sibilità.

MS: La riforma Gelmini ha eliminato la storia dell’arte dal-l’insegnamento di alcuni istituti superiori. Cosa ne pensi equanto conta la formazione e la didattica?CC: La mia esperienza personale dice che il mio incontrocon la Storia dell’Arte come materia di insegnamento in unliceo classico ha fatto la differenza, in qualche misura e inun modo che definirei carsico. La frequentazione del temae la passione trasmessa da chi insegna, prima o poi si fan-no vive con effetti solitamente positivi.

MS: In Italia dietro ogni angolo si nasconde un museo. Se-condo te questo rappresenta un valore indiscutibile o bi-sognerebbe ripensare la logica dei sistemi museali in

un’ottica sostenibile sia per impiego di risorse che per unamigliore gestione delle reti?CC: A me questa idea piace, mi sembra un invito a guardare,non solo l’arte, ma tutto in ottica diversa, tutto ha bisognodi essere guardato con occhi nuovi ogni giorno, c’e tantabellezza che ancora deve essere riconosciuta e che aspet-ta un nuovo canone. La frase ha infatti una ambiguità chepoi la domanda tenta di sciogliere. Sulla seconda parte dun-que credo che si tratti invece di individuare una visione difondo e l’applicazione di buone pratiche gestionali che ren-dano più composto e efficiente questo sistema così cometanti altri. Ma il sistema, come sappiamo, genera semprel’antisistema. La questione è la gestione della complessitàe delle risorse necessarie per conservare e produrre valo-re, patrimonio, innovazione.

MS: Qual è secondo te il ruolo che attende al museo del fu-turo o come auspichi che possa diventare?CC: il museo ha tanto da fare se vuole un futuro, come tut-ti noi del resto, se non ha le carte per essere un baluardoinespugnabile, allora deve camminare sulla terra leggero,sperimentare, essere coscienzioso e responsabile, capa-ce di tradurre le istanze del proprio tempo e non avere pau-ra di premere sull’acceleratore. Deve osare pensare altri-menti. Provarci?

DIRETTORI A CONFRONTO

CRiSTiANA COLLU

Photo Carlo Furgeri Gilbert

Mart, Rovereto (Tn). Photo Fernando Guerra Mart, Rovereto (Tn). Photo Fernando Guerra

DIRETTRICE MART - ROVERETO

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Ma ai musei interessa davvero il propriopubblico? Posta così la domanda appareprovocatoria. Spiego meglio: le istituzionimuseali, che nascono – come da definizione– per essere a servizio della società, con-teggiano i visitatori in termini numerici o nehanno a cuore la comprensione, il piacere,l’arricchimento personale, insomma l’ap-prendimento? A ben guardare è sempre piùcrescente l’attenzione che i musei rivolgonoai propri pubblici con percorsi educativi, la-boratori non solo per le scuole ma anche pergli adulti, lectures, ma spesso si tratta dieventi occasionali, che sono imparentati conla divulgazione invece che con la didattica.Sono, insomma, situazioni estemporanee,che richiamano alla mente l’interrogativodi Bordieu che si chiedeva se il museo fos-se un’istituzione colta per un’élite colta. Ep-pure, a mettere il naso fuori dall’italia, ci siaccorge che Paesi come la Gran Bretagnao la Francia hanno una tradizione pluride-cennale di studi sui pubblici e, addirittura,sui non-pubblici. Nel 1994 Hooper Greenhillscriveva che bastava fare un po’ di ricercasul campo per rendersi conto di quanto ilmuseo fosse marginale nella vita dellamaggior parte delle persone. Barriere di na-tura sociale, culturale, economica, ma an-che la sovrabbondanza di attività con cui oc-cupare il tempo libero ostacolano la lettu-ra del museo e del patrimonio quali occa-sioni privilegiate in cui apprendere e cre-scere. E allora sono le istituzioni a doveruscire da se stesse. il Brussels Museums

Council ha ideato uno dei progetti più en-tusiasmanti e originali degli ultimi anni. Sitratta di MUSEUMTALkS, una piattaformamultimediale gratuita che contiene oltre 150brevi registrazioni in cui visitatori comuniraccontano la propria esperienza di visitain un museo o le proprie impressioni ri-guardo un’opera scelta. Ad oggi sono 43 imusei che si possono visitare attraverso ilparere di qualcuno che c’è già stato e oltre25 le lingue dei contributi audio da scari-care o ascoltare sul sito www.muse-umtalks.be. il progetto è sorretto dal prin-cipio dello scambio: i file possono essereascoltati da tutti e tutti possono registra-re un commento audio semplicemente in-viando una mail all’indirizzo [email protected]. Si tratta di una strategiache parla di contemporaneità, nell’uso chefa della tecnologia, e che ha tutti gli ingre-dienti per il successo: democratizzazionedella cultura, condivisione, comparteci-pazione del pubblico nella costruzione deisaperi che non sono detenuti esclusiva-mente dall’istituzione culturale ma sono iprodotti di uno scambio. Molti i musei chepredispongono on line materiali di ap-profondimento scaricabili gratuitamente,come i dossier pedagogici del Centre Pom-pidou che contengono descrizioni delleopere, biografie degli artisti e contestua-lizzazioni storico-critiche utili a fornire alpubblico gli strumenti per una lettura au-tonoma delle opere. Sempre a Parigi il Pa-lais de Tokyo ha ideato il progetto This is my

Palais: in occasione delle diverse mostre vie-ne chiesto a un personaggio del mondo del-l’arte contemporanea – regista, artista, cri-tico – di descrivere il proprio personale per-corso di visita, scegliendo le opere che han-no catturato la sua attenzione, condividendocon il pubblico pensieri e suggestioni. in ita-lia dal sito del MAXXi si possono scaricarele MAXXi ZOOM, schede-focus sugli artistinella collezione del museo che si chiudo-no con domande o esercizi per il pubblico,pensando al munariano “se faccio capisco”.Ma la cura che i musei devono al propriopubblico dovrebbe essere spesa in egual mi-sura nei confronti del proprio non-pubbli-co. È necessario che le istituzioni culturalisi aprano alla società e si chiedano le ra-gioni per le quali molte categorie di perso-ne non visitano i musei. Proprio nel solcodella convinzione che nell’arte risieda un po-tenziale per migliorare la vita di ciascunosono nati progetti di vera e propria azionesociale. È il caso del MoMA, ad esempio, cheoffre tutte le attività didattiche anche in lin-gua dei segni, per non vedenti, con dispo-sitivi di amplificazione per persone ipoa-cusiche, e che ha uno speciale programmaeducativo per persone affette da Alzheimer.Di grande interesse è anche il progetto Dal-l’ospedale al museo che il Reina Sofia rea-lizza in collaborazione con l’Ospedale Psi-chiatrico Puerta de Hierro de Majadahon-da. Un gruppo di disabili mentali è coinvol-to in attività educative nelle sale del museoe i risultati mostrano che il contatto con le

opere è in grado di migliorare la qualità del-le vita dei partecipanti. E visto che il pub-blico è formato anche dai giovani artisti, imusei confezionano per loro incontri e di-battiti con altri colleghi già riconosciuti nelsistema dell’arte. Ma se questo non ba-stasse sono gli stessi artisti di fama inter-nazionale che si sostituiscono alle istituzionie creano scuole o vere e proprie botteghedal sapore rinascimentale. Certo, il so-spetto che in queste esperienze ci sia unabuona dose di autoreferenzialità si fa con-creto quando, per esempio, si viene a sa-pere che il college che Marina Abramovic stafacendo costruire da Rem koolhaas a NewYork si chiamerà Marina Abramovic insti-tute, ma accanto a questa esperienza ce nesono altre più “aperte”. È il caso dall’acca-demia Mass di Alessandria d’Egitto fonda-ta da Wael Shawky o della scuola proget-tata da Ryan Gander in Gran Bretagna. Re-sta indubbio che in questa grande partitail ruolo da regista deve essere assunto dal-le istituzioni museali che, prima dei numeridi biglietteria e marketing, devono ricordareche la loro identità è anzitutto educativa eche la loro ragione di vita risiede nell’esserea servizio della società e del suo sviluppo.E noi, pubblico, dobbiamo acquisire fami-liarità con i musei, frequentarli, usarli comeuna delle tante occasioni che la vita ci of-fre per crescere nella consapevolezza di noistessi e del nostro posto nel mondo con-temporaneo.Antonella Muzi

IL MUSEO E I SUOI PUBBLICI: ESPRIMERSI PER IMPARARE

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Museums and the web, organizzazione americana che sotto questa sigla si occupa di ana-lizzare il rapporto tra il museo e la sua audience, di nuove tecnologie applicate ai musei, diaccessibilità digitale dei musei da almeno un decennio, pone tra i suoi obbiettivi lo studiodell’interattività del sito web dei musei.Nelle sue Conference annuali organizzate in tutto il mondo (l’ultima, nel 2013, è stata a Por-tland, negli Stati Uniti, la prossima sarà a Firenze), sollecita la partecipazione dei diparti-menti Multimedia dei musei di ogni ordine, grado e genere, e dei singoli studiosi, generan-do un dibattito assai proficuo sul rapporto tra l’utente fruitore e il museo stesso. Moltissi-mi sono i case studies presentati nelle relazioni, le applicazioni tecnologiche, le pratiche so-ciali sperimentate da tutti i musei del mondo per essere attivi e presenti sul web, andan-do incontro alle esigenze degli utenti, sempre più esigenti e differenziati nelle richieste. Ba-sti pensare che grandi musei come il Louvre di Parigi hanno istituito, ormai da alcuni anni,dei dipartimenti ad hoc dedicati al multimedia in cui teams di designers, projects mana-ger, storici, traduttori, sviluppatori di sistemi esplorano le nuove tecnologie per rendere ilmuseo accessibile fisicamente e intellettualmente. L’obbiettivo è elaborare strategie percreare un link tra il museo e il suo pubblico.Viviamo nella società dell’obsolescenza e proprio i portali web, da cui si accede per infor-marsi sul museo, invecchiano nel momento stesso in cui vengono creati. E proprio qui na-sce l’ossimoro tra museo storico e rete. Una collezione sedimentata nel tempo che, soprattuttoin Europa, vive da secoli entro le stesse mura cambiando pochissimi tratti del suo sistemamuseografico/museologico, procedendo lenta nel tempo, trova nelle moderne tecnologiel’accelerazione sistematica del proprio divenire. Un sistema di metadata è dunque neces-sario per poter usufruire da lontano dei tesori contenuti nello scrigno che li protegge, e talestruttura semantica necessita di essere ridisegnata in continuazione per assecondare i cam-biamenti d’approccio culturali che la nostra società impone. il primo ingresso al museo nonavviene più attraverso un viaggio catartico, cui erano sottoposti, per esempio, i viaggiato-ri del grand tour alla fine del Settecento, che varcavano, timidi, portoni monumentali; l’in-gresso ora è virtuale e avviene attraverso una rete e una connessione.Sembrerebbe ovvio che per oltrepassare la quarta dimensione non si debba transitare at-traverso una soglia del tempo, e che il visitatore non si aspetti di trovarsi di fronte a una se-rie d’immagini che non può possedere, ne’ percorrere virtualmente, anche con visioni fo-tografiche a 360°, le stanze di un museo. Eppure questa situazione è quella più consuetaper un sito di un museo, almeno fino all’inizio del XXi secolo. L’analisi attenta delle soluzioni create per l’accesso ai musei storici on-line ha dimostra-to che l’utente ha necessità di possedere l’oggetto, di poterne scaricare l’immagine per ar-chiviarlo in una propria cartella, di fruirne non contestualmente alla consultazione del sito.Ha messo in luce, peraltro, le differenti tipologie di consumatori: dal semplice visitatore oc-casionale a quello che opziona i soli capolavori, dalla scuola che ha bisogno di un percor-so didattico calibrato, all’appassionato che vuole leggere la scheda e conoscere la biblio-grafia di un singolo oggetto. La sperimentazione più aggiornata, e non ancora obsolescente, è offerta da un sito e da unaricerca creativa che corrisponde a un antico museo appena riaperto al pubblico. il 13 apri-le 2013 uno dei musei più importanti per la conoscenza del patrimonio culturale europeo,il Rijksmuseum di Amsterdam, si è offerto al pubblico in una nuova veste antica ma con-temporanea. La struttura, progettata nel XiX secolo in stile neogotico, e ospitante più di 125000

opere di tutte le tipologie in più di 80 gallerie, dopo 10 anni di restauri e riadattamenti, sipresenta ora nella sua antica contemporaneità. A tale interpretazione museologica e mu-seografica corrisponde un sito ancora più sorprendente. il Rijkstudio richiede la registra-zione, ma appena varcata la soglia, si è veramente proprietari virtuali delle opere esibite adAmsterdam. L’utente può collezionare oggetti salvando l’intera opera d’arte sul proprio com-puter, offerta in altissima definizione senza limiti di copyright se non se ne fa un uso com-merciale, o delimitarla in un singolo, stupefacente, particolare. Può crearsi la propria car-tella e archiviare le selezioni per il futuro. Le opere possono essere stampate su qualsiasimateriale e utilizzate per creare un prodotto unico: un tatuaggio, la decorazione di una moto,il portasapone. infine qualsiasi oggetto scelto può essere condiviso sui social networks. 125000opere che escono dal museo e circolano sulla rete, pronte per essere commentate. Ovvia-mente l’utente viene avvertito tramite e-mail di novità e di altre iniziative che il museo in-venta. Ma i creativi olandesi sono andati oltre questa sfida: hanno inventato il RiJksmuseumAward. Chiunque abbia utilizzato un’immagine del museo per applicarla a un oggetto puòpartecipare: il vincitore dell’idea migliore potrà vedere commercializzato, nel bookshop in-terno del museo e on-line, il prodotto inventato. L’utente diventa parte del sistema museo.

CONDIVIDERE IL PATRIMONIO DEL MUSEO: LE SPERiMENTAZiONi

DEL RiJkSMUSEUM Di AMSTERDAM

IL MUSEO E I SUOI PUBBLICI: ESPRIMERSI PER IMPARARE

Raffaella Morselli è Professore Ordinario di Storia dell'Arte Moderna presso la Facoltà di Scienze dellaComunicazione, Università degli Studi di Teramo.

DI RAFFAELLA MORSELLI

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Uno dei capitoli del libro di Stephen E. Weil, Making museums matter (2002), si intitola “Frombeing about something to being for somebody”. Nonostante l’oggetto del capitolo fossero letrasformazioni avvenute a partire dagli anni ‘80 nei musei americani, il concetto chiave dellasua riflessione può essere facilmente estesa ad altri contesti e riguarda il passaggio da una con-cezione del museo come luogo di conservazione del patrimonio storico e artistico a luogo diimpresa sociale in grado di coinvolgere un numero ampio ed eterogeneo di persone. “Senza va-lore sociale e capacità di incidere nella vita della società il museo è nulla”, sostiene il museo-logo, proponendo un modo radicalmente differente di intendere il ruolo dell’istituzione museale,analogo a quello che David Fleming - direttore dei musei nazionali di Liverpool – ha definito intempi più recenti “museo democratico” (2008). il Tensta konsthall di Stoccolma è un’istituzione culturale localizzata in un quartiere periferi-co che presenta un’alta percentuale di immigrazione prevalentemente di origine turca e chetradizionalmente svolge un ruolo di animazione culturale e sociale in un contesto problema-tico. Una recente serie di conferenze si interrogava su cosa possono fare oggi le istituzioni ar-tistiche. in una di queste, Chris Dercon, attuale direttore della Tate Modern di Londra, ha mes-so a fuoco la diversa centralità che l’audience, il pubblico, ha assunto oggi. Se in passato po-teva essere considerato quasi una “seccatura” necessaria che doveva interferire il meno pos-sibile con l’algida fruizione dell’opera d’arte e, più di recente, è stato considerato una minac-cia a causa delle pressanti richieste degli sponsor di avere visibilità e grandi numeri mal sop-portati dagli enti museali, oggi, sostiene, siamo di fronte ad una fase di maggiore equilibrio, incui i visitatori sono in qualche misura degli stakeholder, parti in causa, portatori di interessecon cui trovare nuove forme di collaborazione1. La centralità del visitatore e la necessità di ripensare alla relazione tra istituzioni museali e frui-zione sono temi attuali rilevanti anche per le loro implicazioni urbane e territoriali. Mi limito acitarne tre: per il ruolo che i musei possono giocare nella definizione dello spazio pubblico, percome possono contribuire alla tutela di patrimonio e memorie storiche, in generale, per le for-me di radicamento al territorio che possono realizzare. Musei per qualcuno, “democratici” e nei quali le comunità locali sono coinvolte pur con ruoli di-versi, sono alcune caratteristiche che si possono ascrivere a due istituzioni museali italiane pub-bliche molto differenti tra di loro per statuto, contesto geografico, contenuti, dimensioni e obiet-tivi. Ma che tuttavia consentono di esemplificare due modi, per certi versi opposti ma altret-tanto significativi, di instaurare una relazione con i rispettivi contesti e con le pratiche quoti-diane, rispondendo ciascuno a suo modo alla domanda posta nei seminari del Tensta konsthall“how can art institutions be a productive part of civil society?”.

IL MUSEO COME LUOGO DI PRATICHE QUOTIDIANE.Esterno: Sul piazzale di mattoni rossi, di fronte all’edificio ci sono circa quindici bambini di etàvariabile dai tre ai 12 anni. Sono con i genitori e disegnano a terra con dei gessetti seguendole istruzioni di un gioco collettivo. Usano quello spazio collettivamente, disegnando il suolo, toc-candolo, modificandolo seppure in maniera effimera2. Interno 1: Di fronte al bancone del piccolo locale alcune persone chiedono un caffè. Altre, se-dute ai tavolini, bevono, chiacchierano, progettano che fare dopo o semplicemente si riscal-dano prendendo tempo. Hanno fatto un giro e questa è il luogo della sosta prima di ritornarea casa o andare a fare altro. È un luogo chiuso ma funziona come punto di incontro. Interno 2. Venti ragazzi occupano il grande spazio aperto di fronte all’ingresso. Hanno con sélibri, computer, cuffie per isolarsi o sentire musica di sottofondo. Hanno spostato sedie e al-cuni tavolini per stare più comodi: per isolarsi, appoggiare le loro cose o poter stare vicini aicompagni. Studiano, alcuni chiacchierano, navigano in internet in quella che è diventata la loroaula studio.Queste tre situazioni descrivono tre ambienti del museo Maga di Gallarate, una città di 50.000abitanti in provincia di Varese, in una domenica pomeriggio di fine Novembre. Sono tre ambienti“accessori” del museo: il piazzale, il bar e la hall che Marti Guixè ha progettato. Sono tre am-bienti complementari agli spazi del museo, dove si trova la collezione e che ospitano le mo-stre temporanee che tuttavia riescono a diventarne l’anima e a dare la possibilità al museo didiventare altro. Uno spazio pubblico, condiviso, da usare, di cui ci si può appropriare, facendolodiventare parte di pratiche quotidiane (studiare, far giocare i bambini, prendere un thè). il Magaha una storia del tutto particolare, il suo radicamento al territorio è parte della sua storia co-stitutiva. Nel 1950, subito dopo la guerra un gruppo di cittadini animati da una grande fiducianei confronti del valore dell’arte e della cultura, istituisce un premio per le arti visive3 che pre-vede l’acquisizione delle opere vincitrici e la progressiva costruzione di una collezione perma-nente. È una piccola comunità locale che inizia a promuovere la collezione, un dipartimento edu-cativo che eroga servizi per circa 10.000 persone con laboratori e attività per famiglie, che sistruttura come fondazione di cui il Comune è socio di maggioranza e che nel 2005 attraversofinanziamenti pubblici realizza la sede del Museo4.

CONTROCANTO: LE PRATICHE QUOTIDIANE DIVENTANO MUSEO. La Val Taleggio è una piccola valle, perpendicolare alla Val Brembana sopra Bergamo, distan-te dai principali flussi turistici. Qui nel 2008 è stato istituito un Ecomuseo5. in alcune baite re-cuperate, si mostra il procedimento per la stagionatura dello Strachitunt il formaggio della val-le; itinerari e bacheche forniscono spiegazioni su luoghi e tradizioni - costruttive, sociali e re-ligiose; volontari competenti e fieri di quella storia che è la loro storia accompagnano e illustranodettagli e storie. L’Ecomuseo della Val Taleggio è uno dei molti che si potrebbe citare. L’istitu-zione di questo tipo di musei è nata in Francia negli anni ‘70 dalle riflessioni di Hugues De Va-rine e George Henry Rivière e affonda le proprie radici in tutte quelle esperienze che hanno fat-to della cultura materiale e delle tradizioni locali l’oggetto da osservare, conservare e far co-noscere. Con una differenza sostanziale, tuttavia, perché, come viene precisato dall’iRES Pie-monte (Maggi, Murtas 2003), l’ecomuseo è una iniziativa museale dietro cui sta un patto conil quale una comunità si impegna a prendersi cura di un territorio. in questi casi non solo le pra-tiche quotidiane tradizionali diventano i contenuti di un museo diffuso, ma i soggetti e le mo-dalità del coinvolgimento sono di altra natura. Chi abita non è solo custode della tradizione, mapromotore del museo e soggetto attivo per la sua tutela e diffusione. Se gli ecomusei si sono diffusi in ambiti prevalentemente rurali, altre esperienze si collocanosu un solco analogo ma in ambienti urbani. Foresta Nascosta, a San Giuliano Milanese6, è unesempio di un “museo” temporaneo, certamente non istituzionalizzato, reso possibile attra-verso il coinvolgimento degli abitanti dei quartieri che hanno raccolto memorie e storie per-sonali che hanno in questo modo contribuito a far diventare patrimonio condiviso, allestendolead uso degli stessi e di un pubblico più allargato. il Maga e l’Ecomuseo raccontano storie diverse, con livelli di complessità che non è possibileaffrontare in questa sede. Tuttavia, in entrambe il museo è l’esito di un coinvolgimento e di un“commitment” della comunità locale; tenta di incarnare una dimensione di servizio e di costruireuna relazione di “necessità” con il contesto entro cui si trova, che va oltre il suo fondamenta-le e imprescindibile valore culturale. Ma che proprio dalla complementarietà con altri aspettipuò risultare rafforzato.A Gallarate lo spazio museale nelle sue diverse articolazioni è divenuto luogo di vita di alcunigallaratesi: è un vero e proprio spazio pubblico in cui si può andare a vedere che succede, a farequalcosa per conto proprio, a usufruire di servizi e offerte. A patto che ci sia sufficiente capa-cità di lavorare sulle dimensioni dell’accessibilità (in termini spaziale e di cura degli orari); del-la flessibilità degli usi (spazi “vaghi” che possano essere reinterpretati dalle esigenze degli uten-ti); della diversificazione dell’offerta di iniziative e mostre e attività (garantendo il delicato equi-librio tra democratizzazione e qualità dell’offerta) per tentare di radicare una nuova cultura del-lo spazio pubblico che può ritrovarsi non solo nelle piazze o nei centri commerciali ma anchein istituzioni pubbliche culturali come avviene comunemente in altri contesti del nord Europa.L’ecomuseo mostra come storie personali possono diventare storie collettive che vale la penaconservare, tramandare e rendere accessibili attraverso l’impegno di tutta una comunità. inquesto caso, andando ancora oltre l’auspicio di Weil: non solo being for somebody (con tuttoil suo portato di servizi e attività e nuovi spazi per la comunità) ma with somebody.

1. What does an art institution do? Ciclo di seminari tenutosi al Tensta konsthall di Stoccolma tra il 2011e il 2012 promossi da CuratorLab, BA and MA Art in the Public Realm, konstfack and Tensta konsthall.Seminar 3: Size MattersFebruary 2012– con Chris Dercon, Gabi Ngcobo, kim Einarsson - visibile in www.ten-stakonsthall.se/uploads/47-120202-What-does-an-art-inst-doEnglish.pdf

2. Le famiglie in quell’occasione - giorno di riapertura del Museo dopo i lavori di ristrutturazione - stava-no giocando a UP@GiOTTO, un gioco collettivo ideato da Alessandro Ceresoli e gruppo A12 con il coor-dinamento di Rossana Ciocca. www.museomaga.it/en/didattica/117/UP_GiOTTO

3. Si veda www.premiogallarate.it; www.museomaga.it4. Chi scrive desidera ringraziare Alessandro Castiglioni del Dipartimento Educativo del Museo Maga per

le informazioni fornite.5. L’Ecomuseo “Val Taleggio – Civiltà del Taleggio, dello Strachitunt e delle Baite tipiche” è stato ricono-

sciuto da Regione Lombardia con d.g.r. n. Viii/7873 del 30 luglio 2008 assieme ad altri 17 ecomusei lom-bardi, che hanno costituito la Rete Ecomusei Lombardia. Si veda www.ecomuseovaltaleggio.it.

6. Foresta nascosta è un progetto di Matteo Balduzzi, Daniele Cologna e Stefano Laffi, promosso dalla Pro-vincia di Milano e dal Comune di San Giuliano Milanese. www.forestanascosta.net

Being for somebodyIL MUSEO COME LUOGO

DI PRATICHE QUOTIDIANE E COINVOLGIMENTO

Museo Maga, Gallarate (Va). Photo Riccardo Carabelli

Antonella Bruzzese è architetto, docente e ricercatrice presso il Politecnico di Milano, dove insegnaUrbanistica e Urban Design. È membro fondatore di gruppoA12, con cui ha partecipato – con progetti e installazioni - a mostre in Italia e all’estero.

DI ANTONELLA BRUZZESE

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La crisi che attraversiamo risuona delle lamentazioni sulla scarsa attenzione alla cultura, la man-canza di investimenti, la necessità di promuovere la creatività. Poiché tali invocazioni reste-ranno inascoltate, con ogni probabilità ancora per un po’, penso che sarebbe utile approfittarneper fare un bilancio. Questo intervento ne è solo l’abbozzo quindici anni trascorsi dal 1998. Èuna data arbitraria, un punto di osservazione alquanto personale. Rimettendo in ordine l’ar-chivio per il nuovo sito internet dello studio, ho scoperto di avere fatto quarantotto progetti inquesti quindici anni: dodici di essi, esattamente un quarto, hanno riguardato spazi espositivi,e più raramente musei. Questo fa di me e Sharon Miura, contitolare dello studio, progettisti nonparticolarmente prolifici e specializzati. Tuttavia, in cinque casi mi è successo di fare anche unlavoro diverso, più affine a quello del committente. Partendo dalla fine degli anni novanta, questo secondo lavoro ha riguardato il Centro per le ArtiContemporanee, che poi sarebbe diventato il Maxxi, e la Galleria Nazionale d’arte Moderna, en-trambi a Roma, La Pinacoteca di Brera a Milano e due nuovi musei, uno abortito – in Calabria,e uno avviato a incerta realizzazione a Nuoro in Sardegna. in questi ultimi due, per strano chepossa sembrare, ho svolto con altri bravissimi colleghi (in un caso Mauro Saito, nell’altro Val-lifuoco, Pani, Steingut), sia il ruolo di progettista che di committente; ciò nel senso che le isti-tuzioni chiedevano a noi di definire missione, contenuti, e perfino gestione dei musei.Tornando all’insieme dei dodici progetti, per la metà si è trattato di concorsi di cui il meno chesi possa dire è che chi li ha promossi non aveva una idea chiara, per un motivo o per l’altro, dicosa stesse facendo. E infatti, forse solo uno di questi, il Museo dell’ebraismo italiano e dellaShoah di Ferrara, vedrà la luce grazie alla leva rappresentata dal tema scottante, ma senza chegli equivoci in cui è avvolto siano stati chiariti. Solo per fare un accenno, si trattava di mette-re il museo in un banale carcere degli anni dieci del novecento, che però con la persecuzionedegli ebrei non ha avuto niente a che fare. La bizzarra interferenza reclusiva dei due programmiera presentata con imbarazzo agli architetti chiamati a progettare, invitandoli a risolvere il pro-blema con il ricorso alla propria “creatività”.Dunque si trattava quasi sempre di iniziative “dall’alto”, indifferenti ai contenuti, se non comerisposta alla lamentazione di cui sopra – fare qualcosa per la cultura – e rispondenti alle piùsvariate vocazioni e ambizioni locali, con una delega agli architetti di riempirne il vuoto con del-le immagini. Gli stessi architetti che poi vengono, magari giustamente, accusati di protagoni-smo e prevaricazione sugli innocenti protagonisti del lavoro curatoriale e artistico.Fanno eccezione due casi, uno in positivo e uno in negativo: il Maxxi di Zaha Hadid e l’am-pliamento della Galleria Nazionale d’arte Moderna di Roger Diener. Sul primo tornerò breve-mente; il secondo un contenuto ce lo aveva eccome, ma è stato vanificato dopo avere spe-so ingenti risorse.Si potrebbe dire che sono stato sfortunato o che ho fatto delle scelte sbagliate nel mio lavo-ro. E allora è necessario allargare lo sguardo al secondo cerchio di questo bilancio. Partirei daquattro progetti realizzati che coincidono con una istituzione dotata di acronimo, secondo l’u-so invalso a livello globale: Maxxi, Macro, Mart, Museion. i risultati architettonici sono variabi-li, e ammetto di non essere un fan di nessuno dei quattro. Nonostante la loro diversità, mi sem-brano tutti curiosamente datati, frutto di un’incarnazione monumentale compensativa delladebolezza della istituzione. La cosa che mi colpisce di più è la corrispondenza tra il grado di “stabilità” e di sicurezza di cia-scuno dei quattro musei, e quelle del contesto di riferimento. Non vorrei ripetere un luogo co-mune, quello per cui in italia il direttore del museo rientra nello spoil system municipale. Lo con-sidero un po’ un fatto di costume, una troppo comoda immagine della degenerazione politi-co-amministrativa, quando è piuttosto il segno della gracilità delle istituzioni culturali.Milano è invece diventata l’epicentro dell’incompiutezza. Anche se Brera aprirà un cantiere, iltentativo di affidare, prima a Renzo Piano e poi a Daniel Libeskind, un museo dai contorni in-definiti rimane il segno più evidente di questo quindicennio, fino al tentativo di Stefano Boeri,probabilmente giusto ma tardivo e destinato alla sconfitta, di riciclare per l’arte contempora-nea il progetto di David Chipperfield per l’ex Ansaldo.Ai lettori di questa rivista mi posso limitare a ricordare i guai del Madre di Napoli, la cancella-

zione dell’ambizioso museo di Cagliari progettato da Zaha Hadid, ma anche il non realizzatoampliamento del Man a Nuoro. Un ultimo tentativo affrontato con scarsa convinzione da un grup-po di concorrenti di tutto rispetto, un concorso per un museo a Mestre che cerca di distoglie-re l’attenzione dalla eccessiva offerta di Venezia, si è svolto in un clima fuori stagione nel 2010,ma forse andrà avanti.il bilancio non sarebbe completo se non dicessi di una serie di tentativi per lo più andati in crisi osoffocati nella culla, di cui gli autori presenti in questo fascicolo sarebbero più capaci di me di rac-contare le storie. Mi riferisco alle iniziative spesso identificate con un curatore, di Siena, Trento,Siracusa e altri luoghi, qualcuno ancora attivo a dispetto della difficoltà di trovare risorse.il solo fenomeno che sembra davvero in controtendenza è quello delle fondazioni private. Chepiaccia o no, ognuna di esse sa cosa vuole fare, organizza i propri programmi, si rivolge a unpubblico. Questo è il comune denominatore, con le dovute differenze di scala, di Prada, San-dretto, Trussardi, Ratti, Depart, Pitti immagine (soprattutto negli anni in cui è stata diretta daMaria Luisa Frisa). Questo bilancio ci consegna un curioso panorama della doppia costruzione di nuove architet-ture e di nuove istituzioni, da cui emergono alcune “case vuote”, e molti curatori “homeless”.Come in altri campi, dalla legge elettorale all’università, l’italia sembra incerta tra diversi mo-delli; e con questo si apre il terzo cerchio del mio improvvisato bilancio. Nelle storie appena ac-cennate e in tante altre si scorgono le tracce simultanee del modello centralista francese e in-sieme di quello anglosassone delle donazioni e del mecenatismo, ma senza riuscire a coinvolgerestrati sociali più vasti.Eppure i precedenti sono ricchi di insegnamenti. Dopo la prima formidabile ondata di “LotteryProjects” in inghilterra divenne chiaro e che troppi investimenti di capitale rispetto alle possi-bilità di gestione avrebbero creato il rischio di una peculiare “bolla” culturale. in italia l’impor-tazione di questo modello durante il primo governo Prodi, da parte di una persona intelligen-te come Marco Causi, fu subito sterilizzata dal Ministero che si preoccupò di scrivere il rego-lamento in modo che i fondi delle estrazioni supplementari del lotto potessero essere desti-nati esclusivamente ai restauri e non alla costruzione di nuove strutture.in quindici anni il paradigma del Palais de Tokyo e della fabbrica 798 di Pechino ha sostituitoquello del Guggenheim nell’immaginario anche architettonico, producendo danni analoghi, ispi-rati da una sorta di decrescita architettonica, che in italia però passa attraverso il filtro dellaincultura delle soprintendenze (ve lo immaginate il funzionario nostrano alle prese con il de-badigeonnage di Lacaton e Vassal? Eppure in Francia c’è un’intera falange di architetti dei Mo-numents Historique).Per concludere, mi sembra giusto citare almeno tre casi che si collocano per diversi aspetti ol-tre le contraddizioni di questo mainstream. il primo, sotto l’aspetto del programma, è la Fon-dazione Rosengarten di Lucerna. il pesante edificio novecentesco della Banca di Svizzera è sta-to sofisticatamente ed economicamente adattato da Roger Diener per la classica raccolta dimaestri del novecento. Ma soprattutto Angela Rosengarten ha deciso che nel museo, “serviziaggiuntivi” non ce ne dovevano essere: se volete mangiare andate al ristorante, se volete uncaffè andate al bar dall’altra parte della strada.il secondo esempio è la rinascita del Neues Museum a Berlino per opera di David Chipperfield,che impartisce una formidabile lezione alla nostra presuntuosa cultura del restauro addormentatasugli allori della propria precettistica. E infine una nuova costruzione, capace di tenere insie-me identità all’esterno, in una New York in cui tutto è stato già detto, e disponibilità all’inter-no, prendendo l’ambiente grezzo delle gallerie che hanno occupato gli spazi industriali, ma ri-scattandolo dalla inefficienza distributiva e organizzandolo in verticale. È ovviamente in NewMuseum di kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa.Programma, restauro critico, tipologia: tre chiavi di lettura che ci indicano una via non osses-sionata dalla autografia del progettista, ma nemmeno dalla banalizzazione della atmosfera “loft”.

ARCHITETTI E COMMITTENTI

Garofalo Miura Architetti, Temporary contemporary nella ex Caserma Montello, via Guido Reni, Roma 2001

Francesco Garofalo è architetto, Professore Ordinario di Progettazione presso la Facoltà di Architettura diPescara. È stato Curatore del Padiglione Italiano alla Biennale di Architettura di Venezia del 2008.

DI FRANCESCO GAROFALO

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E se l’unico peccato fosse la disattenzione per la grande bellezza che ci circonda?La risposta appare evidente zoomando le foto che ci mostra Remo Angelini: gli umani nonavrebbero neanche il coraggio di schiacciare una mosca con la ciabatta se solo i loro oc-chi potessero vedere il dorso d’argento liquido della Tachina magnicornis, le ali che sem-brano opalescenti vetrate liberty, la perfetta architettura del corpo al confronto della qua-le Fuksas è un dilettante.Remo Angelini di Bucchianico, studioso di agroecologia, e Daniele Di Ottavio, di Pescara,laureato in scienze naturali, sviluppatore C++, da anni lavorano ad un progetto affascinantee un pò folle. Biodroid il suo nome. Un sito internet, un’applicazione, un social network te-matico e un database RDBMS dallo sviluppo potenzialmente infinito, che intende organizzare,e rendere facilmente navigabili, tutte le informazioni sugli esseri viventi le loro relazionie interdipendenze. Una prima versione sarà disponibile nel 2014, già con migliaia di specie viventi, ciascunacon una propria scheda di dettaglio, finora redatte unicamente da Remo Angelini. Partirà in parallelo una raccolta fondi per server più potenti e costi di gestione. Ad oggi tut-to è stato autofinanziato. Servirà anche l’aiuto di esperti per il controllo dei dati e di tra-duttori per l’internazionalizzazione.Biodroid sarà un’opera collettiva del social network. Spiega Daniele, che al framework disviluppo lavora da quindici anni: “Grazie a specifici form generati sul sito, tutti potrannoproporre inserimenti e modifiche, segnalare nuove specie e nuove relazioni tra i viventi, esa-minati però dagli amministratori. Ci saranno anche utenti accreditati, con competenze ac-clarate, che inseriranno direttamente informazioni.”Biodroid sarà anche una rete di blog per favorire la nascita di cerchie a tematica specifi-ca. Come avviene in twitter, sarà possibile per gli utenti diventare followers di qualche al-tro utente, interessante per ricerche effettuate e dati inseriti.Biodroid sarà un archivio condiviso di testi didattici, appunti universitari, tesi di laurea, ar-ticoli scientifici. Ma anche di informazioni sugli usi erboristico-medici delle erbe, sulle tec-niche di preparazione di concimi e humus, su come combattere un parassita. Ci saranno pagine affidate ai parchi e alle riserve naturali, dove potrà essere messo in reteil patrimonio biologico, con spazi riservati a dati sensibili e protetti, ad esempio le speciein pericolo di estinzione e la loro localizzazione.Biodroid fa propria la tradizionale classificazione ad albero della vita, che parte dalle cel-lule procariotiche ed eucariotiche e, attraverso regni, phylum e famiglie, arriva alle singolespecie per analogie e differenze.Daniele e Remo stanno anche studiando la cosiddetta “chiave dicotomica totale” utile ariconoscere un essere vivente, con semplici sequenze di domande via via escludenti, ge-nerate automaticamente dal software.La logica profonda di Biodroid è però il rizoma, metafora filosofica e vegetale che megliorispecchia il tentativo di comprendere l’infinito reticolo di relazioni della vita.Apriamo una scheda a caso: sul monitor compare l’Aelia acuminata, cimice dannosa peri cereali. Su Biodroid con pochi click si scopre che è preda della mosca Cistogaster glo-bosa, che deposita le uova sul suo dorso. Le larve penetrano nella cimice e cominciano amangiarla, non intaccando per primi gli organi vitali, perchè le mosche non sono stupidecome gli esseri umani. E continuando si scopre che la Cistogaster è a sua volta attrattadal nettare dei fiori di ruta e di timo.Oppure si può partire da un pomodoro, meglio detto Solanum lykopersicum. Tra i suoi pa-rassiti varie specie di afidi, e soprattutto la Nezara viridula, una cimice verde smeraldo. Man-giata però dall’altrettanto elegante mosca Gymnosoma, attratta dai fiori di carota, finoc-chio e prezzemolo.identificato il miride Deraeocoris si scopre che esso è attratto nell’orto dalla bieta in fio-re e dalle ortiche ed è un formidabile predatore, al pari dei ragni, dei terribili afidi pasco-lati dalle formiche.Un agricoltore 2.0 a questo punto sa cosa deve fare.La rete alimentare è solo una delle relazioni complesse che Biodroid vuole descrivere. Al-tri alberi della vita sono dedicati ai climi, ai biomi, ovvero le porzioni di biosfera classifi-cate in base al tipo di vegetazione, e alle zone, ossia i perimetri o percorsi geolocalizzatidove sono presenti determinate specie. L’ambizione è anche quella di mappare tutti i ter-reni italiani in base alla loro composizione chimica e al tasso di fertilità.L’immensa mole di informazioni sul vivente sarà dunque geolocalizzato in una mappa navi-gabile, un po’ come avviene in google maps. Grazie all’applicazione opensource Qt-Marble. Navigare virtualmente tra la vita e la biodiversità di un territorio, e non solo tra autostrade,svincoli, aree industriali ed urbane, sarò senz’altro un salutare shock psico-geografico.La nostra visita si conclude nell’orto di Remo, da dove tutto è iniziato. Un labirinto di cespuglidi rosmarino, salvia e lavanda che fanno da barriera aromatica e anti-erosione a fertili let-tiere di biomassa. Dove vengono coltivati gli ortaggi secondo consociazioni ben precise.Le file di mais si alternano ai pomodori, per disorientare e depistare i parassiti. i piselli ram-picanti sono orientati ad est per farsi ombra tra loro, e impedire l’arrivo della terribile for-mica Tapinoma. il romice non viene estirpato, perché le sue foglie sono un luogo accoglienteper gli afidi, e dunque per le coccinelle septempunctate, ghiotte di afidi sia allo stadio lar-vale che da individui adulti, che poi difenderanno dai parassiti anche i fagiolini di Remo.“Andare contro la natura – commenta Remo – invece che imparare a conoscerne le regole,alla lunga crea deserti. io mi prendo sempre il tempo per osservare chi vive nell’orto e nei ter-reni intorno, per capire come posso favorire tutti gli esseri viventi che potrebbero starci.”Tutt’intorno prati incolti, roveti e siepi lasciate al loro naturale disordine. Un terzo paesag-gio, per usare la definizione di Gilles Clément, che sopravvive negli interstizi dimenticati o ab-bandonati tra i paesaggi agricoli e urbani. Rifugio della biodiversità, della ridondanza gene-tica che è la materia prima dell’evoluzione. E il tempo mediterraneo scorre lento in quest’ortosenza confini, al riparo dall’integralismo della corsa, dal monotesimo del prato inglese, dal-la nevrosi dei sacerdoti del pil e da quella dei giardinieri che squadrano i cespugli.Filippo Tronca - [email protected], [email protected]

Empusa Pennata

Papilionidae iphiclides podalirius

BIODROIDNAViGARE NELLA RETE DELLA ViTA

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Gilles Clément nel suo recente libro “Breve storia del giardino” sostiene senza cadere inerrore che la prima vera forma di giardino sia stata quella del recinto, come chiusura del-l’uomo nei confronti dell’ambiente esterno al temine delle sue peregrinazioni fisiche.Da sempre legato e affiancato allo spazio costruito, appendice stessa dell’edificio, pas-serà nel corso dei secoli da hortus conclusus circondato da mura a parco di rappresen-tanza rinascimentale, autonomo nella sua creazione, ma mai realmente svincolato dal-l’habitat umano.i giardini contemporanei diventano flottanti, pareti e spazi che imitano la caducità dellanatura mutando forma con il cambiare delle stagioni: pareti che coprono la propria nudapelle di fogliame per proteggere l’uomo e che si aprono alla luce come alberi d’inverno. ilverde della nostra contemporaneità è sempre più pubblico e a servizio di un uomo che cer-ca quel recinto di protezione a ben guardare molto simile a quello costruito dal suo lon-tano antenato. L’architettura imita la natura e sale verso l’alto in cerca di sole e aria e senon può estendersi sulla superficie orizzontale, la natura imita se stessa e cresce artifi-ciosamente in verticale. L’estensione della parete verde verticale progettata da Patrick Blancper il primo museo nel mondo interamente dedicato alle arti e alle civiltà primitive “QuaiBranly” di Parigi è di oltre 800 mq con 15.000 piante e 150 differenti specie provenientida Giappone, Cina, Stati Uniti ed Europa centrale. il progetto complessivo del museo fu af-fidato a Jean Nouvel con l’obiettivo di ottenere una fusione pressoché totale tra internoed esterno: alberi, specchi d’acqua e colline artificiali introducono il visitatore all’ingres-so principale come per interrompere la visione urbana presente in quel momento e apri-re la mente allo spazio espositivo interno. Giardini verticali che racchiudono arte e alberiutilizzati come sculture a cielo aperto per il Metropole Museum of Modern Art di Lille, il cuinucleo iniziale, costituito da opere in pietra di Eugene Dodeigne e Jean Roulland è statoprogressivamente arricchito da nuove acquisizioni che completano la cornice verde di unodei parchi più popolari della conurbazione di Lille “il parco urbano di Villeneuve-d’Ascq”.Femme aux bras écartés di Pablo Picasso e vent’anni dopo The Boxing Ones di Barry Fla-nagan sono solo alcune delle opere di “outsider art” o “art brut” custodite dal parco. Giar-dini come “arcipelago” di verde europeo per i numerosi progetti ideati e realizzati da Ate-lier Le Balto, gruppo fondato dai paesaggisti francesi Laurent Dugua, Marc Pouzol, Véro-nique Faucheur e Marc Vatinel: spazi urbani dimenticati e vuoti sociali ancor prima che spa-ziali trasformati in verde pubblico intimo e selvaggio come riflessione sul ruolo che il giar-dino acquisisce nell’uso e riuso dello spazio pubblico nella città contemporanea. Spruzzidi Luce per la storica sede della Certosa di Padula, Private Garten a Berlino e Avant Gar-den per il trasporto pubblico della città di Madrid come esempi di giardino inteso come ope-razione architettonica e allo stesso tempo artistica di colonizzazione della natura sul vuo-to creato dall’uomo. Lo spazio green assume spesso un ruolo culturale strategico non soloper la città in generale, ma soprattutto per gli spazi culturali e museali in essa contenu-ti. il giardino come filtro rispetto alle opere esposte o come parete sulla quale esporre edaccogliere forme d’arte che non riuscirebbero a trovare la giusta collocazione all’internodegli spazi chiusi e spesso affollati dei musei contemporanei. Spazi aperti più o meno ver-di diventano oggetto di programmazioni collaterali spesso più interessanti ed apprezza-te di quelle studiate per gli spazi interni. L’Aldrich Rockefeller Sculpture Garden del Momadi New York si serve dell’arte come motore di attività sociali, il giardino delle sculture ri-mane il cuore pulsante del museo, progettato in prima istanza nel 1958 dal noto archi-tetto Philip Johnson, venne affidato nel 2004 al nipponico Yoshio Taniguchi. Per una cittàche cambia forma in modo sempre nuovo, nasce il parco lineare High Line, la promenadeverde progettata dagli architetti Diller Scofidio+Renfro e dallo studio di architettura delpaesaggio James Corner Field Operation. il nuovo parco pubblico, fortemente voluto dairesidenti, copre una sezione di oltre 2 km di una ferrovia sopraelevata abbandonata delwest side di Manhattan. La natura cura una rovina postindustriale che rischiava di scom-parire dalla città; la stessa biodiversità che si era radicata spontaneamente negli anni diabbandono, è riletta in una serie di microclimi site-specific urbani. il parco racchiude il sel-vatico e il coltivato, l’intimo e il sociale: un modo per salvaguardare il passato e ripensa-re nuovi modi di interpretare lo spazio pubblico contemporaneo in chiave ambientale e cul-turale.

Accade, invece, in Giappone che il museo metta in mostra la natura e che un guscio di ce-mento spesso 25 cm e aperto verso il cielo attraverso un grande oculo senza vetri permettaletteralmente all’acqua, alla luce e all’aria di penetrare all’interno dello spazio fruito daivisitatori. il progetto architettonico di Ryue Nishizawa, co-fondatore, con kazuyo Sejima,dello studio SANAA, mette in luce l’aspetto simbiotico che inevitabilmente sussiste tra ilgiardino e l’arte. i campi e le terrazze di Teshima custodiscono un museo completamen-te vuoto, privo tecnicamente da ogni forma di ostacolo formale in cui Nishizawa in colla-borazione con l’artista Rei Naito sfrutta la metafora della goccia d’acqua per creare unospazio in cui arte, architettura e paesaggio generano un’unica entità.Da Parigi a Berlino e da New York a Teshima il giardino contemporaneo o spazio “naturiforme”continua ad essere emblema di inclusione fisica e mentale tra lo spazio culturale e la so-cietà dell’uomo.Nicla Cassino e Giovanni Di Bartolomeo

Wildflower Field, guardando Nord verso la West 29th Street, in cui la High Line comincia una lunga e delicata curva verso il fiume Hudson. Photo: © iwan Baan, 2011

Atelier Le Balto, Gartenparade, Berlino

IL VERDE NON È UN COLORE

GIARDINI ‘PIÙ O MENO’ SPONTANEI NELLO SPAZIO PUBBLICO CONTEMPORANEO

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Dis-perdere significa separare con azione volontaria qualcosa che si presenta accorpato in unamassa, un fascio, uno schieramento, un viluppo. Nel contempo il termine risulta equivoco, poi-ché l’esplosione di un insieme può rappresentarne la dissoluzione o la (ri)nascita. E tener con-to di ciò può aiutarci ad interpretare alcuni fenomeni che interessano l’attuale contesto urba-no, dove la dispersione è un metodo repressivo ampiamente utilizzato: per sedare scioperi, ma-nifestazioni, occupazioni; per marginalizzare ogni forma di dissenso ritenuta pericolosa. isola Art Center ha subito una dispersione repressiva nelle intenzioni e violenta nei fatti.il 25 aprile 2007, con una mostra in pieno svolgimento,1 il centro d’arte fondato nel 2003 alsecondo piano di uno stabile industriale dismesso, la Stecca degli artigiani, viene abbattutocon l’edificio che lo ospita. Gli artisti, oltre a subire l’indegna distruzione di opere e materia-li, si ritrovano per strada a veder crollare la propria casa, diventata nei cinque anni di occu-pazione un punto di riferimento ineludibile per il versante indipendente dell’arte milanese.La dispersione comincia però molto prima dell’abbattimento ed è portata avanti in modo con-giunto e capillare dal Comune di Milano e da Hines, la multinazionale immobiliare texana chenel 2003 comincia ad investire sull’area Garibaldi-Repubblica,2 individuandovi un vuoto urbanofavorevole alla speculazione. in presenza di un’amministrazione che, oltre a non esercitare un’au-spicabile azione di contrappeso, alleggerisce in tutto e per tutto l’operato degli investitori, l’op-posizione sorge spontaneamente e dal basso, attraverso una serie di associazioni stanziatealla Stecca. il fronte di opposizione si presenta inizialmente piuttosto compatto e dunque per disperder-lo si ricorre alla strategia romana del divide et impera. Le associazioni che stanno alle con-dizioni della multinazionale (riunite nel gruppo ADA Stecca) vengono salvaguardate e ricam-biate con la promessa di nuovi spazi al termine dei lavori sull’area. isola Art Center, che in-sieme a un nutrito gruppo di abitanti riuniti nel Comitato i Mille, persiste in una resistenza maipassiva e volta piuttosto alla creazione di un modello alternativo, viene isolato e logorato finoal colpo finale dello sgombero e della gratuita distruzione.Fin qui la storia, necessariamente semplificata3, della demolizione di un centro d’arte e cul-tura per far posto ad uffici e appartamenti di lusso, della gentrificazione di un quartiere di Mi-lano storicamente popolare, appunto l’isola, e di un’amministrazione che dimostra totale in-differenza alle esigenze del proprio territorio, avvicinandosi all’Expo 2015 con un’etica alla “sen-za un palazzo di vetro la vita diventa un peso”4.E isola Art Center? Nel 2007 gli artisti sono ridotti alla clandestinità. il quartiere è diviso, sfi-duciato, senza verde e in breve tempo le nuove costruzioni ne altereranno prima la confor-mazione e poi l’essenza. Una buona dose di disorientamento è inevitabile e non ci sono le ener-gie per teorizzare nuovi status o minimizzare un accaduto cosÏ traumatico.il centro d’arte trova la possibilità della propria sopravvivenza in un processo di transizione.Le sue macerie si rivelano semi, che -dispersi con la forza- attecchiscono al terreno atipicodel quartiere isola. Vari elementi ne consentono la germogliazione.Anzitutto l’entusiasmo di molti giovani artisti e curatori della scena milanese, che hanno tro-vato proprio in isola Art Center la piattaforma in grado di formarli in una Milano avida comenon mai di spazi non ufficiali. in secondo luogo la sopravvivenza di una comunità di quartie-re consolidata in cinque anni di lotta e produzione d’arte contemporanea, una comunità cheesiste e non può né vuole scordarsene di colpo. Da ultimo la reattività di isola Art Center: quan-do attivi un conflitto urbano a lungo termine in una città soggetta a cambiamenti cosÏ im-prevedibili, se ti irrigidisci sei destinato ad estinguerti o ad essere cooptato. Dunque una fles-sibilità che nulla ha a che fare con l’opportunismo di ADA Stecca, scesa a patti con la multi-nazionale. isola Art Center non ha mai fatto un passo indietro sui fondamenti della sua bat-taglia. Rifiutando un dialogo unilaterale e umiliante con gli investitori, ha dimostrato di sa-per attuare strategie di lotta diversificate che, quando affronti un nemico avvantaggiato damezzi e circostanze, possono aiutarti a riequilibrare la bilancia.Passano pochi mesi e si fa chiara la conformazione del nuovo centro. Localmente si approfondiscela connessione inestricabile fra artisti ed abitanti, portando l’arte in luoghi deputati ad altro.Si organizzano mostre all’interno di ristoranti, negozi, associazioni culturali. Senza alterar-ne i ritmi, isola Art Center espone sulla pelle stessa del quartiere. A ottobre 2007 viene atti-vato il primo della serie di progetti Rosta, il cui nome è un omaggio all’agenzia telegrafica so-vietica che diffuse manifesti di propaganda rivoluzionaria a partire dal 1919. Si tratta di di-pingere contenuti relativi alla lotta di quartiere sulle saracinesche delle attività solidali con ilprogetto, coinvolgendo una moltitudine di artisti italiani ed internazionali.Nel contempo, si agisce anche al di fuori dell’isola con la partecipazione ad iniziative milanesi,nazionali ed internazionali. in questi casi si privilegia la dimensione del racconto. Ritenendola vicenda dell’isola esemplare e utile a chiunque si occupi di arte e attivismo nel contesto ur-bano, non sembra fuori luogo proporla finanche in contesti come la Biennale di istanbul o quel-la di Tirana5.Detto questo, se isola Art Center si fosse limitata a trovare nuove possibilità espositive, sen-

za aiutare il quartiere nella ricostruzione di concrete prospettive di lotta, avrebbe progressi-vamente perso la sintonia con gli abitanti. Diversamente, il conflitto è ancora aperto e si cer-ca risposta alla principale emergenza: la totale assenza di verde.infatti nel 2007 l’isola non ha perso solo la Stecca, ma anche gli adiacenti giardini di via Con-falonieri: unico parco di quartiere e spazio sociale insostituibile. A partire da ciò, un gruppodi abitanti sostenuto da isola Art Center, individua uno spazio abbandonato da ricomporre erestituire alla comunità in forma di verde pubblico. Una striscia verde, un ex-deposito edile eun piccolo parcheggio, la cui unione permetterebbe di ricavare una superficie di 2.000 mq mi-racolosamente scampati alla speculazione. Nel 2010 si crea il gruppo isola Pepe Verde6 a so-stegno dell’omonimo parco, che ha preso forma nella mente degli abitanti e dunque già esi-ste. out7 ne abbozza una possibile conformazione, studiata come versatile punto di parten-za per una progettazione collettiva. Oggi, dopo tre anni di rivendicazioni e dialogo con l’am-ministrazione, isola Pepe Verde ha ottenuto in affidamento provvisorio il primo giardino con-diviso di Milano. il seme della battaglia per i giardini di via Confalonieri, dopo il trauma dellaloro cementificazione, ha dato i suoi frutti in un sogno rimpicciolito nelle dimensioni ma po-tenziato nella forza: in quanto emblema della vocazione costruttiva di una parte del quartie-re, di cui isola Art Center costituisce l’altoparlante artistico.il tratto comune di pratiche cosÏ diversificate è espresso nel concetto di fight-specific, in cuisi è trovata l’essenza di un’arte che, pur essendo specifica al sito, non si accontenta di inte-ragire con una comunità passiva. Al contrario, ne crea una attiva che si consolida attorno allarivendicazione di valori condivisi e messa in opera di azioni artistiche e politiche mirate. in unasituazione di questo tipo, il fatto di non avere una sede è forse uno svantaggio, ma il vantag-gio di potervi rinunciare lo supera.Attualmente, la carenza di spazi a Milano compromette la nascita di realtà artistiche indipendenti.i soldi pubblici finiscono unicamente nell’organizzazione di eventi mainstream e gli affitti proi-bitivi precludono la possibilità di autofinanziare un centro d’arte. Le gallerie locali si muovo-no unicamente su binari commerciali. Le occupazioni, unica reazione possibile a questo sta-to di cose, vengono duramente combattute se s’insediano in spazi nevralgici e tollerate solose riguardano zone meno calde8. Poter agire senza una sede da proteggere, ma con una retedi soggetti dalle competenze diversificate e le idee ben chiare, può essere una soluzione de-cisiva per chi si trovi ad operare in questo stato di cose. il che, in un certo senso, è stato unascoperta anche per noi.Se oggi possiamo proporre un’ipotesi di centro disperso e considerarne i vantaggi, è grazie alsuo prodursi spontaneo. Le teorie di isola Art Center vengono sempre dalla pratica. Teorizza-re serve soprattutto a trasferire al campo dell’universale la nostra vicenda locale. Crediamo chela strada verso una città che rispecchi le esigenze del cittadino anziché delimitarne scelte e per-corsi, passi attraverso la moltiplicazione di micro-realtà attive, resistenti e costituenti allo stes-so tempo. L’arte deve avere un ruolo in questo processo e speriamo che la nostra esperienzapossa fornire una bussola a chi si trovi ad agire in contesti simili. i semi dell’arte che rappre-senta, germogliano sui libri e dentro i musei. Quelli dell’arte che combatte, anche sull’asfalto.

1.SituazionIsola. A New Urbanism, a cura di Marco Biraghi, Maurizio Bortolotti e Bert Theis, inaugura il16 aprile 2007.

2. Si tratta dell’area interessata a partire dal 1999 dal maxi-progetto “Città della moda”, che intende-va in origine concentrare in un unico polo il meglio dell’alta moda milanese. Nonostante questa vo-cazione sia ben presto messa da parte per il totale disinteresse degli stilisti, l’area è comunque sog-getta all’edificazione di numerose torri a scopo residenziale, commerciale e terziario. il quartiere iso-la, dove si trova la Stecca degli artigiani, è parte integrante di questo progetto.

3. Per una trattazione ampia e documentata della vicenda politica e artistica dell’isola rinviamo a FightSpecific Isola. Arte, architettura, attivismo e il futuro della città, Archive Books, Milano 2013.

4. Si tratta di una delle frasi del poeta Paul Scheerbart, incise sul padiglione di vetro che Bruno Taut pre-senta all’Esposizione del Werkbund a Colonia, nel 1914. i due tributavano al vetro un culto religioso eritenevano che il suo impiego come elemento urbano avrebbe contribuito a fondare una nuova società.

5. Alla prima isola Art Center partecipa nel 2007 con la presentazione del video Isola Nostra di Mariet-te Schiltz. Alla seconda nel 2009, con il video Isola, a neoliberal italian tale.

6. Si costituisce come associazione più tardi, il 6 ottobre 2011.7. out (Office for Urban Transformation) viene fondato dall’artista lussemburghese Bert Theis nel 2002,

come soggetto complementare a isola Art Center. La sua vocazione pragmatica consiste nel dare unaprogettualità scientifica alle proposte di cambiamento degli abitanti, per contrapporle in maniera cre-dibile ai progetti calati dall’alto. Ha sede alla Stecca dal 2002 al 2007, poi continua ad operare senzauna sede al pari del centro d’arte.

8. A tal proposito è emblematica la vicenda di Macao, il centro per l’arte e la cultura che il gruppo dei La-voratori dell’Arte fonda il 5 maggio 2012 con l’occupazione di un grattacielo abbandonato nei pressi del-l’isola, la Torre Galfa. L’azione suscita un entusiasmo cittadino al di sopra di ogni aspettativa, ma dopoundici giorni il Comune di Milano ordina lo sgombero. L’esperienza di Palazzo Citterio, sontuoso e di-menticato edificio settecentesco nel cuore di Brera che il collettivo occupa subito dopo, dura solo tregiorni. Differentemente, quando Macao, dopo il duplice sgombero, trova sede nel contesto interessantema meno problematico di via Molise, il Comune ne accetta la presenza e il centro esiste tutt’oggi.

DALLA DiSTRUZiONE Di UNO SPAZiO PER L’ARTE ALLE POSSiBiLiTà OFFERTE DALLA SUA FRANTUMAZiONE

iSOLA ART CENTERE i VANTAGGi DEL CENTRODiSPERSO

Christoph Schäfer, Strategic Embellishment/Abbellimento strategico, intervento su saracinesca per isola Rosta Project, 2009.Photo Bert Theis

DI ANTONIO BRIZIOLI

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Nell’eterogeneo e mutevole settore della cultura, i musei, a prima vista, si candidano a costitui-re un fermo punto di riferimento come luogo in cui i significati culturali sembrano trovare un lorooggettivo riconoscimento [istat, 2010]. Esiste peraltro una notevole discrasia tra l’immaginario collettivo e la realtà giuridica. Nell’ambito del primo i musei sono lo spazio in cui gli oggetti e i “beni” conservati ed esposti sonol’espressione validata e certificata di un “patrimonio” il cui valore culturale è accertato, codifica-to, condiviso, e proprio in virtù di questo preservato ed esibito [istat, 2010]; nella realtà dell’or-dinamento positivo e dell’esperienza applicativa è vero il contrario: il settore museale è fortementedisaggregato e difficilmente riconducibile ad unità; i musei costituiscono una realtà pluriforme,dinamica, imprevedibile [Marchegiani, 2007]. Nella letteratura giuridica, inoltre, poca attenzione è dedicata ai musei.Le opere degli ultimi anni si concentrano sull’analisi del museo inteso come azienda, organizza-zione di risorse umane e finanziarie e fattore produttivo di ricchezza nazionale [Cerrina Feroni,2009]. Anche tale aspetto, tuttavia, ha evidenziato non poche carenze dal punto di vista della or-ganizzazione, dell’attività e del finanziamento[Corte dei conti, delib. n. 8/2005]. in italia, storicamente, il museo non ha avuto una rilevanza istituzionale pari a quella dei museistranieri. Dal punto di vista giuridico e amministrativo è stato configurato (e per molti aspetti con-tinua a configurarsi) come museo “ufficio” della soprintendenza statale o dell’assessorato (re-gionale, provinciale o comunale) in cui è incardinato [Maresca Campagna, 2009]. Oggigiorno si è affermato un ruolo diverso dei musei: prestatori di un servizio pubblico, in rela-zione al quale, in particolare a livello di diritto europeo, si pone la questione della inclusione deimusei nel novero delle industrie della cultura e della creatività (cultural and creative industries)oppure della distinzione di trattamento tra settore pubblico e settore privato: Theatres, muse-ums and libraries etc. that have been publicly funded and financed in the past, will now find them-selves together with commercial organisations under the concept of ‘cultural industries’. This canbe somehow problematic. [ESS-net Culture, 2012]. È vero: può essere problematico se non si considera la distinzione tra market activities and thenon market activities of the cultural sector, ovvero se si prescinde dalla seconda. Non a caso le istituzioni museali hanno sperimento, nel corso degli ultimi anni, profonde tra-sformazioni, che ne ha modificato ruolo, funzioni e significato [istat, 2010; Marchegiani, 2007]. Le modifiche hanno riguardato le forme organizzative (di tipo pubblicistico o privatistico o mi-sto), gestionali [a conduzione pubblica e a conduzione privata], le politiche tariffarie, gli orari diapertura, le modalità di promozione e comunicazione al pubblico, i contenuti dei servizi propo-sti (da contenitori di beni a diventare luoghi di eventi: spazi che propongono, ospitano o offronolocation a esposizioni temporanee, percorsi tematici, seminari, attività culturali e altre manife-stazioni di varia natura che, nell’intento di ampliare il pubblico di riferimento, sono dedicate allediverse espressioni del loisir, del tempo libero, dello svago e del divertimento, come le discote-che e gli happy hour serali) [istat, 2010; Marchegiani, 2007].L’analisi giuridica di tali fenomeni è limitata, ed è spesso impostata sulla base di dati tratti dallaletteratura economica [Cerrina Feroni, 2009]. È comunque concentrata sugli aspetti gestionalie sulle modalità di erogazione del servizio pubblico culturale. A livello statistico vi sono tuttora forti limiti alla reperibilità di dati aggiornati, completi, esausti-vi e affidabili. Dal punto di vista giuridico desta interesse l’analisi del grado di istituzionalizzazione formale del-l’assetto organizzativo. Nel sistema italiano gli aspetti critici sono numerosi e importanti. in estrema sintesi si può con-statare che: - i musei sono realtà debolmente strutturate in termini formali; - vi è un’oggettiva difficoltà di individuare, in via generale, l’iter di istituzione di un museo; - è difficile distinguere in concreto le funzioni di tutela, valorizzazione e gestione alla luce del ri-

parto di competenze tra Stato, Regioni ed enti locali previsto dall’art. 117 della Costituzione (rifor-mato nel 2001);

- non sempre è chiaramente definito il rapporto tra l’organo politico e quello gestionale;- in molti casi (o ambiti) non è chiara e netta la compatibilità tra logica aziendale e interesse

pubblico.Nell’ordinamento italiano non esiste una definizione normativa e/o amministrativa che identifi-chi in modo univoco e uniforme i musei e gli istituti similari, né esiste ad oggi un loro registro oun elenco ufficiale che individui tali strutture sul territorio nazionale e, soprattutto, ancora non èstato portato a compimento un sistema omogeneo di certificazione e di accreditamento e nonsono stati individuati gli organi responsabili dell’accertamento e della valutazione degli standardtecnico-scientifici che descrivono il loro funzionamento [Corte dei conti, 2005; istat, 2010]. Al fine di inquadrare il regime giuridico, le competenze legislative e quelle funzionali, innanzitut-to si distingue tra musei pubblici e musei privati.Nel comparto pubblico [circa il 75% del totale] la maggior parte dei musei è di proprietà deglienti locali.i musei privati si dividono in musei ecclesiastici e musei appartenenti ad altri soggetti privati chepossono essere società di capitali, consorzi, associazioni, fondazioni bancarie e non, imprese stra-niere e persone fisiche. Vi sono musei a gestione diretta (con la formula della responsabilità diretta – musei/uffici- op-pure con la forma consortile pubblica, in forma associata o con affidamento in house) e a gestioneindiretta (tramite lo strumento della concessione a terzi o dell’affidamento a un soggetto auto-nomo) [istat, 2010].Per indicare i “musei”, il legislatore fa spesso ricorso al termine più generico di “istituti d’antichitàe d’arte”, con un riferimento lessicale che ben evidenzia come, nel nostro Paese, tali istituzionisiano state storicamente identificate con gli enti deputati a preservare ed esporre beni di spe-cifico interesse storico e/o artistico, se non addirittura con le strutture fisiche atte a contenereil patrimonio oggetto di tutela [MBAC, Atti di indirizzo, 2000; iSTAT, 2010].Dopo la riforma costituzionale del 2001 e l’entrata in vigore del Codice dei beni culturali e del pae-saggio [d.lgs. n. 42/2004, art. 101]) si è avuta una notevole produzione di norme per disciplina-

re le attività gestionali delle istituzioni museali, il loro assetto organizzativo e la qualità dei ser-vizi erogati. i musei, nonostante le resistenze opposte dagli enti di appartenenza, sono destinati ad abban-donare la figura e la concezione di musei/uffici, giacché la legge [art. 115, c.2, Codice beni cul-turali] spinge verso un diverso modello organizzativo, in cui la gestione diretta deve essere as-sicurata mediante strutture organizzative apposite, dotate di autonomia organizzativa, finanziariacontabile e scientifica e del supporto di personale specializzato [Corte conti, 2005; Maresca Cam-pagna, 2009].Nonostante il riordino normativo, di fatto permane un’oggettiva difficoltà di individuare, in via ge-nerale, l’iter di istituzione di un museo. La disciplina è rimessa alla normazione propria dell’ente dal quale dipendono, che può essere pub-blico o privato [Corte conti, 2005]. Pertanto la creazione di nuovi musei avviene in svariati modi: con atto formale di legge (stataleo regionale), con delibera dell’organo di governo, con un decreto ministeriale, con provvedimen-to amministrativo, con scrittura privata. Non di rado ci si trova di fronte a strutture rese opera-tive con provvedimenti interni e ordini di servizio del soprintendente o del dirigente, che li hannoresi funzionanti di fatto, ma non ne hanno definito né la missione specifica, né gli obiettivi, né l’or-ganizzazione [Maresca Campagna, 2009].Una tale autonomia presenta il grave difetto della carenza di una tipizzazione normativa a livel-lo di caratteristiche tecniche, gestionali, legislative e scientifiche per ottenere il riconoscimentodello “status” di museo, da cui è seguita anche la mancata adozione di percorsi e procedure am-ministrative di “riconoscimento” ovvero di “accreditamento” della qualità formale di museo. Anche a livello di legislazione regionale si nota che la mancanza di una qualificazione univoca delmuseo si riflette nella incerta individuazione degli standardmuseali, con non poche difficoltà neldistinguere, in concreto, le funzioni di tutela, valorizzazione e gestione. il che ha da un lato reso incerte e poco incisive la normativa e la programmazione regionali in ma-teria, dall’altro ha determinato una sostanziale deresponsabilizzazione degli organi politici, chehanno spesso seguito logiche contingenti, in mancanza di precisazione delle funzioni e delle re-sponsabilità del direttore, di programmazione degli obiettivi di rafforzamento e di sviluppo mu-seale [Corte conti, 2005; Maresca Campagna, 2009; istat, 2010].in conclusione: in italia le istituzioni museali sono caratterizzate da una sostanziale indeter-minatezza; sono prive di un’identità autonoma e specifica, hanno natura giuridica a larghi trat-ti indefinita; hanno alla base riferimenti normativi frammentari, spesso incoerenti e in conti-nuo divenire.i musei pubblici sono in prevalenza strutture organizzative prive di autonomia organizzativa, fi-nanziaria e contabile; non hanno un proprio bilancio, né proprie regole di contabilità; raramentehanno documenti che testimoniano il proprio e distinto andamento finanziario, non hanno pro-prio personale dipendente (quello stabile di cui dispongono è di ruolo presso il ministero, la Re-gione, Provincia, Comune o altro ente), non hanno perciò relazioni industriali, non sempre han-no boardo comitati scientifici o artistici, non hanno propri documenti patrimoniali, non hanno pro-pri regolamenti, ed in genere nemmeno sono propriamente organi, poiché sono di massima to-talmente dipendenti da altri uffici [Forte, 2010].il D.M. 20 maggio 2001 ha definito gli standardmuseali. La necessità di disporre di uno statuto,di un regolamento o di un altro documento scritto, in teoria, dovrebbe facilitare la individuazio-ne dello status giuridico dei musei. Ma la ricognizione pratica del fenomeno ha evidenziato chedifficilmente i musei sono provvisti di tali forme di regolamentazione.Sulla base dei dati raccolti dall’istat [2010], meno di un museo e un’istituzione similare su tre (31%del totale) risultano dotati di uno statuto, cioè di un documento costitutivo che ne espliciti e nedescriva la missione, le funzioni e le attività. Solo il 36,5% dei musei e delle istituzioni similari nonstatali dispongono di un regolamento che ne disciplini l’organizzazione interna. A ciò si aggiun-ge la diffusa carenza di adeguati strumenti di rendicontazione finanziaria dell’attività gestiona-le, che consentirebbero di identificare in modo appropriato, di tenere sotto controllo e di valuta-re le risorse impiegate, le attività realizzate e i risultati conseguiti, dal momento che solo il 18,7%degli istituti ha dichiarato di disporre di un bilancio autonomo. Nella larga maggioranza dei casi quindi si tratta di istituzioni la cui attività – pur importante sulpiano economico oltre che culturale – non ha evidenza oggettiva e resta indistinta e per certi ver-si invisibile rispetto alla gestione amministrativa dell’ente di appartenenza.Basti menzionare l’annosa questione delle erogazioni liberali a favore dei musei e delle attività cul-turali che essi svolgono. Nel nostro Paese le erogazioni liberali intese in senso lato, donazioni e sponsorizzazioni, sono esi-gue rispetto all’ammontare raccolto dai musei di altri Paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti. i fattori negativi sono essenzialmente tre. il primo riguarda il sistema delle agevolazioni fiscali previsto per le erogazioni liberali che è ec-cessivamente macchinoso e burocratizzato tanto da non favorire il donatore. il secondo attiene al sistema d’incentivazione a donare: manca un efficace sistema di promozionee sensibilizzazione ad elargire e difettano i meccanismi di riconoscimento sociale e visibilità per-sonale per il donatore. infine, vi è una scarsa trasparenza e tracciabilità nell’impiego delle erogazioni liberali raccolte dal-le istituzioni culturali. Quest’ultimo aspetto deriva soprattutto dallo scarso grado di istituzionalizzazione dell’organizzazionedel museo: gran parte dei musei italiani non ha identità giuridica e non ha un conto economicoproprio; essi hanno un carattere “istituzionale” più sul piano simbolico che su quello giuridico.

MUSEI:PROBLEMI GIURIDICI

Enzo Cucchi, Mosaico, Nuovo Palazzo di Giustizia - Pescara, 2004. Photo Ela Bialkowska e Attilio Maranzano

Domenico D’Orsogna è Professore Ordinario di Diritto Amministrativo all’Università degli Studi di Sassari;Andrea Crismani è Professore Associato di Diritto Amministrativo all’Università degli Studi di Trieste.

DI DOMENICO D’ORSOGNA E ANDREA CRISMANI

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MAGIONE PAPALE RELAISVia Porta Napoli, 67/I - 67100 L’Aquila

Tel +39.0862.414983 - Fax +39.0862.411107

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CCAASSIINNOO DDII CCAAPPRRAAFFIICCOOAZIENDA AGRICOLA E AGRITURISMOPIANE DI CAPRAFICO - 66016 GUARDIAGRELE (CH)TEL. E FAX. 0871.897492 - [email protected]

L’azienda si estende per 130 ha su terreni collinari in agro di Guardiagrele. Il centro aziendale, sito sulle Piane di Caprafico, è costituito da un “Casino”,costruito nel secolo scorso. L’azienda produce cereali, legumi ed olive e si pone l’obiettivo di valorizzare queste produzioni curando la scelta delle varietà, le tecniche colturali e la trasformazione dei prodotti aziendaliseguendo e riscoprendo metodiche tradizionali dell’alimentazione mediterranea.La riscoperta di varietà vegetali antiche permette inoltre di fare a meno di fitofarmaci e di altri prodotti della chimica di sintesi. La riconversione produttiva al metodo biologico è stata realizzata sotto il controllo deII’AMAB, attualmente IMC (Istituto Mediterraneo di Certificazione), ed è terminata nell’annata ’96.

Accanto al centro aziendale è stato ristrutturato di recente un vecchio casolare di impianto settecentesco adibito ad uso agrituristico. In esso tre unità abitativedistinte possono accogliere da 3 a 5 persone ciascuna.Uno spazio comune a livello seminterrato è utilizzato per attività comuni legateall’uso ed alla conoscenza di alimenti e di ambienti naturali.

CASINO DI CAPRAFICO

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MMUU3311

“La scienza continuerà ad avere il suo ruolo essenziale per un futuro migliore dell’Umanità:ma gli scienziati devono essere preparati a interagire in modo più costruttivo con la societànon solo come scienziati, ma anche come cittadini pienamente coinvolti nelle sue proble-matiche” Sono parole del premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia nella Lectio Magistralis cheha inaugurato il primo anno accademico del Gran Sasso Science institute. il 14 ottobre scor-so, anzi dello scorso anno, all’Aquila apriva i battenti una scuola di alta formazione e spe-cializzazione per dottorandi in: Fisica Astropartecillare, Matematica, informatica e ScienzeSociali, niente di più lontano dalla frase che ci è sembrata significativa della lezione di Rub-bia; invece a guardar bene queste aree di ricerca sono e vogliono ancorarsi alle moltepliciproblematiche della società contemporanea. “A parte il corso di fisica – spiega il Direttoredel GSSi Eugenio Coccia già direttore dei Laboratori di Fisica del Gran Sasso – che è legatoall’attività di ricerca pura che si svolge nei laboratori dell’iNFN, gli altri dottorati sono mol-to legati agli sviluppi futuri e possibili della società moderna. L’attività di ricerca e di formazionein Matematica dell’istituto è connessa alla matematica nelle scienze naturali, sociali e del-la vita. Essa è il linguaggio universale della scienza ed è uno strumento essenziale nella de-scrizione della conoscenza scientifica. Oltre al tradizionale ambito di applicazione nelle scien-ze fisiche e nell’ingegneria, i metodi matematici sono divenuti oggi strumento fondamen-tale per le ricerche più avanzate in molti settori delle scienze sociali e della vita. Non di meno,l’area di ricerca in informatica si confronta con i problemi connessi a modelli, algoritmi, lin-guaggi e metodologie software necessari per le sfide presenti e future del mondo digitale.Certo l’area di studi che più di ogni altra si avvicina a quell’idea espressa dal Prof Rubbia èquella delle Scienze Sociali, con il dottorato in Studi Urbani, che ha, come tema focale, l’in-novazione nelle società contemporanee. innovazione tecnologica, organizzativa, culturale,economica e politica con gli effetti che essa ha sulle prestazioni dei relativi sistemi organizzativi”.insomma al Gran Sasso Science insitute dell’Aquila, l’idea dello scienziato pazzo e solitario,semmai è veramente esistita, non sembra proprio essere vera! Piuttosto qui i 36 ricercato-ri, selezionati su 552 domande, nuovi talenti come vengono indicati, provenienti da tutto ilmondo, irlanda, Pakistan, Germania, Francia, Colombia, Brasile, sono più simili all’uomo “fa-ber” e a dirla ancora con le parole del nobel “ … egli (l’uomo faber ndr) vuole inventare e co-struire, per se e per gli altri. Su questa attitudine intrinseca all’uomo si basa quella che oggichiamiamo tecnologia. Ma, per costruire, è necessario conoscere e prevedere. Da qui l’es-senziale e universale legame tra scienza e tecnologia, tra conoscenza e invenzione”. Con-siderazioni queste che vanno proiettate nel quadro emergente di una nuova civilizzazioneplanetaria che segue quella della sua globalizzazione, la componente determinate della so-cietà attuale; per questo è quanto mai opportuno parlare in un contesto di altissima formazionescientifica anche di città e del loro sviluppo urbano nel quadro più complesso e complessi-vo di territorio. “Nel 2008 – continua il direttore Coccia – si è invertito il numero degli abi-tanti che abitano le città a danno di quelli che invece continuano a vivere nelle campagne,per questo motivo i centri urbani hanno bisogno di ripensare il loro sviluppo seguendo l’ideadi smart city. Per gestire un numero sempre maggiore di persone, le città devono affronta-re le varie problematiche che derivano da un flusso sempre maggiore di gente, mobilità – smal-timento rifiuti – comunicazione, in maniera intelligente e funzionale guardando anche al fu-turo. Per questo motivo abbiamo voluto istituire un corso di studi dedicato agli Studi Urba-ni. Si tratta di un dottorato unico in Europa, infatti abbiamo ricevuto il maggior numero didomande circa duecento, il primo che affronta in maniera interdisciplinare queste temati-che perché ha come oggetto di studio le città viste nella loro dimensione sociale ed econo-

mica. È – conclude Coccia – anche un corso di studi che più degli altri si radica nel territo-rio della città che ospita il nostro istituto: L’Aquila con gli scenari che si stanno affrontan-do di una ricostruzione complessa e difficile”.È chiaro che non stiamo parlando di scienziati obbligati a risolvere tutti i problemi del mon-do contemporaneo le cui soluzioni andrebbero trovate, soprattutto, attraverso decisioni po-litiche, ma quello che al GSSi si propone, è un modello di scienziato - ricercatore teso a “…pro-muovere un atteggiamento scientifico basato su fatti, sulla curiosità del sapere, sulla ricer-ca coraggiosa di concetti fondamentalmente nuovi”, a dirla ancora con le parole di Carlo Rub-bia; un lavoro che per il Gran Sasso Science institute è appena iniziato con la consapevolez-za che non sarà un percorso facile vista la situazione generale del Paese e quella particola-re della città che lo ospita. Ma anche con il GSSi, forse dall’Aquila e dall’Abruzzo potrà esse-re rilanciata l’idea della necessità della ricerca se si vuole pensare ad uno sviluppo vero del-l’italia in Europa; allora non resta che chiudere con la parole del Presidente del Consiglio deiMinistri, Enrico Letta, scritte nel suo messaggio di augurio all’istituto “Abbiamo tutti la re-sponsabilità di dimostrare coi fatti che agganciare una ripresa duratura vuol dire anzitutto pun-tare su istruzione e ricerca”. Dall’Aquila, città della conoscenza, la sfida è stata lanciata.Angela Ciano

DAL GRAN SASSO SCiENCE iNSTiTUTE PARTE LA SFiDA DELLA CONOSCENZA

Laboratori Nazionali del Gran Sasso, Esperimento Icarus. Photo Ufficio Comunicazione iNFN

Laboratori Nazionali del Gran Sasso, Ricercatori Esperimento Gerda. Photo Ufficio Comunicazione iNFN

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